=
“Auguro a quest'uomo di vivere in
eterno” =
“è per vostra sorella, lei e vostra
nipote…vedete, i Dream Pirates hanno
trovato la loro casa e…”
Non c’era stato bisogno che il direttore della struttura
medica dove lavorava
proseguisse oltre. Spear Sinetenebris aveva già capito tutto
quel che c’era da
capire soltanto guardando l’espressione del suo superiore
quando le aveva dato
la notizia. Lo aveva lasciato continuare a parlare semplicemente
perché era
giusto così: per lei non era stato facile ascoltare quelle
parole, e per lui
non era stato facile dirle. Quando mai è facile dire a
qualcuno “tua sorella e
tua nipote sono state uccise dai Dream Pirates ieri, ma la notizia
è arrivata
qui solo adesso, e il funerale si terrà
dopodomani”?
Tutte le parole dette da Spear in quel frangente erano state
“ho capito”, e
“bene” quando il suo superiore le aveva dato una
settimana di congedo. In
condizioni normali non l’avrebbe accettato, era una
stacanovista, ma in
quell’occasione era tutto diverso.
La sua ultima azione prima di andare
a casa era stata quella
di richiedere alle autorità competenti un rapporto scritto
quanto più possibile
dettagliato su cos’era accaduto, sulle condizioni dei corpi e
della casa. Altri
non avrebbero potuto chiedere nulla di tutto ciò, ma il
lavoro e la posizione
di Spear le avevano procurato qualche contatto e dei favori da
riscuotere.
Aveva passato il resto di quella giornata chiusa in casa, al buio,
rifiutandosi
di parlare con chiunque, o qualsiasi contatto da parte della gente del
quartiere.
Casa…tra quelle pareti era
stata più infelice che altro,
eppure quanto aveva fatto, in gioventù, per tenersela
stretta!
Ora era l’unico conforto che le restava. Una casa piena di
ricordi e di un
silenzio assordante che avrebbe portato chiunque altro a
impazzire.
Ma Spear non era “chiunque altro”. Aveva
familiarità col dolore e la tristezza,
erano antichi compagni di giochi, così come ben conosceva la
morte, intima
“amica” da molto tempo. Si era presa suo padre, si
era presa sua madre -la vita
non era stata clemente con i Sinetenebris, bisognava ammetterlo- e ora
anche
Aleha, la sua dolce e testarda sorella, nonché Emily Jane,
la nipote che aveva
potuto tenere tra le braccia solo durante i suoi primi quattro mesi di
vita.
Per ore aveva vagato da una stanza all’altra come
l’anima in pena che era,
lasciandosi assalire dalle memorie che ogni singolo oggetto le
riportava alla
mente.
Aveva sfiorato lo stipite della porta
su cui, anno dopo
anno, era stata segnata l’altezza di Aleha dal momento in cui
era riuscita a
stare in piedi in poi.
Aveva sfogliato e risfogliato i
disegni che sua sorella
aveva fatto da piccola, conservati con cura in un cassetto, e guardato
fotografie finché il sonno non l’aveva vinta e
fatta crollare lì, sul letto che
era stato di Aleha.
Poi, circa a metà della seconda giornata, aveva trovato i
suoi diari segreti,
quelli che Aleha aveva scritto dai dieci fino ai sedici anni.
Inizialmente
aveva esitato ad aprirlo, ma pensare che era tutto quel che rimaneva di
sua
sorella, e che lei sarebbe stata seppellita il giorno seguente,
l’aveva spinta
a tuffarsi in quelle pagine. Leggendo quelle righe le era sembrato di
sentire
la voce di Aleha, dapprima infantile e poi, mutando assieme alla
calligrafia,
un po’più adulta.
Aveva pianto. Dopo quasi ventiquattro ore in cui non era riuscita a
farlo,
lacrime silenziose avevano iniziato a scivolarle sulle guance.
L’amore, la
gratitudine e l’ammirazione che Aleha aveva provato per lei
erano espressi
tutti lì, nero su bianco.
Per un attimo aveva pensato che una
reazione simile alla sua
età -trentasei anni, per inciso- fosse sciocca, ma quella
considerazione aveva
perso importanza già l’istante successivo. Non
c’era età troppo avanzata per
provare dolore e tristezza, ma non c’era età
neppure per l’amore fraterno, né
si era mai troppo vecchi per commuoversi nel leggere parole piene
d’affetto.
Poi aveva voltato l’ennesima pagina.
“Io
lo amo
tantissimo, e anche lui mi ama.
È così bello
stare insieme a lui, per quel poco
che possiamo, ed è così naturale per me essere la
sua ragazza che ho capito che
era soltanto questione di tempo. Credo che fossimo destinati a stare
insieme.
Io e Kozmotis siamo una cosa sola, e sono sicura che lo saremo per
sempre”.
Tipiche parole di una tipica adolescente innamorata persa.
Le lacrime avevano immediatamente smesso di scorrere, tutto
ciò che aveva
provato fino a quel momento era scomparso, sostituito da un dolore
ancor più
grande del precedente e una profondissima collera.
Aveva passato la vita a spaccarsi la schiena per se stessa e per Aleha,
facendo
di tutto -ma proprio di tutto-
purché mantenesse un tenore di vita
più che soddisfacente…a che pro? Ormai era tutto
perso, tutto distrutto, e di
chi era la colpa?
Chi era stato la causa principale, se non l’unica,
dei litigi tra lei e sua sorella?
Chi l’aveva allontanata da lei, e idem sua nipote, facendole
trasferire in quel
posto dimenticato dagli Dei, decisione per cui lei e Aleha avevano
avuto uno
scontro così terribile da non aver avuto contatti per
quattro anni?
Kozmotis
“Pitch” Pitchiner,
Lord High General of the Galaxies. Il grande eroe del
regno. Dov’era
quell’imbecille,
mentre Aleha ed Emily Jane morivano?
Il primo istinto era stato di fare in mille pezzi le pagine di quel
diario, ma
era riuscita a trattenersi, e lo aveva scagliato contro una parete,
soffocando
per metà un ringhio rabbioso.
Quante volte aveva detto a sua sorella che, pur non essendo una cattiva
persona, Kozmotis Pitchiner aveva un talento innato per attirare guai,
e che la
loro famiglia ne aveva già passati abbastanza? Innumerevoli,
come le volte in
cui aveva espresso la sua completa disapprovazione per quel legame.
Aveva fatto
di tutto per spezzarlo -a volte con atti che sfociavano “leggermente”
nell’illegalità- ma non c’era proprio
stato verso.
In quante occasioni aveva detto a Kozmotis di stare lontano da Aleha,
perché
con i nemici che si era fatto -forse non solo tra i Dream Pirates-
stava
disegnando un bersaglio anche sulla sua schiena? Altrettante.
L’avevano ascoltata? No, ovvio che no, avevano voluto fare di
testa propria.
Lei sapeva che sarebbe andata a finire male, lo aveva previsto.
Quanto aveva maledetto la
stupidità di entrambi, il loro
stesso legame. “questa decisione e quest’uomo
saranno la rovina tua e di mia
nipote!” aveva gridato ad Aleha il giorno in cui se
n’era andata.
Nel ricordarlo Spear si era accasciata sul letto della sorella, scossa
da una
risata isterica e accecata da nuove lacrime. Era una di quelle persone
che,
quando dicevano una cosa, tendevano ad avere ragione in oltre il
novantacinque
per cento dei casi, ma mentre rideva fino a sentir dolere la gola aveva
pensato
che avrebbe volentieri barattato quella sua peculiarità pur
di far rivivere Aleha
ed Emily Jane.
Poi era tornata a pensare a suo cognato Kozmotis, piccolo,
stronzo e inutile vigliacco.
Non aveva neppure avuto il coraggio
di informarla di
persona, aveva lasciato che lo venisse a sapere da terzi, e solo il
giorno
dopo.
Era un affronto. Uno scandalo. Se lo
avesse avuto lì lo
avrebbe aperto in due col bisturi nemmeno fosse stato un pesce, e chi
se ne
importava se era un medico che aveva giurato di non attentare mai alla
vita di
alcuno.
La svolta era arrivata in tarda serata, con l’arrivo del
rapporto scritto che
aveva richiesto, dettagliato come l’aveva voluto. Su Kozmotis
c’erano scritte
frasi come “riscontrata una perdita di lucidità la
cui entità effettiva è
ancora da definire”, che era come dire
“è pazzo di dolore”, ma di lui non
avrebbe potuto importarle meno.
Quel che contava era altro.
Piuttosto che lasciarsi divorare l’anima -e non solo- dai
Dream Pirates, della
cui attività non era stata trovata traccia sul corpo, Aleha
si era suicidata
gettandosi dalla finestra della stanza da letto, che dava su uno
strapiombo
estremamente profondo. Fin lì nulla di anormale, e quella di
sua sorella era
stata una scelta estrema e coraggiosa: meglio morire in quel modo che
per mano
di quei mostri.
Ma c’era un dettaglio
alquanto strano: perché saltare giù
stringendo tra le braccia una bambola di grandi dimensioni?
Chi aveva stilato il rapporto non
aveva trovato un senso a
tale azione, perché all’apparenza sembrava non
averne.
Però iniziava ad acquistarne se a ciò si
aggiungeva che del corpo di Emily Jane
non era stata trovata traccia, e che la piccola nave con cui la bambina
faceva
le sue gitarelle tra gli asteroidi -così le aveva raccontato
Aleha in qualche
lettera: era una cosa che la faceva impazzire, ma che quel demente di
suo
marito invece approvava!- era segnalata tra gli oggetti mancanti.
C’era la
possibilità che fosse stata distrutta, ma non ne erano stati
trovati i pezzi.
Spear aveva fissato a lungo quella parte del rapporto, e non era
riuscita a
soffocare in alcun modo la speranza nascente che forse non era davvero
tutto
perduto.
Aleha era morta, ciò non
poteva essere cambiato, ma forse,
al momento dell’attacco, Emily Jane stava facendo una delle
sue gitarelle. Forse
si era allontanata e si era salvata.
I Dream Pirates avevano detto che di
lei non era rimasto
niente, ma potevano aver mentito per distruggere ancor più
il loro nemico, con
completo successo.
C’era una possibilità che Emily Jane fosse viva, e
che parte di Aleha dunque esistesse
ancora.
Se le cose stavano così, Spear non avrebbe lasciato che
tutto sfumasse. Dopo il
funerale avrebbe iniziato a indagare e, se necessario, avrebbe
abbandonato il
suo lavoro per seguire qualunque pista avesse trovato. Ormai aveva
guadagnato a
sufficienza da potersi comprare addirittura una piccola nave personale,
di
quelle volanti in legno, e investimenti fruttuosi fatti qualche anno
prima le permettevano di vivere con una rendita dignitosa.
Se avesse avuto successo, una volta
trovata Emily Jane
l’avrebbe tenuta con sé, e avrebbero iniziato una
nuova vita altrove.
Non intendeva rendere suo cognato partecipe della cosa. Riteneva che
non
meritasse di condividere con lei quella speranza, e tantomeno di avere
rapporti
con la bambina, se mai fosse riuscita a trovarla: aveva fatto danni a
sufficienza già così.
Sperare non aveva affievolito la rabbia e l’odio
-sì, ormai poteva
tranquillamente definirlo tale- che la dottoressa Sinetenebris provava
verso il
cognato.
Un odio tale da renderla fredda come ghiaccio anche ora, durante il
funerale di
Aleha, mentre guardava la bara chiusa della sorella attraverso la
veletta, nera
come il vestito che indossava.
La cerimonia era molto sentita, e il tempio era pieno, ma era normale:
coloro
che avevano conosciuto Aleha le avevano anche voluto bene. Peccato che
la loro
presenza e le loro condoglianze non avessero toccato minimamente Spear.
Oltre
alla freddezza che l’aveva invasa, provava anche una strana
sensazione di
“irrealtà”, come se non si trovasse
lì per davvero, e fosse tutto uno strano
sogno, o un mondo parallelo.
I suoi pensieri erano proiettati su
Emily Jane e su come
avrebbe potuto ritrovarla, e nulla finora aveva avuto il potere di
riscuoterla,
neppure la presenza della piccola bara vuota accanto a quella di Aleha.
Aveva a malapena notato che Kozmotis
non le si era ancora
avvicinato. C’era, poi? Se era così, non aveva
fatto caso a dove fosse.
Il suddetto Kozmotis invece l’aveva avvistata immediatamente.
Benché fosse
devastato dal dolore, dal senso di colpa e dalla rabbia,
benché l’accusa
formale che intendeva presentare contro Lady Nahema fosse fissata per
il giorno
dopo, e avesse quelle due bare sotto gli occhi, la figura ammantata di
nero di
Spear gli era saltata subito all’occhio.
Loro due erano tutto quel che rimaneva della famiglia, e forse se
fossero
riusciti a sostenersi l’un l’altra sarebbe stato
più facile ottenere giustizia
per quell’assassinio crudele, altro motivo per cui
avvicinarsi a lei sarebbe
stato corretto.
Alla fine però non
l’aveva fatto. Ognuno esprimeva il dolore
a modo proprio, d’accordo, ma Spear sembrava essere quella di
sempre, come se
quel che era accaduto, e la cerimonia cui stava assistendo, non la
toccassero
affatto.
In virtù
dell’amore che professava verso la sorella, Spear
avrebbe dovuto essere distrutta quanto lui, ma quel che aveva visto
Kozmotis
era tutt’altro. Ciò lo aveva disorientato, e
gettato nell’insicurezza al punto
da aver deciso di rimandare la conversazione a dopo la cerimonia.
Parlare con lei non gli era mai
risultato semplice, tanto
per utilizzare un eufemismo, e in quell’occasione ancor meno.
La guardò ancora. Vederla così dritta e composta
nella sua solita alterigia era
l’unica cosa che, fino a quel momento, era riuscita a
distrarlo leggermente dal
pensiero ossessivo che non avrebbe più visto il sorriso di
Emily Jane, che non
avrebbe più abbracciato sua moglie, e dal desiderio di
vendetta verso gli
Aldebaran.
Cercò sulla sua figura
esile un qualsiasi segno di
cedimento, una qualsiasi emozione sul volto parzialmente coperto, ma
non trovò
nulla.
Per un attimo la odiò. Se Lady Nahema era
malvagità pura, cos’era allora una
donna che restava indifferente dinanzi alla morte di sorella e nipote?
Guardare nuovamente le due bare, però, lo riportò
alla realtà. Che Spear fosse
o meno un mostro era l’ultima cosa che contasse e, se non
avesse voluto
sostenerlo nella sua lotta per ottenere giustizia, che fosse! Avrebbe
lottato
da solo.
La cerimonia andò avanti, e il momento in cui i familiari
dei cari estinti
erano chiamati a dire qualche parola arrivò prima del
previsto.
Kozmotis si avvicinò al
pulpito, cercando di non far cedere
le ginocchia. Guardò il feretro della moglie. Davvero Aleha
era lì dentro? Ogni
passo in avanti era una pugnalata al cuore, e non osava pensare a come
sarebbe
stato quando l’avrebbero portata via e sotterrata. Per non
fare come la madre
di Aleha quando ad essere seppellito era stato suo marito avrebbe
dovuto
sforzarsi.
Le immagini di quella donna che si
aggrappava alla bara del
marito gridando e piangendo irruppero nei suoi pensieri. Era certo che
quello
sarebbe stato anche il suo primo istinto.
Chissà se Spear avrebbe ripetuto le azioni di allora anche
in quel frangente.
Il modo in cui aveva allontanato la madre, e la durezza di quel
“mamma, basta.
È morto. Fare così non cambierà nulla.
Niente sceneggiate!” gli erano sempre
rimaste impresse.
Raggiunse il pulpito, prese il microfono con le mani che gli tremavano
leggermente, rivolse lo sguardo ai presenti e, dopo una breve
esitazione,
iniziò a parlare. «voi tutti conoscevate Aleha, e
sapete quale persona
meravigliosa fosse. Era mia moglie, la mia anima gemella, la mia
metà. Mi è
stata accanto sin da quando eravamo bambini di tre anni, e
probabilmente
l’amavo già allora. Ora non
c’è più»
s’interruppe un attimo per riacquistare un
po’di compostezza, rendendosi conto che la sua voce era
terribilmente prossima
a spezzarsi «così come non
c’è più mia figlia, la mia dolce Emily
Jane. Hanno
portato con loro la parte migliore di me. La mia vita non
sarà più quella di
prima, io stesso non sono più l’uomo di prima,
né potrò mai tornare ad essere
qualcosa che gli somigli, soprattutto perché ho la
consapevolezza che tutto ciò
non è accaduto per una disgrazia voluta dal destino. I
nemici del regno non
hanno trovato la mia famiglia per caso» alzò
leggermente la voce, sentendo che
la gente iniziava a mormorare «e se hanno ucciso tutti coloro
che hanno trovato
in casa mia, tentando di distruggermi per facilitarsi la conquista del
regno, è
stato perché era stato loro ordinato da una tra le
più nobili famiglie del
nostro regno: gli Aldebaran!»
Diversi uomini della sua armata sospirarono, e alcuni arrivarono
addirittura a
fare facepalm. Si erano augurati che il loro comandante avrebbe evitato
di
tirare fuori quelle strampalate teorie complottistiche anche in
quell’occasione, ma evidentemente avevano sperato troppo, e
ormai la gente
faceva ben più che mormorare, chiedendosi se il povero
Pitchiner fosse
impazzito completamente.
«non si sono sporcati le mani personalmente, ma sono loro i
colpevoli di questa
tragedia. Io intendo dimostrarlo affinché venga fatta
giustizia, e mia moglie e
mia figlia possano riposare in pac-»
Non riuscì a finire la frase, perché qualcuno gli
tolse il microfono dalle
mani, avvicinandolo poi all’apparecchio elettronico
più vicino. Il fischio che
emise fu tanto acuto e fastidioso che molti gemettero e si tapparono le
orecchie, Kozmotis incluso.
«ora che la giusta atmosfera è stata ripristinata,
credo di dover dire qualche
parola anch’io».
Sembrava proprio che Spear avesse finalmente abbandonato la sua
composta
immobilità, ma a Kozmotis, una volta riscossosi
dall’accaduto, non vi volle
molto per intuire che per come si erano messe le cose era
più un male che un
bene. La Spear Sinetenebris che conosceva lui, poteva essere in due
soli modi.
Il primo: dura e fredda come la parete di una salda e gigantesca diga.
Il
secondo: come l’acqua che, ceduta suddetta diga, travolgeva e
distruggeva tutto
quel che aveva la sventura di trovarsi sulla sua strada, senza
distinzioni e
senza pietà alcuna.
«mia sorella era la creatura più buona, gentile e
altruista che abbia mai
conosciuto» iniziò Spear «e non lo dico
perché sono di parte. È semplice
verità, come lo è dire che era una donna
splendida, e intelligente».
“allora sbagliavo?” pensò Kozmotis, un
po’sorpreso. Si era aspettato il peggio,
invece fino ad ora sua cognata non aveva detto nulla che non pensasse
lui
stesso.
«il problema è che anche le persone intelligenti
non sono esenti dal commettere
piccoli e grandi errori. Aleha ha commesso uno solo di questi ultimi,
che
purtroppo le è costato la vita: affidarsi all’uomo
sbagliato».
Se le parole del generale Pitchiner avevano causato subbuglio e
mormorii,
quelle di Spear stavano sconcertando altrettanto, ma
all’interno del tempio non
volava una mosca.
«in tutta la vita, io ho chiesto a Kozmotis Pitchiner due
sole cose. Gli ho
chiesto di stare lontano da mia sorella, vista la sua posizione, e lui
non l’ha
fatto. Gli ho chiesto di non far spostare Aleha ed Emily Jane in un
luogo
isolato in cui nessuno avrebbe potuto aiutarle, e non solo sono rimasta
inascoltata, ma sono stata insultata, trattata come una strega
maligna, e a
causa di questo ho perso i contatti con mia sorella per quattro
anni».
Kozmotis si era aspettato il peggio, ma non credeva alle proprie
orecchie.
Quella donna traboccava tanto d’odio da arrivare a fare quel
discorso in un
momento del genere, e ciò lo stava sconcertando al punto
che, per il momento,
non riusciva neppure a reagire.
«se avesse esaudito la seconda di queste due richieste, forse
mia sorella
sarebbe ancora tra noi. Se avesse esaudito la prima, lo sarebbe stata
sicuramente. Non c’è bisogno di scomodare i nemici
del regno o qualunque
famiglia delle Costellazioni. Se Kozmotis Pitchiner vuole che il
colpevole di
questa tragedia paghi, non ha altro da fare che impiccarsi. Io,
però, spero che
decida di non farlo e che continui a vivere con la consapevolezza che
la colpa
di tutto questo è sua. Auguro a
quest’uomo di vivere in eterno, fin quando
diventerà l’ombra di se stesso, e
anche oltre. Grazie a tutti».
Concluso così il suo discorso posò il microfono
sul pulpito e procedette verso
l’uscita del tempio a grandi passi, guardando dritto davanti
a sé. Tutti la
osservarono allontanarsi, ma nessuno la ostacolò…
«no, generale, no, per favore, non
è il
caso!...»
O meglio, nessuno riuscì a farlo.
Il povero Lord Pitch, ripresosi dal
colpo, stava cercando di
raggiungerla, col solo desiderio di spezzare quel suo collo sottile. Se
non ci
stava riuscendo era soltanto perché diversi uomini della sua
armata lo avevano
raggiunto, e lo stavano trattenendo a viva forza.
Quanto al sacerdote, ormai aveva
perso definitivamente il
controllo della situazione.
«sputi
veleno perfino
al funerale di tua sorella e tua nipote, non hai un minimo di ritegno!»
gridò il generale.
Le parole di quella donna l’avevano fatto sentire ancor
peggio di prima, e non
credeva fosse possibile. Non aveva bisogno di qualcuno che gli
ricordasse il
suo fallimento nel proteggere ciò che amava di
più, tantomeno con una sorta di
“te l’avevo detto” non troppo nascosto.
Se Spear fosse stata un’altra avrebbe
potuto giustificarla dicendo che aveva parlato mossa dal dolore, che
non sapeva
cosa diceva, ma una cosa del genere non poteva valere per lei. Non per
qualcuno
che non aveva aspettato altro che un’occasione qualsiasi per
gettare pubblicamente
fango su di lui, come se la scenata che aveva fatto al matrimonio anni
orsono
non fosse stata abbastanza.
«ad Aleha non sarebbe piaciuto» disse Spear,
voltandosi lentamente indietro «ma
grazie a te non avrà modo di lamentarsene».
«sei contenta che le tue maledizioni si siano avverate! Che tu sia dannata! STREGA!!!»
La donna rimase impassibile, almeno all’apparenza.
«urli, strepiti, accusi
chicchessia di qualcosa per cui hai colpa soltanto tu, e quella senza
ritegno
secondo te sono io? Hai una strana
concezione della realtà, Kozmotis. Addio».
Oltrepassò la soglia del tempio, incurante di qualsiasi
cosa. La diga era stata
distrutta, l’acqua aveva inondato tutto, e ora non restava
che lasciarla
defluire.
Tutto quel che c’era da dire era stato detto, e ora non
doveva far altro che
iniziare le sue indagini, sperando di trovare qualcosa, e iniziare col
dare
un’altra letta al rapporto non avrebbe fatto danno.
Certo, l’accusa agli Aldebaran dava da pensare. Kozmotis
aveva tutti i difetti
della galassia, ma che casualmente fosse andato ad accusare proprio
quella
famiglia le suonava strano.
Ricordava bene quant’era
“contenta” Lady Nahema quando
Kozmotis era stato nominato High General of the Galaxies, ed era
indubbio che
Kozmotis e la sua lealtà ai Lunanoff le sarebbero stati
d’ostacolo, se davvero
lei e la sua famiglia volevano prendersi il regno: l’Armata
Dorata era la più
grande e potente del reame, e unite alle famiglie
“lealiste” dei Lunanoff
avrebbe potuto costituire un problema non da poco.
Ma la cosa non la riguardava. Non
intendeva supportare
minimamente suo cognato in quella faccenda. Se anche Kozmotis avesse
avuto
ragione, la colpa sarebbe stata sempre sua: se le avesse dato retta e
si fosse
allontanato da Aleha anni prima, gli Aldebaran o chicchessia non
avrebbero
avuto motivo di ucciderla.
Inoltre, se voleva indagare su Emily
Jane, era bene non
inimicarsi persone che avrebbero potuto metterle i bastoni tra le
ruote, e
degli arciduchi molto ricchi avrebbero potuto farlo.
Sua nipote era tutto quel che -forse- le restava, e tutto quel che
contava al momento.
Se era viva, giurò a se stessa, un giorno
l’avrebbe trovata.
[…]
«hai voglia di darti pesantemente all’alcol,
Nahema?»
«mi preparo spiritualmente per l’udienza di domani.
Quella in cui Pitchiner
accuserà me e Aladohar, hai presente? E comunque
è solo un bicchiere».
Altri sarebbero stati decisamente preoccupati all’idea di
dover affrontare
l’accusa formale del Lord High General of the Galaxies, ma
non gli Aldebaran,
che ritenevano di aver studiato tutto sufficientemente bene da non
correre
rischi. L’ “ansia” di Nahema e Aladohar
era tale da starsene tranquillamente a
mollo in una grande vasca a idromassaggio insieme a Kitah.
«è un momento cruciale. Da qui in avanti, se
vogliamo che Pitchiner venga
screditato del tutto, il margine d’errore che abbiamo a
disposizione è
inferiore allo zero» continuò Nahema
«meglio restare lucidi, e rimandare i
festeggiamenti a quando avremo raggiunto i nostri
obiettivi»
«a proposito, tra stasera e domani mattina dovremo informarci
sul funerale
categoricamente vietato ai nobili» l’arciduca
alzò gli occhi al soffitto, per
poi rivolgere lo sguardo a Lord Taurus «si direbbe che
Pitchiner non abbia
preso bene che tu, Renin Altair e gli altri abbiate già
parlato a favore di
Nahema. Poi certo, torna utile ugualmente, perché tutto
questo suo gridare al
complotto e certe scelte azzardate non faranno che alimentare le voci
sul fatto
che perdere moglie e figlia gli abbia fatto perdere anche la
ragione».
«a raccogliere informazioni ho già pensato
io» disse Kitah, con la sua classica
tranquillità, mentre legava in una coda i lunghi capelli
neri. «pare che da un
certo punto in poi sia stata una cerimonia piuttosto
movimentata».
«ah sì?» Nahema si stiracchiò
«specifica».
«andiamo, come se non lo sapeste già! Siete stati
bravi a fingere di non essere
a conoscenza di nulla, è un buon allenamento per il futuro,
ma con me non
serve. Riuscire a convincere la cognata di Pitchiner a fare quella
sceneggiata
è stato un gran bel colpo» sollevò
entrambi i pollici in segno di approvazione,
scrutando entrambi i fratelli con gli occhi azzurro cupo
«anche se mi chiedo
come abbiate fatto» Nahema e Aladohar si scambiarono
un’occhiata perplessa, e
Lord Taurus sollevò le sopracciglia, sorpreso.
«aspettate…Pitchiner vi ha
accusati, quella donna lo ha interrotto, gli ha dato la colpa di tutto
e detto
che doveva impiccarsi, e mi state dicendo che non c’entrate?
Seriamente?
Pensavo fosse una vostra strategia per far arrivare Pitchiner
all’udienza nel
peggior stato psicologico possibile!»
«no, non abbiamo proprio niente a che fare con la sorella
della fu Lady
Pitchiner, ma se davvero ha fatto una cosa del genere ci ha facilitato
le cose»
Aladohar fece spallucce «il buon Lord Pitch sarà
ancor più fuori di testa di
quanto fosse già. O beh, pare che l’ora della tua
prima ubriacatura si
avvicini, Nahema! Non potrai più sbattermi in faccia la tua
verginità dalle
sbronze».
«vergine giusto dalle sbronze, perché per
il resto!...» aggiunse Kitah con un sorrisetto
divertito.
«ho la vaga impressione che stasera una
certa persona, contrariamente ai programmi, se ne
andrà a letto a casa
propria» disse Nahema «e ora vi consiglio di uscire
entrambi dall’acqua e
togliervi di torno per un po’. Non vorrei che finiste per
essere annegati da
qualcuno!»
Ovviamente Nahema non se l’era presa per davvero, e forse non
avrebbe neppure
rispedito Kitah a casa come aveva minacciato di fare -gli Dei sapevano
quanto
avesse bisogno di un po’di sesso decente!- ma le era presa
voglia di rimanere
sola coi propri pensieri, senza fratello minore e alleato/amico/amante
attorno.
La minaccia dell’annegamento funzionò, ed entrambi
uscirono dall’acqua, un
po’borbottando, un po’protestando. Sapevano che
probabilmente non li avrebbe
annegati davvero, ma era stato proprio quel
“probabilmente” a far loro
concludere che era meglio darle retta.
Rimasta sola, Nihil Nahema chiuse gli occhi. Si stava avvicinando
all’obiettivo
passo dopo passo, e nulla che si fosse messo sulla sua strada avrebbe
potuto
impedirle di raggiungerlo, com’era giusto che fosse: il motto
degli Aldebaran
non era forse “Nihil
Obstat”?
“certo” pensò, schiudendo svogliatamente
le palpebre “ma temo che sarei ancora
a un punto morto, se non fosse stato per-”
Quando vide quel che aveva davanti, sobbalzò e trattenne a
stento
un’esclamazione sorpresa, ma c’era da capirla:
mandare via fratello e
amico/alleato/amante per ritrovarsi nella vasca una donna serpente sui
dodici
metri che sorseggiava beatamente liquore da un bicchiere non rientrava
esattamente nei suoi programmi.
«le vostre vasche con l’acqua calda non sono
affatto male, e nemmeno le vostre
bevande, a dirla tutta!»
Era inquietante per l’arciduchessa osservare il proprio corpo
sparire per metà
tra le nere spire intangibili, ma perfettamente visibili, di quella
creatura.
Era una cosa che la faceva sentire in trappola, oltretutto in casa
propria, e
non le piaceva. «Tanith.
Come hai
fatto a entrare in…no, niente. Ephemeride. Diventi
invisibile e incorporea
quando vuoi. È ovvio che tu possa entrare praticamente
ovunque quando vuoi».
«confermo e sottoscrivo. Sono venuta a complimentarmi per il
celere e corretto
utilizzo delle informazioni che ti ho passato. Io e le altre
Ephemerides siamo
molto soddisfatte. Non che la soddisfazione delle altre
m’importi,
naturalmente» aggiunse, con un sorriso «oh, mi
raccomando: domani, all’udienza,
ricordati di porgere al povero Kozmotis le tue più sentite
condoglianze».
“va bene, ma ora esci dalla mia vasca. Esci. Esci”.
«puoi stare sicura che lo avrei fatto anche se non me
l’avessi detto» disse Nahema «ormai ho
imparato a conoscerlo, e credo che una
cosa del genere lo farà dare fuori di matto, specialmente
dopo oggi» commentò
«se sei andata al funerale dovresti aver mangiato
bene».
«è stato un buon banchetto per tutte quante. Il
dolore di un uomo come Kozmotis
Pitchiner, specie così profondo, è assolutamente
delizioso, forse addirittura
il migliore di cui mi sia nutrita fino ad ora, e la cosa migliore
è che potrò
continuare a farlo a lungo!» esclamò, sembrando
veramente felice «anche il
dolore della cognata però non era affatto male, devo
ammetterlo».
«puoi nutrirti anche di quello della figlia di Pitchiner, se
ti va. Abbiamo
fatto sì che fosse “trovata per caso”
dal titano Typhan e mia sorella Nihil
Kehazilia, quindi ora è nei loro territori. Se le tue
colleghe non lo sanno
già, è una fonte di dolore tutta per
te».
Il sorriso dell’Ephemeride si allargò leggermente.
«prima o poi l’avrei trovata
da sola, ma mi hai reso il compito più semplice.
Però sappilo: non solo mi
nutro di dolore ma se posso, coi miei sussurri, lo alimento per averne
ancora.
Che lo faccia con una bambina di sei anni non dovrebbe essere
socialmente
inaccettabile, per la tua gente?»
«tu mi hai fatto un favore, e io lo ricambio. Gli Aldebaran
pagano sempre i
propri debiti» replicò Nahema «a patto
che non le venga fatto del male fisico, di
Emily Jane Pitchiner non mi importa proprio niente. Se ho lasciato che
vivesse
è solo perché magari un giorno potrà
essere utilizzata in qualche modo.».
Tanith si appoggiò contro il bordo della vasca, e la
fissò silenziosamente per
diversi istanti, con la testa leggermente inclinata di lato.
«per essere un
Ephemeride ti manca soltanto una cosa: la razza. Ma in fin dei conti
è meglio
così, se fossi stata una mia simile sarei stata quasi
sicuramente costretta a
ucciderti. Arrivederci, arciduchessa».
Così com’era apparsa, Tanith sparì di
colpo, esattamente com’era accaduto
l’altra volta.
«…arrivederci».
Era un po’irritante chiedersi se fosse andata via per davvero
o se fosse lì da
qualche parte in forma invisibile, ma Nahema si disse che era meglio
lasciar
perdere, perché in ogni caso non avrebbe potuto farci
niente.
Sembrava che anche per lei e la sua
famiglia ci fossero
creature impossibili da contrastare, dopotutto.
“fortunatamente sembro piacerle, quindi se ogni tanto ha
voglia di farmi una
visitina farò bene ad accettarlo”.
Meglio che Tanith continuasse a essere utile, piuttosto che pericolosa.
Non voleva certo finire come Pitchiner.
Buon pomeriggio a tutti!
La prima cosa che tengo a puntualizzare è che quella faccenda della bambola di grandi dimensioni non è faina del mio sacco, ma canonica. Solo che nel canon è stata utile (ha fatto pensare ai Dream Pirates che la moglie di Pitch si fosse gettata nel vuoto insieme a Emily Jane, quando in realtà non era così) qui invece Aleha avrebbe anche potuto fare a meno di prendere la bambola, dal momento che uccidere Emily Jane non era nei piani.
Nello scorso capitolo mi sono dimenticata di specificare un paio di cose: il Kraken Divoratore cui Kerasaas ha fatto accenno è quello della one shot, come giustamente detto da KausBorealis, e nel concepire l'idea della Barra (prima avevo in mente altro, in effetti) sono stata molto aiutata da vermissen_stern :)
Alla prossima,
_Dracarys_