Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: Neverland98    14/09/2016    1 recensioni
Fayleen ha ventun'anni, è bella ed è uno dei soldati più forti dell'esercito delle terre dell'Est. Determinata, coraggiosa, leale: ha giurato di proteggere la sua Imperatrice fino alla morte.
-
Aleksis è govane. Bellissimo. Nessuno conosce esattamente la sua età né la sua storia. Ma è il temibile comandante che da due anni ha guidato le Terre dell'Ovest in rivolta contro quelle dell'Est.
Il suo popolo conta su di lui, gli è fedele ed è disposto a morire.
-
In un'epoca imprecisata, a seguito di nuove scosse di assestamento come quelle avvenute nella preistoria, il mondo assume un nuovo assetto. I continenti sono più piccoli, ma molto numerosi.
Ciascuno conosce solo il proprio: i viaggi sono pericolosi a causa dell'inquinamento che ha reso il mare e l'aria imprevedibili.
-
In uno di questi, diviso in Terre dell'Ovest e Terre del Sud, si consuma una guerra drammatica. Mentre tutto intorno la morte e l'odio imperversano, l'amore troverà il modo di imporsi, egoista e prepotente come suo solito, nei cuori di due sfortunati giovani.
-
[Dal testo]
- Dimmi, hai paura, soldatino?-
Mi gira intorno, con la grazia di un predatore. -Non ho paura di niente.-
Ride. - Dovresti, invece.-
Genere: Guerra, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
II



 

La guerra è scoppiata circa due anni fa.
Mese più, mese meno: ha davvero importanza?
Dopo che, secoli or sono, a seguito di fortissime scosse di assestamento, l'assetto mondiale è stato stravolto, i continenti sono più piccoli e numerosi di quanto lo erano prima. Almeno questo è ciò che traspare dalle cartine e i mappamondi antichi.
Per fortuna, gran parte della documentazione di allora si è conservata. Merito delle tecnologie avanzate di cui erano in possesso i nostri progenitori.
Oggi non esiste una cosa come Internet. La progettazione di satelliti di quel tipo, atti a quello scopo, è troppo complicata per essere riprodotta. In compenso abbiamo ancora i computer. E le televisioni. E le macchine fotografiche. E i telefoni. Fissi, però. I cellulari superefficienti sono un ricordo lontano.
Allo stesso modo, non ci sono più tratti somatici caratteristici di una certa area.
I nuovi continenti inglobavano parti di nazioni molto diverse tra loro. Col passare del tempo e con l'avvicendarsi delle generazioni, essi si sono fusi, fino a svanire. Per esempio, è vero che esistono ancora persone con gli occhi a mandorla, ma non è detto che debbano avere i capelli corvini e i tratti del volto schiacciati, com'erano un tempo.
Non esistono più persone dalla carnagione marrone come il cioccolato.
Alcuni tratti somatici tipici (le labbra carnose, la mandibola pronunciata) si ritrovano ancora. Ma i loro capelli non sono per forza ricci e neri, e la loro pelle non va oltre una tonalità che rasenta l'abbronzatura.
Il mondo di un tempo era preciso, in un certo senso.
Schematico e ordinato.
Quello in cui vivo, non lo è affatto. Però mi piace di più. Non penso avrei potuto vivere in quel tipo di società. Ma forse, chissà, ne sono convinta solo perchè non l'ho mai conosciuta. Se ci fossi nata, non avrei immaginato un mondo diverso, quindi non ci avrei pensato. In realtà, a dirla tutta, c'è qualcosa che rimpiango: i viaggi.
I nostri antenati potevano attraversare l'oceano per spostarsi da un continente all'altro. Noi, invece, no. Il mare è inquinato, il clima instabile. Sono molto frequenti le tempeste: un viaggio troppo lungo implica la morte.
E noi non abbiamo idea di quanto disti il nostro continente da un altro. Persino gli aerei sono esclusi.
O meglio: li possiamo usare per gli spostamenti intercontinentali, e, volendo, potremmo anche avventurarci in viaggi extracontinentali, ma, oggi come oggi, è l'ultima delle nostre preoccupazioni.
La guerra ha il monopolio su ogni altra attività.
Fino a circa vent'anni fa, il nostro continente si divideva in Terre dell'Ovest e Terre dell'Est.
Nelle prime, essendo caratterizzate da terreni molto fertili e grandi corsi d'acqua, ci si dedicava particolarmente all'agricoltura, all'allevamento e alla pesca. Erano sostanzialmente queste le industrie su cui si basava l'economia, oltre, in parte, all'ingegneria e alla medicina.
Nelle seconde, invece, spiccavano la produzione tessile e l'elettronica in generale.
Sebbene vi fossero industrie mediche e farmaceutiche, bisogna ammettere che fossero parecchio indietro rispetto a quelle dell'Ovest. La cosa, tuttavia, era irrilevante, poichè la grande passione nelle Terre dell'Est erano le arti. Filologia. Filosofia. Musica. Scultura.
Prevaleva lo studio della storia e della geografia. Le indagini sul passato.
Non a caso siamo in possesso di numerosi documenti, tra cui, non ultime, cartine geografiche e mappamondi.

Le principali materie di studio nelle scuole erano le scienze e le belle arti.
In un primo momento, i rapporti tra le Terre dell'Ovest e le Terre dell'Est (separate da alte catene montuose) erano pacifici. Si limitavano al commercio.
Successivamente, però, gli abitanti dell'Est si resero conto di qualcosa di importante. Man mano che trovavano e analizzavano documenti riguardanti le antiche civiltà, in particolar modo quella Greca, notarono una differenza enorme tra se stessi e gli abitanti dell'Ovest.
Quest'ultimi non erano che pastori. Umili agricoltori. Non avevano interesse per lo studio e la ricerca, almeno non quanto avrebbero dovuto.
Gli antichi greci, li avrebbero definiti barbari.
Fu esattamente ciò che fecero i miei connazionali.
Dapprima si trattò solo di parole. Gli altri. Quelli là. I Barbari.
Ma le parole, si sa, sanno essere pericolose.
Proprio come scintille, se lasciate vagare incustodite, scatenano un incendio.
Le trattative commerciali divennero complesse.
I nostri pretendevano che i prezzi fossero più bassi da parte loro, ma esigevano che aumentassero i pagamenti verso di noi.
Divenne intollerabile, ai nostri occhi, dover fare affari con un popolo tanto inferiore. Era necessario che comprendessero la nostra superiorità e si comportassero di conseguenza, senza tracotanza.
Finchè le discussioni non sfociarono in vere e proprie liti, e le divergenze d'interessi non divennero pretesto di guerra.
Circa trent'anni fa, il nostro esercito invase le Terre dell'Ovest.
Noi conoscevamo bene l'arte della guerra. L'avevamo studiata. Ne avevamo letto da autori provenienti da parti diverse del mondo antico.
Essere soldati rappresentava un onore e procurava ricchezze e vantaggi politici.
I nostri ingenui avversari, al contrario, erano quasi del tutto sprovveduti. Non si aspettavano lo scoppio di una vera guerra. Il loro esercito aveva più che altro un ruolo figurativo. C'era, sì, ma tanto non sarebbe mai servito.
E invece.
Inutile dire che persero la guerra in men che non si dica. Poco più di due settimane e la capitale, Iustera, cadde.
Il loro re fu imprigionato insieme ai funzionari e ai nobili più importanti. A farne le veci, dall'Imperatore dell'Est di allora fu mandata un'ambasciata nostrana.
Il primo ministro prese pieno potere sul popolo sconfitto, diventando ai loro occhi, un nuovo re.
Le loro Terre divennero le nostre colonie.
Ormai il continente era unificato sotto un'unica bandiera: la nostra.
Una pantera che ruggisce all'alba, all'interno di una cornice dorata e dai ricami complessi.
Sotto una certa ottica, la vita di quelli dell'Ovest non cambiò poi così tanto.
Continuarono ad essere agricoltori, pastori e tessitori. Solo che le ore di lavoro triplicarono, e il guadagno finiva quasi interamente nelle casse del ribattezzato Impero Continentale.
In fondo, a loro che servivano tutti quei guadagni? Li avrebbero sperperati. Spesi in macchinari agricoli e cose del genere, quando, a tale scopo, erano sufficienti molto meno del ricavo totale. Il resto poteva essere investito nella ricerca, per il progresso. Ma che ne sapevano loro?
I nostri soldati, i quali si trovano in grandi quantità nella maggior parte dei centri abitati, avevano il compito di tenere sotto controllo la situazione e sedare possibili rivolte.
Potrei quasi dispiacermi per l'Ovest. Potrei.
Il fatto è che anch'io la penso come i miei concittadini.
Non sfruttavano il dono dell'intelletto come avrebbero dovuto. Stava praticamente nell'ordine naturale delle cose che si sottomettessero a noi.
Inoltre, dalla nascita dell'Impero Continentale, la vita nell'Est è migliorata.
Le infrastrutture, già ben funzionante, rasentano l'eccellenza. Le scuole, ad esempio, sono più attrezzate e degne di infondere il sapere antico alle nuove generazioni. Possiamo produrre e studiare nuove armi, sempre più comode ed efficienti.
Gli aerei sono stati perfezionati e resi più veloci, così come il resto dei dispositivi tecnologici. Gli stipendi sono aumentati esponenzialmente.
Insomma: la povertà è scomparsa.
Mio padre, il generale Strausse, distintosi nella guerra di trent'anni fa, a soli venticinque anni, riscosse un enorme successo e ammirazione. Gli garantì l'amicizia della nuova Imperatrice, tutt'ora in carica, all'epoca appena diciassettene.
Fu ricompensato, insieme agli altri eroi, con terre e tesori preziosi.
Mio padre potè finalmente godersi la propria vita in pace e prosperità, dopo anni e anni di sacrifici e lotte.
Trascorse diversi anni in solitudine, studiando e frequentando la Corte Imperiale, finchè non incontrò (in circostanze a me misteriose) mia madre.
Vent'anni più giovane di lui. Si sposarono immediatamente ed ebbero un'unica figlia. Faelyn Strausse. Me.
Finchè, due anni fa, la situazione si è capovolta.
Un uomo misterioso, pare sia addirittura giovanissimo, ha fatto la sua comparsa sul piano militare, minando le fondamenta del nostro stato e capovolgendo ogni certezza. Infrangendo la pace e la ricchezza tanto faticosamente raggiunta.
In maniera subdola, silenziosa, e assolutamente incomprensibile, è riuscito a radunare uno stuolo di seguaci.
Erano così discreti e scaltri nelle loro intenzioni da passare inosservati ai nostri soldati di pattuglia nell'Ovest.
Se devo essere sincera, credo che questi ultimi si crogiolassero nella pace e nella ricchezza a tal punto da reputare quasi impossibile una rivolta. Del resto, non ce n'erano mai state. Neppure sommosse. Nessuno ha mai pensato che fosse strano. Ci si può aspettare altro, forse, da un popolo così arretrato?
Tuttavia, le rivolte scoppiarono all'improvviso.
Prima nei piccoli centri. I ribelli uccidevano facilmente i soldati ubriachi e li derubavano delle armi. In questo modo, nessuno poteva denunciarli.
L'Impero scoprì la gravità della situazione solo quando scoppiò la battaglia per la presa di Iustera.
Battaglia durata mesi che, infine, data l'impreparatezza dei nostri soldati ormai da troppo tempo a riposo, terminò con una bruciante sconfitta.
Impiccarono il nostro Primo Ministro e i suoi funzionari. Filmarono la scena e la mandarono in diretta TV, su quel canale che un tempo si occupava di mostrare il funzionamento delle industrie e la vita nell'Ovest.
Alla fine del macabro video, lo schermo fu oscurato e una voce parlò. Una voce limpida, quasi cristallina, ma incredibilmente autorevole.
"Il nostro popolo è fiero!" affermava, seguito da un coro di esultazioni ed esclamazioni d'orgoglio. "Vi faremo pagare per quello che ci avete fatto.
Ci avete strappato le nostre terre senza alcun diritto. Ma le cose sono cambiate. Mentre voi vi crogiolavate nella noia e nel lusso che noi, col nostro sangue, vi garantivamo, abbiamo trovato il modo di studiarvi. Le vostre tanto acclamate tecniche di guerra. Le vostre armi. Ci siamo allenati. In silenzio. Mentre voi brindavate e ballavate e facevate l'amore. Adesso, preparatevi. Ci riprenderemo quello che ci avete tolto. Con gli interessi."
A seguire, un nuovo scoppio di euforia e infine il silenzio netto.
Il caos che questo video comportò nell'Impero fu indescrivibile. Mio padre fu immediatamente richiamato a corte, per studiare nuovi piani di battaglia, e poi spedito al fronte. Allora, io ero parte dell'esercito già da diversi anni, sebbene, come i miei compagni, mi trastullassi tra risate e divertimenti. Fummo anche noi mandati a combattere, senza aver praticamente mai visto una battaglia. Le mie abilità, tuttavia, riuscirono comunque ad emergere e molto presto divenni membro della Legione Scelta.
Dove ho il grande privilegio di assistere, quasi regolarmente, alla nostra disfatta.
Sospiro e reclino la testa all'indietro, poggiandola contro la testiera del sedile.
Sono in aereo ormai da cinque ore. Ancora un paio e dovrei essere a casa. Non che il pensiero mi alletti particolarmente.
Ad aspettarci c'è la mia cara mamma col suo sarcasmo e le bottiglie di vino. Però sono stanca e ho bisogno di un letto vero.
Il mio letto. Morbido. Caldo. Il solo pensiero ha un effetto calmante sulla mia anima.
Sebbene mi senta a pezzi. Mentalmente e fisicamente. Una sorda disperazione si è insinuata dentro di me ormai da un po'.
Più che disperazione, ad essere sinceri, lo chiamerei terrore.
Abbiamo fallito un'altra volta. Abbiamo perso Therin. Ormai non si tratta più solo di riprenderci i loro territori. Si tratta di difendere i nostri.
Chiunque sia a guidarli ( e circolano parecchie voci a riguardo) devo ammettere che sa il fatto suo.
E' determinato e accecato dall'odio. Anche troppo bravo per essere un barbaro.
I nostri servizi segreti, nati proprio in seguito alla guerra, sono riusciti a stabilire per certo che si tratta di un uomo di età compresa tra i venti e i venticinque anni. Non si sa altro. E, francamente, mi domando anche come siano entrati in possesso di queste informazioni.
Il finestrino mi offre la visuale su un lembo di cielo scurissimo e stellato. Ho molto sonno, ma non riesco a dormire.
In parte è colpa del dolore alla spalla. Secondo i medici, è un miracolo che abbia ancora il braccio destro.
Quando abbiamo raggiunto il centro medico più vicino, dopo una giornata intera a cavallo, eravamo un numero esiguo di superstiti. Il mio compagno col ginocchio rotto giaceva esanime su uno dei pochi carri che trasportavano le provviste (ridotte all'osso) e i feriti (ridotti all'osso).
Per lasciare posto ai miei compagni ridotti molto peggio di me, io mi ero fatta forza a cavallo della mia Lia.
Bruciavo di febbre. La spalla ormai sembrava andare a fuoco e sono stata davvero sul punto di recidermi il braccio con un colpo di spada. Faceva orrore solo a guardarla. Sporca e nera, la zona intorno allo squarcio si era colorata di un blu malsano. Si poteva addirittura intravedere l'osso. Puzzava incredibilmente e, di tanto in tanto, sembrava fuoriuscire una specie di pus schiumoso e nero.
Per non parlare dello sciame di mosche che non vedeva l'ora di divorarlo.
Quando i medici l'hanno visto, dopo una rapida occhiata, erano praticamente convinti di doverlo amputare. Poi, uno di loro, un ragazzotto dal volto rassicurante e occhiali spessi come fondi di bicchieri, si è ricordato di un rimedio molto usato nell'Ovest in circostanze analoghe.
I nostri medici ne erano entrati a conoscenza nel lungo periodo in cui abbiamo avuto a portata di mano le loro risorse.
Purtroppo, anche in questo campo, l'ignavia ha preso il sopravvento. Non c'era fretta, si ripetevano i ricercatori.
Quel tipo di risorse sarebbero state sempre e comunque a nostra disposizione. Che bisogno c'era di sbrigarsi?
Non sono riusciti a riprodurre l'impacco autonomamente, poichè pare che la combinazione degli ingredienti e il dosaggio sia molto particolare, ma ne è rimasta qualche scorta. Così hanno applicato parte del composto, dal colore bluastro e dalla consistenza grumosa, sulla ferita.
Una puzza incredibile si è diffusa nel piccolo ambulatorio.
Ho passato la notte con quella specie di melma sulla spalla, stesa su uno dei carri che ci portava all'areoporto più vicino (la buona notizia è che si era liberato un posto. La cattiva è che non era guarito nessuno. Se mi capite.)
La mattina dopo, però, un lieve rossore e una ferita dai margini leggermente slabbrati figuravano al posto dello spettacolo rivoltante del giorno prima.
Avrei voluto prendermi a schiaffi per quel sentimento così simile alla gratitudine che ho provato, per un secondo, nei confronti di quelli dell'Ovest.
E' bastato che, autonomamente, (ormai ci eravamo già allontanati dal centro medico nella regione adiacente a Therin), me lo sciacquassi con dell'acqua che mi avevano lasciato portare, e me lo fasciassi. In quest'ultima fase mi ha aiutato il mio comandante. Con la mano sinistra non ho ancora la stessa precisione che ho con la destra. Ci sto lavorando, però.
Arrivare all'areoporto è stato un miracolo.
Non credevo ce l'avremmo realmente fatta. Siamo saliti a bordo del piccolo aereo, ci hanno servito del pane, un po' di frutta e dell'acqua, (tutto ciò che erano riusciti a farsi mandare) e molti di noi si sono addormentati immediatamente.
Anch'io penso essermi appisolata. Il tempo che i ricordi della battaglia appena vissuta riaffiorassero sotto forma di incubi. Una nebbia scura offusca ad alternanza i miei ricordi.  Ho la testa che mi scoppia, ma non riesco ad abbandonarmi al sonno. Semmai riesco a cadere in un torpore febbricittante da cui mi risveglio dopo pochi minuti.
Una hostess, nella sua lunga tuta blu dai bordi dorati, mi si avvicina sorridente. Ha gli occhi a mandorla e i capelli rossi tirati indietro in una stretta coda di cavallo. Sorride, ma le rughe sul suo giovane viso segnalano la stanchezza e la pressione degli ultimi giorni. Tutta colpa di quelli dell'Ovest. Oh, quanto li odio. Altro che gratitudine.
- Signorina.- mi chiama, a voce bassa. I sedili sono incanalati uno dietro l'altro. E' un aereo apposito per gli spostamenti militari. C'è persino un reparto dove tengono i cavalli.
- Sì?- rispondo. La mia voce mi arriva roca e lontana. Sembra che a parlare sia stata un'altra persona. Qualcuno che non conosco.
- Desidera una coperta? Non sapevo se la volesse. Dormiva così placidamente e non me la sono sentita di svegliarla. Dev'essere stanca.- tra i suoi capelli scintilla qualcosa. E' il cerchietto dorato che portano tutte le hostess. Mi piace molto, devo ammettere. Il cartellino appuntato al petto dice: Shanna.
Cos'è che ha detto, Shanna? Dormivo placidamente? Non riesco a crederci.
- No, grazie.- rispondo.-Sto bene così. Quanto manca?-
- Poco più di due ore, signorina.-
Come immaginavo.
- Grazie, Shanna.-
Mi sorride e si allontana, silenziosa.
La ferita inizia a prudere, ma la fasciatura mi impedisce di grattarmi. So che è la pelle che si sta riformando, ma desidererei ardentemente strapparmi la stoffa a morsi e grattarmi fino a sanguinare.
Poggio la testa contro il finestrino, esausta e stordita.
Quando chiudo gli occhi rivivo le uccisioni di cui sono stata artefice due giorni fa. Nelle orecchie ho ancora il ronzare delle mosche. Così vicino, così reale che mi sembra che stiano per entrarmi nel cervello.
Faccio un respiro profondo. Chiudo gli occhi. Io sono forte, mi ripeto. Sono molto forte.
Ripetendomelo come un mantra, piombo in un sonno nero e senza sogni.
Quando li riapro, l'aereo sta toccando terra. Rimbalzo sul sedile diverse volte, mentre il pilota esegue l'atterraggio. Il prurito alla spalla è peggiorato, e, come se non bastasse, sento quel po' di pane che mi sono sforzata di mandare giù  arrampicarsi pericolosamente verso la bocca.
- Tutto bene?- domanda una voce alle mie spalle. E' così flebile che devo averla sentita solo io.
Mi giro lentamente. Una forte e improvvisa sinusite mi impedisce nei movimenti.
- Sono Andreja. Quello che hai salvato l'altro giorno.-
Strizzo gli occhi un paio di volte. In effetti è proprio lui. La luna gli illumina i contorni ben definiti del viso. E' seduto proprio dietro di me.
Lo guardo, interrogativa. Non ce la faccio a parlare, perciò, se proprio devo farlo, preferisco dosare le parole e limitarmi a quelle strettamente indispensabili. Con la coda dell'occhio mi accorgo che gli hanno fasciato il ginocchio. Non credo si riprenderà tanto presto. Anzi, ad essere sinceri, sono certa che zoppicherà per sempre. La sua vita nell'esercito è finita. In buona sostanza, la sua intera vita è finita. Per un soldato, uno che nella sua vita sa solo ed esclusivamente combattere, non poterlo più fare è la fine. In tempi più felici, l'Imperatrice si sarebbe presa cura di lui. Gli avrebbe garantito una pensione, o qualcosa del genere, ma in questo periodo di crisi, ogni centesimo conta. E' terribile dirlo, ma i feriti devono essere abbandonati a se stessi.
Se vai in guerra, o muori o sopravvivi. Nel mezzo è molto peggio.
La carenza dei fondi è, come tutto il resto, colpa di quelli dell'Ovest.
Cerco di nascondere la compassione che provo. Non è un bel sentimento, anzi. E' offensivo per quelli come noi. Ringrazio l'oscurità.
- Sì, mi ricordo.- dico, senza aprire troppo la bocca. Temo di rimettere da un momento all'altro. Uno "splash" poco rassicurante riecheggia nel mio stomaco ad ogni rimbalzo dell'aereo. Accidenti al pilota.
- Hai fatto una bella dormita?-
Mi domando proprio dove trovi l'energia. Sul serio. Riesce addirittura ad essere ironico. E' una bella cosa, l'ironia. Un simpatico modo di esprimere disperazione. Sicuramente è consapevole che da questo momento in poi la sua vita potrà solo peggiorare, ma si fa forza, e io ammiro le persone che si fanno forza.
Sul suo volto è dipinto un mezzo sorriso. In qualche modo, mi contagia.
- In realtà non sapevo di aver dormito.- confesso.
- Oh, eccome.- afferra il mio schienale per evitare di volare via dal suo sedile. Il nostro pilota non dev'essere molto capace. Sono cinque minuti buoni che sobbalziamo. -Questo aereo ha il singhiozzo.- commenta Andrejia, facendomi l'occhiolino.
- Immagino di sì.- la mia voce è ancora gutturale. Cerco di schiarirmela, ma è inutile.
- Vedo che ti hanno sistemato la spalla.-
Annuisco. Ecco, ora mi sono ricordata del prurito. Non che me ne sia mai dimenticata, ma stavo pensando ad altro.
- Che farai ora che torni a casa? Andrai dal tuo innamorato?-
Sbaglio o un'ombra di malizia luccica nei suoi occhi? E poi da quando siamo così in confidenza? Sembra un'altra persona rispetto al soldato determinato cui ho salvato la vita.
- Non credo che ti riguardi.- commento, secca. Non mi piace questo tipo di domande. Non mi piace che si ficchi il naso nella mia vita privata. Nella mia vita in generale.
Lui si stringe nelle spalle.-Hai ragione, scusa. Ma, vedi, mi hai salvato la vita e, visto che non potrò sdebitarmi in combattimento- con lo sguardo indica il ginocchio fasciato. Di nuovo mi maledico per la compassione che provo.- Pensavo almeno di esserti amico. Sai, una spalla su cui piangere o roba del genere.-
- Non è così che si diventa amici.- sbotto, irritata.
-Ah, no?- sembra sinceramente sorpreso. I riccioli scuri gli rimbalzano sulla fronte, sincronizzati con i rimbalzi dell'aereo.
Adesso ho il pane praticamente in gola. Ha un sapore disgustoso, ma stringo i pugni e lo ricaccio giù. Non mi sembra il caso di vomitare addosso al mio compagno ferito.
- No! Non funziona così.-
- E tu lo sai?-
Apro la bocca per replicare, ma poi mi ricordo che non posso. Io non ho amici. Ho solo commilitoni.-No.- ammetto.-Ma so per certo che non si fa così.-
Mi guarda con una serietà improvvisa che mi sorpende.
So che sta per dire qualcosa, ma, finalmente, atterriamo.
Le portiere si aprono.
Mi alzo rapidamente, afferro il mio borsone logoro, e corro fuori senza guardarmi indietro.
Giusto in tempo per vomitare l'anima sull'asfalto.
Aspetto qualche minuto. Fanno scendere i cavalli, anche loro visibilmente provati dal volo e, in particolare, dall'atterraggio. Rintraccio la mia e le accarezzo il muso striato di bianco. -Tesoro.- sussurro. Forse, dopo tutto, la so qualcosa in fatto di amicizia.
La accompagno sul carro che la trasporterà, insieme agli altri, nelle scuderie dell'esercito.
Gli altri soldati scendono e raggiungono i propri cavalli, dopo di chè si dirigono verso le macchine che li aspettano.
Tutti loro hanno qualcuno ad attenderli.
Vicino alle macchine parcheggiate vedo innamorate e innamorati in lacrime. Padri e madri commossi. Figli, addirittura, che strillano in braccio ai genitori e protendono le manine verso l'aereo.
La gioia e la commozione sono palpabili nell'area. I musi lunghi dei miei commilitoni scompaiono non appena scorgono i loro cari.
Non c'è nessuno che si sente solo.
A parte me.
Persino Andreja lo vedo abbracciare una ragazza giovane dai capelli corvini. Dal modo in cui si stringono devono essere innamorati. Lei lo aiuta ad entrare in macchina. Dà un'occhiata al suo ginocchio. Lui le bisbiglia qualcosa, col suo immancabile sorriso ironico. "Non compatirmi", le sta dicendo, forse. Lei replica qualcosa. Sorride, ride. Avrà fatto una battuta. Deve essere una ragazza simpatica. Ride di gusto, ma quando si allontana per sedersi avanti, accanto all'autista, ha le lacrime agli occhi.
Provo una stretta al cuore. Mi riprometto di rimanere in contatto con Andreja.
Ma accidenti alla mia spalla che prude.
- Tutto bene? Qualche problema?-
E' il mio comandante. Alto, robusto quasi quanto il gigante che mi ha trafitto la spalla. Ha il volto solcato da una profonda cicatrice che scende dall'attaccatura dei capelli fino alle labbra sottili, vicino alle quali sembra ramificarsi in segmenti piccoli e pallidi. E' di carnagione scura, indossa una tuta completamente nera, come la mia, quella di "riposo" di noi soldati, ma sulla sua manica destra compare una fascia dorata.
Porta i lunghi capelli corvini tirati all'indietro, legati in una bassa coda di cavallo. Ha gli zigomi alti, un naso largo e occhi nerissimi quasi a mandorla.
Posa la sua mano pesante sulla mia spalla sana, e mi accorgo che ci entra tutta tra le sue dita.
- Non hai un passaggio di ritorno? Vuoi che ti accompagni?-
Seguo il suo sguardo fino alla macchina blu scuro parcheggiata poco lontano. E' una delle ultime rimaste. Anche lui è solo. Nessuno è venuto a prenderlo, ma almeno ha giocato d'anticipo. Ha ordinato all'autista di trovarsi in quel posto a una certa ora. Mi maledico per non aver avuto la stessa pensata.
Dovrei smetterla di essere così ottimista da pensare che a qualcuno importi di me.
Il cielo è sempre più nero man mano che si avvicina l'alba.
Vorrei accettare l'offerta ma, francamente, mi sento in imbarazzo. E' pur sempre un mio superiore. Per quanto disponibile, non saprei come comportarmi. Mi sembra di fare qualcosa di sbagliato.
- No, la ringrazio.- rispondo, accennando un sorriso riconoscente. - Sono sicura che la mia macchina sta arrivando.- mento.
Lui segue il mio sguardo, verso la strada. Ma non c'è nessuno. Ho telefonato a casa da una cabina telefonica prima di partire. Mi ha risposto Maddesse, la storica governante dalla pelle scura. L'ho avvisata dei dettagli dell'arrivo. E' stata felice, come sempre. Sono sicura che avrà avvertito mia madre e, sono altrettanto sicura che lei se ne sia scordata. Sarà crollata sul letto dopo l'ennesima sbronza.
Sospiro. Rischio sul serio di rimanere qui.
- Non vorrei creare disturbo...-esito, incapace di sostenere lo sguardo del comandante.
Lui sorride benevolo.-Non preoccuparti. Non mi aspetta nessuno, quindi non farò tardi.-
Cerco di mascherare la sorpresa. Non me l'aspettavo. Chissà perchè ero convinta che avesse una famiglia. Un po' come mio padre. Ora che ci penso, inconsciamente li ho sempre associati.
Entriamo in macchina. Il comandante si siede davanti, accanto all'autista in smoking di seta. Io prendo posto dietro, stringendomi al borsone per affogare il disagio.
Riferisce all'autista il mio indirizzo. Ha avuto modo di conoscere mio padre, quindi ricorda dove abita. Come dimenticarlo, dopo tutto? Non è da tutti avere l'onore di essere invitati dal pluripremiato generale Strausse.
Ho il terrore che da un momento all'altro possa chiedermi come mai nessuno sia venuto a prendermi. Perciò prego che non dica nulla. Certe volte il silenzio è confortante.
Non vorrei ritrovarmi a spiegargli che mia madre non mi sopporta, perchè sono un soldato e non la nobildonna elegante e civettuola che aveva sempre desiderato. Che ce l'ha anche con il marito, colpevole di lasciarla sola a causa del suo lavoro. Che, sostanzialmente, trascorre giornate intere a bere. A comprare abiti vistosi che non indosserà mai. A guardare la televisione: soprattutto i canali ufficiali dell'Impero, dove non si fa altro che propaganda autocelebrativa.
Non vorrei dover ammettere che anche io non ho nessuno ad aspettarmi.
Il mio comandante ha almeno il doppio della mia età, perciò è logico credere che la solitudine sia stata una sua scelta. A me, invece, è stata imposta. E me ne vergogno. Perchè, vedete, non voglio essere compatita.
Per nessuna ragione. Proprio come Andreja.
Non voglio che mi si guardi con benevolenza, come se fossi un cucciolo smarrito. Io sono un soldato, uno dei migliori. So badare a me stessa, e lo dimostro ogni volta che torno a casa viva con tutte le ossa apposto. O quasi, insomma.
Sul petto ho un ematoma violaceo dai contorni slabbrati e indefiniti, simile ad una macchia enorme.
E ,sotto la felpa pesante, le bende intorno alla spalle continuano a procurarmi un prurito da stringere i denti.
La macchina corre veloce e silenziosa sulla strada buia. Tra poco ci sarà l'alba, e, nei minuti precedenti, il cielo sfoggia la sua migliore tonalità di nero.
Casa mia è fuori città, perciò non è molto distante dall'areoporto. Appena tre quarti d'ora, forse.
Realizzo che il comandante non ha ancora detto niente, e tiro un sospiro di sollievo. Sebbene la stanchezza inizi a farsi sentire (io e il mio corpo non ci ricordiamo di aver dormito, in aereo.) e faccia fatica a tenere gli occhi aperti, mi impongo un contegno. Sono pur sempre a bordo della macchina di un superiore. Se cedessi al sonno, non me lo perdonerei mai.
Mi concentro sugli alberi e la vegetazione ai lati della strada. I rami sono ormai quasi tutti spogli, sebbene alcune foglie tentino un'ostinata resistenza. L'inverno non è rigido come lo è stato l'anno passato. L'ultima volta ha nevicato ininterrottamente per giorni e quando, finalmente, ha smesso, le strade e le case erano ricoperte da coltri di neve spessissime. Ci è voluto parecchio sale per risolvere la situazione, il chè ha comportato spese enormi. Il sale marino è molto costoso, considerata la difficoltà per procurarlo. Oltretutto, eravamo già impegnati nella guerre, e le casse dell'Impero erano in procinto di prosciugarsi. Abbiamo pagato tasse altissime. Sebbene non abbia influito sul mio tenore di vita, era chiaro che se anche questo inverno si fossero presentate condizioni simili, l'Impero avrebbe seriamente rischiato la bancarotta.
Inoltre, l'anno scorso le spedizioni nei boschi innevati, al freddo e al gelo, sono state pericolosissime. Molti soldati morivano di ipotermia lungo il tragitto. Non era raro vedere dita di mani e piedi andare in cancrena e staccarsi come rami secchi. Le spedizioni effettuate in quelle condizioni, fortunatamente, sono state poche. Erano egualmente ardue per i nostri nemici, perciò ci si accordò su una tacita tregua durata fino agli inizi della primavera.
- Sei stanca?-
La voce del comandante mi richiama bruscamente dai miei pensieri, sempre meno inconsistenti mentre scivolo inconsapevolmente nel sonno.
- Un po'...- balbetto, fingendo di essere perfettamente attiva.
Il riflesso dei suoi occhi indagatori mi scruta dallo specchietto retrovisore. Sorride.- Cerca di riposarti in questi tre giorni. Abbiamo bisogno di te.-
Quest'ultima affermazione mi riempie d'orgoglio. Sento le guance arrossarsi. - Ci proverò, signore.-
- Voi che andate in avanscoperta siete fondamentali per le sorti della battaglia. Senza di voi tracciarsi un percorso nascosto sarebbe un problema. Non potremmo coglierli di sorpresa.-
- Già, eppure abbiamo perso un'altra volta.- mi accorgo troppo tardi di averlo detto a voce alta, e avvampo, maledicendomi mentalmente. Vorrei scomparire.
Il comandante sembra stupito, ma non si direbbe arrabbiato. Non è che l'abbia proprio contraddetto. Ho solo fatto dell'assolutamente inappropriato sarcasmo. Colpa della genetica materna. In questo mia madre ed io ci somigliamo. Solo che lei non pone freni alla propria graffiante ironia. Io ci provo. Però, ogni tanto, fallisco.
- Loro erano molto più numerosi di noi.- mi spiega, ma mi accorgo di come ha distolto lo sguardo.
Lo faccio anch'io, sovrappensiero.
- Però - riprende, dopo un po'. - Tu non hai rimpianti. Hai combattuto molte battaglie per la tua età, e ne sei sempre uscita viva. Ho visto come ti sei battuta. Me ne accorgo sempre. Hai un grande potenziale. Detto tra noi, Strausse, credo che se abbiamo ancora qualche possibilità di vittoria è solo grazie a quelli come te. Il problema, appunto, è che sono troppo pochi.-
Questa volta l'orgoglio non basta a risollevarmi il morale.
La macchina svolta finalmente nel viale di casa mia. Sebbene definirla "casa" sia decisamente inappropriato.
Circondata da ettari di prato verde che si estendono a perdita d'occhio, abbelliti da cespugli dalle forme artistiche, fontane in stile classico e una vasta piscina circondata da lampade e sdraio ergonomiche, si erge una villa a dieci piani. Estesa in lunghezza quanto in larghezza, ha le pareti ,ricoperte in certi punti dall'edera, perfettamente curate. Un colonnato si affaccia sul portico esterno. Adesso che è sera, una serie di piccole luci bianche, disseminate intorno al viale d'ingresso, luccicano come stelle dal terreno.
La macchina si ferma appena prima del grande cancello. Scendo, zoppicando per il dolore alla spalla e la stanchezza.
- La ringrazio molto, signore. - di tutto, vorrei aggiungere. Ma stavolta mi trattengo.
Fa un cenno con la testa e sorride, prima che la macchina faccia retrofront e scompaia sulla strada.
Sospiro. Casa dolce casa, eh? Invidio chiunque abbia un posto dove non vede l'ora di tornare. Un posto che solo a pensarci lo riempie di gioia, gli ricorda di avere una ragione per andare avanti. Provo una profonda invidia.
Mi sporgo col viso davanti al sensore incastonato al lato del cancello. Un raggio bluastro mi percorre il viso, ronzando impercettibilmente. Si ritira. Sul piccolo schermo compare una mia foto e il mio nome.
Le porte del cancello si spalancano.
Ormai inizia ad albeggiare. Una brezza fresca si insinua tra i cespugli. Comincio ad avere seriamente freddo.
Mi dirigo il più veloce possibile alla porta d'ingresso, sebbene la distanza dal cancello, percorsa a piedi, porti via una buona mezz'ora.
Quando arrivo, devono essere ormai le cinque passate.
Dai balconi inizia ad affacciarsi la servitù, alle prese con le prime faccende del giorno.
Qualcuno di loro si accorge della mia presenza e sorride con deferenza.
Mi avvicino alla porta e consento una nuova scannerizzazione del mio viso. Finalmente posso entrare. Il raggio di luce così forte, puntato negli occhi, mi lascia intontita.
- Miss Faelyn!-
Provo una piacevole stretta al cuore. Quanto mi era mancata quella voce.- Maddesse!- guardo in alto, sorridente.
La mia governante è affacciata al balcone, le mani artigliate alla ringhiera. Ha gli occhi umidi e un sorriso commosso le illumina il volto. Vedete, Maddesse non è una semplice governante, per me. Nè, tantomeno, una banale istitutrice. Direi che è quanto di più vicino a una madre io abbia mai avuto. Mi ha cresciuta lei. Si è presa cura di me fin da quando sono nata, mentre mio padre si trastullava a corte e mia madre svuotava le dispense alcoliche di casa.
- Mi aspetti lì, signorina. - esclama, raggiante, prima di scomparire in casa.
Io, nel frattempo, inizio ad entrare. Non appena oltrepasso la porta d'ingresso, un insieme di sensazioni contrastanti si scatena dentro di me. Da una parte c'è la nostalgia. L'odore di casa, sapete. Quell'odore di cui non ci accorgiamo mai, ma che, dopo essere stati via a lungo, ci abbraccia nel momento in cui torniamo, e lo troviamo inconfondibilmente nostro. Odore di casa.
Persino io possiedo un ricordo del genere.
Per quanto mi riguarda, è il profumo di pane appena sfornato proveniente dalle cucine. Un odore forte e accogliente, che si propaga nell'atrio. Poi c'è il profumo del legno del pavimento e delle molteplici varietà di fiori e piante che crescono per tutte le stanze. Tuttavia, l'armonia che avverto è avvelenata da una punta sgradevole. Mi tornano in mente tutta la tristezza, il dolore, le lacrime versate qui dentro. Il senso di inadeguatezza, le litigate con mia madre. Le offese. Il terrore inconscio di trovarla stesa a russare da qualche parte, immersa nel proprio vomito, con una bottiglia vuota rovesciata accanto. Il sentimento di compassione che mi procura il solo pensiero. Che mi spinge a provare pena nei suoi confronti, ad aiutarla. A lavarla e a metterla a letto, perchè, malgrado tutto, mi si spezza il cuore al pensiero della servitù che la trova in quello stato misero, e dei pettegolezzi che potrebbero correre a corte. Perchè, nonostante tutto, le voglio bene. Non so, onestamente, se sia un amore ricambiato. Probabilmente no, ma non posso dimenticare che quella donna che si diverte a tormentarmi, è la stessa che mi ha dato la vita. Che mi ha cresciuta dentro di sè. In fondo, penso che un tempo deve avermi amata. Fosse anche solo per un istante, mentre le mie cellule non erano neppure del tutto formate. Se non ha impedito la mia nascita, vuol dire che deve avermi amato. Una donna con la sua astuzia (e un marito lontano) avrebbe trovato mille modi per mascherare un aborto in modo che nessuno ne sapesse niente. No, lei mi ha voluta. Probabilmente aveva grandissime aspettative. Sperava di trovare in me qualcuno che le tenesse compagnia, che, a differenza del marito, non la lasciasse sola. Sperava di aver trovato una ragione di vita.
Se adesso è tanto perfida nei miei confronti, è perchè l'ho delusa nel modo peggiore. Ai suoi occhi, le ho voltato le spalle per seguire le orme d mio padre. L'ho ferita profondamente. E odio il modo in cui questo pensiero mi torni in mente ogni volta che sto per risponderle a tono. Che sto per gridarle in faccia che la odio, la detesto. Invece, mi blocco. A furia di ingoiare alcool e rimpianti, è diventata una donna detestabile. Persino adesso, di ritorno da una delle più dure battaglie della mia vita, mi sento rabbrividire al pensiero di dover affrontare mia madre. Mi domando in che condizioni sarà. Spero sia lucida, e al contempo lo temo. Vederla ubriaca mi atterrisce, ma da sobria mi vomiterebbe addosso tutta la frustrazione che cova.
- Bambina mia!-
I miei pensieri sono interrotti in modo bruscamente dolce dalle braccia di Maddesse. Mi stringe forte al petto, e la sento singhiozzare tra i miei capelli. Ricambio volentieri. Avevo proprio bisogno di questo calore.
Calore materno.
La stringo forte. Odora di detersivi e erba fresca e un sentore di qualcos'altro. Qualcosa di suo.
Rimaniamo strette a lungo, e io potrei rimanerci ancora, ma lei decide che è meglio separarci. Mi scosta dolcemente, con le mani posate sulle mie spalle. I suoi occhi mi scrutano, colmi di tenerezza.-Bambina, che bello rivederti!-
Posso solo sorriderle. Mi accorgo di non riuscire a parlare. Se lo facessi, scoppierei in lacrime. Sento già gli occhi bruciarmi. Maddesse è una donna di oltre cinquant'anni, eppure innegabilmente bella. Di quella bellezza che solo le donne di una certa età possiedono. Una bellezza materna. Nonostante non abbia figli.
Indossa il suo solito completo. Una maglietta a girocollo di cotone blu, la cui estremità è infilata nella gonna dello stesso colore, lunga fino al ginocchio. Porta scarpe basse di vernice nera e una collana di perle, abbinata agli orecchini. Un mio regalo. Il primo che le abbia mai fatto, entusiasta com'ero del mio primo stipendio da soldato.
Ha la pelle scura e due penetranti occhi color nocciola. Le labbra carnose e gli zigomi alti sono coperti da un velo impercettibile di rughe, il quale, anzichè imbruttirla, le addolcisce ulteriormente i lineamenti. I suoi capelli corvini, striati di grigio, sono appuntati in un folto chignon sulla nuca. Sul lato destro del petto, compare la piccola spilla dorata con lo stemma delle Terre dell'Est.
- Come stai?- mi domanda, a bassa voce, in un tono confidenziale che adotta solo quando siamo io e lei. Ed è l'unica dalla quale posso accettarlo volentieri.
Faccio un respiro profondo per recuperare il controllo. Detesto essere così emotiva. In genere riesco a tenere a bada i miei sentimenti, ma ci sono dei momenti, momenti come questo, in cui vengo sopraffatta. Dimentico persino il dolore alla spalla. Lo odio. Non mi piace non avere il controllo su me stessa.
- Sono stanca...- riesco a mormorare, con voce roca.
Maddesse mi accarezza il viso.- Ho già fatto preparare le tue stanze. Ti aspettavamo con ansia dalla tua telefonata.- sorride, sollevata.-Mi fa piacere che la signora abbia mandato una macchina a prenderti. Quasi temevamo che si dimenticassa...- distoglie lo sguardo, imbarazzata.
- Infatti non ha mandato nessuno.- rispondo, con un tono gelido che stupisce anche me.
Maddesse spalanca gli occhi.-Cosa? Ma... Allora come sei tornata?-
- Mi hanno dato un passaggio.-
La mia governante scuote la testa, sconvolta.- Mi dispiace tanto, davvero. Sai, mi sembrava inopportuno da parte mia sollecitare la signora. Non le sarebbe piaciuto affatto. Poi, francamente, temevo ma non pensavo che...-
- Fa nulla.- taglio corto. Non mi va di parlarne. La piacevole stretta al cuore che ho sentito poco fa, adesso è dolorosa. La spalla ha ricominciato a pulsare.
- Herb!- chiama Maddesse, col tono autorevole con cui si rivolge alla servitù. Questo, oltre alla sua benevolenza, le garantisce la piena obbedienza degli altri servi.
- Si, signora Maddesse?- si precipita un cameriere in maglietta e pantaloni lunghi grigi. Ha la pelle dai riflessi ambrati e lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo.
- Accompagna la signorina nelle sue stanze. Portale il bagaglio.-
Herb annuisce e mi si rivolge, con deferenza.-Prego.- allunga una mano per prendere il borsone che gli porgo. Non riesco a trattenere una smorfia di dolore nel muovere la spalla.
A Maddesse, ovviamente, non sfugge.-Miss Faelyn! E' ferita?- domanda, allarmata.
- Niente di grave.- la tranquillizzo.-Mi hanno curata. Prude un po', tutto qui.-mento. Maddesse lo sa, ne sono certa. Ha sempre capito quando mento. Tuttavia non mi contraddice davanti ad Herb e ai servi che ci passano accanto, intenti a svolgere le loro faccende. Si limita a fissarmi con uno sguardo a metà tra il benevolo e il rimprovero, della serie "so che mi stai mentendo, e ne riparleremo, signorina."
Ma io sento le forze abbandonarmi definitivamente.
Seguo Herb verso l'ascensore. Entriamo, lui preme il pulsante del secondo piano. Secondo su dieci.
Mentre aspetto, un inaspettato brontolio giunge dal mio stomaco. Avvampo e scruto Herb di sottecchi. Sicuramente ha sentito, ma rimane immobile. Dritto e impettito, come ci si aspetta da un servo della famiglia Strausse. Non vedo. Non sento. Non parlo.
Le porte dell'ascensore, decorate dall'interno con ricami in legno pregiato, si schiudono sul secondo piano, interamente mio. Vi è la mia camera da letto, il mio salottino, i miei due bagni e un'enorme libreria. Già mi sento meglio.
- Poggialo pure là, quello.- indico il letto a Herb, che lascia cadere il mio borsone.-C'è altro?- mi domanda.
Sto per dire niente, ma il mio stomaco protesta.-Sì. Dì alla signora Maddesse di prepararmi qualcosa da mangiare.-
- Sarà fatto. Desidera che glielo porti?-
- Non c'è bisogno. Scendo tra un paio d'ore.-
Herb abbozza un inchino e sparisce dietro le porte dell'ascensore.
Mi affretto ad inserire la combinazione che impedisce all'ascensore di fermarsi al secondo piano. Potrà continuare a salire e a scendere, ma questo è il mio territorio, e ho tanto bisogno di dormire.
Faccio una piccola sosta in bagno, il tempo di rinfrescarmi un po' e alleggerire la vescica.
Entro nella stanza da letto e chiudo la porta a chiave. Non si sa mai. Non basta l'ascensore. Ho sempre il terrore che mia madre si materializzi davanti a me. So che dovrò affrontarla, prima o poi, ma preferisco farlo dopo una bella dormita. Sono sicura che, non appena sarà in piedi (se sarà in piedi, ovviamente) e avrà saputo del mio arrivo, si precipiterà da me per darmi il suo personalissimo benvenuto. Facendo un rapido calcolo, si alzerà tra circa un paio d'ore, e io starò ancora dormendo. Almeno ho il diritto di scegliere il momento migliore in cui farmi insultare.
Perciò preferisco barricarmi qui.
Spogliarmi e indossare il pigiama mi causa un dolore non da poco. La spalla protesta ogni volta che uso il braccio destro. Però ce la faccio. Una volta abbottonata la camicia di seta rosata, mi infilo sotto le coperte e affondo tra i cuscini del mio adorato letto a baldacchino. Quanto mi era mancato.
Ormai è mattina, e i raggi del sole si infilano prepotenti attraverso l'ampia finestra che occupa quasi interamente la parete accanto al letto.
Premo un pulsante del telecomando posato sul comodino, e due strati di tende spesse e pesanti coprono i vetri. La stanza sprofonda nel buio più totale. Il tempo di accorgermene e crollo addormentata.

 

 

Angolo autrice:
Salve a tutti! Innanzitutto grazie di essere arrivati fino a qui, siete splendidi <3 <3 <3
Volevo ringraziare, in particolare, chi segue/ricorda/ha tra i preferiti questa storia: vi voglio bene! Ma non tanto quanto a chi ha recensito <3 <3
Anche questo è un capitolo un po' lento, me ne rendo conto, ma era necessario per inquadrare un po' il contesto in cui ci muoviamo. Dal prossimo le cose si faranno seriamente movimentate, ve lo prometto!
Un bacione grande grande!

 

 

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: Neverland98