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Autore: voiceOFsoul    14/09/2016    1 recensioni
Ram aveva ormai raggiunto un equilibrio ma adesso si ritrova senza lavoro, convive con Diego in una situazione imbarazzante e non vede Alex e Vale da troppo tempo. Da qui deve ricominciare da capo. Il suo percorso la porterà a incrociare nuove vite, tra cui quella di Tommaso che ha appena imparato a sue spese che la perfezione a cui tanto Ram aspirava non esiste.
Si può essere felici anche se si è imperfetti?
[Seguito di "Volevo fossi tu" e "Ancora Tu", viene integrata e proseguita l'opera incompleta "Open your wings and fly"].
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mi rendo conto di non aver mai apprezzato davvero il nostro piccolo parco cittadino. Ho sempre avuto l’idea che fosse piccolo e spoglio, praticamente inutile. Il mio sogno è sempre stato quello di avere a disposizione qualcosa di enorme, come il Central Park. Distese di prati infiniti dove sdraiarsi a godersi una giornata di sole come oggi, barchette su cui lasciarsi placidamente trasportare lungo le acque di un grande lago artificiale, chioschetti di hot dog e zucchero filato ad ogni angolo per solleticare l’olfatto. Il nostro in confronto è un piccolo vaso in balcone con del basilico che non viene annaffiato da un mese. Non ci sono spazi ampi e immensi dove perdersi, ci sono solo un paio di altalene, una sorta di pista per il jogging che ne descrive il perimetro e un piccolo gruppo d’alberi che vorrebbero credersi un boschetto, sotto il quale si contano tre panchine quasi sempre occupate da ragazzi che hanno bigiato. Come dicevo: piccolo e spoglio, praticamente inutile.
Oggi, però, c’è qualcosa di stranamente rilassante. L’aria di primavera arrivata in anticipo, il cielo azzurro cobalto senza nubi, il cappellino bianco di Rose in tono con il vestito leggero che le illumina ancor di più la pelle chiara, il suo sorriso mentre guarda i bambini rincorrersi sul prato. Questo sabato, nella sua estrema semplicità, credo che sia perfetto.
«Vieni sull’altalena con papà? Ti va?» le chiedo, con un sorriso che è solo un piccolo riflesso di quanto ami guardare i suoi occhietti verdi.
La prendo in braccio e mi sistemo su una delle altalene più grandi, la tengo sollevata come un piccolo aeroplano, mentre coi piedi ben poggiati in terra inizio a farci dondolare quel tanto che basta per farla divertire. Rose ride di gusto, stringendo gli occhi e arricciando le guance, mentre tiene braccia e gambe tese come fosse un aquilotto che plana contro vento. Vorrei poterla tenere così più a lungo, ma il suo peso inizia ad essere non indifferente perciò a malincuore devo abbassare le braccia. Continuo a dondolare, tenendola stretta al petto mentre lei picchietta sul mio viso indicandomi che vuole volare di nuovo.
Mi volto e, poco distanti da noi, su una panchina vedo le mamme dei bambini che giocano guardarci. Suppongo che almeno una di loro creda nel suo profondo che io sia un ladro di bambini. Le altre, invece, hanno sguardi più dolci. Per un attimo credo di vedere Ram in mezzo a loro. La vedo voltarsi verso di me, un lieve soffio di vento inaspettato che le sposta i ricci dal viso, le labbra dolcemente socchiuse in un sorriso. Fermo i piedi smettendo di dondolare, mentre per un attimo credo di non riuscire più a respirare, guardandola alzarsi e camminare lentamente verso di me e svanire nel nulla della mia illusione.
Sospiro. Rose si è zittita e mi guarda seria, non capisce perché mi sono improvvisamente fermato.
«Che c’è piccola? Vuoi dondolare ancora?»
Torna a sorridere. Le bacio la fronte ricominciando a muovermi.
Fisso il piccolo boschetto pensando a come sarebbe andata se, bigiata la scuola, avessi passato i sabati mattina su quelle panchine a baciare Ram.

Steve mi fa accomodare in cucina. Ammetto che fa un po’ strano pensare che l’ultima volta qui ero disperato senza aver ancora capito dove andare a sbattere la testa, sembra una vita fa ormai. Bree arriva nella stanza più incinta che mai, la sua pancia sembra stare per scoppiare. Ricordo che la pancia di Simona ha iniziato a farsi molto ingombrante solo nel periodo finale della gravidanza. Bree invece non è ancora al settimo mese e già ha un pancione da record. Dicono che si noti di più perché probabilmente è un maschietto, ma io ho sempre creduto poco a questi trucchetti da vecchie credenze popolari anche se spesso funzionano davvero.
«Eccola, la mia bambolina!» dice, togliendomi Rose dalle braccia ancor prima di salutarmi.
«Sì, Bree anche io sono felice di vederti.» scherzo.
«Non fare il geloso. La principessa va salutata per prima.»
«Bree! Per favore.» Steve la chiama con un tono di rimprovero.
«Steve stai diventando un po’ stressante. Non posso neanche salutare la piccola, adesso?»
«Non puoi strapazzarti, la dottoressa oggi è stata chiara. Da adesso fino alla fine della gravidanza riposo assoluto. Per te niente pub, niente sforzi e niente pesi.» Indica Rose come se fosse un sacco di cemento.
«Steve!» adesso è lei a rimproverarlo, mi indica con un rapido movimento degli occhi.
«Non preoccuparti, non mi offendo mica. Ero peggio di lui quando Simona era incinta, lo hai forse dimenticato? Come mai ti ha dato il riposo forzato? Stai avendo problemi?»
«Io sono dell’opinione che la dottoressa si sia fatta contagiare da lui e dal suo allarmismo.»  
«Sai che non è così.» la interrompe Steve.
«Non sono così grave secondo me, ma la dottoressa dice di stare a riposo e il suo secondino non credo che mi farà deviare dalla retta via.»
Il campanello di casa suona. Bree si siede sul divano tenendo ancora Rose in braccio.
«Puoi andare ad aprire la porta? Non credo mi faccia bene alzarmi.» dice con tono di paternale.
Steve le fa una smorfia e va ad aprire.
«Comunque, ha ragione. Ci sarà un motivo per cui la dottoressa ti ha prescritto riposo. Non dico di farti aiutare anche per respirare come vorrebbe Steve, ma devi stare attenta, Bree, e non scherzarci troppo.»
«Sì, lo so.» Con una mano si accarezza il pancione.
So quasi per certo a cosa sta pensando adesso. La perdita tragica del bambino di Evan l’ha segnata in modo profondo, quasi più dell’incidente e del resto. Fa la dura per non darlo a vedere, perché sa che Steve è un tipo ansioso e deve tenerlo su, ma sappiamo che trema solo al pensiero che possa succedere qualcosa di male al loro bambino.

«Sicura di voler entrare da sola? Non mi dispiacerebbe rivederla.»
Gli sorrido. «Sai che non ti riconoscerebbe.»
«Non puoi saperlo, non sai come sta oggi. E poi io riconoscerei lei.»
«Grazie Diego, ma devo farlo da sola.» Scendo dall’auto. «Ti chiamo quando ho finito.»
«Prenditi tutto il tempo che serve.»
Non ho mai impiegato così tanto tempo per attraversare una strada. Cammino lentamente, con passi leggeri e il cuore sempre più pesante. Batte così forte che sembra saltare fuori dal petto. Arrivata davanti alla grande porta di vetro, mi fermo e respiro profondamente prima di entrare. Tutto è esattamente come l’ultima volta, molto ‒ troppo ‒ tempo fa.  Ancora una volta mi ritrovo immersa in questa oasi di bianco che secondo la cromoterapia dovrebbe esprimere speranza, fiducia e voglia di cambiamento: tutte cose che chi entra qui non sa di non poter più avere.
Tutto lo staff mi conosce abbastanza bene, ma Kay, una giovane infermiera trasferitasi qui dalla Norvegia perché innamorata dell’idea dell’ormai in via d’estinzione uomo italiano,  è quella che di più mi è stata vicina. Non appena mi vede, lascia il suo carrello e viene ad abbracciarmi.
«Ramona, che bello vederti di nuovo!»
«Ciao Kay.»
«Come stai? Saranno due anni che non ti vedo.»
«Probabilmente un po’ di più.» ammetto sottovoce: è passato almeno il doppio del tempo. So che non lo ha detto per rimproverarmi, ma mi vergogno un po’ lo stesso.
«Stop Ramona, stop. So cosa significa quella faccia e sai che non voglio vederla qui dentro.»
Fu lo stesso staff che si prende cura di mia madre a convincermi a rallentare le visite e le telefonate. Certo, probabilmente non avevano idea che sarebbero passati quattro anni tra una visita e l’altra, ma erano fermamente convinti che fosse la cosa migliore da fare.
L’incidente in cui è stata coinvolta, ha provocato in lei un forte trauma che ha portato a un’amnesia discontinua che col tempo si è consolidata a causa di ripetuti e continui piccoli ictus da tenere sotto il più stretto controllo. Entrare nella stanza e sentire tua madre che ti scambia per un’infermiera non è un granché ma è sempre meglio di quando ti getta contro oggetti a caso convinta che sei un’estranea intrufolata a casa sua e che cerca di derubarla. Più io cercavo di ricordarle chi ero, più lei si agitava. Più lei si agitava, più la pressione sanguigna aumentava. Più la pressione aumentava, più ictus bruciavano cellule del suo cervello. Più ictus si manifestavano, più in fretta degenerava. Il mio continuare a stare lì la stava uccidendo più in fretta. E questo uccideva me.
«Come sta oggi? Posso vederla?»
Kay non risponde, ma sorride  fa cenno di seguirla lungo il corridoio fino alla grande porta sul giardino. Non ho bisogno di attendere che mi indichi dove è seduta, riconoscerei mia madre ad occhi chiusi in una stanza al buio. La vedo subito, seduta su una panchina con gli occhi chiusi e il volto verso il sole. Lei ha sempre amato la luce del sole, passava intere giornate sul balcone ad assorbirne quanto più possibile.
«Posso andare da lei?» chiedo, mentre già mi si spezza la voce.
«Conosci le regole.» si toglie il tesserino e me lo porge.
«Mi è andata bene ad essere te oggi.» infilo la cordicella al collo e vado da mia madre.

«No, ragazzi. Non ci siamo, i prezzi qui sono troppo alti.»
Mentre Bree ed Emma continuano a preparare la cena, noi ragazzi stiamo cercando tra le offerte online qualcosa che non ci sfondi troppo le tasche per andare all’appuntamento da De Blasi.
«Ti ho detto che non dovete pensare a quello.» Insiste Steve. «Vi ho detto che vi finanzio io? E così sarà.»
«Da quando sei così ricco?» chiede Giorgio, impertinente.
«Già Steve, da quando?» sottolinea Bree, mentre spadella le zucchine.
«Non preoccupatevi di questo. Non stiamo parlando di investire un capitale di milioni di euro. Ho un piccolo fondo emergenze e questa è un’emergenza. E poi non è un investimento a fondo perduto.»
Per un attimo vorrei continuare ad oppormi a questa sua proposta, ma so che non ci riuscirei. Senza il suo aiuto è poco probabile che riusciremmo a partire e tutto quello che abbiamo fatto per andrebbe perso nel nulla.
«Non pensiamoci per il momento. Cerchiamo qualcosa di abbordabile. Usufruiremo del fondo emergenze solo se necessario.»
«Mi sembra perfetto.»

Non ho bisogno di chiamare Diego per dirgli che ho finito. Quando esco, lo trovo esattamente nel punto in cui l’ho lasciato. Guardo l’orologio, mi ha aspettata qui per più di due ore. Salgo in macchina e gli do un bacio sulla guancia. Senza dire una parola, mette in moto e si immette nel traffico. Abbasso l’aletta parasole e mi guardo nel piccolo specchio. Ho la faccia oscena di chi ha pianto per un’ora filata.
«Non me la sento di uscire, Diego. Ti dispiace portarmi a casa?» chiedo, sprofondando nel sedile passeggero.
«Stai tranquilla, facciamo presto.» continua a guidare senza guardarmi neanche con la coda dell’occhio.
«Diego, sto parlando sul serio. Voglio solo tornare a casa.»
«Fidati di me.»
Non dice altro. Molto controvoglia, sprofondo ancor di più nel sedile, appoggio la testa al finestrino e chiudo gli occhi. Li sento bruciare forte, così forte che in pochi minuti sprofondo in un torpore da dormiveglia.

Non so quanto abbia guidato, né perché. Quando apro gli occhi siamo vicino al mare.
«Dove siamo?»
Non risponde. Lo vedo inserire la freccia e accostare. La strada è deserta. Si gira a guardarmi, mi fissa negli occhi ancora in silenzio. Poi inserisce nuovamente la freccia e fa inversione riprendendo a camminare nel senso opposto.
«Ora stai bene, possiamo tornare a casa.» sentenzia.
Lo guardo stranita, domandandomi se non sia impazzito ad aspettarmi chiuso in macchina per due ore. Eppure guardando fuori dal finestrino, mi accorgo di non sentire più il forte peso sul petto che avevo appena salita in macchina. Credo di sentire addirittura fame. Improvvisamente il mio stomaco brontola così forte che il rumore riempie l’abitacolo dell’auto. Diego ride e, senza togliere gli occhi dalla strada, porta il braccio dietro il mio sedile.
«Fortuna che avevo previsto anche questo.»
Prende la busta di carta di un fast food e me la poggia in braccio.

«Siamo davvero diventati tanto vecchi da passare il sabato sera dopo cena chiusi in casa?» chiede Giorgio mentre è sdraiato sul divano.
«Vuoi davvero il punto della situazione?» gli chiede Alfredo.
Giorgio si guarda per un attimo intorno. Bree è rilassata sulla poltrona mentre Steve le accarezza la testa, Emma e Giacomo stanno lavando le stoviglie della cena, Rose dorme beata in braccio a me.
«No, ho già afferrato il punto.» dice, tornando a guardare il film in DVD.
«Pensa a Lunedì se vuoi sentirti più giovane.» gli dico, ridacchiando.
«Se penso a Lunedì mi sento solo più povero.»
   
 
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