Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: rossella0806    07/09/2016    2 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Abbiamo gambe
per fare passi
trovarci persi
e avvicinarsi e poi
Abbiamo bocche per dare baci
o meglio dire
per assaggiarci […]
Abbiamo mani per afferrarci
girare insieme
come ingranaggi e poi
Abbiamo occhi
con cui vediamo
ma se li chiudi
ci riconosciamo

                                                                                                            (Nek, “Fatti avanti amore”, 2015)




Mi sentivo frastornata. Piacevolmente frastornata.
E felice. Tanto felice.
Lui si staccò da me, dopo avermi regalato l'ennesimo bacio su una spalla.
Eravamo entrambi supini, incollati l'uno all'altra, e sudati per il caldo e l'eccitazione dei momenti appena trascorsi.
Avevo paura di sfiorare la sua mano, il suo corpo, perché temevo che, da un momento all'altro, si sarebbe alzato, rivestito in fretta e furia, lasciandomi lì da sola, in quell’anonima stanza d'albergo.
Se ciò fosse accaduto, mi sarei sentita per davvero una poco di buono, una novella prostituta che aveva semplicemente soddisfatto i suoi bisogni sessuali, e che adesso rischiava di essere scaricata con qualche banconota come mera ricompensa materiale.
Ma non volevo che finisse così, non era giusto.
Dopo tutto quello che avevo aspettato per averlo con me, dopo che avevo lottato affinché lui si accorgesse di me, perché almeno in parte mi appartenesse, contavo che non mi avrebbe delusa.
“Ti amo …” mormorai, ben conscia che quelle due parole disinteressate avrebbero potuto suscitare una reazione ignota.
Lui voltò il viso verso di me, sorridendomi in quel suo modo suadente ed ironico.
Era stato così dolce, lui era così dolce, che quasi mi faceva tenerezza.
Si mise comodo su un fianco, reggendo il peso con il gomito, e mi fissò negli occhi, continuando a mantenere quell'espressione sorniona sul volto ricoperto di barba, fino a quando mi baciò con una passione talmente inaspettata che cercai quasi di respingerlo, ma ovviamente non lo feci.
Si adagiò nuovamente su di me, intrecciando le sue dita con le mie, e riprendemmo da dove avevamo concluso, appena pochi minuti prima.
“Sei il mio piccolo angelo …” sospirò ad un orecchio, il respiro lievemente in affanno.
In tutta risposta, grugnii qualcosa che avrebbe dovuto assomigliare ad un “tu sei il mio angelo”, ma la felicità e l'appagamento che sentivo invadermi non mi permisero di formulare una frase di senso compiuto.
Stavo toccando il Paradiso con un dito, anzi, con tutte e dieci le dita.
Perché tutto questo dovrebbe finire? mi domandavo, perché esiste il tempo che, con le sue ferree e imperturbabili regole, ci impedisce di vivere a nostro piacimento, di scegliere quando e se fermarci?
Scacciai quei pensieri filosofici, anzi, forse non li formulai nemmeno in quel momento, intontita com'ero, ma sicuramente vi riflettei più tardi, quando appunto tutto finì.
Erano trascorse più di due ore, ormai, e fuori dalla finestra accostata si udiva distintamente il traffico della metropoli.
Era strano, riflettei, che non mi fossi ancora accorta dei rumori che provenivano dalla strada sottostante, ma mi consolai dicendomi che ero stata occupata da ben altre questioni.
Preoccuparmi della gimcana di automobili impazzite, della sfilata di motorini truccati, del corteo di tram ed autobus affollati all'inverosimile, infatti, attualmente non rientrava tra le mie priorità.
Uscimmo dalla stanza 433 che erano quasi le sette di sera.
Prima, però, facemmo una doccia veloce, rigorosamente separata, e ci rimettemmo gli stessi abiti che ci eravamo quasi selvaggiamente tolti: io il mio vestito di cotone blu chiaro, e lui la sua camicia azzurra Ascot e i suoi pantaloni Levi’s color terracotta.
Recuperammo sandali e Lumberjack, la borsetta a tracolla che non ricordavo neppure dove fosse andata ad imboscarsi -ma che ritrovai dispersa sulla minuscola poltrona a fiori semi nascosta dietro la porta d'entrata- e, finalmente, potevamo considerarci pronti per ritornare tra la gente.
Quando arrivammo alla reception, il mio accompagnatore mormorò qualcosa al concierge, restituendogli subito dopo la chiave con cui avevamo sigillato il nostro nido d’amore.
“Gli ho detto di tenerci la stessa camera anche per la prossima settimana …” mi spiegò innocentemente, passandomi la mia carta d'identità con cui avevamo dovuto registrarci.
Io annuì con un sorriso, confermando il mio entusiasmo con un semplicissimo bene.
Uscimmo nella giungla cittadina con il sole che ci abbagliava: mi coprii la fronte con una mano, socchiudendo infastidita gli occhi verdi.
“Ti va di andare a mangiare qualcosa?”
Lui mi prese la mano libera, intrecciandola in quel suo modo che ormai conoscevo così bene, quindi mi spinse sul marciapiede, in attesa di attraversare la strada e raggiungere il ponte che sovrastava il Naviglio.
“Sì, sempre che tu abbia ancora un po’ di tempo …”
Già, ecco che il fattore tempo tornava a farsi vivo in maniera subdola e prepotente, ricordandomi che, almeno ufficialmente, non ci appartenevamo.
Anche se, dopo quello che c'era stato tra di noi, faticavo per davvero a convincermi del contrario.
“Ti ho già detto che non devi preoccuparti. Oggi esisto solo per te. Per te e per nessun altro, capito?”
Speravo che mi baciasse, un modo infantile e decisamente romantico per suggellare quelle frasi, ma comprendevo quanto si stesse già esponendo, passeggiando insieme e, per di più, mano nella mano.
Camminammo una decina di minuti, fino a quando si fermò, indicandomi un piccolo ristorante alla nostra sinistra.
Era molto grazioso, almeno a vederlo dall'esterno, abbellito da una barca in miniatura rossa, blu e bianca.
Vi era un gazebo con le pareti e il tetto decorati da motivi intrecciati, sotto il quale stava mangiando una mezza dozzina di coppie straniere.
“Che ne pensi? A me ispira, e a te?”
Anche a me piaceva, non potevo negarlo, però non sapevo se fosse la soluzione più giusta.
Insomma, l'ospedale in cui lavorava distava meno di due chilometri in linea d'aria, e non avrei mai voluto che qualche suo collega o conoscente ci incontrasse.
Temevo di fargli fare una pessima figura, soprattutto dopo avermi confessato che, quel giorno, era uscito prima dalla struttura con la scusa di un improrogabile impegno personale fuori città.
Volevo solo il meglio per lui, non desideravo in alcun modo ferirlo o impedirgli di fare carriera.
“Allora? Entriamo?” mi risvegliò dai miei pensieri, stringendomi un braccio ed alzando un sopracciglio.
“Sì, si certo”
Un cameriere più o meno della mia età ci venne incontro con aria professionale, domandandoci se preferissimo cenare all’interno o all’esterno.
Lui ed io ci guardammo, d'accordo a farci apparecchiare sotto il bel gazebo dietro di noi.
Il ragazzo ci fece accomodare in un angolo appartato, forse intuendo la natura del legame che ci univa.
Quando fummo seduti, lui mi sorrise e mi prese una mano.
“Sono molto contento di averti qui con me. Oggi pomeriggio mi hai reso felice come non lo ero da tempo”
Lo guardai negli occhi ambrati, soffermandomi per qualche istante in quel mare di purezza che lui rappresentava per me.
Arrossii, almeno era la sensazione che avvertii: mi sfiorò una guancia semplicemente con un dito, come a voler cancellare quel pudore così infantile ed inaspettato che mi aveva colorato le gote.
“Tu mi rendi sempre felice con la tua sola presenza ...” replicai, incoraggiata dal suo gesto.
In quel momento, arrivarono i menù, distogliendoci dalle nostre melense dichiarazioni reciproche.
Non ebbe il tempo di rispondermi, ma forse non c'era poi molto altro da aggiungere.
Prenotammo due antipasti misti e due primi piatti, innaffiando il tutto con una caraffa di vino bianco.
Finimmo di cenare un'ora e mezza dopo, quando il locale era ormai gremito di turisti e avventori del posto.
Andò a pagare e, sussurrandomi ad un orecchio, mi promise che la prossima settimana avremmo di nuovo fatto una capatina lì.
Poi, sottobraccio, ci avviammo verso la sua automobile, una Lancia Flavia grigia che aveva parcheggiato a una quindicina di minuti dall'albergo.
Non ripercorremmo lo stesso itinerario, però, preferendo addentrarci lungo le strade parallele in cui si trovava l’Hotel Astor, camminando al chiaro di luna, in una serata ancora vagamente afosa.
Procedevamo fianco a fianco, incontrando qualche raro passante in compagnia del suo amico a quattro zampe, e comitive di ragazzi in attesa di sbronzarsi.
Mi sentivo leggera ed appagata: pensavo che era bello far finta di essere una qualunque coppia di ritorno da una cenetta romantica, che aveva appena condiviso momenti tanto intimi.
“Uno di questi giorni mi piacerebbe portarti a mangiare in un locale che ha aperto da poco, vicino al Duomo. Si mangia molto bene e c’è una vasta scelta di take-away
“E’ giapponese?” volle sapere, dedicandomi un’occhiata dubbiosa.
“Sì, ma non solo. Perché me lo chiedi? Non ti piace la cucina asiatica?”
“Tutt’altro, la adoro. La mia era semplice curiosità”
Stavamo quasi inciampando in un avvallamento del marciapiede, quando io lo sorressi e ci mettemmo a ridere come due stupidi.
“Forse abbiamo bevuto troppo!” esclamò retoricamente, anche se posso giurare che non avevamo affatto esagerato.
“Saremo ubriachi d’amore …” azzardai, facendo spallucce e trascinandomi dietro di lui.
La luce artificiale dei lampioni rischiarava i nostri visi: nei suoi occhi leggevo la felicità, l’entusiasmo del momento, mentre mi domandavo che cosa avrebbe potuto decifrare sul mio volto.
Compiacimento? Allegria? Incredulità? Non glielo domandai, probabilmente perché mi andava bene così, qualunque fosse la sua interpretazione, perciò continuammo la passeggiata notturna come se nulla fosse.
Mezz'ora più tardi, arrivammo davanti al convitto in cui alloggiavo durante l'anno accademico, un ex convento di suore benedettine ristrutturato negli anni Ottanta.
Si sporse per baciarmi sul collo e poi sulla bocca, ringraziandomi per la bella serata che gli avevo regalato.
“Grazie a te” gli accarezzai il viso e lo abbracciai, inspirando il profumo che traspariva dalla sua camicia.
“Ti chiamo domani, dopo che ho finito il turno”
Io annuì, abbozzando un sorriso, e finalmente scesi.
Recuperai la chiave del portoncino dalla borsetta, quindi mi voltai per salutarlo con la mano.
Lui era ancora lì, pronto a ricambiare il mio gesto, sgommando subito dopo per tornare dall'altra.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: rossella0806