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Autore: M y r t u s    09/09/2016    5 recensioni
[Tutta la luce che non vediamo]
(Reincarnation!AU)
Era soltanto questione di pazienza, di chi inseguirebbe la stessa persona ai confini del tempo, per incontrarla e perderla vita dopo vita, durante un itinerario che non cesserà mai il proprio ciclo.
Capitolo 1:
Percepì la paura inondare ogni singolo capillare del suo corpo, il tempo cessare il suo fluire, la realtà esterna ammutolire al tuonare di quel vocione tetro:
" Fammi vedere cosa nascondi".
Genere: Generale, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:
Torno a pubblicare su efp dopo due anni con una Reincarnation AU, genere in cui volevo cimentarmi da tempo immemore e con questa coppia ho trovato il pretesto perfetto per buttarmi sul progetto.
Leggendo "Tutta la luce che non vediamo" quest'estate, ho notato come il forte legame tra Werner e Volkheimer sia leggermente trascurato, per non dire il personaggio di Volkheimer in sè, ma personalmtente ho avuto la netta sensazione che questi due siano stati molto importanti l'uno per l'altro. Le situazioni che hanno vissuto insieme devono perforza aver creato qualcosa di profondo tra loro.
Non voglio penetrare nell'argomento perchè mi perderei in costatazioni sul libro e qui non è il luogo adatto per farle, solo desidero comunicare ciò che mi ha spinto ad iniziare questa fanfction, ovvero, l'impressione che Werner e Volkheimer potessero essere anime gemelle, con vincoli spirituali più intensi di quelli tra Werner e Marie-Laure.
La struttura è frammentata in mini POV per dare ampio spazio alla psicologia di entrambi.
Infine mi sento in dovere di dedicare il capitolo e quelli che verrano a Ginevra Gwen White, la mia musa ispiratrice. Senza di lei questa storia non avrebbe visto la luce del giorno. 
I personaggi, ovviamente, non mi appartengono ma sono stati creati dalla mente geniale di Anthony Doerr, autore del libro.








Il tanfo di morte si espandeva fino al soffitto. Urla di chierici e invasori squarciavano il silenzio di un luogo concepito per maturare la quiete, il sangue inondava copioso i pavimenti.
Padre Anselmo poggiò una mano grinzosa sulla spalla del giovane frate che lo affiancava: " Scappa, figliolo. Raggiungi il borgo e ragguaglia gli abitanti. Un esercito pagano incalza verso l'entroterra".
Il fanciullo protestò debolmente e, mentre l'anziano canuto discorreva, la sua attenzione confluì su un crocifisso penzolante nella parete antistante.
"Affrettati e che il Signore Iddio vegli su di te".
Prima che Werner potesse accorgersene, gli altri confratelli lo spintonarono fuori dal magazzino, ove, in precedenza, cercarono riparo dal clangore delle lame barbare.
Il monastero era cinto da alte mura, impossibili da valicare senza congegni adatti e l'unico stratagemma per eludere il portone d'ingresso, era attraversare a nuoto un tratto di fiume, le cui acque torbide sospingevano assiduamente il mulino e garantivano la sussistenza della comunità religiosa.
La distesa si stagliava placida all'orizzonte, caritatevole dono dell'Onnipotente, autentica sorgente di vita. Il minuto ecclesiastico rimuginava su come già un affluente avesse elargito la salvezza divina al popolo d'Israele, trasportando tra i propri flutti la culla di vimini del pargolo Mosè. Il maestoso Nilo.
Non indugiò oltre. Benedì i fratelli, pregando che il Signore accogliesse i loro sacrifici e gli mostrasse pietà nell'ora fatale. Misere vittime, immolate sull'altare nemico per concedergli un frammento di vantaggio.
Lasciò che le tiepide acque gli lambissero il corpo e lo inondassero di una fede prodigiosa. Con la Bibbia stretta al petto arrancò lungo la risalita del fiume.





Una patina di cenere e sangue tingeva di tonalità cupe il volto di Frank Volkheimer. La spada che serrava tra le possenti mani irradiava bagliori purpurei ad ogni affondo. L'estate era appena agli albori.
Il suo popolo aveva soggiogato una virtuosa fetta continentale, disponendo di una temibile casta militare in fiorente ascesa. La prosperità di questa era il prodotto di ingenti razzie perpetrate nella calda stagione.
Il monastero fortificato in cui si erano imbattuti nella discesa verso la cittadella si era rivelato essere un'autentica gallina dalle uova d'oro. Tra i pezzi più cospicui del bottino, esenti viveri o provviste, si annoveravano numerosi monili impreziositi da gemme e articoli pregiati.
Dopo aver spolpato la preda fino all'osso, Volkheimer aveva raccomandato in tono canzonatorio agli altri armigeri di 'guardarsi bene dal non appiccare nessun fuoco, neppure inavvedutamente', per poi soffermarsi a fissare le fiamme inghiottire l'edificio con bieco appagamento.
Il vento vorticava impetuoso quando qualcosa attirò l'attenzione del barbaro: una massa bruna, simile alla pelliccia di certi animali, si dibatteva nelle acque del fiume circostante.
In un battito di ciglia seppe dare forma e nome a ciò che aveva appena scorto. La tunica di un chierico.
Un chierico che si stava defilando e, con ogni probabilità, custodiva un tesoro incommensurabile, da non far cadere in mani straniere.
Gli occhi aurei di Volkheimer scintillavano di avidità. Percepì l'interesse riemergere dal torpore, come una scintilla nel vuoto. Si sentiva vivo e incontrastabile, una forza della natura.
Abbandonò il manipolo di soldati affaccendati nella riorganizzazione dello schieramento, con la brama di depistare il fuggitivo.
Alle sue spalle, il mondo continuava a bruciare.





Werner aveva ingollato tanta di quell'acqua limacciosa che il suo stomaco aveva preso a rantolare per il disappunto, minacciando di rigettare il proprio contenuto.
La fatica lo aveva costretto a decelerare, benché non avesse nuotato a lungo. Di certo la tunica costituiva un notevole ostacolo, come la Bibbia che si era ostinato a portare con sé, un bel tomo donato ai frati del monastero da una nobile famiglia dopo che questi ne curarono il capostipite.
Di tutti gli scritti che aveva sfogliato, nessuno ne eguagliava la raffinatezza o la minuzia ricercata dei dettagli e lui era l'unico a poterne godere il fascino.
Splendido oltre ogni immaginazione, ma gravoso. L'oggetto, difatti, invece di tenerlo a galla, sortiva l'effetto opposto.
Il giovane si augurò che l'inchiostro non si fosse disperso o avesse provocato danni ingenti, così da risultare idoneo ad un'opera di restauro ventura.
Oltrepassato il confine praticabile esclusivamente a nuoto, l'itinerario sarebbe proseguito per vie percorribili da terra e qualora gli invasori fossero stati già in cammino, evitare le arterie principali che conducevano al villaggio sarebbe stato di cardinale rilevanza.
Una diramazione secondaria, una scorciatoia di qualsiasi genere avrebbero rasentato l'ideale, se solo Werner avesse conosciuto l'esistenza di almeno una di esse.
Annaspò verso la sponda con immenso sforzo, alcune lacrime gli rimasero intrappolate tra le ciglia. Il velo di ingenua fiducia che lo aveva incentivato a proseguire, cominciava a lacerarsi.
Fede e sapienza, scienza e medicina, nulla di ciò cui aveva consacrato il suo animo e che aveva appreso curvo nei banchi lignei del monastero lo avrebbe coadiuvato.
In quel preciso istante, mentre figurava di smarrirsi nel folto dei boschi, qualcosa di inavvedutamente possente lo afferrò per il cappuccio. Werner si ritrovò a oscillare sopra il pelo dell'acqua, attonito e prima che potesse formulare qualsiasi pensiero, fu scagliato al suolo con furiosa brutalità. L'impatto lo lasciò senza fiato.
Percepì la paura inondare ogni singolo capillare del suo corpo, il tempo cessare il suo fluire, la realtà esterna ammutolire al tuonare di quel vocione tetro:
" Fammi vedere cosa nascondi".



Il giovinetto si tirò a sedere e per la prima volta Volkheimer ne scorse le fattezze, affini a quelle di una creatura fiabesca: un'insolita chioma candida e vaporosa quanto le nubi del cielo, gli incorniciava il viso acerbo, ancora addolcito dallo spettro dell'infanzia. Le buffe orecchie a sventola concorrevano a conferirgli le sembianze di una perpetua innocenza da leggenda senza tempo.
Volkheimer non avrebbe mai ipotizzato di venire colto da un insopprimibile impeto di tenerezza verso un soggetto che, in altri frangenti, avrebbe freddato senza tante cerimonie, benché non avesse mai torto un singolo capello ad alcun marmocchio. Attribuiva sempre questo sgradevole fardello agli altri armigeri, se ce fosse stato il bisogno.
Avrebbe mentito a sé e a chiunque nel dire che operare violenza contro un bambino indifeso non lo scuotesse minimamente, anzi, faceva riaffiorare lo spirito di paternale premura che si sforzava di arginare nei relitti della propria entità.
Era sorprendente quanto due occhi puerili o il semplice pigolare esercitassero su di lui un effetto distensivo.
Qualora le supposizioni di Volkheimer fossero esatte, il piccolo monaco doveva avere superato le origini della fanciullezza da non poco. Allora come giustificare quello stimolo di benevolenza?
Strappare l'oggetto di mano al ragazzo era stato meno facile del previsto, poiché questi si opponeva con ostinata resistenza. Solo un pugno sul naso lo scosse così prepotentemente da fargli allentare la presa e da restituire a Volkheimer qualche brandello di autorevolezza.
Un rivolo di sangue scese a bagnargli la bocca.
-" É la parola del Signore" proferì in tono sommesso l'albino, ma con uno sguardo di adorabile alterigia puntato sul guerriero, intento ad analizzare scrupolosamente il prezioso manoscritto.
-" É solo robaccia" constatò Volkheimer dall'alto delle sue proporzioni ciclopiche, "Puoi tenertelo".
Dopo aver scagliato il tomo in questione addosso all'altro, si chinò a ripulirgli il liquido vermiglio dalle labbra col pollice, soffermandosi più del dovuto dove la carne era cedevole.
Di nuovo la corrente traditrice prese a tormentarlo, facendogli anelare, contro ogni logica, di scoccare uno stupido bacio a quell'ancor più stupido ragazzino.
Ritrasse la mano, atterrito dalla lascivia di quei sentimenti, a lui inediti fino ad allora.
Sentiva il proprio corpo reagire in modo ambiguo, insolito, quasi fastidioso e non sapeva come imporgli di placarsi.
Mandar giù il fatto che le corde del suo cuore vibrassero al semplice palpito di ciglia dell'arianino, era quanto di più irritante potesse accadergli. Non aveva di certo intrapreso quel tallonamento per farsi ammaliare così scioccamente!
Si passò una mano tra i folti capelli, saldo nel proposito di troncare quello spiacevole interludio.





L'aggressore erse lo spadone in cielo, una lama sorprendentemente massiccia, ma non abbastanza da reggere il confronto con gli arti superiori dell'uomo che la brandiva.
L'arma calò in un fascio di bagliori e Werner dovette ringraziare di essersi scansato appena in anticipo: un fendente gli squarciò verticalmente il tessuto della manica, arrivando con la punta a sfiorare la pelle del braccio che spiccava dai lembi consunti. L'escoriazione appariva come un sottile filo rosso ricamato su trama immacolata. A dispetto dell'innocua parvenza, bruciava maledettamente una volta a contatto con l'aria.
-" Fermati!" Ordinò col fiato strozzato in gola, schermandosi il viso con le braccia, non appena il barbaro si accinse ad attaccare di nuovo, "Mi ucciderai e poi cosa? A cosa gioverà la mia morte? Che profitto intendi ricavarne?".
Il nodo che aveva in gola non gli permise di continuare il monologo che avrebbe potuto essere l'ultimo della sua breve vita.
Fu testimone di innumerevoli decessi in infermeria, fra l'odore di erbe medicinali e il fruscio delle tuniche in feltro o nelle casupole fatiscenti del centro, dove donne sudice e malconce piangevano sulle salme di pargoli butterati dalle pestilenze.
Perché rivendicare a gran voce il diritto di vivere quando, meno di altri poveri innocenti, lo meritava?
Werner alzò il viso, teso a fronteggiare lo straniero. Bastò un istante e i loro sguardi si mescolarono: foglie auree che galleggiavano in acque limpide, l'azzurro dei fiordalisi spolverati di polline dorato, un tramonto che si discioglieva sul mare.
Un senso di profonda malinconia rimase sospeso per pochi istanti nelle iridi straniere, qualcosa che indusse Werner a contemplare l'idea di avere ancora una speranza.





Volkheimer indugiò in quello sdolcinato scambio di occhiate, frastornato per aver antecedentemente carpito un particolare del tutto inaspettato: i contorni dell'icona di un orso sfregiavano il delicato polso del ragazzetto.
Peculiare artificio per denotare l'eterno legame ad una precisa stirpe, volenti o nolenti di aderirne.
L'uomo mastodontico aveva impresso un marchio identico sul dorso, e con esso il mesto ricordo del ferro rovente che raschiava la carne viva.
-"Frank, inutile vigliacco che non sei altro, dicesti di voler diventare forte come il tuo genitore e lo dimostri scappando? O preferisci assimilare le doti materne?"
Come dimenticare il boato di risate che era esploso tra la folla a quelle parole e l'aggeggio bollente che gli sfrigolava sulla schiena, mentre suo padre lo schiacciava al suolo per immobilizzarlo?
Nessun bambino prima di allora era riuscito a soffocare le lacrime durante il rito, eccetto lui che, terminata la marchiatura, si era drizzato persino in piedi a scrollarsi la polvere di dosso, come se la tortura appena subita non fosse stata peggiore di una puntura d'ape, e aveva scrutato con smarrimento lo stuolo di curiosi che lo attorniava.
La gente era in visibilio, eppure il piccolo Frank avrebbe voluto urlare a squarciagola il dolore che lo affliggeva e l'umiliazione della costrizione così acutamente, da far volare tutti i pennuti via dalla selva.
Il padre rispondeva compunto dagli ossequi ricevuti e farneticava che il figlio fosse fuggito nel bosco per giocare a tutti una delle sue marachelle, non perché avesse timore di soffrire il fuoco sulla pelle.
In brevissimo tempo si erano sparse diverse voci nel villaggio sull'erede di Ugo Volkheimer. Si diceva fosse robusto come un toro e feroce quanto un lupo. Un vero demonio.
La sera stessa Frank aveva trovato conforto nelle carezze rassicuranti della madre, nell'aroma dolce che emanava e nelle dita sottili di lei che gli districavano la chioma bruna.
-"Il mio bambino, il mio grillo coraggioso! Loro non sanno quanto sia colmo di bontà il tuo cuore!"
Erano trascorsi quindici inverni da quell'infausto episodio, troppe cose erano mutate.
-"Qual è il tuo nome?" Volkheimer rinfoderò la spada in un tacito cenno di cessata ostilità.
Notando che il ragazzo era restio a conversare, lo sollecitò: "Pfennig, se la memoria non m'inganna".
-"Come hai fatto a-?"
-"Tuo padre. Ha disertato il nostro clan per porsi a servizio di una nobildonna cristiana, tutti non facevano che parlarne. Era un tipo eccentrico e il solo, assieme ai suoi due infanti, a possedere una capigliatura candida come la neve. Quello" disse indicando l'effige sul polso, "significa che ci appartieni".
Un sorriso affilato si allungò sul volto del gigante nello scorgere l'espressione di totale assenza del frate, che afferrò dal cappuccio della veste traendolo da terra.
-"Vieni con me o accetti il rischio di morire entro pochi giorni?" 
Poco importava della replica, Volkheimer avrebbe continuato a modellare il destino a suo piacimento.





-"Siete uno strano, prima mi braccate e poi mi concedete l'onore di scegliere come passarmela peggio".
Lo sconosciuto scoppiò in una risata talmente fragorosa e improvvisa che lo fece sobbalzare. Quel suono gli ricordava il brontolio d'un tuono che annunciava la tempesta.
Werner temeva di essere stato beffato, che più l'interminabile agonia di attimi dilettava il sadico sbruffone, più quella si protraeva ancora e ancora.
Era davvero intenzionato a donargli la libertà? Risposta alquanto ovvia ad un ingenuo quesito: no, mai.
Se avesse deciso di seguirlo, avrebbe avuto salva la vita, a patto di drammatiche controindicazioni.
Spogliarsi della veste sacerdotale, idolatrare divinità fittizie, perdere la propria identità, erano realtà tanto più funeste della morte.
Rimembrò del padre, la sua reticenza nel confidare il passato, la mestizia che lo affliggeva quando squadrava il suo polso e quello della sorellina, l'incredibile audacia di fuggire da un clan sanguinario per scongiurare ai figli il fato che era toccato a lui.
-"Non verrò con te", proclamò, arretrando cautamente.
-"Hai del fegato, fogliolina" Di nuovo quel timbro baritonale, che sembrava provenire dai fondali marini. Gli dava i brividi.
Le foglie scricchiolavano sotto il peso degli enormi stivali, mentre l'energumeno gli si avvicinava, sguainando la spada.
La sequenza successiva di azioni fu talmente fulminea che Werner non arrivò a coglierla per intero: un guizzo di muscoli, un dolore pulsante alla tempia e le immagini che andavano sbiadendo sino al trionfo delle tenebre.
Due notti dopo, Werner riemerse dal torpore, sotto il chiarore di un plenilunio maestoso.
 
 
  
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