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Autore: Neverland98    07/09/2016    2 recensioni
Fayleen ha ventun'anni, è bella ed è uno dei soldati più forti dell'esercito delle terre dell'Est. Determinata, coraggiosa, leale: ha giurato di proteggere la sua Imperatrice fino alla morte.
-
Aleksis è govane. Bellissimo. Nessuno conosce esattamente la sua età né la sua storia. Ma è il temibile comandante che da due anni ha guidato le Terre dell'Ovest in rivolta contro quelle dell'Est.
Il suo popolo conta su di lui, gli è fedele ed è disposto a morire.
-
In un'epoca imprecisata, a seguito di nuove scosse di assestamento come quelle avvenute nella preistoria, il mondo assume un nuovo assetto. I continenti sono più piccoli, ma molto numerosi.
Ciascuno conosce solo il proprio: i viaggi sono pericolosi a causa dell'inquinamento che ha reso il mare e l'aria imprevedibili.
-
In uno di questi, diviso in Terre dell'Ovest e Terre del Sud, si consuma una guerra drammatica. Mentre tutto intorno la morte e l'odio imperversano, l'amore troverà il modo di imporsi, egoista e prepotente come suo solito, nei cuori di due sfortunati giovani.
-
[Dal testo]
- Dimmi, hai paura, soldatino?-
Mi gira intorno, con la grazia di un predatore. -Non ho paura di niente.-
Ride. - Dovresti, invece.-
Genere: Guerra, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Angolo autrice:
Salve a tutti! Volevo ringraziarvi per avere aperto questa storia: avete dimostrato della fiducia
e interesse, e non posso che ringraziarvi! Spero che questo capitolo sia all'altezza delle
vostre aspettative, ma non dimenticate che è solo l'inizio ;)
Se la storia avrà successo, intendo andare moooolto avanti ...
Buona lettura! <3



I
Il fumo. E gli spari. Il rumore. La puzza di sangue rappreso, cadaveri e polvere da sparo.
Le urla. I pianti. Gli insulti.
La terra che si tinge di rosso. I corvi che gracchiano. Il dolore. La paura. La sofferenza.
La guerra è una dea crudele e famelica. Si nutre di speranze e rigurgita rimpianti. L'odio l'alimenta, il terrore l'inebria. Ride degli uomini. Miseri, sciocchi che per lei erigono altari e distruggono mondi.
- Strausse! Collin! Grezen! - la voce del comandante sovrasta il rumore che ci circonda e il gracchiare dei miei pensieri.
- Sì, signore!- rispondiamo in coro.
Il nostro comandante guida lo schieramento, cavalcando spedito verso le fila nemiche. Io sono poco dietro di lui, la sua voce mi entra direttamente nel cervello.
- Sapete cosa dovete fare! Vai! Buona fortuna!- strilla.
Io annuisco, decisa. Galoppando sul mio cavallo mi allontano dallo schieramento dei miei compagni. La stessa cosa fanno gli altri due, prendendo direzioni diverse.
 La pioggia imperversa furiosa. La punizione divina per la nostra crudeltà.
L'esercito nemico ha l'abitudine di spargere nei pressi del campo di battaglia delle sentinelle, se così possono essere definite. Non appena qualcuno si avvicina, loro sparano un razzo segnalatore rosso come il sangue. A quel punto il gruppo di soldati meno impegnato nella lotta e più vicino, si precipita sul posto.
Il mio compito è quello di eliminare le suddette sentinelle.
Non è un compito facile, anzi. Quei bastardi sono attentissimi, a volte, nonostante tutte le premure, riescono a lanciare l'allarme.Certo che so cosa devo fare. Io e altri due dei migliori della nostra legione. Il mio compito è aprire un passaggio ai miei compagni. Li devo assalire per prima, eliminare quelli che trovo da soli o in piccolissimi gruppi e raggiungere il punto in cui infuria la battaglia.
La nostra legione è, in generale, una delle più forti. Non attacca mai da sola nè per prima. Dobbiamo rimanere riparati il più a lungo possibile. Tuttavia, non ci allontaniamo mai troppo dall'esercito vero è proprio così da poter essere richiamati e intervenire immediatamente in caso di disperata necessità. Più volte il nostro intervento ha capovolto le sorti della battaglia.
Una volta che i nemici hanno accerchiato e stanno facendo strage dei nostri, un superstite lancia un razzo di segnalazione di fumo nerissimo. A quel punto noi interveniamo immediatamente. Sfruttando l'effetto sorpresa, accerchiamo i nemici che a loro volta avevano accerchiato i nostri compagni. Quelli dell'Ovest, quindi, si ritrovano intrappolati dall'esterno e dall'interno, poichè gli ultimi sopravvissuti dell'esercito non esitano ad attaccare e a battersi fino all'ultimo.
La mia legione si è divisa in tre gruppi. Ciascuno segue uno di noi tre soldati scelti. A debita distanza, riparati dagli alberi e dalla pioggia. Compatti. In questo modo, una volta che ci saremo introdotti sul campo di battaglia, eliminando chi ci si para davanti, il resto dei soldati potrà comparire all'improvviso e assalire i nemici. A tale scopo, noi non ci fermiamo negli accampamenti nè ci spostiamo in maniera vistosa come il resto dell'esercito. Noi, proprio come giaguari, talvolta ci muoviamo da un albero all'altro, mescolando i nostri cavalli a quelli dell'esercito che procede a piedi. Ma è molto raro, per fortuna. Possiamo rimanervi sopra per settimane, finchè non è richiesto il nostro aiuto. Cosa che purtroppo, ultimamente, è sempre più frequente.
Siamo abituati a vivere in condizioni estreme. Sappiamo costruire un ponte e smantellarlo in pochissimo tempo. Sappiamo resistere a lungo alla fame e alla sete.
Dal momento in cui indossiamo l'uniforme, le nostre identità si annullano. Non abbiamo più un nome o un'età o anche un sesso. Siamo soldati. Soldati della Legione Speciale
Sono fradicia, ho la vista annebbiata, ma accellero.
Sguaino la spada. 
Tra gli alberi individuo  due  soldati nemici che hanno tutta l'aria delle sentinelle. Ai loro piedi brilla una pozzanghera di acqua e sangue. Poco lontano un corpo giace nel fango. E' steso supino. Sul mantello leggo lo stemma della mia nazione.
Non sento più niente. Nè i rumori, nè la pioggia, nè il freddo. E' tutto lontano anni luce. L'odio mi acceca. L'adrenalina mi rende insensibile ad ogni stimolo esterno. La morte non è solo un'ombra lontana, ma una presenza concreta che mi scruta dall'alto.
Il cuore mi martella nel petto. Man mano che avanzo, le sagome dei tre dell'Ovest si fanno sempre più nitide.
Estraggo dalla cintura un pugnale e lo scaglio contro la pistola che sta per sparare il razzo segnalatore. La colpisce con il manico, facendola cadere a terra. Una frazione di secondo prima che il colpo sia stato esploso.
Non aspetto che la seconda sentinella faccia lo stesso. Lancio il secondo pugnale, e questa volta disarmo l'altra molto prima che possa sparare.
Si chinano velocemente per raccogliere le pistole, ma le loro armature li rallentano spaventosamente (non capisco proprio perchè si ostinino a portarle) e il mio cavallo è veloce.
Devo sfruttare il mio vantaggio.  .
E' in questi istanti che percepisco la guerra, nel vero senso del termine. Tutta la mia vita, improvvisamente, assume la consistenza di un castello di sabbia. Ciò che ho costruito, i risultati che ho raggiunto, gli affetti che ho creato. Ogni cosa è fragile, in balia del mare impetuoso in cui io, di mia spontanea volontà, ho scelto di tuffarmi.
Perchè è questa la verità. Nessuno mi ha obbligata ad essere un soldato. E' stata una mia scelta, e non me ne pento.
Il primo dell'Ovest, grasso e opaco nell'ingombrante armatura di ferro, fa roteare la sua ascia sopra di me. Un urlo gli esplode nel petto e la lama sporca di sangue sta per staccarmi una gambai. E' un attimo. Il mio cavallo si impenna, evito il colpo per un soffio. Scivolo giù, la spada sguainata, e paro il colpo successivo. L'uomo digrigna i denti per la rabbia. Il suo amico, più alto ma egualmente robusto, mi assale alle spalle. Purtroppo per lui, il clangore dell'armatura mi avverte della sua presenza. Tiro un calcio all'indietro, quel tanto che mi basta per allontanarlo. Il tempo di evitare la pioggia di colpi alla quale l'uomo con l'ascia mi sta sottoponendo. Se non altro, la pioggia (quella vera) ha cessato. E io, tra l'altro, non porto armature di metallo.
Mentre i due si rialzano, io, con l'agilità di un felino (e di anni e anni di addestramento), mi arrampico sull'albero più vicino. I due fanno per arrampicarsi. Non devono essere molto svegli. Li vedo salire e salire, colmi di rabbia. Aspetto che siano a cinque metri d'altezza, cioè che mi abbiano praticamente raggiunto. Dopo di che, sfodero la pistola che porto alla cintura e sparo ai rami a cui si stanno tenendo. Non posso colpire loro direttamente, poichè le armature che portano lasciano scoperti solo i polpacci e la faccia, ma, in questo momento, non sono visibili.
Il primo colpo scuote violentemente il ramo, mentre frammenti di legno e foglie secche si librano in aria. Il secondo e il terzo lo spezzano. Il primo soldato cade, silenzioso. Quasi rassegnato alla propria sorte.
Tocca terra con un "tud" sordo e qualcosa scricchiola. L'armatura ha attutito il colpo, ma cinque metri sono cinque metri. Non è morto, si sta ancora divincolando come un insetto ferito. E' quello che sembra da quassù. Piccolo e nero nella sua armatura rumorosa e metallica.
Ora che è steso, prone, riesco a vedergli la faccia. Mi basta un attimo per prendere la mira. Sparo. Sento una vibrazione simile ad una scossa risalirmi dalla mano fino alla spalla. Mi fa male il braccio, è indolenzito e pesante, ma almeno, quando mi affaccio di nuovo, l'uomo a terra non ha più una faccia.
Il suo amico, ancora attaccato ad un ramo, strilla di frustrazione. Volge lo sguardo sul suo compagno caduto, e quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me potrei giurare che siano rossi. - Maledetta!- lo sento mormorare.
E' molto più agile del suo amico. Si arrampica come un ragno, ma fa l'errore di mostrarmi la faccia. Anche se per pochi secondi. Cade, e l'ascia gli sfugge di mano, toccando terra quasi silenziosamente.
Gocce di sangue e tessuto osseo mi si sono appiccicate addosso. Ho sparato ad una distanza troppo ravvicinata.
Non mi piace usare le pistole. Mi sembra un'arma da vigliacchi. Per questo quando li ho assaliti, all'inizio, la prima cosa che avevo fatto era stata sguainare la spada.
Però, si sa, in guerra tutto è lecito.
Mi concedo meno di dieci secondi per tirare un sospiro di sollievo. Sono ancora viva.
Mi giro. Il gruppo della mia legione che doveva seguire me è ben nascosto. Io, però, lo percepisco. Non so spiegare come, ma è così. Forse è l'odore. Un odore che conosco bene quanto conosco il mio. Dev'essere così. Ad ogni modo, non ho bisogno di vederli per sapere che ci sono.
So che hanno visto tutto. Ho tracciato loro una direzione. Dobbiamo fare in fretta se vogliamo raggiungere l'esercito principale. Ormai sono già passati più di cinque minuti da quando hanno lanciato il segnale di aiuto.
Guardo in basso. Il mio cavallo mi sta aspettando. Lia è molto fedele. Si è allontanata durante lo scontro, ma è tornata subito dopo. Come sempre. Onestamente, l'idea di scendere mi ripugna. Non voglio passare accanto a quei due cadaveri senza volto. Chiamatemi pure codarda, ma non ce la faccio. Non sono i primi che ho ucciso (decisamente no) e non saranno gli ultimi (decisamente no), ma ogni volta la sensazione di repulsione è forte come la prima.
E comunque, non ho tempo di scendere.
Gli alberi in questo bosco crescono molto vicini gli uni agli altri.
Salto da un ramo all'altro, avanzando verso il punto in cui, poco fa, è brillato il segnale d'aiuto.
Mi oriento tramite il cielo, ormai sempre più chiaro. E' buffo che possa uscire il sole in una giornata come questa. Magari gli uccellini cinguetteranno. Le farfalle voleranno leggiadre. E sotto di loro solo disperazione e carne putrefatta.
Avanzo rapidamente. Sono abituata a stare in bilico sugli alberi. So distinguere i rami troppo sottili da quelli abbastanza spessi. Mio padre mi portava spesso nei boschi, quand'ero bambina. Facevamo delle escursioni. Non ci portavamo dietro nulla se non lo stretto indispensabile. Neanche una tenda.
Lo scopo era imparare a sfruttare le risorse del territorio. Imparare prima di tutto a riconoscerle, poichè ogni ambiente ha i suoi punti favorevoli. Oltre alla resistenza e alla capacità di adattamento, questo particolare allenamento ha influito sul mio intuito e sulla capacità di osservazione. Spesso vedo cose che gli altri non vedono.
Non a caso vado in avanscoperta.
Proseguo ancora. So di essere arrivata ancora prima di vedere la battaglia vera e propria.
Quello di cui parlavo: il fumo. E gli spari. Il rumore. La puzza di sangue rappreso, cadaveri e polvere da sparo.
Le urla. I pianti. Gli insulti.
La terra che si tinge di rosso. I corvi che gracchiano. Il dolore. La paura. La sofferenza.
Poi c'è l'odore. La puzza di sangue. Di vomito. Di urina.
Frammenti molli di carne che penzolano dai rami più bassi. Chiazze di sangue nerastro e arti troncati.
E' questo l'oceano in cui sto per tuffarmi.
Con tutto il fiato che ho in gola, urlo: "Adesso!"
I miei compagni rispondono urlando più di me. Emergono dal folto della vegetazione. Proprio come pensavo, non avevano perso il passo. Li osservo dall'alto e, credetemi, è una sensazione singolarissima. Per un breve istante mi sento una dea. Dunque è così che siamo visti dall'alto. Un branco di formiche folli che si calpestano a vicenda.
Non mi piace per niente quello che vedo.
Scendo rapidamente, afferro la spada e la pistola (a mali estremi) e, urlando, mi getto nell'inferno.
Percorro i rami a ritroso. Quando sono ormai a un metro da terra, lascio la presa e salto. Atterro sulle spalle di uno dei nemici. Prima che abbia il tempo di realizzare cosa lo abbia colpito, gli assesto un pugno in piena faccia (punto debole). Fiotti di sangue rossastro gli colano dal naso. Estrae la spada e incrocia la mia. Le lame si scontrano più volte. Dal mondo in cui ci muoviamo, grottescamente aggraziato, sembra che stiamo conducendo una sorta di macabra danza.
D'un tratto un dolore lancinante mi assale allo stomaco. Non sono riuscita a parare il calcio. Indietreggio e cado ai piedi dello stesso albero da cui, poco fa, mi sono lanciata. Sento l'intestino sotto sopra. Possibile che me l'abbia spappolato? Probabilmente no, non sarei ancora in piedi, ma vi giuro che è quello che sembra.
Stringo i denti. Il nemico rotea la spada su di me, sta per colpirmi. Mi getto di lato, sento già ritornarmi le forze. I miracoli di un duro addestramento.
Balzo in piedi. La lama della sua spada affonda nella corteccia quasi fino all'elsa. Un brivido mi pervade all'idea dello stesso colpo che centrava me.
A volte mi capita di domandarmi come morirò. Mi chiedo se sarà doloroso, o se sarà un rapido colpo di spada dritto al cuore. Oppure, dal momento che tutto è possibile, potrei anche sopravvivere alla guerra e morire ottuagenaria nel mio morbido letto, circondata dagli affetti.
E' un'ipotesi assolutamente improbabile, ma mi piace pensarci. E' vero, prima o poi tutti moriremo comunque. Ma la differenza sta proprio nel come. In fondo, se ci pensiamo, tutte le nostre scelte roteano intorno alla morte. Se scegliamo di avere una famiglia numerosa, di dedicarci ad essa, inconsciamente stiamo pensando che in questo modo non moriremo soli. Se ci dedichiamo ad una causa, ad un lavoro, ad una passione, inconsciamente vogliamo dare un senso alla nostra vita, così da non avere rimpianti in punto di morte.
Rifletteteci. Se ripassate le scelte che avete fatto o che siete in procinto di fare, domandatevi il perchè. Perchè è la vostra passione? La vostra vocazione? E perchè? Se indagate a fondo, vi troverete d'accordo con me.
Macabro che la vita giri intorno alla morte, non è vero?
Ci penso proprio mentre combatto. In questi momenti riesco quasi a vederla, la morte. Mi fissa. Si domanda quando potrà avermi. Aspetta il minimo passo falso, la minima esitazione. La morte ama la guerra.
Allo stesso modo in cui un intenditore ama un buon ristorante.
La spada del mio avversario è incalzante, i movimenti sono ritmici e precisi. Ho capito la sua tecnica. Non vuole attaccarmi. Vuole sfinirmi.
Poi, se sarà generoso, mi darà il colpo di grazia.
Sono in trappola, penso.
Non posso fare nulla. Mi ha trascinato nella sua trappola mortale. Se provassi ad attaccare, sarebbe la fine. La sua spada i colpirebbe in pieno. Sono costretta a continuare a parare i colpi, ancora e ancora finchè non avrò più forza.
Inizio già a sentire un certo dolore alle spalle. L'acido lattico si sta diffondendo lungo le braccia. No, maledizione, no.
Posso solo continuare a difendermi. Un sorrisetto malvagio gli illumina il viso. I suoi occhietti rotondi, all'ombra dell'elmo pesante, risplendono di gioia.
Mi sfida con lo sguardo. Cosa puoi fare?, sembra dirmi. Sei una stupida e stai per morire.
Cerco di guardarmi intorno. I miei compagni si stanno battendo valorosamente. Ma con la coda dell'occhio faccio in tempo a registrare un numero enorme di nostri soldati riversi nel fango. Il terreno sembra tappezzato dai loro mantelli.
Se cadiamo, quelli dell'Ovest avranno conquistato Tharin, uno dei più produttivi satelliti industriali dell'Impero.
Non possiamo permetterlo.
Con orrore, sento i capelli appiccicarmisi al viso. Goccioline di sudore mi ricoprono il viso. Se sto sudando con questo freddo, significa che tra poco cadrò.
Il sole è alto nel cielo, ma è un sole invernale. Tiepido, distante.
Provo a immaginare cosa accadrebbe se morissi qui. Probabilmente rimarrei a fare da cena alle iene o ai giaguari. Dal momento che molto probabilmente perderemo la battaglia, quelli dell'Ovest non restituiranno mai i corpi dei caduti.
Non che mi importi, dopo tutto. Una volta che sei morto, non sei più da nessuna parte. Non esisti più. Che differenza fa cosa ci fanno col tuo corpo?
I funerali sono per i vivi. Così come le tombe o i vasi di ceneri. Non è forse vero che il peso più grande della morte lo portano i superstiti?
Sono loro a soffrire, ad aver bisogno di un posto in cui sfogare il proprio dolore. Di poter piangere davanti all'immagine muta di un ritratto.
Il mio pensiero va alla mia famiglia. A chi si troverà in questa condizione atroce di avermi persa, e non poter piangermi da nessuna parte. La consapevolezza di avere i resti di qualcuno caro vicini, ti fa sentire in pace.
Sarebbe atroce, certo. Se solo avessi qualcuno che pensi a me.
Mia madre. La sola idea mi fa venire da ridere. Proprio qui, in questo momento. Posso immaginarla che rotea gli occhi, seccata. Scola una bottiglia di vino e squote le spalle: "Quell'incapace di mia figlia". Poi si vestirà di nero, come consuetudine, e interpreterà il ruolo della madre affranta. Indirà grandi banchetti e cerimonie di commemorazione in "mio" onore, così da poter essere il centro dell'attenzione e circondarsi dei nobili più importanti. In effetti, penso proprio che con la mia morte, la sua vita migliorerebbe.
Se poi non trovassero il mio corpo, sarebbe il massimo. Avrebbe una serie di motivi in più per piangere e contrirsi. Ossia una serie di motivi in più per ricevere visita da generali, capitani e nobili che mi hanno conosciuta.
Nonostante abbia solo ventun'anni (lo dico senza falsa modestia), ho una carriera lunga e brillante nell'esercito. E sono la figlia di un generale famoso, per cui casa nostra sarebbe letteralmente invasa dalle personalità di spicco.
Già, a proposito di mio padre.
Schivo un altro colpo di spada. Indietreggio lentamente. Il mio avversario mi incalza.
Forse mio padre sarebbe l'unico a dispiacersi per me. Non troppo comunque. Non lo vedo ormai da due anni. Da quando è scoppiata la guerra vera e propria, le sue abilità di stratega sono state richieste nella capitale. Ha un milione di cose per la testa. Se gli dicessero che la sua unica figlia è morta, la stessa che lui aveva addestrato fin da bambina. Che aveva portato nei boschi per insegnarle a cacciare all'età di sei anni. A cui aveva messo in mano una spada prima di una penna, probabilmente si concederebbe un paio di secondi di profondo rammarico. Poi ritornerebbe ai suoi doveri.
No, in effetti non farebbe proprio differenza se morissi qui.
Solo che c'è un problema. Io non voglio.
L'istinto di sopravvivenza ha preso il sopravvento. Non ci si sente mai più vivi di quando si sta per morire. I problemi, le preoccupazioni che un tempo ci apparivano senza uscita, diventano irrilevanti. Scompaiono.
Ogni fibra del mio essere urla una sola cosa: "vivere!"
Io voglio vivere. Non voglio morire. Non voglio. Non voglio.
Il mio corpo mi implora di fermarmi, ma la mia mente non è mai stata così lucida.
Cosa diceva mio padre? Studia il territorio. Sfruttane ogni risorsa.
Ma certo.
Continuo a parare i suoi colpi, ma comincio ad indietreggiare progressivamente. Il mio avversario non se ne accorge. E' convinto di avermi già uccisa. Prende il mio arretrare come un segno del mio imminente cedimento. Povero illuso.
Mi segue passo passo. Impercettibilmente, mentre con un braccio paro i suoi colpi, l'altro, senza spada, si allunga all'indietro. Le dita sfiorano la corteccia ruvide di un tronco. Ottimo.
La mia spada continua a parare la pioggia di colpi, ma, nel frattempo, con la mia mano libera afferra un ramo sopra di me. Tiro un calcio al mio avversario. Lo colpisco sul torace protetto dall'armatura, quindi non mi aspetto di fargli male. Volevo solo allontanarlo un poco.
Con uno scatto fulmineo mi volto, afferro il ramo con entrambe le mani e, facendo pressione sui muscoli delle braccia, ormai allo stremo delle forze, mi isso sul ramo.
Tutto questo, in meno di cinque secondi. Il tempo esatto in cui il mio avversario, urlando di frustrazione, torna all'assalto. Ma io sono lontana. Il ramo a cui mi sono aggrappata è relativamente basso, poco più di un metro d'altezza. Mi serviva come punto di partenza.
Salgo sempre più in alto. Il mio avversario non si abbatte. Devo ammettere che è in gamba. Con la spada tra i denti, inizia ad arrampicarsi.
Però è molto più pesante di me: l'armatura lo ostacola nei movimenti. E l'elmo pesante gli limita la visuale.
Lo faccio avvicinare sempre di più. Nel momento esatto in cui mi ha raggiunta e afferra la spada che stringeva tra i denti, commette l'errore di mostrarmi il collo. Con un gesto rapido e preciso, la mia spada gli recide la pelle sopra la trachea.
Si sente un rumore, come uno strappo. Una gonna di cotone che rimane impigliata nella porta.
Il sangue zampilla come da una fontana, in parte riversandosi su di me. Rimane in piedi sul ramo qualche secondo, vacillando pericolosamente. Dalla bocca fuoriesce sangue denso e nero misto a bile e saliva schiumante. Lo sento rantolare ed emettere suoni gutturali e animaleschi. Ha gli occhi quasi fuori dalle orbite. Sta soffocando nel suo sangue.
Il volto è una maschera di dolore. Pallido come un foglio di carta, le vene sono incredibilmente visibili sotto la pelle.
Sta per cadere all'indietro. Decido di aiutarlo. Lo spingo io.
Un calcio sul petto, e piomba giù, rantolante. Siamo a otto metri d'altezza. La caduta gli ha dato il colpo di grazia.
Mi accascio sul ramo. Per fortuna era molto spesso e solido abbastanza da non spezzarsi sotto il peso dell'agonia del mio avversario.
Il suo volto mi si è impresso in mente, come quando vi scattano una foto col flash e continuate a vederne la luce per un po'.
In fondo, è sempre così.
Ansimante, mi siedo.
Dentro di me una serie di emozioni si alternano come su un'altalena.
Il primo ad arrivare è il sollievo. Non sono morta. L'adrenalina si ritira dal mio corpo simile alla marea che lascia la costa.
Poi c'è il dolore fisico. Ora che l'effetto dell'adrenalina è svanito, avverto una fitta atroce alle spalle e ho le braccia indolenzite. Sono esausta, il solo pensiero di rialzarmi è terribile.
Infine, affiora la stanchezza. Desidero solo dormire. E mangiare, ora che ci penso. Ho una fame incredibile.
Ma devo resistere.
Scendo dall'albero, con la massima velocità consentitami dagli arti doloranti.
Sfodero la spada. Sono pronta a rituffarmi nella mischia. In quanto ad uscirne viva, ho i miei dubbi. In queste condizioni non posso dare il cento per cento, il chè significa morte certa.
Però non posso arrendermi. Anche i miei compagni sono stremati, ma si tengono in piedi e difendono il nostro popolo fino all'ultimo respiro.
A poca distanza per me, un soldato della mia squadra è appena inciampato a causa di un calcio ben assestato al ginocchio. Dalla smorfia di dolore sul suo viso, deve essersi rotto.
A differenza dei nostri avversari, noi non portiamo armature. E' un vantaggio poichè ci rende dieci volte più rapidi e agili nei movimenti, ma, ovviamente, ha i suoi punti deboli.
Il soldato nemico sta per trafiggerlo con la spada.
Corro più veloce che posso. Un'altra volta, il dolore è lontano. La mia mente si svuota. Io sono la mia spada. Sono un'arma. Sono fatta per uccidere.
Con un salto dell'ultimo secondo, proprio nell'istante in cui la lama nemica sta per calare, piombo alle spalle del suo proprietario (essere privi del clangore dell'armatura è un altro vantaggio negli attacchi a sorpresa).
Gli trafiggo il polpaccio. Un grido di dolore e sorpresa gli esplode in gola.
Nonostante il dolore alla gamba, si volta con uno scatto fulmineo. Solo adesso mi accorgo di quanto sia grosso. Dev'essere alto almeno due metri ed è largo poco meno. La lunga barba è incrostata di sangue rappreso e fango.
Mi mostra i denti in un ghigno animalesco.
In che guaio mi sono cacciata?, mi domando, mentre salto per evitare la sua spada.
Quell'accidenti di lama deve pesare quanto me, e lui la maneggia come fosse uno stuzzicadenti.
Sono spacciata.
Paro i suoi colpi, senza pensare a nulla. Soffoco i pensieri negativi sul nascere. Se lasciassi loro il tempo di crescere e avvolgermi con la loro nebbia, sarebbe la fine. Soccomberei per colpa di me stessa.
Siete mai stati colpiti da un fulmine? Neanche io. Però è proprio quello che sembra il dolore esplosivo alla spalla.
Non ho il coraggio di guardare. Con la coda dell'occhio esamino il lato destro del mio corpo. Esattamente sotto l'omero, fiotti di sangue denso e nero scorrono lungo il braccio.
Sembra che un cane mi stia azzannando e non si decida a lasciare la presa.
Provo a muovere il braccio, ma non risponde ai miei comanti. Che abbia danneggiato qualche nervo? Per la frustrazione, vorrei piangere. E' finita.
Cerco di parare i colpi impugnando la spada con la mano sinistra. Me la cavo molto bene, certo, ma non abbastanza. In guerra non esistono le mezze misure: o sopravvivi, o muori.
Arretro sempre di più. Anche questo qui vuole usare la strategia del suo amico che ho ucciso poco fa.
Potrei fare la stessa cosa. Saltare su un albero. Tuttavia, con l'unico braccio funzionante impegnato ad usare la spada, sarebbe difficilissimo. E poi non ci sono alberi qui intorno. Sono tutti troppo lontani. Dovrei mettermi a correre, ma non ne avrei il tempo.
Ma questo qui come fa ad essere agile e temibile con un polpaccio trafitto? Cos'è? Ce l'hanno sotto pelle l'armatura, adesso?
Questo stupido braccio destro. Vorrei tagliarmelo. E' inutile e pesante e ingombrante. Ogni volta che lo muovo di pochissimo il fulmine mi colpisce di nuovo.
Paro un altro colpo, così forte da farmi vibrare in tutto il corpo. Il mio avversario approfitta dell'attimo di incertezza e mi colpisce al petto con lo stivale pesante.
Temo che mi abbia sondato la cassa toracica. Mi manca il respiro.
Finisco a terra.
Ma, nonostante le condizioni pietose in cui mi trovi, è un bene. Colpisco l'altro polpaccio. Sento il nemico digrignare i denti dal dolore.
Affondo la spada fino all'elsa. Devo avergli spezzato qualche muscolo, perchè finalmente inizia a vacillare.
Non prima di calare la spada in direzione della mia testa. Rotolo di lato appena in tempo. Non ho la forza di alzarmi, quindi devo farlo cadere se voglio avere qualche possibilità.
Il gigante ricoperto d'acciaio barcolla in maniera sempre più violenta, nel disperato tentativo di non accasciarsi. I muscoli del suo enorme braccio guizzano mentre con la lama tenta nuovamente di colpirmi.
Rotolo di lato. Nella terra e nel fango. Nel sangue rappreso.
Il ronzio delle mosche, a questa altezza, è così forte da lasciarmi stordita. So perchè si trovano qui. L' odore di carne putrefatta che mi avvolge mentre rotolo è lo stesso che le fa diventare fameliche.
Muovermi è un agonia. Nel petto, dove sono stata colpita, sento ancora qualcosa rimbombare a tutto spiano. E il braccio destro, beh.
Lasciamo perdere.
So che la ferita aperta sulla spalla si sta infettando. Vedo la terra incrostarsi sul sangue e un bruciore acuto si unisce al vecchio dolore. Il cane immaginario non molla la presa.
Però, nuovamente, la paura della morte, l'istinto di sopravvivenza ha la meglio su tutto.
Stringo l'elsa della spada e mi sposto, rotolando e strisciando, il più lontano possibile.
Il mio avversario fa per inseguirmi, ma tra l'armatura e le gambe lacerate, è assurdamente lento.
Quando sono abbastanza lontana, estraggo la pistola. A mali estremi, estremi rimedi.
Prendo la mira e gli sparo in piena faccia. Per un attimo ho il terrore che neanche il proiettile possa ferirlo. Me lo vedo che continua ad avanzare con mezza faccia disintegrata.
Per mia fortuna, però, è anche lui un essere umano. Crolla all'indietro e raggiunge terra con un tonfo sordo.
Il soldato che avevo salvato, col ginocchio rotto, zoppica fino a me.
Mi tende la mano per aiutarmi a rialzarmi. E' un tacito ringraziamento. In certi momenti, non si ha la forza nemmeno di dire "grazie".
Vorrei rifiutare, considerando che non so effettivamente quanto sia stabile la sua presa, ma non voglio offenderlo. E ho comunque bisogno d'aiuto se non voglio marcire qui.
Afferro la sua mano è sporca di sangue e fango, sulla fronte un brutto taglio fa mostra di sè.
Nell'altra mano impugna la pistola, ancora fumante. Ha continuato a combattere, persino col ginocchio a pezzi. Strisciando, proprio come me, come un verme. Dev'essersi arrampiacato su un albero, a giudicare dalla direzione da cui arriva, e deve aver sparato finchè non ha esaurito i colpi.
Se non ha sparato al mio gigante, è perchè era troppo lontano. E se non gli ha sparato prima, mentre stava per spaccargli il cranio con la spada, è perchè non aveva il tempo di estrarre la pistola. Tutti noi proviamo una vaga avversione verso questo tipo di armi, per cui ci ricorriamo solo se costretti.
Di sicuro sarebbe alquanto sleale in un corpo a corpo, e per noi l'onore è tutto.
Come me, questo soldato ha potuto estrarre la pistola solo dopo aver messo una certa distanza tra se stesso e il gigante.
Riesco ad alzarmi, ma sento le ginocchia cedermi. Non voglio pesare troppo sul corpo mal ridotto del mio compagno, quindi mi sforzo. E mi faccio ancora più male.
Però sono in piedi, ed è già qualcosa.
- Dov'è il tuo cavallo?- mi domanda.
- Non molto lontano.- rispondo. Conoscendo la mia adorata, è rimasta ai piedi dell'albero famoso su cui ho iniziato la battaglia di oggi.
- Il tuo?- replico.
- Insieme a quelli degli altri. Un po' più indietro.-
Il resto della squadra, quella che segue un soldato scelto in avanscoperta, è solita lasciare i cavalli in un punto molto lontano dal luogo della battaglia. Il resto del percorso lo fanno di corsa (siamo molto bene allenati) o saltando da un ramo all'altro. I cavalli sono la risorsa principale in caso di ritirata. Non possiamo permetterci di perderli.
Io e il mio compagno ci diamo un'occhiata in giro. La situazione è drammatica. Decine dei nostri sono caduti o stanno per farlo.
Ci scambiamo uno sguardo. Vorremmo entrambi scappare, lo sappiamo. Non siamo in condizioni di combattere. Lui ha finito i colpi alla pistola e io, se anche volessi usare la mia in maniera utile, dovrei arrampicarmi su un albero per prendere bene la mira sulla mischia. Ma gli alberi sono lontani, e io ci metterei troppo ad arrivarci.
Siamo costretti a combattere corpo a corpo, e, in queste condizioni, non abbiamo davvero speranza.
E' questo che si dicono i nostri occhi.
Proviamo lo stesso terrore, la stessa disperazione e la stessa rabbia.
Ma siamo soldati di una legione scelta.
Le nostre espressioni cambiano all'unisono.
Impugniamo le spade.
Lui inizia a zoppicare il più rapidamente possibile verso il fulcro della battaglia. Cade, ma si rialza e riprende.
Le mie gambe, almeno, funzionano, però è come se al posto del braccio destro avessi un tronco di legno. Ingombrante e doloroso. La ferita si è sicuramente infettata, se sopravviverò mi amputeranno il braccio.
E ho perso molto sangue, prima che la terra sporca si appiccicasse sul foro e tappasse, in qualche modo, il flusso.
Per non parlare del petto. Faccio fatica a respirare. Ogni volta che la cassa toracica si muove, il dolore si rinnova.
Però avanzo. E' il mio dovere e il mio destino.
Siamo a pochi passi quando, finalmente, ad un fischio acuto segue una scia di fumo nerissimo che si disegna nel cielo pomeridiano.
E' il segnale della ritirata. L'altro soldato ed io ci guardiamo negli occhi, estremamente sollevati, anche se non potremmo ammetterlo.
Perchè la ritirata col fumo nero significa una cosa sola: sconfitta.
Abbiamo perso uno dei centri industriali più importanti.
Un'altra regione in mano loro. Di questo passo, oltre alle battaglie, perderemo la guerra.




Angolo autrice:
Alloooora? Che ne pensate? Non vedo l'ora di saperlo!
Bacioni! <3 <3 <3


 
 
   
 
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