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Autore: Gaia Bessie    10/09/2016    0 recensioni
Se lo sono sempre stata, non saprei dirlo, non me ne sono mai accorta: come si fa a capire di essere sempre stati matti?
Anche se lo fossi diventata, da un giorno all’altro, non saprei dire con certezza quando è successo, se da bambina, da adulta, o dalla vecchia che spero di non diventare mai.
Gliel’ho detto, un giorno, che io morirò ancora bella, e sola, se Lui deciderà di non morire con me.
Ha riso, una risata da matto. Ma lui, lo è mai stato?
Matto, intendo.
Certo che sì: matto era quando sorgeva, il sole, e quando tramontava, e matto era quando il suo sguardo mi scivolava addosso, e non rimaneva attaccato, ma passava semplicemente oltre, il più delle volte.
Ed era matto, totalmente matto, quando mi cercava di notte, come un bisogno o una necessità, un vuoto dove avrebbe dovuto esserci un pieno.
[Harley/Joker]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harley Quinn, Joker
Note: Lime, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Attenzione:Possibile presenza di OOC. I comportamenti dei personaggi sono volutamente amorali e da non imitare. 
La storia si orienta su MM di Harley e Harleen, personalità separate che, a un certo punto della vicenda si fondono. Questa fusione è segnata con i tre punti interrogativi.

 




Glad to drown
 
 
???
 
Qualcuno ha detto che l’acqua, o l’acido, scioglie i ricordi: sarà per questo che non so nuotare, o che spesso credo di aver dimenticato qualcosa quando, invece, non c’è assolutamente nulla da ricordare.
Solo che, a volte, quando mi piove addosso, o sono sotto la doccia, o nella vasca da bagno, e credo di ricordare qualcosa, mi viene spontaneo domandarmelo: ma io, sono mai stata matta?
Si potrebbe dire che, no, non lo sono mai stata. Io, i matti, li curavo o, almeno, provavo a farlo.
Con i matti ci vivevo per turni che sembravano durare secoli, e invece non erano che manciate di ore interminabili, e forse, se mai lo sono stata, è così che ci sono diventata.
Matta, intendo.
Se lo sono sempre stata, non saprei dirlo, non me ne sono mai accorta: come si fa a capire di essere sempre stati matti?
Anche se lo fossi diventata, da un giorno all’altro, non saprei dire con certezza quando è successo, se da bambina, da adulta, o dalla vecchia che spero di non diventare mai.
Gliel’ho detto, un giorno, che io morirò ancora bella, e sola, se Lui deciderà di non morire con me.
Ha riso, una risata da matto. Ma lui, lo è mai stato?
Matto, intendo.
Certo che sì: matto era quando sorgeva, il sole, e quando tramontava, e matto era quando il suo sguardo mi scivolava addosso, e non rimaneva attaccato, ma passava semplicemente oltre, il più delle volte.
Ed era matto, totalmente matto, quando mi cercava di notte, come un bisogno o una necessità, un vuoto dove avrebbe dovuto esserci un pieno. Ma, se lui era matto in quelle notti, io lo ero almeno il doppio, allora, perché quel vuoto io non lo avvertivo solamente in un capanno di coperte, ma anche alla luce del sole.
Ha detto che Lui non morirà mai o, se disgraziatamente dovesse succedere, lo farà ridendo. Non ha detto se con me o senza di me, ma è una buona morte comunque.
Ha detto che Lui è eterno, perché le cose non finite non possono morire, e lui è nato per uccidere Batman e forse quando morirà Batman morirà anche lui, perché la vita è così, un cerchio, un anello.
L’avrei voluto, un anello, da lui? Una vita normale, dei bambini, una lavastoviglie di ultima generazione e una baby-sitter per i weekend?
Non so nemmeno se sia questa, la normalità, se la potrei mai volere, in qualche mondo possibile.
Forse non sono io, o Lui, ma tutti gli altri a esserlo.
Matti, intendo.
 
***
 
Harleen Quinzel
 
La mia prima volta è stata con un criminale, questo me lo ricordo, sebbene sia simile al dover guardare qualcosa con la testa immersa nel sangue, nel fango, o nell’acido.
Aveva i capelli biondi, con una ciocca verde chiaro, e mi piaceva soprattutto per questo o forse perché io avevo quindici anni e lui ventitré e qualche mese. Come ogni ragazzina, vedevo il mito del ragazzo più grande e, in quei sogni, ci annegavo.
Si chiamava Dave, o Simon, Ben o chissà che altro nome generico che ho dimenticato poche ore dopo averlo sentito per l’ultima volta. Di professione, smontava e rimontava motociclette rubate, e qualche volta era lui stesso a commettere il furtarello perché, come diceva, in qualche modo bisogna pur campare. A Bensonhurst c’erano diverse famiglie disastrate, come o più della mia.
E, gli scarti della società, in qualche modo si conoscevano tutti: ci eravamo rotolati nella stessa coperta da bambini e rubati i giochi a vicenda, qualcuno aveva marinato le lezioni delle medie, altri ti avevano riportato a casa quando era troppo tardi per aspettare un bus. C’era chi studiava e sperava di potersi migliorare e chi, semplicemente, alleggeriva turisti o vecchiette all’angolo della strada, o scassinava il lucchetto di qualche bici.
Poi, almeno ogni primavera, qualcuno si innamorava e, se erano fortunati, finivano per farlo sul balcone di casa, con il fratello maggiore di lei che cercava una mazza da baseball per darla in testa al malcapitato. Se erano sfortunati, finiva qualche manciata di settimane dopo con un bastoncino comprato o rubato in farmacia, e qualche mese dopo con un neonato in spalla.
Il raggio di una ruota di bicicletta tra le gambe, magari, o un ferro da calza se la mamma aveva smesso di far la maglia. E un bimbo morto in pancia, o sul tappeto di chi si impegnava a farti abortire per strada, come una cagna.
Io non mi innamorai mai. Nemmeno me lo aspettavo e, se qualcuno mi corteggiava e offriva giri in moto o favori, quasi non me ne accorgevo.
Dicevano tutte, tutte le mie amiche, che ero matta. Matta perché non finivo su un balcone o una stuoia polverosa sul pavimento, con sopra un ragazzo di cinque, sei, anni più grande di me.
Matta, ero, perché non finivo gravida a quattordici anni, o con l’utero perforato a quindici, o morta per overdose a sedici. Ero matta perché volevo studiare, e trovare una cura per Joe, o Sam, che vagava per le strade borbottando oscenità e, forse, almeno lui lo era davvero.
Matto, intendo.
Hanno smesso di dire che lo ero solo quando, come loro, sono finita stesa, in un letto, però, il letto di mia mamma prima che prendesse a dormire sul divano, per aspettare che papà tornasse a casa dal turno di sera. Hanno smesso perché avevo buttato giù l’orgoglio, e mi ero fatta piacere il primo di cui mi fossi accorta, perché avevo concluso la faccenda, ed ero stata pure fortunata.
Non ho avuto bisogno di un bastoncino prima, di un raggio di una bicicletta o un ferro da calza poi, e di una perforazione all’utero, per finire.
Avevo un’amica, Mary, Anne o Beth, che a quindici c’era rimasta, e non era riuscita a cavarselo via con l’uncinetto della madre, che poi l’aveva pure rivoluto indietro, che non c’erano soldi per comprarne un altro.
Era da guardare, a sedici anni, e già sembrava una vecchia, con il ventre molle e adiposo, e le smagliature su entrambi i seni.
Ma lei non si vergognava, come non si vergognava chi era morta per qualche schifo di infezione, o chi il bambino l’aveva pugnalato con un ferro, o chi l’aveva partorito mezzo sulle scale di casa e mezzo in strada.
No, non c’era vergogna, per tutto quello, per il sesso senza precauzione, primordiale, per il gioco della fortuna. No, niente vergogna per tutto questo, era normalità.
Ero io, la matta. Ovviamente.
 
***
 
Harley Quinn
 
La mia prima volta è stata, con lui. È stata silenziosa, segreta, e se glielo domando, il mio Puddin nega fino alla fine, dicendo che devo essere ammattita per dire una cosa del genere.
Ma io lo ricordo, non sono matta. Non così tanto, almeno.
Fallo! Mi diceva la luna, che non era ancora sorta, ma che io riuscivo comunque a sentire chiaramente. Prendigli il cuore, Harley, è tuo di diritto.
Eravamo entrambi bianchi, come quella luna che non vedevo, nella luce artificiale di quella lampadina che pareva doversi spegnere dopo ogni secondo che passava.
Silenziosa, nonostante i mille rumori che mi rimbalzavano in testa, era la mia attesa. E sapevo perfettamente che lui, in qualche modo, la fiutava come un animale selvatico fiuta la carcassa della sua preda preferita.
Le sue mani addosso, le avevo già sentite, più volte. Mi si infrangevano sulla pelle come un’onda su uno scoglio, ma io non mi sono mai lamentata, o ho pianto.
Una volta, solo quella, se ne accorse. Vidi la domanda che gli attraversava lo sguardo, e compresi cosa si aspettava: un debito di lacrime che io non ero mai accorsa a salvare.
Eppure, li vedeva, e si domandava se ero così folle da non sentirne il dolore. Avevo la pelle decorata da un centrino di ematomi, una decorazione merlettava che sembrava intonarsi perfettamente al mio incarnato.
Ogni volta che mi aveva gettata a terra, io mi ero rialzata, e questo, lui non l’ha mai compreso.
Non ha mai capito che era perché lui non si stendeva con me, pur di tenermi ferma, e io l’avrei voluto così tanto che era quell’assenza, forse, a farmi più male di ogni colpo che mi aveva mai sferrato.
Mi diceva, ridendo, che lo ero.
Matta, intendo.
Ma non era vero, era che frenava la mano quando pensava che fossi sul punto di scoppiare a piangere come una bambina, e forse nemmeno se ne accorgeva. Ma io sì. Io lo sentivo.
E, ogni volta che pensavo che avrei potuto smettere di amarlo, ecco che la mia mente mi rimandava le immagini di uno schiaffo che aspettavo, ma non arrivava mai.
Sbuffava, e mi lasciava lì, ad attendere che tornasse a guardarmi, anche solo per gettarmi via come se fossi un giocattolino rotto. Un po’ lo ero, lo ero sempre stata, lo eravamo tutti.
Cosa farai, Harley, quando si stancherà di te? Era una voce che ignoravo, di solito, e aveva la voce e la risata di Batman. Si è già stancato, Harley. Si è già stancato di te.
Eppure, una sera venne da me, e io non ricordo nemmeno il giorno, o il momento. E quando glielo chiedo, Puddin alza gli occhi al cielo e si rifiuta di rispondere, dicendo che ha cose più importanti da fare che star dietro al mio folleggiare.
Venne da me che stavo distesa sul pavimento dove lui aveva appena cessato di camminare, e guardavo un cielo coperto di intonaco e stucco.
«Cosa ci fai ancora sveglia?» domandò e, per la prima volta da quando i miei occhi si erano posati su di lui, sembrò stanco.
Balzai in piedi e gli saltai al collo, ridendo. «Ma come, Puddin? Ti stavo aspettando!».
Non lo fece di proposito, credo, ma per contrastare l’impeto del mio salto, mi strinse a sé, facendomi spalancare gli occhi.
Lui scosse il capo, divertito. Hai visto, Harley?
Cercai di sostenere il suo sguardo, imbarazzata, senza riuscire a scostarmi da lui. Non che lo volessi, ovviamente, anzi. Era esattamente il mio pieno in quel posto dove non c’era spazio per un vuoto, e io lo amavo per questo e per tutto il resto.
Sovrappensiero, prese a carezzarmi la schiena, facendomi mugolare come una gatta. Rise.
«Mi aspettavi?» domandò, senza smettere di ridere. Era così vicino da far male.
Se non ti bacia adesso, non lo farà mai più, Harley.
Non lo fece. Ovvio che non lo fece, rimase a scrutarmi come se attendesse qualcosa, e io ebbi la mia ennesima dolorosa conferma. Si è già stancato, hai visto? Harley? Hai visto, non è vero?
Come tutte le altre volte, fui io ad avvicinarmi a lui, sperando di strapparglielo, quel bacio.
Mi gettò a terra come un sacco di stracci, e rise.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, quando me lo trovai accanto, sul pavimento, a due centimetri di distanza. Centimetri che, lo sapevo, non avrei mai potuto colmare, non da sola.
«Harley… ancora non hai imparato?» mormorò, canzonatorio. «Sono io, qui, a prendere le decisioni».
Trattenni il fiato e attesi un colpo. Che non arrivò.
Li prese, quei due centimetri, e li gettò via, insieme al mio vuoto, lì dove mise il pieno.
Sul pavimento sporco, polveroso, facemmo l’amore per la prima volta. Qualche volta, ripensandoci, credo di essermelo solamente immaginata ma, alla fine, nel mio letto Puddin ci dorme comunque, dunque, che importanza ha un numero?
Forse sono davvero solo matta, o lo è lui, o lo siamo tutti.
Matti, intendo.
 
***
 
Harleen Quinzel
 
Me ne sono andata di casa a diciott’anni e due mesi, per frequentare il college.
In verità, stavo scappando da una realtà che non poteva appartenermi: tra i matti, mi sarei sentita meno fuori posto e, finalmente, avrei potuto essere io a dire a qualcuno che aveva perso ogni sorta di collegamento con la realtà.
E a me, tutto quello che avevo vissuto, non piaceva, e quasi lo temevo. Temevo di sprecarmi e finire brutta, e sformata, una vecchia ancor prima di compiere vent’anni.
Temevo di dover sposare un uomo per cui non avrei provato nulla che tiepida indifferenza, e sul finire un po’ di pietà che me lo avrebbe reso intollerabile, sebbene non importasse: avrebbe fatto lo scassinatore seriale e, se mai qualcuno l’avrebbe beccato, sarei comunque rimasta ad attenderlo, come una sciocca.
La mia compagna di stanza aveva quasi vent’anni, e i capelli con le meches blu scuro, si chiamava Debbie ed era cresciuta in California, per questo aveva la pelle di una tonalità simile a una finta abbronzatura in tubetto.
Sei strana, diceva, quando mi attardavo su un libro più pesante di me. Potresti ottenere bei voti così facilmente: hai un bel visino, l’età e il corpo per farlo.
A quanto pare, era consuetudine andare a letto con un professore per passare l’esame con un voto in più, o, se eri fortunata, una nota di merito. Che matta che sei, Harl, tutte queste ore a studiare.
C’era un professore che guidava le esercitazioni sui cadaveri, che dimostrava ben più dei suoi sessantadue anni, nei capelli che gli si erano precocemente ritirati dal cranio, in una resa che lo aveva costretto a un buffo toupet rosso-aranciato. Era affamato di ossa e carne e occhi con grumi di mascara, e silenziosamente dovevi venderti per non morire sui suoi libri.
Ed è pure sposato, sai! Debbie ridacchiava, l’esame l’aveva già superato dopo averglielo preso in bocca, sotto la scrivania ingombra di carte del suo ufficio. Hai presente Beth, la sorvegliante?
Come non conoscerla, una vecchia amara come la morte e con capelli secchi di una permanente venuta male: tutte puttanelle, le matricole, diceva.
Erano ancora sposati, due anni fa, con tre figli adulti. Uno l’avevo anche conosciuto, si era sposato da poco quando entrai al college, e portò le bomboniere a suo padre durante una lezione: il professore non si era nemmeno degnato di presenziare alla cerimonia. Poi è scappato di casa, con una matricola: è Sarah, tu non puoi conoscerla, si è ritirata l’anno scorso. Aveva il suo bambino in pancia, l’ha abortito qualche mese dopo.
L’esame lo passai al terzo tentativo, con una nota di merito: avevo le ginocchia spellate dal pavimento del bagno del secondo piano, e avevo dovuto buttare una camicetta rossa – non l’avrei voluta indossare mai più.
Debbie lasciò il college a metà del semestre successivo, senza dire nulla a nessuno. Nel corridoio del nostro dormitorio, qualcuno iniziò a dire che era perché aveva contratto la sifilide ed era andata a curarsi per non fare sapere nulla a nessuno.
Nulla di anormale, comunque: ero io, la matta.
 
***
 
Harley Quinn
 
Provai a fuggire solamente una volta, che io ricordi: ero curiosa, in verità, di scoprire se avrebbe avvertito una sorta di vuoto, nel vedere che non c’ero più. Ero curiosa di scoprire se sarebbe venuto a cercarmi.
Lo fece. Contò i secondi, i minuti, le ore e anche i giorni, prima che gli dessi la chiave per trovarmi.
Quando mi trovò, a casa di Pam, senza maschera, senza trucco, rise.
«Smettila di esserlo» rise, e si aspettò che lo seguissi.
Smettila di esserlo, Harley. Lo seguì come un cane segue un padrone e come una puttana il cliente. Cosa? Essere cosa? Cosa essere?
Quella sera, mi serrò le dita attorno alla trachea, e strinse così forte che la vista mi si oscurò. Non provai nemmeno a divincolarmi, mi gelò con lo sguardo.
Cosa? Cosa facciamo? Cosa siamo?
L’aria era una ferita nei polmoni, che dilatava il petto e faceva gocciolare un sangue indicibilmente rosso. Pensai che sarei morta così e, tutto sommato, non era poi così lontano dal modo che avevo sempre sognato: morire con lui che mi stringeva quasi volesse togliermi il respiro.
Lo sei, Harley, lo sei così tanto che dovresti vergognartene.
«Non ti permettere mai più, Harley» mi gettò sul pavimento, e caddi come una piuma. E fui schiacciata da uno scarpone, come un sassolino. «Non puoi andartene, se non decido di mandarti via».
Non risposi, non ne avevo il fiato, e la forza.
Ma tu lo sei ancora, Harley?
«Non puoi morire, se non decido di ucciderti io».
Cosa, Harley, cosa? Innamorata?
Uno schiaffo mi fece rinvenire, e lo guardai, con la vista appannata: avevo pianto e non me ne ero minimamente resa conto, finché non mi aveva schiaffeggiata nel punto esatto dove mi ero bagnata di lacrime. Ma Mr J rideva, rideva tantissimo, lieto che finalmente mi fossi decisa a pagare il mio debito.
No, Harley, lo ami ancora, lo sei ancora. Matta, intendo.
 
***
 
Harleen Quinzel
 
Ci mandavano sempre gli ultimi arrivati, da Lui: nessuno degli psichiatri ben insediati nel loro tranquillo ufficio, o con una famiglia a carico, voleva andare da Lui. Dicevano che era in grado di fare impazzire chiunque, anche il più sano di mente, e quando veniva sorteggiato il novellino che se ne sarebbe occupato, qualcuno piangeva.
Io avrei fatto carte false, pur di ottenere quella cartella, quel paziente: non avevo quel timore cieco e primordiale, il terrore di perdere il senno. Avrei mai potuto averlo?
Per tutta la vita, ero stata considerata matta da tutti. Confrontandomi con Lui, mi sarei sentita quella normale dei due, non poteva che essere un miglioramento.
Mandarono me.
Nei corridoi, negli uffici, tutti dicevano che non importava che fossi io, tanto lo ero già.
Matta, intendo.
E ridevano nel vedermi entrare in quella stanza, dove c’era chi rideva quanto e più di loro, con la gonna che frusciava sulle cosce e gli occhiali sporchi delle mie stesse impronte digitali.
«Quella è matta quanto Lui» bisbigliavano, quando mi sedevo accanto al mio paziente. «Matta come un cavallo, te lo dico io».
Il Joker, steso sul suo lettino, stretto nella camicia di forza, sorrideva e sembrava che il volto potesse spaccarglisi a metà da un momento all’altro.
Sei come me, sembrava dire. Come lui.
Matta, intendeva.
 
***
 
Harley Quinn
 
Mi fece intendere che ero sbagliata, matta, impazzita, che mi palesavo come un fenomeno che non ero. Come eri, Harl?
Mi disse che ero una maschera, e quindi dovevo indossarne una diversa, che facesse ridere e non piangere. Che avevo un nome sbagliato, inesatto, che non coincideva con ciò che ero.
Ma tu cosa eri?
Mi sussurrò cose oscene, cose sbagliate, e mi disse che, nel nostro mondo, erano quelle più giuste.
Il nostro mondo, lui e io, nostro. Non saprei dire quando lo amai per la prima volta: penso fosse come una malattia annidata nelle cellule, una malformazione che aspettava un catalizzatore. Lui.
Ma tu cosa sei?
Mi portò via e io, in quella fuga, ci vidi una promessa che non rispettò mai: pensai che, se mi aveva voluto strappare dalla mia vita, dal mio lavoro, non mi avrebbe mai più lasciata andare, mi avrebbe sempre amata e tenuta con sé.
Pensai che sarebbe morto con me, se poteva morire, o se gli fosse stato impossibile farlo, almeno sarebbe stato l’ultima persona che avrei visto.
Ero, sono, matta anche solo a pensare che sarebbe stato possibile.
 
***
 
???
 
Hanno detto che l’acqua cancella i ricordi: arriva un momento, nella storia del mondo, in cui una testa contiene troppi pensieri, ricordi, fantasie, idee, voci.
Hanno detto che sono matta, perché non ho paura di morire, o di dimenticare. Ma la verità è che, quello che ho voluto, l’ho sempre preso, o almeno sfiorato.
Che altro mi rimane?
Un’automobile chiusa alle tre di notte, una fuga, un pipistrello inchiodato al muro con paletti scheggiati.
E se venisse a salvarmi?
Uno schiaffo, un calcio, il pavimento sulla schiena – e Harley, non verrà a salvarti.
Perché?
Ha paura.
È per questo che è meno matto di me, perché ha un limite: io ho smesso di averlo il giorno in cui l’ho seguito, per perdere ogni cosa.
È per questo che lui non morirà mai: perché teme la morte, e non la provoca, ma la evita. Perché ha un compito e io, il mio, l’ho perso per strada.
È il tempo, Harl: o ti getti da sola o ti butterà via lui.
In un certo senso, rifletto, mentre l’auto brucia la strada, mentre il mio Puddin ride e salta dall’auto in corsa, sono entrambe le cose.
Perché è la fine che fanno quelli come te, Harley. Quelli matti, intendo.
L’automobile viene inghiottita dall’acqua, e a me viene da ridere, pensando a quanto sia stato stupido pensare che mi amasse così tanto da rimanere con me anche nella morte: non mi verrà a salvare, ormai lo so, e va bene così.
È stato folle, pensarlo.


 
   
 
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