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Autore: Roxar    03/09/2016    1 recensioni
"Pare che io sia destinato a doverti salvare, ancora e ancora e ancora."
Brienne ha trenta giorni per cercare di saldare un debito che rischia di portarle via tutto e zero voglia di chiedere aiuto a Jaime.
Eppure, di punto in bianco, eccolo a Tarth.
[Mini-long | Jaime/Brienne]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brienne di Tarth, Jaime Lannister
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Crew&Ship: Brienne di Tarth, Jaime Lannister | Jaime/Brienne
Warnings: Post-saga, Romance, Het
Note: Ho ritrovato questa storia sul mio account AO3 e, diamine, ho pensato che sarebbe stato carino pubblicarla anche qui. La storia tiene fondamentalmente conto dei libri, perciò talune parti potrebbero risultarvi un po' bizzarre laddove foste solo fan della serie tv. Ma, nessun problema!, questo non pregiudica la storia - la trama principale esula da questi dettagli, o comunque ho fatto in modo da spiegarli.
La storia fu originariamente scritta nel 2014 per l'iniziativa Lá Fhéile Pádraig (Saint Patrick's Day, indetta dal forum Pseudopolis Yard, seguendo questi prompt:
    -Canzone (He smelled that girl / In summer air / The bear, the bear / And maiden fair)
    -Immagine (Qui)
    -Citazione (“È inutile pensare, tanto non lo troverei lo stesso, un senso.”)
    -Verde
Sono solo tre capitoli ed essendo già praticamente corretti e pubblicati altrove, conto di postare gli ultimi due nei prossimi due giorni. Grazie a chiunque leggerà e se vorrete lasciare un feedback, siete i benvenuti. :)
Namaste!

 

 

 

 

1. Il debito

 

 

“Solleva il braccio, Pod, e divarica bene le gambe.”

Brienne strinse delicatamente il polso del ragazzo, sollevandolo all’altezza della pancia, così che la punta della spada superasse la sua testa, offrendogli la massima protezione; poi, con altrettanta delicatezza, colpì con il piatto di Giuramento l’interno del ginocchio sinistro di lui, spronandolo a divaricarlo leggermente.

“Piegati un po’ sulle ginocchia, non lasciare mai i nervi tesi in quel modo, altrimenti...” assestò un colpetto al retro del suo ginocchio, mandando la gamba a piegarsi con estrema facilità. Podrick vacillò, voltando un poco la testa per indirizzarle un sorriso esitante, accompagnato da un cenno d’assenso.

Brienne sospirò, riprendendo la sua posizione. Quello, pensò, non era il posto adatto ad un giovane scudiero che intendeva essere tale, giacché uno scudiero, per definizione, avrebbe dovuto assistere un nobile cavaliere, accompagnarlo in battaglia e soddisfare ogni sua necessità, non sprecare il suo tempo nel cortile di un piccolissimo castello, servendo quella che era e sarebbe sempre stata, agli occhi altrui, la lady del posto. E poco contava che quella lady, con una spada in pugno, valesse più di molti altri cavalieri messi assieme; certe convenzioni, pensò costernata, non sarebbero mai mutate.

Con un cenno del mento invitò il ragazzo all’attacco e, un poco goffamente, ricominciarono a danzare. Nell’ultimo anno il giovane Podrick si era allungato – scalzando ogni sua previsione – di molti centimetri, tanto che la sua testa arrivava adesso quasi a sfiorarle spalla. Snello e scattante, Podrick sarebbe diventato un ottimo cavaliere se solo qualche lord avesse accettato di prenderlo presso di sé.

“Dovresti andare a Casterly Rock e tornare ad essere lo scudiero di lord Tyrion,” gli aveva consigliato a più riprese  e, a più riprese, il ragazzo aveva scosso la testa in diniego, accompagnandosi ad un sorriso di scuse. Brienne sospettava che l’affetto che nutriva per lei fosse ormai radicato al punto di non permettergli di partire senza guardarsi indietro. E benché la cosa le facesse solo piacere, non poteva non provare una punta d’amarezza per tutte quelle infinite possibilità che il ragazzo aveva deciso di precludersi, preferendo lei, una brutta, enorme, mascolina donna guerriero.

Brienne gli assestò qualche colpo semplice da parare, più per istruirlo che per fronteggiarlo veramente, mostrandogli ora una tattica difensiva, ora una offensiva, ora il gioco di polso, ora quello di gambe.

Solitamente, allenava il ragazzo fino a che, sudati, sporchi e stanchi, con il sole che lentamente si immergeva nelle acque zaffirine di Tarth, non decidevano che fosse abbastanza e rientravano nel castello, spendendo il tempo della cena a parlare degli errori del ragazzo e di come, la prossima volta, avrebbe dovuto correggerli.

Quel pomeriggio, nondimeno, maestro Yuran – il vecchio, eterno maestro di sempre, che serviva la sua famiglia sin da prima della nascita di Galladon – dopo essersi eloquentemente schiarito la gola, interruppe il loro allenamento.

“Brienne, figliola, hai visite,” esordì, sfiorando nervosamente la sua catena, che tintinnò delicatamente nella quiete del tardo pomeriggio. La giovane donna spinse indietro i capelli sudati, aggrottando la fronte. Non aspettava nessuno e tutti, persino il più umile dei pescatori, la rispettavano abbastanza da annunciare la loro venuta con largo anticipo.

Dal nulla, un paio di occhi verdi lampeggiarono nella sua mente, come da un altro mondo, come uno spettro del passato premuto contro la finestra del presente. Il suo cuore si produsse in un balzello goffo e dolente.

“Di chi si tratta?”

Yuran si agitò un poco sui talloni, scoccando a Pod un’occhiata incerta. Brienne colse il senso implicito di quel gesto e annuì stancamente.

“Basta così, Pod. Va’ in paese, va’ a divertirti,” consigliò prima di battergli una pacca sulla schiena e allontanarsi assieme al maestro.

“Vorrei fare un bagno, prima,” disse Brienne quando furono all’interno della hall di ingresso.

“Credo sia una buona idea. Intratterrò il nostro ospite, nel mentre.”

“Di chi si tratta, Yuran?” ripeté e l’uomo indugiò per un lungo momento prima di rispondere.

“Noho Dimittis.”

La donna continuò a fissarlo vacuamente; era positivamente certa di non aver mai sentito quel nome prima d’ora. Ma, a giudicare da come esso suonava, doveva appartenere ad un visitatore venuto da oltremare. L’ipotesi, per qualche motivo, non le piacque affatto.

“Non conosco quest’uomo. Perché è qui?” incalzò.

“È un emissario della Iron Bank di Braavos, ragazza mia,” mormorò pesantemente il vecchio con un tono che non lasciava presagire nulla di buono. Brienne sgranò lievemente gli occhi, assolutamente sorpresa ed assolutamente confusa. Cosa poteva mai volere da lei la più grande banca del continente orientale? Non era sicura di volerlo scoprire; non ne sapeva molto di banche e movimenti finanziari in genere, ma sapeva per certo che un emissario venuto fin lì da Braavos non poteva portare buone nuove.

“Farò in fretta,” disse infine, avviandosi su per le scale.

“Brienne?” la chiamò Yuran, le mani affondate nelle profonde tasche interne delle maniche.

“Sì, Yuran?”

“Fai molto in fretta,” consigliò e non le riservò alcun sorriso. E Brienne ben sapeva che quando il sorriso non indugiava sulle labbra del vecchio era un cattivo, cattivo presagio.

 

 

I suoi capelli erano ancora umidi quando varcò la soglia del solarium e la brezza salmastra, gonfia di umidità e calore, la raccolse in un abbraccio gentile, solleticando piccoli ricordi impolverati che non credeva neppure di possedere.

In piedi contro la soglia del terrazzo notò un uomo basso e smilzo, calto in quelli che dovevano essere gli abiti consoni ai lord di Braavos. Teneva le mani tozze incrociate dietro la schiena e se ne stava immobile, a contemplare il cielo infiammato dal tramonto riflesso nelle acque placide della baia, uno dei migliori paesaggi che Tarth aveva da offrire. Scioccamente, Brienne provò una punta di inopportuno orgoglio. E tuttavia non era quello il momento di compiacersi della bellezza propria della sua piccola isola, si ammonì, schiarendosi quindi la gola per annunciarsi. Il piccolo uomo, tuttavia, non diede alcun cenno d’aver notato la sua presenza; continuò a rimirare il tramonto, lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro.

“A volte dimentico la bellezza del continente occidentale,” disse distrattamente e Brienne restò in silenzio, incerta se l’uomo si stesse o meno riferendo a lei.

“Oh,” esclamò poi, simulando malamente un sussulto di sorpresa mentre si voltava, “perdonami, mia lady, temo che quest’isola mi abbia affascinato più del dovuto.” C’era una strana nota melliflua nelle sue parole, come un sottile sottinteso che lei non poteva capire, che le inviò un brivido gelido lungo la schiena, acuito da una goccia d’acqua che colò sul collo, infossandosi oltre il colletto del mantello.

“Benvenuto a Evenfall Hall, mio lord,” si sentì dire, la voce ferma e formale. Lo invitò a sedere e quando una serva, appena arrivata, fece per servirgli del vino lui coprì il calice, scuotendo la testa, imitato poi subito dopo da Brienne, la quale non solo non apprezzava il vino, ma aveva bisogno più che mai di essere lucida. Sospettava che la conversazione l’avrebbe necessitato.

Congedò la ragazza con un cenno della testa, rivolgendo quindi la propria attenzione a Noho Dimittis. L’uomo si stava placidamente guardando attorno e c’era una strana scintilla nel suo sguardo. Quelli erano gli occhi non di chi ammira, ma di chi valuta. Brienne provò uno strano senso di violazione e dovette mordersi una guancia per resistere alla tentazione di ordinargli di smettere. Quando finalmente ebbe studiato l’intero solarium, rivolgendo a nessuno un sorriso compiaciuto, le piantò addosso i suoi occhi scuri e brillanti, occhi da predatore.

“Ho l’abitudine di essere sempre molto franco, mia lady, perciò non mi perderò in inutili giri di parole. Confido che questo possa far risparmiare del tempo ad entrambi,” esordì e senza neppure aspettare una risposta si chinò, raccogliendo da una sacca da viaggio un fascio di documenti minuziosamente rilegati.  Brienne deglutì, strofinando le mani contro le cosce; eppure, non un solo muscolo del viso tradì la sua inquietudine, quel senso di catastrofe imminente che, come la spada di un boia, sentiva doldolare sul suo collo.

“Cinque anni or sono, il lord tuo padre chiese un prestito, come dire?, cospicuo presso la nostra banca. Trecento dragoni d’oro, volendo essere precisi. Il contratto che egli stesso firmò di proprio pugno, nel pieno possesso delle proprie facoltà, prevedeva la restituzione della somma entro e non oltre un periodo pari a quattro anni – con i dovuti interessi, si intende. La nostra banca, secondo una clausola del contratto, allo scadere del quarto anno ha concesso un ulteriore anno di proroga, con una piccola sovrattassa. Ma adesso, mia lady, il quinto anno è scaduto e la banca necessita di riavere quel denaro, come tra l’altro era stato pattuito. Mi dicono che tu stessa hai combattuto nella sanguinosa guerra che ha consumato il continente occidentale e capirai, mi auguro, che è ora che la Iron Bank si riappropri del denaro abbondantemente concesso ai singoli lord e alla Corona.”

Noho Dimittis tacque per un lungo momento, appoggiandosi contro lo schienale della sedia e fissando apertamente Brienne, i gomiti sui braccioli e le dita incrociate sotto il mento. Il sorriso sulla sua bocca era forse una delle cose più odiose che Brienne avesse mai visto.

Ciononostante, quello fu un pensiero vago e informe, relegato ai margini di quella nebbia di ottundimento che era calata nella sua mente.

Aveva ascoltato con estrema attenzione le parole dell’uomo, sentendo il panico sbocciare e radicare ad una velocità quasi dolente, accompagnato da una profonda perplessità e uno strano senso di tradimento.

Si sentì come quando da bambina si ritrovava a scartare regali che non la compiacevano affatto, come quando sollevava il coperchio di una scatola aspettandosi una spada e trovando invece un vestito di ottimo taglio.

Aveva l’impressione di avere solo paglia là dove fino ad un minuto prima c’era stato un cervello allenato a pensare e pensare in fretta. Cercò di spronare la sua mente a diradare la nebbia del disorientamento e pensare, pensare, pensare, cercare di trovare un senso a quel discorso che le pareva totalmente assurdo, come pronunciato in una lingua che non conosceva e suo malgrado si arrese quasi subito.

Inutile pensare, tanto non lo troverei lo stesso, un senso. Chiaramente si tratta di qualcosa che non conosco, di cui non sono mai stata messa a parte.

Lentamente e dolorosamente, qualcosa si spezzò, come un argine invisibile, e i pensieri fluirono tutti in una volta, tumultuosi e caotici come le acque del Tridente nei giorni di piena.
Noho Dimittis si schiarì delicatamente la gola, esigendo una risposta. Brienne drizzò la schiena, come in procinto di combattere.

“Non sapevo nulla di questo prestito, mio lord,” si limitò a commentare e quando abbassò lo sguardo sulle proprie mani le trovo fradice di sudore e tremule. Strinse i pugni, deglutendo a vuoto, la bocca secca e riarsa.

“Oh, non faccio fatica a crederti, mia lady. Eri lontana e sicuramente il lord tuo padre non ha voluto caricarti anche di questo fardello,” disse, fingendo un moto di compassione assolutamente falso. “Ciononostante,” proseguì, “la banca deve rientrare del suo debito.”

Brienne annuì nervosamente. “Di quanti dragoni stiamo parlando, mio lord?”

“Oh, dunque,” iniziò, scartabellando il fascio di documenti e tamburellandovi sopra le dita, fino a trovare ciò che cercava, “milletrecento dragoni d’oro, inclusa la sovrattassa di duecento dragoni a cui accennavo prima.”

La stanza, per un secondo, vorticò paurosamente. Con terrore, sentì Tarth scivolarle dalle mani. Fu con la gola chiusa e la voce strozzata che domandò in cosa sarebbe incorsa se il debito non fosse stato ripagato.

“La Iron Bank la priverà di tutti i suoi possedimenti,” disse semplicemente, tornando a rilassarsi contro lo schienale.

Tutti i suoi possedimenti. Non che potesse vantarne molti.

No, non molto; solo Tarth, solo tutto ciò che ho, solo tutto ciò che mi resta.

“Quanto tempo ho per...” agitò la mano indicando il fascicolo, non fidandosi della propria voce che minacciava di spezzarsi sillaba dopo sillaba.

“Un mese a partire da oggi.”

Un mese. Trenta giorni per rimediare milletrecento dragoni d’oro.
Ah, pare che tu sia rovinata, donzella, disse una voce nella sua testa, una voce paurosamente simile a quella di Jaime. Scosse la testa come per tacitarla.

“Bene,” si sentì dire, perché bene era una parola piccola, perché bene era una l’unica, piccola bugia che poteva permettersi, benché tutto fosse andato in malora nello spazio di neppure un’ora.

Noho Dimittis annuì e si alzò, chiudendo la propria sacca e armeggiando con le stringhe del suo mantello. Pareva incredibilmente soddisfatto d’aver appena portato la notizia di una rovina praticamente inevitabile e in un attimo di rabbia velenosa Brienne gli augurò di stringere quei lacci sino a soffocare.

“Ti lascio la copia del contratto, mia lady; suppongo vorrai capirci qualcosa di più. Tornerò tra un mese, per mai più rivederci, spero per te.”

Per qualche motivo, quel suo commiato suonò come una minaccia, temperata da un sorriso melenso. Brienne chiamò un servo, ordinandogli di scortare il lord di Braavos fino al porto.

L’uomo si profuse in un inchino decisamente esagerato e, a passo corto e quasi saltellante, si allontanò. Solo quando fu ben lontano, Brienne crollò sulla sedia, prendendosi la testa tra le mani. Si sentiva sull’orlo di un baratro, con il vento che soffiava sulla schiena, pronto a spingerla di sotto. Aveva dovuto inghiottire molti fallimenti nella sua vita e aveva sempre trovato la forza di rimettersi sulle proprie lunghe gambe; adesso, tuttavia, non era certa di avere le forze necessarie ad abbandonare quella sedia e rimediare, in qualche modo, la somma necessaria ad estinguere il debito. Restò in quella scomoda posizione fino a che Podrick non bussò delicatamente.

“Ser– mia lady, stai male?” domandò apprensivo, chinandosi sulle ginocchia. Brienne indugiò e strinse forte i denti fino a costringere le lacrime ad assorbirsi dietro le palpebre chiuse. Non c’era bisogno di caricare il giovane ragazzo di quel fardello. Ma poi subito dopo pensò: che ne sarà di lui? Se si ostina a voler restare con me, che fine farà?

E le lacrime tornarono ad addensarsi. Se esisteva un fallimento peggiore, per un essere umano, lei non poteva saperlo. Avrebbe perso ogni cosa, trascinando con sé tutti coloro che si fidavano di lei e che si sarebbero ritrovati in mezzo ad una strada, senza lavoro e un tetto sulla testa.

Dèi misericordiosi.

“Pod,” disse, quasi ringhiando nello sforzo di trattenere il pianto, “va’ a chiamare Yuren e Matteck l’attendente,” ordinò e il ragazzo obbedì immediatamente. Quando i suoi passi furono ben lontani, Brienne finalmente sollevò il viso e si costrinse ad abbandonare quella sedia. Yuren e Matteck erano uomini di grande ingegno, le loro menti sottili riuscivano ad arrivare a conclusioni che altri non avrebbero mai neppure ipotizzato; forse, se avessero unito le idee, sarebbero riusciti a districarsi da quell’ingarbugliata, disperata situazione. Nell’attesa, Brienne sfogliò la risma di fogli rilegati, domandandosi continuamente per quale motivo suo padre avesse richiesto quella somma di denaro.

C’era qualcosa di familiare, in quel numero – trecento –, qualcosa che non si lasciava catturare, come un ricordo dispettoso che balzava fuori dalla sua portata ogni volta che era vicina a coglierlo.

Quella cifra le suggeriva qualcosa, qualcosa di importante, qualcosa che la riguardava.
Strinse le palpebre, sforzandosi per venire a capo di quell’enigma e guadagnando solo il principio di un’emicrania. Decise di concentrarsi su qualcosa di più concreto e impellente.
Come avrebbe trovato tutto quel denaro? E dove sarebbe andata, se Tarth fosse stata perduta? Non aveva né parenti né amici e nessuno sarebbe mai stato disposto a prenderla in moglie. Troppo brutta, troppo indipendente, troppo
 povera. E anche se fosse esistito un pazzo disposto a sposarla, sarebbe morta prima di legarsi a lui. Quella era una solenne promessa che aveva fatto a se stessa e che intendeva onorare.

Che cosa le restava? Nulla, se non una manciata di opzioni deprecabili, una peggio dell’altra.
Forse, pensò, lady Sansa potrebbe trovare un posto per me, Pod e Yuran a Winterfell.

Dopo averla salvata dagli artigli di Littlefinger e averla riportata a casa, Sansa aveva come sviluppato una sorta di genuino affetto per lei – o almeno, una sicura forma di riconoscenza – e di tanto in tanto era solita recapitarle dei corvi, allegando sempre i suoi più sinceri saluti. E Brienne era quasi certa che la ragazza non si sarebbe tirata indietro, in caso di bisogno, ma dopo una vita spesa a contare solo ed unicamente su se stessa, forse sarebbe morta prima di chiedere aiuto.

No, decise, non avrebbe contato su nessuno. Né su Sansa né su...

“Brienne,” disse Yuran, strappandola ai suoi pensieri. Voltandosi, vide Yuran e Matteck in piedi sulla soglia. Li invitò ad accomodarsi e, dopo un profondo respiro, iniziò a riassumere loro quanto le era stato detto da Noho Dimittis. Un profondo silenzio calò nel solarium dopo che anche l’ultima parola fu pronunciata. I due uomini si scambiarono un’occhiata rapida, sospirando poi quasi simultaneamente. Qualcosa, nelle loro espressioni, le comunicò che quella storia, o anche solo una parte di essa, non giungeva nuova alle loro orecchie.

Ancora, un bruciante senso di tradimento le annodò le viscere, procurandole un moto di nausea.

“Voi sapevate,” disse e la sua voce suonò più dura di quanto avrebbe voluto. Matteck, pragmatico e diretto, annuì apertamente; il maestro, al contrario, evitò i suoi occhi, guardando altrove.

“Ma ciononostante, avete lasciato che io lo venissi a sapere da un loro emissario.” Si ritrovò a chiudere gli occhi e stringere i denti per non permettersi di urlare.

“Mia lady, eravamo a conoscenza del debito, ma tuo padre non ci permise mai di sapere altri dettagli. Fu tassativo, su questo. Gli sconsigliai fino al giorno della firma di un contrarre debito con la Iron Bank, ma lui aveva fretta di rimediare quel denaro,” spiegò Matteck, passando le dita sulle guance coperte da una folta barba bruna.

“Perché? Perché aveva bisogno di quei dragoni?”

Yuran guardò Matteck, rivolgendogli una tacita domanda a cui lui rispose con una scrollata di spalle.

“Per te,” disse il maestro dolcemente. “Per pagare il tuo riscatto.”

Lentamente, sedette su una sedia vuota, battendo le palpebre un paio di volte. Trecento dragoni, il prezzo del riscatto che suo padre offrì per riaverla indietro. Costrinse la mente a tornare indietro e indietro e indietro, fino a quei giorni bui spesi a Harrenal, in una cella lercia e angusta, fino a sentire nelle orecchie la voce ovattata dei suoi carcerieri mormorare qualcosa a proposito di un riscatto. Ricordava anche la propria intenzione di chiedere dei chiarimenti a Jaime, ma poi tutto era precipitato così in fretta che il capitolo su Harrenal era presto scivolato nella dimenticanza, pagine oscure rimpiazzate da altre intonse, che sarebbero state altrettanto oscure, vergate con il sangue e con il ghiaccio. Eppure, pur avendo risolto l’enigma, tutto quello continuava a non avere senso.

“Vargo Hoat rifiutò quel denaro,” ribatté, guardandogli negli occhi. Ricordava perfettamente quel dettaglio, giacché quel rifiuto l’aveva spinta fin nella fossa dell’orso.

“Vargo Hoat rifiutò di avere solo quel denaro, e tuttavia lo prese ugualmente, nell’attesa che tuo padre inviasse gli zaffiri da lui richiesti. E mentre Selwyn, che gli dèi lo abbiano in gloria, si arrabattava per rimediare quell’assurda parte di riscatto giunse un corvo a comunicarci che lord Bolton aveva preso Harrenal e che tu e Jaime Lannister eravate diretti ad Approdo del Re,” spiegò Yuran, intrecciando le dita sul tavolo.

Il nodo allo stomaco, se possibile, si strinse ancora di più. Chiunque avesse recapitato quel corvo, aveva fornito una versione distorta degli eventi. Se l’avesse fatto per pietà o per farsi beffe di un vecchio padre sentimentale, non sapeva dirlo.
E per un attimo, un attimo infinitamente breve, risentì accanto la presenza di Jaime e nelle orecchie risuonò lo spettro della sua voce.

Ti ho sognata.

Non pensarci, si ammonì, non adesso. Non è davvero il momento opportuno.

Un’orribile certezza, poi, le precipitò addosso, spezzandole il respiro.

“È colpa mia. Tutto questo è successo a causa mia,” si sentì dire, come da molto, molto lontano.

Yuran scosse la testa. “No, Brienne. Tuo padre voleva solo riaverti sana e salva.”

Eppure questo non cambia le cose.

La sua mente ripassò una stringa specifica di azioni collegate. Se solo avesse permesso a Jaime di prendere la spada di Ser Cleos, se solo non fosse stata così dannatamente ostinata i Guitti non li avrebbero mai raggiunti, Jaime non avrebbe mai perso la sua mano e suo padre non si sarebbe mai rivolto alla Iron Bank per pagare un riscatto che, alla fine, non era valso a nulla.

Questo peggiora le cose, pensò, il senso di colpa come un’ombra troppo pesante che le premeva sul cuore. Per una crudele ironia della sorte e degli eventi, se adesso Tarth rischiava di esserle sottratta era solo e soltanto a causa sua.

“Matteck,” disse, costringendosi a riscuotersi, “possiamo trovare quel denaro?”

La testa dell’uomo ciondolò lievemente, pensosa.

“Sarebbe tutto molto più semplice se Tarth fosse un alfiere. Potremmo tentare di interpellare la Corona, ma la guerra è appena finita e i danni sono consistenti, dubito potrebbero aiutarti in tempi così brevi, mia signora.”

“E se chiedessimo un nuovo prestito presso un’altra banca?” tentò, ma l’uomo scosse la testa.

“Sconsigliai a tuo padre di intrattenersi con la Iron Bank e ora sconsiglio a te di indebitarti con una banca qualunque dell’Essos. Se mi è permesso, mia lady, i Lannister continuano ad essere la famiglia più ricca del continente e–”

“No,” lo interruppe bruscamente. “Non chiederò soldi in prestito a lord Tyrion.”

“Brienne,” intervenne Yuran, “non chiudere subito quella porta. Tu e Jaime Lannister avete condiviso molte battaglie, siete stati compagni d’arme e tra di voi sussiste un rapporto tale che lui potrebbe intercedere presso suo fratello per farti avere un prestito molto più vantaggioso di quello di qualsiasi altra banca.”

Brienne sorrise mestamente. Jaime e suo fratello erano molto più che ai ferri corti e lord Tyrion le avrebbe rifiutato quel denaro anche solo per puro dispetto nei confronti di Jaime. Inoltre, non aveva notizie dell’uomo da quasi un anno. Probabilmente era oltremare, a spendere il resto della sua vita con sua sorella e i loro figli bastardi. Probabilmente si era già scordato di lei. Probabilmente non avrebbe alzato un singolo dito per aiutarla, non dopo tutti i loro trascorsi; gli sarebbe bastato ricordare di essere stato venduto a lady Catelyn per sopprimere ogni suo istinto altruista. Non le doveva nulla e lei, al contrario, le doveva tutto. Non intendeva sobbarcarsi un altro debito che non avrebbe mai potuto ripagare.

“Quella porta non è mai stata aperta, Yuran. Non intendo tornare sull’argomento. Concentriamoci piuttosto per trovare un modo per salvare Tarth,” aggiunse, stemperando il proprio tono risentito e deluso.

“Ricominciamo da capo, vagliamo ancora tutte le ipotesi,” disse, servendosi quindi una generosa dose di vino di Arbor. Ne aveva decisamente bisogno.

 

 

Il corvo beccò le sue dita un paio di volte mentre cercava di infilare il cilindretto di carta all’interno del supporto ancorato alla sua zampa.

“Trovalo in fretta,” disse, prendendo il corvo e gettandolo fuori dalla finestra, non prima d’avergli comunicato la sua destinazione. L’animale dispiegò le ali e la figura incappucciata rimase a fissare l’animale sbiadire all’orizzonte, le ali cariche di aiuto e urgenza e speranza.

 

 

L’alba li colse esausti e scoraggiati, spennellando di luce tenue e morbida le ombre violacee sotto i loro occhi.

Ventinove giorni, pensò Brienne con gli ultimi rimasugli di energia. Aveva costretto i due uomini a trascorrere la notte in quel solarium, vagliando e stracciando ipotesi su ipotesi, salvo poi tornarci ancora su e solo per scartarle nuovamente. Ai primi bagliori del giorno, Yuran aveva nuovamente posto l’attenzione sull’ipotesi Lannister e Brienne non aveva avuto neppure la forza di rammentargli il monito di poche ore prima; Matteck, al contrario, aveva dato manforte al vecchio, più per stanchezza che per reale supporto.

“Rivolgiti al lord di Lannister, mia lady. Sono passate ore, il sole è tornato e questa era e resta la soluzione più valida,” aveva detto, stropicciandosi il viso.

Brienne si era limitata a scuotere la testa, volgendo poi lo sguardo fuori dalla finestra. Si chiese cosa avrebbe visto fuori dalla finestra tra ventinove giorni. Dove sarebbe stata, tra ventinove giorni. O, in generale, quanto sarebbe costato raccogliere i pezzi della propria vita sparpagliati dietro di sé, tra ventinove giorni.

Esausta e svuotata, strascicò i piedi fino ai propri appartamenti, finendo per crollare sul letto ancora vestita.

Finendo per crollare.

   
 
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