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Autore: MoonLilith    03/05/2009    6 recensioni
Lui mi sorride, un sorriso assolutamente da togliere il fiato, e mi fa un cenno con la testa.
Faccio per chiudere la porta, lentamente, ma quando è quasi chiusa, qualcosa la interrompe.
La riapro. C’è lui appoggiato allo stipite della porta, con una mano poggiata su di essa, a tenerla aperta.
« Voglio rivederti. » mi dice, serio in volto, guardandomi fisso.
Io? Io boccheggio.
Genere: Erotico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ben Barnes, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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V.

Dopo la strana domenica passata con Ben (strana, sì. Non trovo termine migliore per definirla) la mia routine è ricominciata normalmente. A parte qualche sua uscita che mi scombussola un po’, ovviamente.
Che forse cose stranissime non sono, però è normale che spiazzino una ragazza come le altre che ormai aveva fatto l’abitudine a vivere da sola. A prescindere che tu sia un attore o meno.
Oggi ha deciso che vuole venirmi a prendere alla fine della mia giornata al Politecnico.
Questo ragazzo è sprezzante del pericolo, non sembra interessargli tanto che lo vedano nei pressi della mia scuola. Perché per vederlo, con tutti il via vai di gente che c’è, lo vedono.
Oltretutto è stato così geniale da avvisarmi proprio dieci minuti prima che io esca dal Poli.
Come me la tolgo di torno questa cozza di Laura, in dieci minuti?
« Cosa fai oggi, Jo? »
« Ehm… »
Mi vedo con un attore strafamoso che viene a prendermi in TAXI, Laura.
« Niente, credo che guarderò un film a casa. »
« Ah! Allora potrei venire da te, magari lo guardiamo insieme, se ti va! »
Certo, come no. Rinuncio a Ben Barnes per vedere un film con te, mi pare ovvio.
« No guarda, non mi sento neanche troppo bene… »
Laura sbuffa. Mi si piazza davanti con le mani sui fianchi.
« Possibile che tutte le volte che un altro essere umano cerca di socializzare con te, tu stai sempre troppo male per collaborare? » chiede lei, che forse si è un po’ rotta del mio atteggiamento.
Un po’ mi dispiace. Alla fine, ad avercela accanto tutti i giorni, pian piano inizia a non starmi proprio così antipatica.
« Laura… Oggi non posso, okay? Facciamo un altro giorno. » le dico mentre usciamo dall’ingresso del Politecnico.
Lei sembra riprendersi subito, ora che le ho dato un tantino di speranza. Intanto io spazio con lo sguardo, alla ricerca di Ben. Laura deve notare il mio atteggiamento, che io non mi sto preoccupando di nascondere troppo, d’altronde.
« Dì là verità, Jo, cos’hai da fare oggi? » mi chiede Laura, assottigliando le palpebre e studiandomi attentamente.
Un TAXI si ferma a pochi metri da noi. Mi avvicino di qualche passo, mentre cerco una buona giustificazione a questa particolare uscita di scena di oggi.
« Ehm… ti racconto poi. » ovviamente mi sono appena tirata la zappa sui piedi da sola.
Laura mi guarda raggiante. Per lei siamo già amiche del cuore, a questo punto.
Vedo il finestrino del passeggero posteriore del TAXI che si abbassa. Sbuca fuori Ben, con gli occhiali da sole e i capelli sciolti, che mi fa un segno con la mano.
Sento Laura trattenere il fiato.
« Jolene! » sbotta lei, voltandosi verso di me, sbigottita. « Non ci posso credere! » esclama ancora, mentre io accenno qualche passo verso il TAXI. Mi volto verso di lei, sospirando.
« Ti spiegherò tutto al più presto, Laura. Ora devo andare. » mi limito a dire, prima di mettermi a correre verso il TAXI. Lei non dice più niente, credo che sia sotto shock. Non sono sicura che abbia riconosciuto realmente Ben, però credo se lo ricordi come “il figo che ci è passato davanti mentre eravamo al bar qualche giorno fa”.
Ci ripenso un attimo, le ho detto che le spiegherò tutto presto. E cosa dovrei spiegarle? Ben non vuole che dica in giro tutto quanto. E non so quanto possa fidarmi di Laura. Però d’altra parte, questa di Ben per me è una cosa troppo grande. Da quando tra me e lui è nata questa amicizia mi sento un peso sul cuore. Per quanto io possa volermi isolare dalle persone, per quanto possa essere distaccata… sono pur sempre umana, ho bisogno anch’io di confidarmi, di sfogarmi, di avere qualcuno con cui parlare.
Sospiro.
Ben, accanto a me, si volta a guardarmi, sarcastico.
« Dai, dì a zio cos’è successo oggi. » dice lui, sorridendomi.
Mugugno qualcosa, sollevando gli occhi al cielo. Tiro su col naso. Non mi sento benissimo, questi cambiamenti repentini di tempo non mi fanno molto bene. Il mio febbrone annuale ancora non me lo son fatto, quindi ogni volta che sento il naso chiuso, temo in un’influenza imminente.
« Non mi sento molto bene. E Laura ti ha visto, ma non ha capito chi sei. » mormoro io, mentre mi strofino il naso, che mi prude un po’.
Annuisce, torna a guardare avanti. Poi si avvicina all’autista e gli indica l’indirizzo di casa mia.
Sentirlo parlare in italiano è così strano… mi emoziona. Mi piace.
« Mi dici qualcosa in italiano? » gli chiedo io, quando sprofonda di nuovo sul sedile, e si volta a guardarmi.
Il sorriso si allarga, le palpebre si assottigliano, divertite.
« Cosa vuoi che ti dica? »
« Non lo so, qualcosa. Dimmi… ciao. »
« Che poca fantasia che hai, Jo. »
« Allora dimmi qualcosa a tuo piacere, genio! »
Lui mi si avvicina, mi sorride, ammaliante. Ovviamente io vado già in tilt, ma non voglio farglielo notare. Inarco un sopracciglio, cercando di mantenere un’espressione seria e distaccata.
« Sei molto bella, oggi. » mi dice lentamente, scandendo le parole in italiano, ma con un’ovvia cadenza inglese molto evidente. E soprattutto molto molto affascinante.
Trattengo il fiato, spalanco appena gli occhi. Sento le guance già avvampare. Chissà se lui si accorge mai di tutti gli sbalzi cardiaci che è capace di scatenare in me?
« Ma come siamo ruffiani. » gli rispondo io, fingendomi sempre molto indifferente. In realtà sto morendo dalla voglia di saltargli addosso e baciarlo, ma è un dettaglio che mi sento obbligata a trascurare. « Tranquillo, non c’è bisogno di farmi i complimenti, te la offro io la pizza stasera. » continuo, sorridendo sarcasticamente. Sì perché lui poverino i soldi per comprarsi una pizza mica ce li ha, eh.
Lui, impassibile, continua a sorridermi.
« Oh, no, oggi niente pizza. Oggi si mangia qualcosa di speciale. »
Io tiro su col naso. Mi sento la testa pesante.
« E cosa? Mi porti a mangiare l’aragosta? » chiedo, sorniona.
« Meglio, molto meglio! Oggi si mangia giapponese! » esclama lui allegramente. Intanto il mio sorriso sparisce di colpo.
« Cosa?! Tu sei matto! »
« Non ti piace la cucina giapponese?! »
« Non l’ho mai mangiata. »
« E’ ora di rimediare. »
« Preferisco rimandare l’ora della mia morte il più lontano possibile, grazie! »

***

Due ore dopo all’incirca, siamo nella mia cucina, e davanti a me si presenta un vassoio pieno di meravigliose pietanze di cui non ne comprendo la provenienza, e cerco di muovere (con scarsi risultati) le classiche bacchette giapponesi per mangiare.
Lo uccido con lo sguardo. Lui di rimando mi sorride apertamente, divertito.
Mi sento un po’ accaldata, debole. E man mano, mentre mangio, mi sembra che vada sempre peggio. Do automaticamente la colpa a quel cibo strano che Ben mi sta costringendo a mangiare (ok, qualcosa di commestibile c’è, ma non lo ammetterò mai davanti a lui). Lui sembra avere molta dimestichezza con le bacchette, infatti pian piano porta tutte le pietanze alla bocca con abilità.
Io dopo un minuto o due ci rinuncio, vado a prendere una forchetta. Arrivata davanti al cassetto delle posate, ho un giramento di testa.
« Ma cosa ci mettono in quella roba? Droga? » chiedo sarcasticamente, tornando a sedere. Ma non c’è molto da ridere.
« Perché? » mi chiede lui, ingoiando un pezzo di onigiri.
« Non mi sento molto bene. » mormoro con espressione corrucciata, portandomi una mano alla fronte. Sono sudata.
Oh, bene.
Sospiro, sollevo lo sguardo verso Ben.
« Credo mi stia salendo la febbre… »
« Guarda che non serve ricorrere a questi trucchetti di quarta categoria per non mangiare! » esclama lui, agitando le bacchette con fare minaccioso.
Io mi limito a guardarlo eloquentemente. Non so se per la mia espressione grave o per il mio sguardo particolarmente spento, Ben si alza in piedi e mi si avvicina.
« Forse è meglio se ti stendi. »
« Ho detto che ho la febbre, non che sto morendo. »
« Alzati subito, ingrata. » dice lui sarcastico, accompagnandomi poi nella mia stanza.
È la prima volta che la vede. Mi vergogno un po’, ma finalmente per una volta non può notare il mio imbarazzo, perché sono già rossa a causa della temperatura che sale lentamente.
Mi porta al letto, mi scosta le coperte e mi fa stendere, quindi me le rimbocca fin oltre il mento.
« Così soffoco. »
« In realtà ti voglio uccidere, infatti. » mi dice lui, arricciando le labbra in un sorriso bellissimo. Se già solitamente sembro un pesce lesso, non voglio neanche immaginare la mia faccia in questo momento.
Lo sguardo di Ben cade sul mio comodino. Assottiglia le palpebre, sembra abbia notato qualcosa di particolare. Seguo il suo sguardo con il mio, quindi spalanco gli occhi. Ha visto il biglietto che mi ha lasciato nel regalo tutto stropicciato!
Lo prende in mano, lo apre lentamente.
« Perché è tutto stropicciato? » mi chiede, tenendolo tra il pollice e l’indice per un angolino.
Stringo le labbra, abbasso il viso. Mi sento esplodere, sia per la febbre che per l’imbarazzo.
« Io… ci dormo, con quello. » mormoro con voce flebile, appena udibile. Poi nascondo mezzo viso sotto le coperte.
Lui mi guarda, sorridendo appena, stupito. Poi il sorriso si allarga, poggia il bigliettino e si mette in piedi davanti al mio letto.
« Dai, fammi un po’ di spazio. » mi dice lui, incoraggiante.
Ci metto qualche secondo a capirlo. Quindi mi giro pesantemente mettendomi sul fianco sinistro. Lui sale sul letto e si stende di lato anche lui, dietro di me. Mi cinge con il braccio destro.
« Ben… »
« Sì? »
« Hai intenzione di farmi morire davvero, oggi? » mormoro io, che inizio a capirci sempre meno.
« Perché? »
« Ma non capisci che effetto mi fa averti così vicino? »
Attimi di silenzio. Solleva la mano destra, la porta sul mio viso a scostarmi i capelli dall’orecchio.
« Ti da fastidio? » mi chiede poi, a voce bassissima, quasi con aria colpevole, dolce da morire.
« Ma no… » gli dico io, prima di lasciarmi sfuggire un lamento.
« Che hai? » mi chiede con una punta di allarmismo nella voce. Porta la sua mano sulla mia fronte. « Cavolo, ma tu scotti! » esclama mettendosi a sedere e scendendo dal letto. « Cosa ti devo dare? » mi chiede, iniziando ad andare verso la porta.
« Tachipirina… E’ nel secondo cassetto, nel mobile bianco vicino al divano… » dico io, moribonda. Faccio per tirare su col naso, ma è completamente tappato. Ci voleva, eh.
« Che cosa?! » esclama lui, gridando, dall’altra stanza.
« Ta – chi – pi – ri – na! » esclamo scandendo le sillabe, cercando di gridare di più.
Attimi di silenzio.
« Eh?! » sento esclamare ancora.
Sollevo gli occhi al cielo, andando ad alzarmi lentamente. Scosto le coperte e un brivido di freddo mi blocca per quante istante.
Quindi scendo dal letto e raggiungo Ben in cucina. Lo trovo curvo sul cassetto alla disperata ricerca di quella medicina dal nome così difficile.
Mi accosto a lui, sposto un paio di scatoline di medicinali, e prendo quella della tachipirina.
« Ta – chi – pi – ri – na. » gli dico, seguendo le sillabe sulla confezione, indicandole col dito, mentre le scandisco con la voce.
« Ok, per la prossima volta sono preparato. » dice lui, con un sorriso colpevole.
Prendo anche il termometro, e di nuovo un altro brivido di freddo mi blocca. Lui se ne accorge, mi si avvicina e mi cinge i fianchi con un braccio. Mi accompagna fino in camera, di nuovo mi fa stendere e mi copre fino al naso.
Metto il termometro a misurare la febbre.
« Come ti senti? » mormora lui, carezzandomi lentamente la testa.
« So cosa provano le aragoste quando vengono bollite vive. » rispondo io, fiacca.
Lo sento soffocare una risatina. Continua ad accarezzarmi pian piano, mentre sfilo via il termometro.
38,6. Sto per seccare, evvai.
Prendo subito la pastiglia di Tachipirina. C’è il silenzio più totale, sento il suo respiro sulla mia pelle. Mi sfiora appena i capelli. Non ricordo da anni così tanta dolcezza. Perché proprio a me? Tra tutte le ragazze che morirebbero, che venderebbero l’anima pur di stare solo cinque minuti con lui… perché il destino ha scelto di legarlo alla mia vita? Io che ormai tendo a tenere tutti lontani, a non affezionarmi, ad avere paura di qualsiasi tipo di relazione che vada oltre la conoscenza… Da quel giorno non sono più stata in grado di legarmi a qualcuno. Ho sempre una fottuta paura di volere bene alle persone.
Già, da quel giorno…
Un singhiozzo spezza il silenzio. Mi rendo conto, dopo pochi istanti, di essere stata io a produrlo.
« Jo? Cos’hai? » mi sussurra lui all’orecchio, cercando piano di voltarmi per guardarmi meglio.
Io resto salda nella mia posizione. Cerco di soffocare le lacrime. Più ci provo, più m’innervosisco perché non ci riesco, più piango. Sento la gola che mi fa male, come se i lamenti stessero lottando per uscire fuori, violentemente.
Lui continua ad accarezzarmi, e questo mi fa male. Perché tanta dolcezza gratuita? Cosa ho fatto per meritarmela? Non capisco… non lo capisco!
« I miei genitori sono morti. » mormoro tremante, in lacrime. Lui blocca per un attimo le carezze. Non riesco a vedere la sua espressione, ma credo che le mie parole l’abbiano colpito. Dopo poco riprende ad accarezzarmi, come a volermi incitare dolcemente ad andare avanti.
« E’ successo… quattro anni fa. Quasi. » mormoro ancora, tirando poi su col naso. Mi sento la testa pesante. Sento le mie parole così lontane, remote, ovattate. Come se qualcuno le stesse pronunciando al mio posto dall’altra stanza. A stenti mi rendo conto di quello che gli sto dicendo. « I miei nonni, i genitori di mia madre, sono francesi. Sono… ricchi, aristocratici. Per questo, quando mia madre ha sposato mio padre, l’hanno ripudiata. Mio padre era figlio di contadini, e questo a loro non stava bene… ma non avrei mai potuto avere padre migliore… » riesco a dire, prima di venire di nuovo sovrastata dai singhiozzi.
Porto la mano a coprirmi la bocca, a cercare di arrestarli, per soffocarli.
Lui me la scosta lentamente.
« Piangi. » mi mormora in un soffio, intrecciando poi lentamente le dita della sua mano con quelle della mia, tenendola stretta nella sua.
« Stavano litigando, ancora, per la stessa storia. Mia madre voleva andare in Francia, vederli, insomma… riabbracciare i suoi genitori. Mostrargli me, la figlia che aveva avuto con quel “buono a nulla figlio di contadini”. Mio padre si rifiutava sempre drasticamente. Non ne voleva sapere niente di loro. Insomma, litigavano. Papà si è distratto un attimo… non ha visto una macchina, di fronte, che ne stava superando un’altra. L’impatto è stato… brutale. »
Dio, come ricordo quei momenti. Come se fossero stati ieri. Gli risparmio i dettagli. Di come la macchina ha preso fuoco, di come io sono stata estratta in fin di vita, con mezze ossa rotte. Di come dei miei hanno trovato ben poco, in tutto il casino di acciaio e metallo che si era creato nell’impatto tra le due macchine. Di come io abbia dovuto riprendermi da sola, di come i miei nonni francesi, gli unici due rimasti, non si sono mai, mai fatti sentire, in quattro anni.
« E’ stato un miracolo, dicono. Che io sia sopravvissuta. » aggiungo a bassa voce, tra i rantoli provocati dalla febbre e dalle lacrime. « Avrei preferito morire anch’io, quel giorno. »
« No Jolene, no. » mi sovrasta subito la sua voce, appena mi sente dire quelle parole. « Non capisci? Qualcuno, lassù, ha voluto che tu rimanessi perché sei la testimonianza dell’amore dei tuoi genitori, sei la prova che tuo padre era una brava persona e che ha cresciuto una figlia stupenda come te. » mi dice lui, sempre delicatamente, ma con voce ferma.
Io resto zitta. Continuo a piangere per un po’. Lui sospira, poggia appena la sua testa sulla mia, mi tiene ancora stretta la mano. Man mano, lentamente, al tocco delle sue carezze, col suo profumo e la sua voce in testa, riesco a calmarmi, e alla fine, quando la medicina inizia a fare effetto, sprofondo in un pesante sonno senza sogni.

***

Socchiudo gli occhi. Sono tutta sudata, ma sono fresca. Per lo meno, non mi sento in ebollizione. La mia mano va involontariamente a toccare dietro di me, alla ricerca di un’altra presenza nel mio letto. Non c’è nessuno.
Arriccio le labbra, quasi contrariata. Che abbia sognato tutto? Ben, le carezze, tutto quello che gli ho raccontato…
D’improvviso spalanco gli occhi, ricordando appunto ciò che gli ho detto. Inizio a sperare vivamente che sia stato solo un sogno, ma poi il mio sguardo si posa a terra, e noto un paio di scarpe di pelle nera, eleganti, molto familiari, e soggiungono delle voci al mio udito.
« Sì sì Dana, lo so… Rimandalo, rimandalo alla prossima settimana. »
« Lo so che non è un atteggiamento professionale, ma ho bisogno di rimanere a Milano ancora qualche giorno. »
« Oh Dana ti prego! Non sono un ragazzino! Ho delle cose importanti da sbrigare! Se non vogliono più farmi l’intervista affari loro! »
Sento tutto aldilà della porta, in cucina probabilmente.
Poi silenzio, qualche secondo.
« Ok… Fine Maggio. Te lo prometto, non oltre. E no, non ti dirò dove ho dormito stanotte. Ne riparliamo quando torno in albergo. »
Mi sento un po’ rintronata. Non afferro tutte le parole. Sento le palpebre che mi si richiudono pesantemente… E mi riaddormento di nuovo.

***

Quando mi risveglio, la mattina è già inoltrata. Anzi, è quasi mezzogiorno. E mi sento ancora più rincretinita di prima, vabbè. Mi metto a sedere sul letto, trovo un biglietto di Ben, in cui mi ricorda di chiamarlo per qualsiasi cosa. Poi controllo il cellulare, e trovo un messaggio abbastanza minaccioso.
Jo, sono Laura. Sappi che questo pomeriggio vengo a trovarti, oggi non c’eri neanche in facoltà e mi sono preoccupata. E poi mi devi raccontare qualcosa o sbaglio?! A questo pomeriggio!
Mi lascio sfuggire un lamento, e ricado pesantemente sul cuscino. E adesso cosa le racconto?!

//

Grazie mille a vega, in effetti mi dispiace molto non ricevere recensioni qui… >_< Comunque grazie mille, sono contenta che ti sia piaciuto! Se ti va continua a seguirlo e dimmi sempre cosa ne pensi e se hai qualche consiglio da darmi… E’ sempre graditissimo!
   
 
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