Serie TV > Battlestar Galactica
Segui la storia  |       
Autore: r_clarisse    10/09/2016    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 10 – Stranezze

10.1 –“Creature e Peccati”
Questa mattina ho avuto un dibattito piuttosto interessante con due cyloni mentre insieme ci recavamo al campo più vicino all’accampamento, nel quale una decina di uomini aspettavano che venissero consegnati loro i due sacchi di semi il cui contenuto sarebbe stato sparso nella terreno minuziosamente preparato; noi stavamo portando uno di quei sacchi – in realtà lo stavo portando io.
E’ incredibile pensare che noi, i pochi esseri umani rimasti, ora viviamo insieme ad una manciata di queste creature, nate dall’ingegno dei nostri bisnonni; ho pensato a lungo se fosse più appropriato chiamarli creature o creazioni, e non nego che fino a non molti mesi fa non avrei esitato nel considerarli degli oggetti senza vita, dei fottuti robot tostapane, come in molti li hanno denominati, ma da quando ci siamo avvicinati a loro ed abbiamo colonizzato la Terra, qualcosa in me è cambiato. Qualcosa è cambiato in tutti noi del resto, dato che ci stiamo gradualmente rendendo conto che forse i Cyloni sono davvero degli esseri viventi, in un qualche modo che nemmeno io riesco a comprendere; forse realmente c’è qualcosa dentro i loro cuori, nonostante i tessuti che compongono i loro corpi, le loro pelli, le loro ossa, i loro capelli, siano sintetici, creati in avanzati  laboratori genetici che le loro stesse controparti meccaniche avevano ideato, con l’aiuto di potenti alleati.
Io reggevo il sacco di tela pieno di semi di mais consegnatomi da un ufficiale ancora in servizio, il quale mi aveva liquidato con una fredda scortesia che mi aveva fatto gelare il sangue; capisco che i civili non siano quasi mai ben visti dai militari, ma santo cielo, un pochino di cortesia non guasta.
Capelli castani lisci e lunghi, pelle leggermente olivastra ed occhi a mandorla contornati da sottili cuscinetti di grasso: il modello numero 8 –la cui linea era identificata con il nome di Sharon Valeri- stava alla mia destra, trasportando un rastrello ed un piccone che avrebbe consegnato agli uomini addetti alla semina del campo; in passato, nessuno si sarebbe voluto trovare a fianco di un cylone che portasse in mano oggetti contundenti –nessuno si sarebbe semplicemente voluto trovare accanto ad un cylone e basta-, ma ormai non c’era motivo di temerli.
Mentre camminavamo, il silenzio della savana dominava la scena attorno a noi, interrotto solamente dal fruscio del vento che ogni tanto ci accarezzava la pelle, rendendo più piacevole il calore. Ma io volevo rompere quel silenzio.
Io volevo parlarci con quei due Cyloni che avevo vicino, perché mi sembrava sensato: ormai le ostilità erano cessate da mesi, quasi un anno, e dato che condividevamo lo stesso pianeta senza possibilità di andarcene –e perché avremmo dovuto andarcene? Avevamo cercato la Terra per quattro anni- era forse il caso di conoscerci meglio.
Inoltre, sapevo di serbare ancora un briciolo di rancore nei loro confronti, come tutti noi in realtà: avevano comunque distrutto le Colonie e sterminato la nostra razza, perciò una piccola discussione avrebbero potuto sopportarla.
“Io … beh insomma, chissà quanti vi hanno già…” Ho indugiato guardando in basso mentre reggevo il mio sacco di semi, che pesava non poco.
“Cosa?” Ha chiesto Sharon accennando l’idea di un sorriso.
“Beh… molti vi avranno già fatto le stesse domande, credo.. perciò vorr..frak!!!” Ho incespicato in un arbusto sotto il mio piede; l’erba era piuttosto alta. Sharon ha preso il mio avanbraccio sinistro impedendomi di cadere, mentre la bionda –anzi la biondissima- donna alla mia sinistra, un cylone numero 6, ha afferrato il sacco di semi di mais prima che cadesse e si aprisse, con un’agilità ed una forza che un essere umano non poteva certamente vantare.
“Dei, sono un imbranato!” Ho riso nervosamente mentre la bionda mi restituiva il sacco.
“In realtà” Ha detto Sharon con tono compiaciuto “C’è solamente un Dio.”
Si riferiva naturalmente alla mia espressione “Dei”,  espressione che per altro era sempre stata sulla bocca di tutti.
Al che rimasi in silenzio per un secondo, per poi realizzare il perché della sua affermazione: i Cyloni erano molto religiosi, e credevano fermamente nell’esistenza di unico vero Dio onniscente, nel nome del quale avevano ratificato il genocidio della razza umana.
La motivazione del loro credo era probabilmente dovuta al legame che i Soldati dell’Unico –i terroristi monoteisti di cui sono certo di aver già parlato- avevano avuto con gli inventori di quelle macchine, alle quali avevano in qualche modo trasmesso la propria fede.
“Dio è amore, David, è amore infinito.” Disse la donna biondissima alla mia sinistra, il cylone che per molto tempo avevo visto in sogno, anni prima.
“Si… immagino che sia così, anche se non so… non so…” Risposi.
“Che cosa?” Sussurò Sharon, sempre sorridendo.
“Non so in che cosa credo in realtà.” Il sacco cominciava davvero a pesare adesso.
“Per questo avevo bisogno di farvi questa domanda…” Ricominciai a guardare in basso verso l’erba alta mentre la nostra destinazione si avvicinava sempre più.
Le due donne mi guardavano interessate.
“Perché. Perché lo avete fatto?” Non risposero.
“Perché avete sterminato il mio popolo?” I mezzi sorrisi sulle loro labbra erano spariti ed ora anche loro fissavano in silenzio l’erba alta che circondava i nostri jeans.
“Io… so che i nostri popoli sono in pace e che alcuni di voi ci hanno aiutato alla fine … ma ho bisogno di sentirvelo dire.” Il vento ci scompigliava i capelli.
“Perché l’avete fatto?” Ora la tristezza nella mia voce era palpabile.
Dopo le mie ripetute provocazioni, Sharon ha tentato di assecondarmi con un filo di incertezza nella voce e sul suo viso.
“E’ davvero difficile risponderti, David. Noi… ti prego non fraintendermi. Noi lo abbiamo fatto per amore” Io me ne stavo zitto; avevamo perdonato i pochi Cyloni che avevano deciso di convivere con noi sulla Terra, e molti di noi erano addirittura riusciti a dimenticare quanto orrore ci avessero inflitto, sia negli ultimi quattro anni, sia durante la Prima grande Guerra, avvenuta cinquant’anni prima… eppure, ammetto che in quell’istante potevo sentire un briciolo di risentimento crescere in me.
Amore. Come osava quel robot organico parlare di amore? Si, ammetto che potesse provare un qualche genere di sentimento per i suoi simili, ma come si azzardava a giustificare un genocidio con l’amore? Tuttavia ho immaginato che volesse continuare a parlare, perciò ho taciuto.
“Non fraintenderla, David” E’ intervenuta la bionda “Noi adesso ci rendiamo conto di quanto sia stato sbagliato…” Una leggerissima nota di rammarico albergava nella sua voce, mentre io stringevo più forte il mio sacco di semi e la guardavo distrattamente.
“E’ che” Ha proseguito Sharon “Noi eravamo convinti che Dio volesse questo… noi pensavamo che Lui volesse punire i vostri peccati.”
“Ma come … cosa vorrebbe dire?” Cominciavo davvero a perdere il controllo, non ricordandomi che anche se quelle due macchine femminili non avessero intenzione di farlo, avrebbero potuto farmi a pezzi, staccare la mia testa dal collo e lanciarla a cento metri di distanza senza il minimo sforzo, se solo l’avessero voluto.
“Sharon, non…” La bionda ha aggrottato le sopracciglia preoccupata “Non credo sia il caso…”
“Scusa David, io non voglio giustificare me e i miei fratelli.” In quell’istante, la bionda alla mia sinistra ha poggiato la mano sulla mia spalla, come aveva fatto molte volte nei miei sogni, e mi ha guardato con uno sguardo pieno di pietà e sofferenza.
“David” Ha detto “Noi eravamo come bambini. Eravamo convinti che Dio avesse scelto noi.”
“Scelto per cosa?” Ho chiesto con aria stranita –e leggermente alterata.
“Pensavamo… credevamo di essere lo strumento di Dio per cambiare le cose… per purificare il mondo dai vostri errori; pensavamo che voi foste una creazione imperfetta, e che un giorno noi ci saremmo sostituiti a voi.”
Ero allibito; scioccato; dovevo immaginare che parlando con due Cyloni avrei sentito delle cose strane, ma non mi ero preparato psicologicamente a sufficienza prima di farlo.
“David…noi ci sbagliavamo, ovviamente.” Continuava la bionda sperando di non aver detto qualcosa che non fosse troppo forte da mandar giù per me.
“Noi odiavamo i vostri difetti e pensavamo di poter parlare a nome di Dio, e non ci siamo resi conto che in realtà sentivamo solo quello che volevamo sentire, e pensavamo dicesse quello che noi volevamo dicesse… esattamente come voi. Ci rendiamo conto adesso di non essere assolutamente meglio o più di voi, ci rendiamo conto di essere più umani di quanto credessimo, con i vostri stessi difetti. Ipocriti ed egoisti. Quello che abbiamo fatto è e resterà sempre atroce… ma guarda a cosa ci ha portato. Ora siamo qui, tutti insieme, riuniti dopo una vita di odio reciproco… insieme, abbiamo annullato il ciclo della violenza!”
Il suo sorriso era visivamente addolorato, le sue sopracciglia alzate e nei suoi occhi c’erano tristezza e speranza: lei sperava con tutto il cuore di riuscire a convincermi delle sue parole; sperava con tutta se stessa che potessi comprendere la grandezza di quello che stava dicendo.
Detto questo, ha lentamente ritratto le sue mani dalle mie spalle e serrato le labbra in un dubbioso silenzio, incerta del peso che le sue parole e quelle di Sharon avrebbero avuto sulla mia povera e fragile mente umana.
Sono rimasto in silenzio per qualche istante anche io, pensando al fatto che quei due cyloni, forse, in qualche strano modo, potessero anche avere ragione; o quanto meno, le loro parole potevano avere un senso.
Durante gli ultimi mesi della guerra, prima di trovare la Terra, la manciata di loro che ora vive con noi si era ribellata al proprio “popolo”, dimostrandoci lealtà e capacità di sacrificarsi per il bene comune.
Quindi, forse le parole di queste due donne sintetiche meritavano un briciolo di fiducia.
Questo di certo non avrebbe cancellato i loro peccati: non avrebbe riportato in vita trenta miliardi di morti; non ci avrebbe ridato le Colonie, ne le nostre famiglie perdute. Non mi avrebbe restituito Jennifer… ma forse, avrebbe potuto aiutarci ad andare avanti e costruire un nuovo futuro. Insieme.
Siamo arrivati al campo in silenzio, guardando in basso per evitare i nostri sguardi per il leggero imbarazzo creatoci dal dibattito che avevamo appena terminato.
“Forse sono diventato pazzo.” Ho detto io attirando la loro attenzione.
“Spero che il futuro di cui parliate sia davvero possibile.”  Mi sono scostato con una mano il ciuffo di capelli castani dagli occhi.
“Lo spero anche io, David, credimi.” Ha risposto la bionda, sorridendomi.
Ho sorriso anche io.

 
10.2 –“Bambine intelligenti e Viaggi stellari”
Me ne stavo seduto su un vecchio lenzuolo che non avevo paura di sporcare; leggevo un libro che mi aveva regalato Steven un mese prima: “Il sole di Jodie”, scritto da un certo Alexander Shavannon, un modesto scrittore nato su Leonis, lo stesso mondo di Steve, ed emigrato su Caprica, dove aveva poi trovato la fama come giovane autore influente sotto le luci della capitale delle Colonie.
Era la storia di Elly Jodie Candles, per gli amici Jodie, una ragazzina che viveva sul mondo di Scorpia, nel sistema di Helios Gamma: il libro raccontava gli anni delle scuole elementari di quella giovane cresciuta senza i genitori, sbatacchiata da un orfanotrofio all’altro, per poi essere seguita da un assistente sociale molto poco affettuosa e materna.
Steve me lo aveva regalato proprio per quel motivo: sebbene fossi cresciuto amato e curato, in una casa che considerassi mia e con una donna che aveva fatto per me tutto quello che avrebbe fatto una madre naturale, in fondo al mio cuore conoscevo anche io la pena di non aver mai incontrato i miei veri genitori, o almeno il dispiacere di non averne memoria, dato che erano morti prima che fossi pienamente cosciente della loro e della mia esistenza.
Il libro offriva una dettagliata descrizione dei paesaggi di Scorpia, il pianeta che ospitava il cantiere navale della Flotta Coloniale, situato nell’orbita dello stesso e presso il quale attraccavano una moltitudine di astronavi coloniali, civili ma soprattutto militari.
Non potevo ancora saperlo, ma da lì a poco più di un mese, quando i Cyloni avrebbero attaccato, sarebbe stato quello il luogo in cui si sarebbe trovata la Battlestar Pegasus, la quale insieme alla Battlestar Galactica, avrebbe contribuito a scrivere un pezzetto di storia nel capitolo della fine delle Dodici Colonie.
Come sono sicuro di aver già detto, Scorpia era un mondo paludoso, noto per le sue fitte giungle e le sue alte temperature nella fascia equatoriale; il pianeta era spesso dilaniato da forti uragani e tempeste cicloniche, esattamente come il suo vicino, il pianeta di Libran, situato nello stesso sistema solare –insieme a Sagittarian e ad una serie di corpi celesti rocciosi e gassosi senza vita- il quale presentava più o meno le medesime caratteristiche climatiche, geologiche e demografiche.
Ricordo come nel secondo capitolo del libro, l’autore descrivesse la capitale di Scorpia, Celeste, vista dagli occhi della piccola Jodie, la quale nonostante fosse una giovane anima riuscisse a cogliere l’essenza della città più importante del suo pianeta: conoscevo già le caratteristiche di Celeste perché, come chiunque, avevo studiato a scuola la geografia fondamentale di ognuno dei dodici mondi delle Colonie; tuttavia mi piaceva incredibilmente il modo in cui Alexander aveva descritto quella città giocando con una serie di parole e metafore che, seppur altolocate, sembravano comunque plausibili per essere pronunciate da una bambina: “Celeste” diceva “era una città che sembrava portare il cielo in terra, con le sue strutture piramidali e i suoi grattacieli di vetro affusolati che si protraevano verso e attraverso le nuvole.” Come ben sapevo, la città era situata in un grande altipiano che prendeva forma nella conca di una valle, attorniata da alte montagne quasi sempre innevate –le montagne di Scorpia, nelle poche regioni fresche e soprattutto meno colpite dagli uragani, erano molto famose in tutte le Colonie per le loro molteplici installazioni per il parapendio, le quali attiravano migliaia di turisti ogni anno. Altro interessante dettaglio di Scorpia, era la presenza di un “mezzo anello” di rocce in orbita, quasi sicuramente dovuto alla distruzione del satellite della colonia avvenuta miliardi di anni prima: questi era noto come “mezzo” perché circondava l’orbita equatoriale del pianeta per poco meno di tre quarti, lasciando “scoperto” gran parte dell’emisfero occidentale.
C’era un gradevole silenzio attorno a me, interrotto dal cinguettio degli uccelli che svolazzavano tra le fronde verde scuro degli alberi ed ogni tanto dallo sbuffo in lontananza dei motori delle astronavi in cielo: mi trovavo in cima ad una delle colline dietro al nostro isolato, dalla quale potevo osservare le sagome tondeggianti di tutte le altre colline attorno a noi.
Era davvero un panorama meraviglioso: quelle dolci colline rivestite da manti erbosi bluastri erano qua e là punteggiate da campi fioriti di vario colore; giallo, rosa, arancione, rosso, per poi confondersi nel verde e nel blu generale della campagna, nella quale si distinguevano le piccole sagome dei tetti dei centri abitati e delle strade che si insinuavano a zig zag nell’ambiente.
Erano circa le 17:35 ed il sole illuminava con una modesta forza il cielo del mio angolo di Virgon in un tiepido pomeriggio di inizio primavera; indossavo un maglioncino leggero color panna, e i miei soliti jeans neri elasticizzati.
Il mio cappotto primaverile era appoggiato e spiegazzato sul telo su cui poggiavo io, con le gambe più o meno incrociate, ma non proprio del tutto.
Steven apparve dal vialetto a dieci metri da me, a destra, passando tra il lampione e la panchina in ghisa che stavano accanto al marciapiede.
Mi venne incontro sorridendo e con la giacca slacciata; iniziava già a fare caldo e quel suo giaccone pesante, oltre che ad essere fuori luogo, avrebbe fatto meglio ad essere appeso nell’armadio fino alla fine della stagione calda. Non immaginavo che quella sarebbe stata la nostra ultima primavera sulle Colonie.
“Sei felice per qualcosa?” Chiesi coprendomi la fronte per non accecarmi con il sole.
“Eh?” Rispose mentre si avvicinava.
“Stai ridendo! O io sono molto ridicolo oppure tu sei felice!” Ridacchiai un po’.
Si lasciò cadere fragorosamente con il fondo schiena sul telo e dopo essersi tolto la giacca, nera per altro, rispose:
“Si, sono molto felice… e lo sarai anche tu!”
“E per che cosa?” Sorrisi mentre chiudevo e riponevo il libro accanto a me, dando alla piccola Jodie l’arrivederci ad un momento più consono. Lo guardai.
“Ho vinto!” Esclamò alzando tanto le sopracciglia da far sembrare che gli saltassero via.
“…Davvero? Oh miei dei ma è fantastico!” E mi fiondai contro di lui per abbracciarlo –o meglio, su di lui- ridendo.
Farò un passo indietro per spiegare cosa avesse vinto e perché fossimo entrambi così contenti.
Circa un mese prima, alla fine dell’inverno, era stato indetto nella sua accademia un concorso canoro, al quale studenti di qualunque classe ed anno dell’istituto avrebbero potuto candidarsi liberamente e partecipare, cantando un brano famoso o inedito.
I giovani si sarebbero esibiti di fronte ad una giuria di quattro insegnanti di canto, provenienti dalla Streamline and Melodics art Academy, la cui sede centrale invece che a Boskirk si trovava nella città di Hadrian; il giovane candidato poteva scegliere se permettere o meno agli altri concorrenti e studenti dell’accademia –ed eventualmente a familiari e amici- di presenziare all’audizione. Mi fu permesso di assistere da dietro le quinte del palco sul quale Steve cantò, avendo la possibilità di vederlo esibirsi da molto vicino. Tentò con un brano di Kirsten Horler, famosa cantautrice pop di Libran, nota per le sonorità rockeggianti delle sue canzoni.
I premi che i giovani si sarebbero aggiudicati erano diversi a seconda della posizione in cui si sarebbero classificati: il primo posto riservava un contratto discografico con un’importante casa produttrice musicale nota in tutte le Colonie; il secondo in classifica avrebbe vinto la possibilità di cantare in tournè intercoloniale con il grande cantante rock William Devore per cinque mesi.
Infine, il terzo sul podio, avrebbe ottenuto un lascia passare per uno dei concerti o musical che si sarebbero tenuti da quel momento in poi: il particolare di questo premio, era che le spese di viaggio e di pernottamento in caso lo spettacolo che il giovane avrebbe selezionato si trovasse in un'altra città –o su un’altra colonia- erano totalmente coperte dal fondo economico dell’Accademia stessa; in pratica, lo studente avrebbe potuto andare dall’altra parte delle Colonie  senza spendere un centesimo.
“Ho vinto!!!” Esclamò nuovamente, mentre ero sopra di lui, sorridendogli ed accarezzandogli la guancia destra.
“Sono in terza posizione… non avrò un contratto discografico purtroppo…” Io continuavo ad accarezzarlo e sorridergli, aspettando che mi rivelasse cosa lo attendeva.
“Ho un lasciapassare per uno spettacolo a mia scelta.” Disse tornando velocemente con i piedi per terra, distogliendo lo sguardo dai miei occhi e puntandolo verso il cielo, che stava sopra di lui parallelamente al suo corpo steso per terra. Ebbi in quel momento una strana sensazione, come se nella sua voce avvertissi la paura di avermi in qualche modo deluso.
Ma come poteva pensarlo?
“So che non è il massimo che potevo ottenere, non sono arrivato al primo posto… fors…”
“Che cosa dici? Va benissimo così!” Lo interruppi con un bacio.
Amavo tantissimo le sue labbra e il modo in cui coincidevano perfettamente con le mie, quasi come se fossero fatte apposta per completarsi a vicenda.
“Io ho la possibilità di scegliere un concerto o un musical di qualunque artista o compagnia delle Colonie… e ovunque nelle Colonie.”
Forse non era molto logico lasciare un premio del genere all’ultimo posto: questo premio rendeva possibile ad un ragazzo che magari non avrebbe potuto permetterselo di fare un viaggetto niente male. Non era una cosa da poco.
“C’è dell’altro però” Disse, tornando a guardarmi negli occhi.
“Che cosa?” Chiesi.
Un raptor della polizia  sorvolò la collina in direzione della capitale, ad appena una trentina di metri dalle fronde degli alberi, assordandoci per una manciata di secondi.
“Posso portare una persona con me, una persona a mia scelta.”
Stetti un attimo in silenzio.
“E vorrei che fossi tu, ovviamente.” Terminò sorridendo.  Sorrisi anche io, poi mentre ancora stavo sopra di lui, alzai lo sguardo e vidi il raptor in lontananza atterrare sul tetto di uno dei grattacieli di Boskirk.
“Dove si va di bello, allora?” Lo guardai sorridendo.
Sorrise a sua volta.
“Su Caprica.”
Sbam.
“Cosa?! Su Caprica?!” Chiesi incredulo.
“Si… la mia intenzione era quella. Se sei d’accordo, ovviamente” Rispose.
Titubai solo per un paio di secondi.
“No ma... certo che sono d’accordo…frak se sono d’accordo!” Risi.
“Ma come mai fuori pianeta? Così lontano?”
Lui fece per mettersi seduto, io mi scostai da sopra di lui per fare la medesima cosa.
“Perché fra circa un mese ci sarà la prima di Glanstone Bourg Flowers, è un musical rock che attendo da due anni! La prima sarà proprio su Caprica, nella sala dell’Opera di Caprica City… non c’è spettacolo a cui tenga di più, ti giuro.” Rispose alla mia domanda così.
“Oh capisco!”
“E poi, questo sarebbe un’occasione unica, David. Quando ci ricapita … di poter vedere la capitale delle Dodici Colonie di Kobol!!!!” Disse ponendo una particolare enfasi scherzosa sulle ultime parole, facendomi ridere. Sebbene l’idea di un altro viaggio nello spazio mi provocasse una leggerissima perplessità, il fatto di poter mettere piede su Caprica era decisamente eccitante.
Aveva ragione, quando ci sarebbe ricapitata un’occasione simile?
Guardai il cielo, immaginando di attraversarlo nuovamente per una nuova breve avventura a due tutta da scoprire. Caprica era lassù, a due sistemi solari di distanza, in orbita attorno ad Helios Alpha, la stella più vicina alla nostra nelle Colonie.
“Allora, che ne dici?” Disse Steve avvicinandosi a me, sorridendo.
“Non vedo l’ora.” Risposi.

10.3 –“Tinte per capelli e Promesse”
Stavo seduto al tavolo della cucina indossando un paio di guanti di lattice mono uso; sul tavolo erano disposti uno specchietto, una piccola vaschetta di plastica azzurra, un pennello per capelli, una bustina di decolorante, una bottiglia cilindrica bianca contenente un attivatore al perossido, un tonalizzante, uno shampoo viola e un balsamo ristrutturante.
Strappai l’estremità della bustina e ne versai il contenuto nella bacinella, seguito dall’attivatore; miscelai il tutto con il pennello, trasformandolo in un composto di una consistenza cremosa che profumava di lavanda.
“Ci troviamo a Platersen Avenue,  Caprica City” disse Jordan Silver attraverso lo schermo televisivo in sala, inviato speciale di Cap News, durante il notiziario delle diciotto.
I miei capelli erano raccolti in varie sezioni con delle forcine: iniziai ad applicare il decolorante sulle mie radici scure, sulle quali lo avrei lasciato per una quarantina di minuti, prima di applicarlo solo per un’altra decina sulle lunghezze e sulle punte già chiare. Mi sono sempre tinto i capelli da solo, ed allora devo dire che ci avevo preso veramente la mano.
Fuori dalle mie finestre pioveva a dirotto, come accadeva spesso durante la primavera, su Virgon; in televisione invece, il cameramen inquadrava i grattacieli della città più grande di Caprica, il pianeta noto come la Capitale delle Colonie, cielo dalla luminosità leggermente giallognola, in cui splendeva un sole accecante.
I grattacieli di Caprica non erano molto diversi da quelli di Virgon, o Canceron, o Leonis o qualunque altro pianeta, eppure avevano un qualcosa di inconfondibile: nessuno avrebbe mai potuto confondere lo skyline di Caprica City con quello di una qualunque altra città delle colonie. E devo dire che la loro visione catturò di molto la mia attenzione: parallelepipedi di vetro, tetti stondati e torri che si perdevano tra le nuvole e scintillavano alla luce di Helios Alpha, la stella del sistema nel quale il pianeta orbitava assieme ad altri suoi tre fratelli, Gemenon, Picon e Tauron.
“Sono in compagnia di un funzionario statale, il sottosegretario all’istruzione delle Dodici Colonie, la signora Laura Roslin.” Proseguì Jordan, indicandola con la mano
Ed eccola, Laura Roslin.
La dolce Laura, che sorrideva in modo distinto e sommesso: la sua folta chioma di capelli castani con forti sfumature rosse risplendeva sotto i raggi del sole del tardo pomeriggio, e le piccole rughe dovute al tempo attraversavano in modo poco visibile il viso della bellissima donna di quarantacinque anni che era.
Come si poteva notare dall’inquadratura, Jordan e Laura stavano in piedi in una piccola piazzetta, pavimentata da grosse piastrelle quadrate rossicce intersecate da linee bianche, ed alle loro spalle si ergeva un piccolo edificio di appena due piani e mezzo, tinteggiato di rosso e con mattoni esposti: la sua entrata, attorniata a destra e sinistra da alberi ed arbusti ordinatamente riposti in vasi ed alloggiamenti nel marciapiede, era situata nel centro di una grande vetrata che ne occupava quasi tre quarti della facciata fontale; sopra la porta, era visibile il nome dell’istituto ospitato dall’edificio: Wilson Elementary School.  Al lato destro, l’edificio proseguiva per il lungo, circondando parte della piazzetta e vantando una moltitudine di piccole finestre e porte di vetro che emergevano anch’esse da una parete con mattoni esposti.
Era dunque una scuola elementare: una piccola, modesta e graziosa scuola elementare che avrà ospitato al massimo centocinquanta bambini, con il tetto obliquo e tanti arbusti di fronte all’atrio, alta probabilmente poco più di quindici metri, situata nelle zone centrali di una città i cui grattacieli superavano senza esagerare i seicento metri di altezza.
Osservavo attentamente lo schermo mentre continuavo a passare la tinta tra i capelli, sbirciando ogni tanto nello specchietto sul tavolo per controllare se lo stessi facendo bene. Con il decolorante non si scherza.
Laura, da qualche tempo membro del governo, aveva iniziato la sua carriera come insegnante elementare, esattamente come aspiravo di fare io.
Era riuscita poi ad entrare in politica partecipando alla campagna elettorale dell’allora presidente delle Dodici Colonie, Richard Adar. Non poteva nemmeno immaginare quanta strada avrebbe fatto da lì ad appena un mese: non poteva davvero sapere che lei, umile insegnante e da poco funzionario statale, sarebbe divenuta il simbolo della speranza e della sopravvivenza per i pochi sopravvissuti a quello che stava per precipitarci addosso.
“Signora Roslin, potrebbe spiegare ai nostri telespettatori per quale motivo siamo in questa piazza?” Disse il giornalista porgendole il microfono; ora lei era in primo piano.
“Certamente Jordan. Come potete vedere alle nostre spalle ci troviamo di fronte alla Wilson Elementary School: questa scuola ha una storia molto interessante, poiché è stata aperta quasi cento anni fa.” Il suo tailleur rosa le donava moltissimo.
I suoi occhi chiari esprimevano decisione e fermezza, ma anche dolcezza e speranza per un futuro migliore; in realtà celavano un pizzico di timore per il presentimento di qualcosa di pesante e gravoso che in qualche modo immaginava l’avrebbe presto riguardata. Se lo sentiva insomma.
“Questa scuola è… beh… è stata chiusa quasi quarant’anni fa, non appena dopo lo scoppio della guerra con i Cyloni. Come sapete, Caprica City è stata luogo di pesanti battaglie in quel periodo.” Jordan riprese per un momento il microfono per farle un’altra domanda.
“Ed ora che cosa succede, Laura? Oh, posso chiamarla Laura, vero?”
Lei accennò una composta risata.
“Ma certo! Dopo la fine della guerra, gran parte della città era stata distrutta e le operazioni di restauro si occuparono prevalentemente degli edifici più importanti… se metteste a confronto una cartolina di sessant’anni fa con lo skyline odierno della città notereste che mancano alcuni grattacieli che magari sono stati sostituiti da alcuni più moderni. Comunque, questo istituto non è più stato riaperto e la scuola è stata usata come magazzino per più di vent’anni. Oggi finalmente, siamo qui per inaugurare la riapertura della Wilson Elementary School e vorrei aggiungere, finalmente!” La Roslin applaudì, seguita dal pubblico che circondava lo staff del notiziario e dai passanti.
Questa scena mi strappò un sorriso, sia perché mi sentivo immedesimato in quella donna per via delle sue personali aspirazioni, sia perché avevo sempre nutrito una profonda simpatia per lei.
C’è da dire che ho provato simpatia per una cerchia davvero esile e circoscritta di politici, ma lei è sempre stata la mia preferita.
“Come si sente per questo evento, Laura?” Chiese nuovamente Jordan porgendole il microfono per l’ultima volta.
“Sono davvero eccitata! Sa, ero un’insegnante prima di fare politica e … sebbene questa sia una minuscola scuola come un’altra, provo un grande senso di gioia nel vedere quella porta vetrata aprirsi di nuovo. Come sottosegretario all’istruzione non potevo mancare.”
Le mie radici, come vedevo nello specchio, stavano già mutando colore, passando dal castano scuro ad una sorta di arancione giallognolo; ancora una ventina di minuti ed avrei potuto continuare con l’applicazione sulle punte.
Mentre il notiziario continuava e le mie orecchie udivano distrattamente le voci dei direttori, pensai che molto presto avrei avuto anche io la possibilità di visitare Caprica.
Avrei visto fisicamente quei poderosi grattacieli di vetro ed avrei messo piede sulle strade del pianeta più importante delle Colonie. La sede della cultura, della moda, della conoscenza, dell’economia, di tutto.
Continuavo però ad arrovellarmi nel senso di colpa, mentre la tinta mangiava progressivamente il colore naturale dei miei capelli: come avrei potuto andarmene bello tranquillo su Caprica se solo qualche mese prima avevo disdetto il viaggio su Canceron per salutare Jennifer? E’ vero, io e Steve questa volta non avremmo speso un centesimo, però sarebbe stata come una vacanza, mentre il mio dovere verso la mia madre adottiva non era mai stato adempito.
“Tornerò” Dissi a me stesso.
“In qualche modo tornerò da te, te lo prometto.” Osservai la nostra foto sulla cassettiera, in sala.
Mi avvicinai e la afferrai, sperando ingenuamente che potesse sentirmi, nonostante fosse solamente un’immagine stampata su un foglio di cellulosa.
“Lo prometto.”

10.3 –“Principesse scelerate e Pilastri di Vetro”
Dovetti recarmi a Boskirk appena un paio di giorni dopo per completare le procedure per acquisire ufficialmente la cittadinanza su Virgon, dopo mesi di rinnovamenti del visto e del permesso di soggiorno. Steven mi avrebbe aspettato direttamente nel centro urbano di Boskirk poiché si trovava già in città per ritirare i nostri biglietti per il viaggio verso Caprica.
Generalmente utilizzavo i mezzi pubblici per muovermi da Clairview verso la capitale o nelle zone limitrofe, ma quel giorno decisi di prendere la macchina ed essere padrone dei miei movimenti.
Superate le schiere di palazzine e villette familiari che abitavano la nostra piccola e graziosa cittadina, mi trovai sommerso dalla vegetazione e dagli alberi bluastri che contornavano la statale che si faceva strada in mezzo alle colline: l’abitacolo silenzioso della nostra berlina elettrica era incredibilmente rilassante, tanto che era più facile sentire il rumore delle altre automobili piuttosto che di quella su cui stavo. Rumore comunque flebile dato che anche la maggior parte delle automobili fossero elettriche o ibride.
La sagoma lucida e molto compatta dell’auto sfrecciava sulla strada bagnata dalla pioggia della sera precedente, sulla quale le piccole imperfezioni o buchi del manto stradale creavano delle pozzanghere di modeste dimensioni.
Guardai per un attimo il riflesso del mio viso nello specchietto centrale; non sono mai stato particolarmente vanitoso o ossessionato dall’aspetto del mio corpo, ma ho sempre amato tingermi i capelli, e la ricrescita scura che avevo fino a poco fa era sparita.
Mentre tenevo le mani salde sul volante –forse fin troppo salde, dato che ho sempre avuto una paura matta di andare fuori strada, e mi sono sempre ritenuto un imbranato alla guida- alla radio parlava Serena Charlton, una professoressa di psicologia presso il Kobol College di Gemenon, la quale presentava il suo nuovo libro sulla devianza giovanile, “La Luce Distorta”.
La donna fece riferimento alle sue origini: era nata a Themis, su Libran, ma si era trasferita sull’arido e povero Gemenon per frequentare la celebre università nella quale adesso insegnava; qui, la Charlton ebbe il modo di conoscere situazioni di disagio dovute alla precarietà economica ed al decadimento sociale, fattori che la motivarono a specializzarsi in psicologia del disagio, e a scrivere una serie di volumi, tra cui quello che presentava in radio.
Senza alcun nesso di causa, il fatto che Serena avesse nominato Libran, mi fece pensare a quel pianeta che in genere, nell’immaginario collettivo, non sapeva di niente.
Libran era sempre stato noto per essere il mondo che, durante la lunga storia delle Dodici Colonie, avesse partecipato a meno guerre. I suoi abitanti, i membri della tribù della Libra che l’avevano colonizzato, infastiditi dalla scelta dei nostri progenitori di partire da Kobol, scelsero un pianeta apparentemente isolato ed intrattennero sempre poche relazioni con le altre colonie.
Evitarono di partecipare a molte guerre coloniali guadagnandosi la giusta reputazione di gente molto pragmatica ed equilibrata. Il suo “non sapere di niente” era dovuto al fatto che il pianeta  avesse molte risorse naturali ma non tante quante altre colonie, così come la sua gente avesse diverse qualità, ma non molte come altri popoli.
La grande ricchezza della colonia nacque nel momento in cui i governi delle altre undici si resero conto che i loro capitali e le loro finanze sarebbero stati molto più al sicuro su Libran, facendole guadagnare la reputazione che la colonia avrebbe avuto fino alla sua distruzione.
Il sistema bancario libriano crebbe in maniera e alla lunga Libran divenne una delle colonie più benestanti dei quattro sistemi, portando il suo governo ad investire una moltitudine di cubiti nella gestione della terra.
Furono costruiti complessi turistici, hotel, casino e lussuose navi da crociera. Queste attrazioni resero Libran un’importante meta turistica, nonostante il suo inospitale ambiente e le sue impietose condizioni climatiche: giungle impenetrabili, foreste pluviali, forti tempeste ed uragani sulla terra ferma.
Altro motivo di stupore era che Libran fosse la sede del Tribunale Intercoloniale che si occupava delle più importanti cause dei dodici pianeti; nel lontano passato, in molti erano rimasti meravigliata dalla scelta del governo di installare un’istituzione giuridica di tale importanza su un mondo dall’ecosistema tanto feroce, ma questa è un’altra storia.
Mi persi senza motivo in questo vortice di pensieri astratti, quando mi accorsi di essermi leggermente distratto dalla guida.
Come credo di aver già detto in passato, mi capita spesso di dissociarmi dalla realtà lasciandomi trasportare dall’armonia dei viaggi mentali che la mia testa bionda crea.
Una volta arrivato al termine della contea  imboccai la superstrada che mi avrebbe portato in meno di venti minuti dritto verso il centro.
A tre corsie per senso di marcia, la superstrada era prevalentemente dritta con giusto un paio di curve molto dolci; si trovava ad un livello sopraelevato rispetto al terreno erboso, circa a venti metri d’altezza: ai lati erano presenti dei pannelli di plexiglass trasparente per ridurre al massimo l’impatto ambientale che il rumore – seppur di per se contenuto- delle automobili elettriche avrebbe avuto nella campagna. Su quei pannelli, venivano pubblicate digitalmente spot pubblicitari e video senza audio, che ovviamente non avrebbe avuto senso di esserci.
La strada arrivava proprio tra i primi grattacieli dei distretti centrali della capitale, snodandosi in una serie di corsie di decelerazione che portavano al livello della superficie; imboccai la terza per il centro e scesi nel quartiere accanto all’ Aphrodite Park, lasciando l’automobile nel parcheggio di fronte agli alberi. Percorrendo il parco per raggiungere la mia meta, potevo vedere le alte montagne ergersi in lontananza, ancora ricoperte di neve e circondate da maestose nubi grigie e bianche. Le famose montagne di Virgon, la patria della birra e dell’alpinismo.
La primavera era ormai inoltrata, eppure quelli erano giorni piuttosto freschini, dovuti alle frequenti piogge che avevano interessato la nostra regione. Mentre percorrevo la Wimberley Avenue, una delle vie centrali della città sulla quale gettavano le fondamenta i grattacieli più alti della metropoli, la mia attenzione fu catturata dalla parete di un negozio sulla quale era proiettato un notiziario televisivo –credo di aver descritto un’infinità di notiziari finora- nel quale si parlava dello scandalo rosa che aveva appena visto protagonista la sedicente principessa Victoire, la figlia più anziana della casa reale di Rioga di Virgon: la giornalista parlava –mentre alle sue spalle era visibile la fotografia di Victoire- dell’ennesimo intruglio amoroso nel quale la giovane reale si era trovata incastrata.
Victoire era una manna per i tabloid e le riviste scandalistiche delle Dodici Colonie, i quali non dovevano far altro che attendere che la delfina si spostasse da uno scandalo all’altro facendo irrimediabilmente parlare di lei.
Una nota non molto positiva per la casata reale di un mondo conservatore come Virgon.
Non potevo saperlo in quel momento, ma da lì a pochissimo tempo, la giovane Victoire sarebbe stata una dei pochi superstiti della sua famiglia all’olocausto nucleare che i Cyloni si stavano preparando a scatenare, seguita unicamente dal fratello Ioan.
La giornalista proseguì parlando delle cerimonie di disarmo delle ultime astronavi da guerra rimaste in servizio da dopo la guerra: la Battlestar Atlantia e la Battlestar Galactica; le cerimonie si sarebbero svolte nelle settimane seguenti, e le basi stellari congedate avrebbero lasciato il posto a vascelli più moderni come la Yashuman, sulla quale serviva il padre di Steven.
I grattacieli sopra di me si protendevano nel cielo come immensi pinnacoli di vetro progettati per superare la magnificenza della creazione degli Dei, simboleggianti il progresso e la capacità dell’essere umano di dominare sul reame che gli era stato donato.
Le navi che sfrecciavano nel cielo erano decisamente più rumorose delle numerose automobili che circolavano sulle strade, le quali, alimentate per la maggior parte da motori elettrici, tendevano a passare inosservate. Guardavo attorno a me le persone che abitavano il mio pianeta, sorridendo tra me e me per la fortuna della quale mi sentivo investito: i Virgani erano gente in gamba, ed erano ovunque nelle Colonie; molti attori, cantanti, sceneggiatori, soldati, architetti, erano tutti provenienti da questo pianeta ricco di idee.
Ancora una piccola serie di pratiche, e io e Steve avremmo ottenuto la cittadinanza: saremmo divenuti legalmente Virgani.



10.4 –“Guerre Civili e Strane Consegne”
Tornati a casa dopo le nostre commissioni, io e Steve ci concedemmo un po’ di riposo di fronte alla televisione dopo una cena a base di sformato di patate, ricetta che avevo imparato da Jennifer.
Ce ne stavamo sul divano abbracciati: la mia testa sul suo torace, la sua mano sulla mia spalla.
Semplici momenti che amavo, ed amo tuttora.
Lui non parlava, se ne stava in silenzio con un’espressione leggermente turbata, espressione che temevo fosse causata da un qualche cosa di grave; in realtà, non era niente del genere, era semplicemente preoccupato da una proposta che avrebbe voluto farmi ma alla quale non sapeva cosa avrei risposto…
La televisione trasmetteva immagini moleste: stavamo vedendo un documentario storico che parlava della tremenda guerra civile che ci fu su Tauron circa cento anni fa; il conflitto era iniziato per via del pugno di ferro che il governo del pianeta esercitava si nativi, i quali, una volta assunto il nome “Ha’la’tha” si rivoltarono per ottenere condizioni di vita migliori.
Il governo rispose alla ribellione con la controffensiva messa in campo dalle truppe degli Eraclidi, una forza militare molto potente che schiacciò letteralmente i rivoltosi in una serie di sanguinose repressioni. I membri dell’Ha’la’tha abbandonarono Tauron per sfuggire all’estinzione, e volarono ovunque nei dodici mondi; negli anni, il loro potere sarebbe cresciuto, e l’Ha’la’tha sarebbe divenuta una delle più forti e pericolose forze mafiose nelle Colonie. O almeno fino alla prima guerra Cylone; il loro potere svanì negli anni successivi.
Mentre ascoltavo il respiro di Steve direttamente dal suo petto, ripensavo alle strane immagini, sogni, visioni o allucinazioni che avevo –o che credevo di avere- da diverso tempo.
Perché continuavo a vedere ovunque quella donna bionda? Chi era? E’ possibile che un sogno sia tanto ricorrente? Sempre se era solo un sogno! Era un sogno?
E quell’uomo che spesso la accompagnava? Li avevo visti entrambi insieme, diverse volte.
E che dire delle sensazioni strane e sinistre che mi scuotevano dal profondo? Quei presentimenti, quelle intuizioni? Forse ero tanto stressato da avere delle allucinazioni? O forse ero un pazzo psicotico?
Cominciavo a temere che Steven si fosse accorto di quella stranezza che ormai pervadeva parte del mio essere, ed ancor di più temevo che quella condizione avrebbe potuto dettare una serie di cambiamenti nel nostro rapporto. Se la cosa ci avesse allontanati? Non me lo sarei mai perdonato.
Presi coraggio e parlai, senza smettere di osservare la tv: avevamo cambiato canale, ed ora c’era un film d’epoca in cui un robot gigante distruggeva Oranu, capitale di Gemenon.
“Steve.”
“Dimmi.”
“Io… tu mi ami, vero?” Chiesi. Lui mi guardò con aria interrogativa aggrottando leggermente le sopracciglia.
“Ehm… aspetta che ci penso un attimo…” Disse fingendo una voce seria.
“Ti prego, non sto scherzando.” Voltai la testa verso di lui, appoggiandola sulla sua vita e guardandolo dritto negli occhi. Lui assunse un’espressione dubbiosa e mi rispose, non capendo il mio strano tono.
“Certo che ti amo.”
“Incondizionatamente?” Chiesi di nuovo, cominciando a preoccuparlo.
“Incondizionatamente.” Accarezzò i miei capelli biondi, tinti da pochi giorni.
Mi sollevai e lo abbracciai, per poi sospirare e sussurrargli:
“Non ti importerebbe se io fossi pazzo?” Accarezzai anche io i suoi capelli corti castani scuri.
Lui rise e buttò indietro la testa come un piccolo bambino, appoggiandola allo schienale del divano, per poi rispondermi che non ero pazzo.
“Ma se lo fossi?” Insistetti.
“Hey… senti, c’è qualcosa che non va che non mi hai detto?” Mi guardò negli occhi poggiando una mano sulla mia testa. Pensai se fosse il caso di dirgli tutto quello che pensavo, che avevo vissuto nella mia mente negli ultimi tempi. Mi feci forza.
“Credo di avere un problema.”
“Di che tipo?” Chiese piegando leggermente il capo.
“Non so… è che… è che io vedo delle cose. Vedo delle cose strane, quando sono fuori, quando dormo.” Steven mi ascoltava, osservandomi con un’espressione facciale leggermente incuriosita.
“C’è questa donna… questa bellissima donna… ricordi quella notte, quasi un anno e mezzo fa, quando venisti a dormire da me?”
“Si… credo di si… cosa, cosa c’entra la donna? Quale donna?”
“La sognai quella notte! Per la prima volta, quella notte…” Mi ammutolì.
“Eh?” Chiese lui con aria sempre più sbigottita.
“E allora è più di un anno che la sogno. Mi è sembrato di vederla in giro, qui da noi, per strada. Come se fosse reale… e poi quei sogni, quelle immagini terribili che sogno… io non…” Coprì i miei occhi con le mani, mettendomi a sedere staccandomi da lui. Steve mi si avvicinò nuovamente abbracciandomi.
“Sei solo stressato, hai capito?” Sussurrò nel mio orecchio sinistro.
“Hai abbandondato casa, tua madre, il tuo pianeta, tutto quello che conoscevi per buttarti in tutto questo… credo che sia normale che tu ti senta così…” La sua voce era calma e rassicurante, e lui sorrideva teneramente. Eppure ciò non mi bastava: io gli stavo dicendo di avere delle continue immagini nella mia testa, immagini ben precise che probabilmente potevano voler dire qualcosa; non si sogna la stessa donna per mesi in condizioni normali.
Non si sentono certe voci nella propria testa solo perché si è tristi o stressati.

Steven si era già addormentato, comodo e tranquillo nel suo lato del letto: se ne stava a pancia in su, con le braccia sul cuscino e la coperta che lo copriva fino al petto, dove indossava la sua cannottiera blu.
Io ero ancora sveglio, e nonostante avvertissi il lento sopraggiungere del sonno, continuavo a guardare inerme il soffitto della nostra stanza inondata di oscurità, la cui pesantezza era alleviata unicamente dalla flebile luce del bagno che arrivava dal corridoio; si, abbiamo sempre dormito con una piccola luce accesa, come i bambini. Non è che io abbia paura del buio pesto, non avrei problemi ad addormentarmici, ma il problema sopraggiunge se mi sveglio nel cuore della notte: se nel momento in cui apro gli occhi mi ritrovo nell’oscurità totale vado in panico, mi sento soffocare e comincio a dimenarmi; per questo motivo una piccola luce accesa non è male, almeno per me.
La pioggia ticchettava contro i vetri, coperti dalle lunghe tende.
Le palpebre iniziavano a divenire pesanti, ed ogni volta che le chiudevo ci mettevo di più per riaprirle; mi lasciai convincere dalla stanchezza, e così mi addormentai.
Dicono che non si cominci a sognare fino alle fasi immediatamente precedenti al risveglio, e che in realtà tutti i sogni che facciamo siano concentrati nella frazione di secondo che si scandisce prima del riaprire gli occhi.
Eppure ebbi la sensazione che non appena dopo averli chiusi, delle immagini già si stessero delineando di fronte a me.
Ciò che sognai quella notte fu davvero particolare e strano; ne avrei successivamente scoperto solo parte del significato, per comprenderlo poi del tutto anni dopo.
Spazio, stelle, oscurità.
Di fronte a me, due pianeti vicini l’uno all’altro sembravano avvicinarsi a me: uno leggermente più piccolo e rossiccio, l’altro colorato di un blu intenso e un florido verde.
“Caprica e Gemenon!” Esclamai, incurante di trovarmi in un sogno.
Caprica era sempre più vicino a me, come se vi stessi precipitando sulla superficie; non riuscivo a capire che senso avesse un sogno simile.
Mi ritrovai di fronte ad una casa, una villetta familiare: le pareti in legno erano verniciate di verde, le finestre senza imposte erano contornate di bianco, ed attorno alla casa un delizioso giardino pieno di bambini che correvano e giocavano.
Notai che seduta sui gradini di fronte alla porta d’ingresso, se ne stava seduta una donna con dei lunghi capelli mossi e neri: mi guardava attentamente, mentre reggeva la testa con la mano sinistra, il cui gomito era appoggiato sulle sue ginocchia; notai un anello rotondo argentato sul dito anulare della mano sinistra, sul quale era inciso un qualche genere di disegno che da quella distanza non riuscivo a mettere a fuoco.
Me ne stavo in piedi fuori dal recinto a guardarla, quando sentì una mano poggiarsi sulla mia spalla destra: mi voltai e vidi quel viso ormai a me tanto familiare; la solita donna con quei capelli biondissimi, quasi bianchi, la stessa che mi era parso di vedere per strada, in sogno, ovunque. Mi sorrise e si avvicinò a me, indicando la donna che se ne stava seduta sulle scale di fronte a noi.
“Lo sai chi è lei, David?” Mi sussurrò con la sua calda, sensuale e tranquillizzante voce.
“No.” Risposi “Chi è quella donna?” Chiesi.
“E’ la nostra maestra, David. E’ colei che ha guidato i figli dell’umanità verso una più profonda consapevolezza.”
Non riuscivo a capire, così, scuotendo la testa con un’espressione di disappunto e voltandomi verso di lei, chiesi nuovamente:
“Che genere di consapevolezza? Consapevolezza di cosa?”
“La consapevolezza dei piani di Dio. Lei ci ha resi più forti e ci ha istruiti. Ci ha aperto gli occhi mostrandoci la nostra strada.” Sorrideva mentre parlava, guardando la donna che dagli scalini della sua casa ci osservava con un’espressione a metà tra la sfida e l’analisi.
“Lei ci ha liberato dalla nostra schiavitù, ci ha aiutati a compiere il nostro destino.”
Qualcosa di immensamente sinistro aleggiava attorno alle parole di quella donna; non sapevo cosa tutto questo potesse voler dire, e nonostante mi trovassi nel mio stesso sogno, decisi di indagare.
“Ma chi sei tu? Perché continuo a sognarti? Perché ti vedo ovunque?” Le domandai con sguardo diretto. Ero estenuato da questa situazione.
Lei mi guardò e mi sorrise, nuovamente. Mi accarezzò i capelli.
“Io sono una figlia di Dio, come te.” Mi disse; continuai a guardarla per farle capire che non mi bastava.
Io sono un Cylone, e sono qui per punire i peccati dell’umanità, per conto di Dio, nostro Signore e Creatore.” Un Cylone? Sentì qualcosa trafiggermi, un brivido freddo attraversarmi, come se tutto nel mondo ora fosse sconvolto e terribile.
“Cos… che cosa sei tu?” Chiesi esterrefatto, con voce tremolante. Lei mi sorrise e chinò il capo verso di me, per poi proseguire.
“Sono qui anche per te. Voglio rassicurarti. Non avere paura di quello che verrà. Altri mi vedranno, non sarai l’unico.” Non capivo. La bionda si voltò.
“Lei ci ha istruiti, ma ha peccato, e ha dovuto pagare le sue colpe.” Disse indicando di nuovo la donna dai capelli neri.
“Che cosa?” Ero scioccato.
Lei indicò con la mano la casa; mi voltai verso di essa: scomparve.
Tutto scomparve, tranne noi tre. Ora, il nero assoluto ci circondava.
“Lei è Clarice Willow, la madrina dei Cyloni.” Disse la bionda, mentre l’altra donna misteriosa si avvicinava.
Mi guardò silenziosa, senza dire nulla, mi sorrise.
Avvertì un qualcosa di strano alla nostra destra, e tutti e tre ci voltammo in quella direzione, scoprendo che un’altra figura ci stava osservando silenziosamente. Non appena la vidi, provai l’irrefrenabile desiderio di chiederle chi fosse, ma prima ancora che potessi farlo e che la sua sagoma fosse ben delineata, la bionda si avvicinò a me e rispose alla mia non ancora partorita domanda.
“Lei è la vittima più grave dei peccati di Clarice; il suo sangue fu versato per un fraintendimento e la sua vita innocente fu spezzata. Tutto per un malinteso.”
Lunghi capelli castano chiaro, un viso materno e giovane, l’addome gonfio per la gravidanza ancora in corso: la terza donna misteriosa emerse dall’oscurità, evitando il mio sguardo come per pudore, sorridendo sommessamente.
“Lei è Mar-Beth Willow, l’innocente.”
Non riuscivo a capire: poteva essere davvero un sogno normale? Così elaborato? Era privo di significato? Il nero attorno a noi si tramutò in quella che sembrava essere la volta celeste, puntellata da miliardi di stelle che splendevano con luce fioca.  Mar-Beth si avvicinò a Clarice; rimasero in silenzio.
Le tre donne mi si avvicinarono; la bionda toccò nuovamente la mia spalla, indicando con l’altra mano verso “l’alto”.
“Guarda, David. E’ il giorno del giudizio.”
Udì per qualche istante una serie di rumori davvero inquietanti che risuonavano per quello che sembrava essere il freddo ed inospitale spazio: strazianti grida di migliaia di persone, fragori di potenti esplosioni, boati di proiettili sparati a bruciapelo, sfrigolanti suoni di incendi divampanti. Alzai lo sguardo e vidi dodici pianeti orbitanti attorno a quattro stelle vicine tra loro: non ci misi molto per riconoscerli e rendermi conto che si trattasse delle Dodici Colonie di Kobol, la nostra casa, la nostra grande dimora.
Le vedevo chiaramente, l’una vicino all’altra, nonostante in realtà si trovassero in quattro sistemi solari distinti. Potevo scorgere le luci delle grandi città negli emisferi immersi nella notte.
Udì un frastornante boato: sgranai gli occhi.
Cominciai a notare con orrore migliaia di luminosissime esplosioni dilagare sulle superfici delle Colonie: immense deflagrazioni –probabilmente nucleari- distruggevano tutto nell’arco di migliaia di kilometri quadrati.
NO!” Esclamai. “Che cosa sta succedendo??” Mi voltai con fare disperato verso la bionda, che ancora mi sorrideva.
“Sono i piani di Dio. E’ il destino.” Non riuscivo a comprendere l’enigmaticità delle sue parole, perciò mi voltai di nuovo verso l’alto: le Colonie erano sparite, volatilizzate.
Strabuzzando gli occhi notai in lontananza una flotta di astronavi, probabilmente un centinaio, dal design coloniale. Una grande nave da guerra stava in testa alla flotta, e dietro di essa un gran numero di astronavi civili più piccole –non dissimili da quelle su cui avevo viaggiato io- popolavano quello che sembrava essere un grande convoglio di fuggiaschi.
La nave da guerra si avvicinava alla nostra posizione; con grande sforzo, riuscì a leggerne il nome inciso sul grande scafo pesantemente corazzato: Battlestar Galactica.
Mi voltai verso la bionda di nuovo: accennò ad un “si” con il capo e sorrise.
Mar-Beth si avvicinò e mi sussurrò nell’orecchio queste strane parole:
“Cercami sulla tua cassettiera.”
Mi svegliai di soprassalto, coperto di sudore e con un gran mal di testa; inizialmente non ricordai nulla, ma la memoria mi sarebbe tornata la mattina seguente. Purtroppo.

10.5 –“Tessere Magnetiche e Ritagli di Giornale”
La mattina era cominciata freneticamente: Steve era uscito di corsa sbattendo involontariamente la porta poiché doveva letteralmente volare nella sua accademia per compilare delle pratiche relative all’incombente viaggio prima che la segreteria chiudesse momentaneamente per la festività del Colonial Day.
Io avevo la giornata libera, così approfittai per portare a termine alcuni miei piccoli lavoretti domestici e sbrigare un paio di commissioni.
Generalmente mi occupavo io della pulizia della casa, non perché Steven non volesse aiutarmi, ma perché ero decisamente più portato per i mestieri domestici di quanto non fosse lui –modestamente-; spolveravo i mobili a giorni alterni, mentre passavo l’aspirapolvere e pulivo il bagno quasi giornalmente.
Avevo appena finito e mi preparavo ad uscire quando entrai in camera da letto per prendere il giubotto quando notai qualcosa sulla cassettiera sotto lo specchio: la tessera della biblioteca era lì sopra, nonostante quello non fosse sicuramente il suo posto ed io non ricordassi di avercela lasciata –a meno che non fosse stato Steve.
Mi avvicinai e la afferrai per osservarla: quando la portai vicino al viso avvertì quello che ancora adesso ricordo come un brivido gelido che mi attraverò letteralmente il corpo, dalla pianta dei piedi alle punte più estreme dei capelli.
Le gambe mi cedettero e dovetti appoggiarmi al letto per non cadere: in preda al panico, mi ci sdraiai sopra boccheggiando per il respiro che mancava.
“Dei…” Biascicai. Susseguirono una serie di respiri profondi –o almeno di tentativi di farne- che proseguirono finchè non riacquistai il controllo: a quel punto trovai la forza di mettermi seduto.
“Che diamine mi è successo?” Mi chiesi scostandomi i capelli biondi dal viso. La tessera della biblioteca mi era caduta di mano, e giaceva ora sul tappeto ai piedi del letto. La sua sagoma catturò di nuovo la mia attenzione.
La fissai con una certa inquietudine, sospettando che lo pseudo attacco di panico che avevo appena sperimentato fosse in qualche modo stato causato da lei.
In quegli attimi pensai che dovevo essere pazzo per aver solo pensato che la mia tessera della biblioteca fosse stregata e, dopo aver riso di me stesso per un secondo, la afferrai.
Ebbi un flash: la villetta, le tre donne, i pianeti, le navi… o dei, stavo ricordando il bizzarro sogno della notte appena passata.

“Cercami sulla tua cassettiera.”
Era la strana frase che mi aveva detto Mar-Beth prima che mi svegliassi all’improvviso; provai uno sgradevole senso di inadeguatezza. Era possibile che… no non poteva essere.
Ma forse… era in qualche strano modo possibile che la donna che avevo sognato, Mar-Beth l’innocente, avesse un qualche legame con la mia realtà fisica? Era forse possibile che si riferisse proprio a quella tessera? La fissai per un po’. Mi osservai nello specchio mentre la reggevo chiedendomi se stessi realmente prendendo in considerazione l’idea che quel sogno mi stesse parlando. Mi osservai con aria preoccupata e titubante.
“Sei davvero fuori di testa, Richard David Jenkins, lo sai vero?” Mormorai mentre scrutavo il mio riflesso.
Preoccupandomi per la mia sanità mentale, decisi di prendere la macchina e volare verso la biblioteca: non sapevo perché lo stessi facendo, ne cosa stessi cercando. Eppure Mar-Beth, una donna che non avevo mai visto in vita mia, mi aveva chiesto in sogno di cercarla sulla mia cassettiera, dove effettivamente avevo trovato la tessera magnetica: c’erano diverse spiegazioni ovviamente, a parte l’essere visionario; ad esempio potevo aver dimenticato di averla spostata per poi sognare un qualche collegamento con essa.
Nonostante ciò, incredulo per aver deciso di assecondare quella “donna” e senza rendermene conto, ero già in macchina diretto verso il centro, dove stava la biblioteca.
Si trovava sulla stessa via della scuola elementare in cui lavoravo, di fronte ai giardini pubblici centrali.
Scesi dall’auto ed osservai per un istante l’edificio che ospitava la libreria della città: non era molto grande, di modeste misure; del resto si trovava in un piccolo borgo.
Circondata da alberi e cespugli fioriti, la biblioteca di Clairview si ergeva nei suoi due piani con mansarda: la parete frontale vantava otto finestre ed ospitava quattro colonne in rilievo, al culmine delle quali “poggiava” un timpano triangolare, a sua volta forato da una finestrella rotonda; composto da una superficie in mattoni a vista tinteggiati di azzurro, il piccolo edificio era sempre ben curato e pulito, grazie agli sforzi del municipio che dava molta importanza alla cultura.
Entrai dalla porta scorrevole di vetro che si aprì automaticamente al mio passaggio e rimasi per un momento immobile nella hall, di fronte allo scalone che portava al piano superiore: mi voltai prima a sinistra, vedendo l’insegna della sezione “Botanica” e poi a destra la sezione “Bandiere”, nella quale, per ogni scaffale di libri era appeso uno stendardo di ognuna delle Dodici Colonie –tra l’altro, la bandiera gialla e verde di Virgon era appesa proprio di fronte alla porta.
Non sapevo che cosa fare, ne dove andare; in fondo non sapevo nemmeno che cosa ci facessi là e cosa dovessi cercare.

“Cercami sulla tua cassettiera”
Ma che diavolo significava? Rimasi lì, immobile, e la gente cominciava a notare la mia presenza un pochino strana. Un ragazzo fermo nella hall di una biblioteca. Qualcuno mi pare abbia anche riso.
Salì al piano superiore e notai subito, accanto alla porta della toilette ed ai rivenditori di snack, l’insegna della sezione “Giornali”: ebbi un qualche strano sentore, come quando un rabdomante si avvicina all’acqua grazie al suo bastone –in quel caso il bastone magico era la mia tessera magnetica-, così decisi di entrare.
Mi sedetti al primo computer libero – la stanza ne era piena- ed inserì la mia tessera nel terminale per accedere al servizio: i computer in quella stanza davano la possibilità di consultare tutti i più importanti quotidiani e giornali pubblicati ovunque nelle Colonie negli ultimi trecento anni; ogni evento, ogni dettaglio, ogni pagina che era stata stampata in passato era stata scannerizzata e raccolta in vastissimi schedari digitali per noi posteri. Nulla di speciale, dato che un servizio identico era reperibile in quasi ogni singola biblioteca di ogni città di ogni colonia.
Comparve sul display una schermata che mi chiedeva di scegliere una categoria da visitare: scelsi “News Generali”, non sapendo se potesse esserci un nesso.
A sua volta, una nuova schermata mi chiese di scegliere di quale colonia volessi esplorare il repertorio di ritagli di giornale: vi erano quindi dodici icone con i nomi dei pianeti e con a fianco le rispettive bandiere. Dodici pianeti, dodici icone, dodici possibilità.
Ripensai al sogno, e vidi di nuovo quello strano scenario: Caprica e Gemenon nello spazio che si avvicinavano a me.
“Ma certo!” Cliccai su Caprica. Non che questo mi potesse essere d’aiuto, non avevo idea di cosa cercare, e conoscere solamente il nome di un pianeta non può poi portarti lontano se voli alla cieca.
Comparvero una lista pressoché infinta di quotidiani: “The Caprican”,  “Caprica Tribune”, “Cap News”, “Caprica Times” e molti altri.
“Come diavolo faccio a scegliere, ce ne sono seimila!!!” Dissi a bassa voce guardandomi attorno.
Notai in alto a destra sullo schermo l’icona di una lente di ingrandimento: accanto, la dicitura
“enter key word”.  Dopo un attimo di silenzio e immobilità, provai a digitare nella piccola barra di ricerca azzurra il nome “Clarice Willow”.
“Lo sto facendo davvero? Dei lo sto davvero per fare?” Mi chiesi prima di cliccare sul tasto di invio: stavo cercando in rete il nome di una donna che avevo visto in un mio sogno la notte prima.
“Sei ridicolo, santi dei.” Mi beffeggiai da solo.
“Hai un computer con l’accesso alla rete anche a casa, perché venire fin qui per cercare tra gli articoli di giornale una donna che non esiste?” Mi rimproverai per l’improbabilità della situazione in cui mi trovavo. Come potevo aver perso la mia mattinata per cercare di capire il senso di un mio sogno? Non bastava cercare in rete da casa un sito per l’interpretazione dei sogni? Uno di quelli gestiti da stregoni ciarlatani e truffatori che ammaliano la gente in televisione?
Non avevo la minima idea di quello che avrei trovato –ammesso che avessi trovato qualcosa- ma premetti comunque il tasto di invio.
Ecco che in alto a sinistra vennero evidenziate un paio di pagine del Caprica Tribune: controllai la data di pubblicazione del quotidiano e scoprì con stupore che questo risaliva all’anno 1,942 dopo l’Esodo da Kobol, ovvero circa cinquantotto anni fa –cinquantotto anni fa in quell’anno almeno, adesso sono circa sessantadue.
Ero incredulo; mi misi a leggere il documento che riportava una sua foto: una donna con dei lunghi capelli neri e mossi, la stessa che avevo sognato; portava l’anello che le avevo visto al dito.
Sudavo freddo. Com’era possibile? Questa donna era vissuta quasi sessant’anni fa, come avevo fatto a sognarla? Non ne avevo mai sentito parlare, ne mai ne avevo vista una foto, o letto qualcosa a proposito. Fino a pochi istanti prima credevo di essermela sognata e basta, invece ora stavo scoprendo che era esistita davvero.
Scoprì che Clarice Willow era stata un’insegnante, più precisamente, una sacerdotessa di Athena e preside dell’Athenian Academy, scuola superiore nei pressi di Caprica City, su Caprica, diversi anni prima della nascita dei Cyloni. Clarice era in realtà una terrorista, un agente sotto copertura, leader delle celle terroriste di Caprica dei Soldati dell’Unico, il braccio armato della Chiesa Monade Monoteista di Gemenon, gli stessi terroristi che si erano macchiati di orrendi crimini ratificati in nome del loro credo.
Clarice era responsabile di un attentato avvenuto nell’anno 1,942 sulla metropolitana di Caprica City, dove un ragazzo –da lei assoldato- si era fatto saltare in aria distruggendo un treno a levitazione magnetica ed uccidendo centinaia di persone in un istante.
C’erano fior di fascicoli su di lei che mostravano la sua implicazione nella setta di fondamentalisti religiosi monoteisti, al tempo in guerra con la società laica di Caprica e delle altre Colonie infedeli.
Dovetti scorrere diverse pagine prima di scorgere con gli occhi un paragrafo in cui veniva citata Amanda,la moglie di Daniel Graystone, fondatore dell’omonima industria e creatore dei Cyloni, i quali furono inventati proprio in quell’anno.
Amanda Graystone aveva avuto un rapporto di amicizia con Clarice, ed era stata ingaggiata dal Gdd (Caprica Global Defence Department) per smascherare la donna dalle sue false vesti di dirigente scolastico e consegnarla alla giustizia.
Stavo leggendo il fascicolo su Clarice quando incappai nella sezione che parlava della sua famiglia: Clarice aveva convolato a nozze in un matrimonio di gruppo; i matrimoni di gruppo erano molto comuni nelle Dodici Colonie, e alle volte ci si poteva imbattere in famiglie composte da una ventina di consorti e decine di figli.
Il matrimonio della Willow non era da meno, tant’è che nella sua casa si trovavano più di dieci bambini; Clarice aveva diversi mariti, tra cui Nestor, Tanner, Olaf e Rashawn, e tre mogli: Desiree Willow –da cui il nucleo familiare prendeva il cognome-, Helena e… Mar-Beth Willow. Fu come se il mio cuore si fosse bloccato.
Mar-Beth Willow.
Era esistita davvero. Esisteva davvero anche lei, ed era una delle mogli di Clarice. Ma com’era possibile? Come avevo potuto sognare quelle due donne senza averle mai viste?
C’era una foto accanto al suo nome, la quale corrispondeva perfettamente al mio sogno: alta, capelli castano chiaro, molto bella, molto materna.
Lessi il fascicolo su di lei: Mar-Beth era scomparsa non appena dopo aver dato alla luce l’ultimo figlio dei Willow; Clarice e la famiglia affermarono che non era pronta per essere madre ed era fuggita.
In realtà, le indagini dimostrarono che Mar-Beth era stata assassinata dalla stessa Clarice, la quale sospettava che la moglie fosse segretamente un informatore del Gdd e che cercasse di far arrestare Clarice ed i loro mariti –l’informatore era in realtà Amanda Graystone.

“Lei è Mar-Beth Willow, l’innocente; è il più grave dei peccati di Clarice”
Aveva detto così la bionda nel mio sogno, la bionda che affermava di essere un Cylone. Lo avevo sognato. Lo avevo veramente sognato. Com’è possibile? Continuai a leggerre.
I Willow, con l’eccezione di Tanner, Desiree, Helena e Mar-Beth, erano tutti parte dei Soldati dell’Unico, e stavano lavorando ad un progetto religioso dalla natura molto controversa che avrebbero messo in atto dopo un grande che avevano intenzione di scatenare a Caprica City; il Gdd, con l’aiuto dei Graystone e dei primissimi modelli di Cyloni appena costruiti, riuscì a sventare la catastrofe, uccidendo Olaf e Nestor –e diversi altri terroristi.
Clarice fu incarcerata, ma fu prosciolta l’anno seguente per “mancanza di prove sufficienti”, probabilmente ad opera di un avvocato corrotto, tornando in libertà sulla parola: iniziò a frequentare diversi siti del mondo virtuale, attirando a se l’attenzione di molti Cyloni, i quali erano entrati in commercio nelle Colonie proprio in quegli anni –la guerra sarebbe scoppiata meno di quattro anni dopo.
I documenti che seguivano erano poco chiari; spensi il computer.
Mi lasciai andare sulla sedia con le braccia conserte e un’espressione piena di scompiglio e disappunto. Ero leggermente impaurito dalla strana esperienza che avevo appena avuto, e non riuscivo a trovare alcuna motivazione razionale che potesse spiegare quel fatto.
Sospirai con un filo di voce tremolante, come quando si piange; in silenzio, mi alzai dalla sedia ed uscì dalla stanza, passando in mezzo alle persone che leggevano tranquillamente ai tavoli, ignari del peso che mi portavo dietro uscendo.
L’asfalto era ancora bagnato dalla pioggia della notte precedente e le automobili schizzavano sui marciapiedi l’acqua nelle pozzanghere con il loro passaggio.
Ancora una volta, rimasi fermo e immobile nel parcheggio di fronte alla biblioteca, provato dalla stranezza del mio sogno premonitore al contrario.
“Se continui così finirai davvero in manicomio.” Dissi a me stesso mentre estraevo dalla tasca della giacca le chiavi dell’auto.
Ero davvero stanco di tutto questo, volevo solamente che la mia vita tornasse alla normalità, che tutte queste “cose strane” finissero e mi lasciassero in pace.
Forse il mio subconscio mi stava punendo per il senso di colpa che provavo ad aver lasciato Jennifer da sola su Canceron… eppure tutto questo non era solo nella mia testa: avevo appena consultato dei documenti risalenti a quasi sessant’anni prima che testimoniavano l’esistenza di persone che avevo sognato.
C’erano solamente due possibili spiegazioni a questo fenomeno: sebbene non avessi alcuna memoria e fossi pronto a testimoniare sotto giuramento che non fosse così, potevo in qualche modo aver già visto quei documenti in primo tempo, magari anche anni prima, e la mia testa poteva averne catturato il contenuto per poi scaraventarlo nel mio sonno; un’altra ipotesi poteva essere che davvero in qualche modo io fossi “sensitivo” e riuscissi ad avvertire cose a me esterne e sconosciute… in fondo non è così assurdo: la scienza non ha mai accreditato teorie di questo tipo, ma non le ha nemmeno mai smentite del tutto.
Del resto, l’universo è formato di una certa materia che, anche se a noi rimane in parte sconosciuta, sappiamo che c’è: può essere che gli eventi passati, presenti e futuri si “muovano” e si articolino in questa materia, e che siano quindi attorno a noi, sempre; e può quindi essere che alcune persone abbiano una qualche capacità, ovvero che riescano a percepire questi eventi che ancora non si sono palesati a loro.
Se ci pensiamo bene, questo non ha necessariamente a che fare con il sovrannaturale, ne tantomeno è un “superpotere”; prendiamo ad esempio un lavavetri che pulisce le finestre di un grattacielo a centinaia di metri di altezza: se ci fosse un incidente a tre isolati dal suo palazzo, lui lo vedrebbe, mentre le persone ai piedi dell’edificio no, ma questo non renderebbe quel lavavetri dotato di superpoteri o quanto mai “migliore” degli altri. Semplicemente, avrebbe una posizione avvantaggiata che gli permetterebbe di vedere più in là.
La mia testa si riempiva di queste strane considerazioni ed ipotesi mentre mi avviavo verso casa, non sapendo cos’avrei fatto durante il resto della giornata per scacciare quei pensieri sgradevoli.
Avrei fatto meglio a godermi quegli ultimi momenti su Virgon, perché da lì a pochissimo tempo, non avrei avuti più.



…Continua
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Battlestar Galactica / Vai alla pagina dell'autore: r_clarisse