Capitolo
VIII
Le
ultime due settimane di
traversata erano state in realtà più lunghe del
previsto: i primi due giorni
erano praticamente volati, trascorsi in un soffio a pensare e
riflettere su
tutto ciò che il signor Kenway mi aveva raccontato. Come
già accennato in
precedenza, avevo deciso quasi immediatamente di accettare la sua
offerta e,
una volta stabilito ciò come fatto certo e assodato, mi ero
sorpresa spesso a
fantasticare su come sarebbe stata la mia vita una volta sbarcati a
Boston, sul
tipo di addestramento che avrei ricevuto e sulle mirabolanti scoperte e
avventure che la mia nuova vita mi avrebbe offerto. Com’era
naturale, non
vedevo l’ora di arrivare in America, cosa che si tradusse in
un molesto
rallentare dello scorrere del tempo: mi pareva di passare ore e ore a
riflettere, a rimuginare su tutti i fatti, a pensare al signor Kenway e
al
ruolo che aveva tra le fila templari e invece, sollevato lo sguardo
alla
finestra o direttamente al cielo a seconda di dove mi trovassi, mi
accorgevo
che il carro di Febo non aveva percorso neanche un passo e i raggi
solari mi
ferivano gli occhi tanto quanto l’ultima volta che avevo
levato lo sguardo, a
giudicare dalla posizione dell’astro da cui provenivano, non
più tardi di dieci
minuti prima. Sorprendente come il tempo sia capace di rallentare fin
quasi a
fermarsi completamente proprio quando vorremmo ch’esso si
affretti e come
invece acceleri la sua corsa mostruosa e inesorabile quando, al
contrario,
daremmo metà dei nostri anni su questa terra per un ultimo
secondo di tregua.
La
mattina del diciassettesimo
giorno trascorso dall’ultimo scambio di idee che avevo avuto
con il signor
Kenway si preannunciò fresca e nebbiosa: appena sveglia
gettai uno sguardo
distratto oltre la finestra e vidi una pesante cortina bianca coprire
il mare e
il cielo e mi scoprii incapace di individuare la linea
dell’orizzonte anche
dopo aver aguzzato la vista. Scossi il capo e decisi di dirigermi sul
ponte,
ben sapendo che quel giorno la vista sarebbe stata abbastanza monotona
se il
banco di nebbia si fosse rivelato più esteso del previsto.
Attraversando i
corridoi che portavano al boccaporto mi ritrovai a passare davanti alla
cabina
di Kenway e, con mia grande sorpresa, la trovai già vuota,
la porta spalancata
e il letto rifatto: nonostante fosse molto presto egli era
già in giro per la
nave, anche se ad essere degno di rilievo non era tanto l’ora
del mattino
quanto il fatto che fosse uscito dalla cabina dopo giorni e giorni
passati in
meditazione chiuso lì dentro; rammentando lo stato di
profonda concentrazione
in cui lo avevo sorpreso la notte in cui ero andata ad avvertirlo delle
botti
gettate in mare passando dai cannoni esterni al posto del corridoio,
non avevo
osato disturbarlo e avevo tenuto per me la decisione di unirmi ai
Templari in
attesa di un momento più opportuno per comunicarglielo. Tale
momento sembrava
che fosse finalmente arrivato.
Quando
emersi sopraccoperta, la
vista deprimente della fitta nebbia che nascondeva ai miei occhi tutto
ciò che
si trovava oltre il parapetto produsse in me un senso di scoramento
tale che le
spalle mi si afflosciarono: ancora una volta sperai vivamente che fosse
un
fenomeno passeggero e non destinato ad accompagnarci per tutta la
giornata
oppure, tra l’impazienza che oramai faticavo a contenere e la
profonda noia che
il belvedere monocromo mi procurava, mi sarei messa a strillare sul
ponte in
preda a una crisi isterica: non penso ci fosse bisogno di un medico per
intuire
che avevo urgentemente bisogno di cambiare ambiente.
Mi
guardai intorno alla ricerca
del volto spigoloso del signor Kenway ma intorno a me vi erano pochi
marinai
impegnati nelle solite faccende quotidiane e nessun altro. Un
improvviso
stridio attirò la mia attenzione e, con profonda sorpresa,
mi accorsi che la
nave era circondata dai gabbiani: volteggiavano leggeri tra le vele e
ogni
tanto superavano in volo lo stretto spazio del ponte per poi svanire di
nuovo
inghiottiti dalla nebbia; malgrado avessi passato due mesi senza
occuparmi d’altro,
non ero affatto esperta in materia di navigazione tuttavia persino io
fui in
grado di intuire che la presenza dei gabbiani voleva dire che la
terraferma non
era lontana: forse se mi fossi arrampicata fino al punto più
alto della nave
avrei potuto aggirare il banco di nebbia e vedere qualcosa.
Mi
issai rapidamente sull’albero
maestro e superai velocemente ogni pennone fino a raggiungere la coffa:
mentre
procedevo verso l’alto a poco a poco il mio viso venne
illuminato dai raggi del
sole nascente e un cielo di un meraviglioso azzurro scuro solcato qui e
là da
nuvole di un rosa brillante si aprì alla mia vista e mi
scaldò il cuore. Giunta
in cima respirai a pieni polmoni e mi beai della vista del mare che si
estendeva per miglia ben oltre la linea dell’orizzonte fino
alle coste europee
che avevo abbandonato così rapidamente quasi tre mesi prima.
-Buongiorno
Richards! Sembra che
oggi sarà una splendida giornata- mi salutò una
familiare voce baritonale alle
mie spalle. Mi voltai nella sua direzione.
-Buongiorno
anche a voi, signore.
Vi stavo giusto cercando per dirvi…- mi bloccai
all’istante, incapace di
formulare un pensiero di senso compiuto di fronte alla meraviglia che
avevo di
fronte: un piccolo tratto di mare occupato da navi di ogni forma e
dimensione
separava la Providence dal paesaggio più bello che avessi
mai visto. Un gruppo
di case se ne stava raggomitolato sull’oceano, quasi temesse
di espandersi
troppo e di andare a disturbare le miglia e miglia di verde smeraldino
che
aveva alle spalle. Montagne all’orizzonte, brune per la
distanza,
giganteggiavano solitarie e lontane, presenze silenziose che tuttavia
ricordavano, nonostante i contorni sfumati e appena abbozzati che si
perdevano
in morbidi tratti, che la Natura, non l’uomo, era la vera
signora di quel
territorio selvaggio e inesplorato. Alle loro pendici, come sudditi
radunatisi
al loro cospetto, scuri pini acuminati si protendevano verso
l’alto andando a
perdersi, numerosi e fitti, nel cuore del continente americano.
-Bellissimo-
mormorai, incapace
di trattenermi di fronte a quel paesaggio così diverso da
quello a cui ero
abituata. Il campanile di una chiesa vicino al porto
sfavillò all’improvviso,
la campana incendiata dai raggi del sole, quasi avesse percepito i miei
pensieri.
-Sei
venuta fin quassù solo per
dirmi una cosa che so da anni?-
Mi
voltai stralunata verso un
Haytham Kenway particolarmente di buon umore che sostava alla mia
sinistra
appoggiato all’albero maestro a braccia conserte, le labbra
strette in un
sorrisetto divertito: santo cielo, quanti anni aveva?
-Voi
siete incapace di restare
serio per più di dieci secondi, vero?-
Mi
venne da ridere quando il suo
sguardo saettò verso di me, un sopracciglio sollevato.
-Una
volta sono arrivato a
quindici, non sfidarmi- replicò con tono falsamente
minaccioso.
-Avrei
davvero voluto esserci,
allora! Un evento simile è paragonabile al passaggio della
cometa di Halley!-
esclamai, trattenendo a stento una risata.
Kenway
scosse la testa con un
sorriso.
-Bando
agli indugi: una volta a
terra sono quasi certo che ci verrà incontro qualcuno. La
tua presenza non era
programmata ma sono sicuro che non sarà un problema.
Possiamo fare finta che tu
mi abbia detto ciò che volevi comunicarmi e passare alla
tappa successiva-
disse d’un fiato con una certa qual soddisfazione.
Sospirai:
ovviamente era
perfettamente in grado di prevedere ogni mia mossa, tuttavia non ci
stavo a
dargliela vinta in quel modo e decisi che volevo divertirmi un
po’ a sue spese.
-A
dire il vero volevo dirvi
l’esatto opposto- dissi lentamente, con cautela, come chi
è consapevole di
stare comunicando qualcosa di delicato- ci ho pensato con molta
attenzione e mi
sono resa conto che se quello che abbiamo passato su questa nave era
solo un
assaggio, allora forse non sono certa di riuscire ad affrontare tutto
il menù,
non so se mi spiego-
Haytham
Kenway,con mia somma
soddisfazione, si irrigidì mentre parlavo e mi
lanciò uno sguardo penetrante
che mi sforzai di reggere, tentando al contempo di sembrare affranta e
in
imbarazzo contemporaneamente. Ci guardammo per un lungo secondo, poi
lui
sospirò, deluso, quasi amareggiato.
-Molto
bene, se è questo che
vuoi. Tuttavia ti ho rivelato troppi dettagli, credendo ingenuamente
che mi
avresti seguito, perché tu possa andartene in giro come se
nulla fosse-
Si
voltò verso di me, negli occhi
un’espressione indecifrabile, e, senza preavviso,
avvicinò il polso destro al
mio collo e lo flettè: in una frazione di secondo una lama
sottile e
affilatissima sembrò sbucare direttamente dal suo braccio
andando a fermarsi a
un millimetro dalla mia pelle. Deglutii a disagio, mentre dentro di me
si
faceva strada l’idea di aver tirato troppo la corda. Tuttavia
c’era ancora la
possibilità che stessimo recitando entrambi e decisi di
tirare avanti la
commedia, non concependo la possibilità, per quel poco che
sapevo di lui, che
mi avrebbe ucciso in quel modo e senza pensarci due volte. Incatenai lo
sguardo
al suo aggrappandomi a questa eventualità, maledicendo senza
sosta la mia
idiozia senza tuttavia lasciare emergere neppure un barlume del mio
turbamento,
conscia del fatto che si trattasse di un gioco di nervi puro e
semplice. Rimanemmo
così, immobili, per un istante che parve dilatarsi
all’infinito, poi una
leggera, quasi impercettibile contrazione del suo labbro superiore mi
fece
sorridere: era un bluff.
-Tu
sfidi un po’ troppe volte la
sorte, ragazza- commentò con un sorriso, mentre faceva
scattare la lama
nuovamente al suo posto e si allontanava da me –ma
complimenti per il sangue
freddo. Come sapevi che non ti avrei ucciso?-
Quando
Kenway era tornato nella
medesima posizione di prima mi ero notevolmente rilassata e non ero
riuscita a
impedirmi di sospirare di sollievo mentre il battito cardiaco tornava a
un
ritmo normale: per un bel po’ avrei evitato di sfidarlo, poco
ma sicuro.
-Come
sapevate che stavo
mentendo?- chiesi, ponendogli una domanda retorica che richiedeva la
stessa
risposta: non lo sapevo, mi ero affidata al buon senso e
all’istinto.
Kenway
sospirò con un sorriso a
fior di labbra.
-Messaggio
ricevuto. Ho come l’impressione
che ci divertiremo parecchio io e te-
Con
la coda dell’occhio vidi che
mi stava guardando e anche io non potei fare a meno di voltarmi verso
di lui
con un sorriso.
-Io
invece ne sono più che
convinta-
***
Attraccammo
nel giro di un paio
d’ore. Il sole si levava già alto e la temperatura
era notevolmente più elevata
rispetto a quella a cui mi ero abituata sulla nave, sul cui ponte i
raggi
solari erano particolarmente intensi ma comunque stemperati dalla
presenza
costante di un vento gradevole che rendeva tutto molto più
sopportabile. Era
estate dopotutto, luglio del 1754, un anno indimenticabile.
-Allora
ti fermi, smilzo? Non
ritorni sulla Providence?- mi chiese Joe poco prima di scendere.
Scossi
il capo con un sorriso.
-La
vita di mare non fa per me.
Credo che cercherò un impiego da queste parti- gli tesi una
mano- E’ stato un
piacere è un onore incontrarti Big Joe. Mi hai salvato, dico
davvero!-
Joe
guardò la mia mano per un
momento, poi l’afferrò e la usò per
tirarmi a sé e stritolarmi in un abbraccio
che credo mi abbia incrinato un paio di costole.
-Il
piacere è stato mio, bambina!
Buona fortuna!-
-Anche
a te- replicai senza
fiato, quasi certa che con le sue pacche sulla schiena mi avesse fatto
sputare
almeno un polmone.
Quando
imboccai la passerella per
scendere, i pochi marinai che non mi avevano crocifisso a causa della
mia
natura, la maggior parte dei quali era costituita dagli amici di Joe,
agitò il
cappello nella mia direzione e mi augurò il meglio,
ricevendo in cambio da me
ringraziamenti e sorrisi riconoscenti: nonostante quanto avevo patito
durante
il viaggio, provai tristezza al pensiero che non li avrei rivisti mai
più e,
mentre mettevo finalmente piede a terra, mi ritrovai a riflettere sulla
brevità
dell’esistenza umana e su quanto fugaci fossero in
realtà le compagnie di cui
potevamo giovare in vita.
-Mademoiselle-
mi riportò al
presente una ruvida voce.
-James!-
esclamai voltandomi- scendi
anche tu?-
Il
viso cotto dal sole di James
si aprì in un sorriso bianchissimo.
-Sì,
con il mare basta così.
Vorrei dedicarmi a qualcosa di più tranquillo, ora che non
sono più un
giovanotto-
-E’
un peccato James, sembravi
così portato- esclamò una voce baritonale, il cui
proprietario parve
materializzarsi dal nulla al mio fianco.
-Qualcosa
mi dice che non vi
stavate riferendo alle mie doti marinare, signore- sorrise astutamente
James
–se vi dovesse servire mai aiuto, comunque, sarò
ben felice di fare ciò che
posso-
-Puoi
contarci James: sono sicuro
che le tue doti inestimabili si riveleranno molto utili!-
James
fece un inchino e sollevò
il cappello nel congedarsi, i suoi pochi averi stretti sotto al braccio
e
avvolti in un panno. Ci voltò le spalle e si
incamminò a passo sicuro verso una
via affollata, sparendo quasi immediatamente tra la gente: ero certa
che ci
saremmo rivisti molto presto.
-Mastro
Kenway! Mastro Kenway!-
sentimmo la voce di un ragazzo alle nostre spalle
-Credo
stia parlando con me- mormorò
il signor Kenway con un sorrisetto al mio indirizzo -sì?-
chiese al giovane
voltandosi. Lo seguii a ruota e mi ritrovai a guardarlo stringere
vigorosamente
la mano a un ragazzo di una ventina d’anni, pieno di gioia ed
entusiasmo.
-Charles
Lee, signore. Mi hanno
mandato per mostrarvi la città, per aiutarvi- si
presentò.
–Signorina-
aggiunse poi,
chinandosi leggermente nel rivolgersi a me. Non accennò al
fatto di non avere
la più pallida idea di chi fossi, evidentemente affiancare
Haytham Kenway era
per lui sufficiente garanzia, e mi ritrovai a chiedermi quale posizione
occupasse il mio oscuro e misterioso amico per ispirare tanta fiducia e
riverenza.
-Evelyn
Richards- mi presentai
tendendogli una mano che lui strinse con delicatezza. Nel farlo,
incontrai i
suoi occhi color ghiaccio e vi scorsi una acuta e viva intelligenza.
-Charles
Lee, per servirvi, miss
Richards- disse galante, chinando la testa ancora una volta
–Prego, da questa
parte- aggiunse, il braccio destro sollevato a indicare la direzione.
Kenway
fece per chinarsi e
prendere i bagagli ma il signor Lee lo bloccò prontamente.
-Non
preoccupatevi, ho chiesto di
portarli direttamente alla locanda-
Solo
a quel punto sembrò
accorgersi che io non avevo nulla con me e si voltò
pensieroso verso la Providence.
-I
vostri effetti non sono ancora
stati portati a terra, miss Richards?- chiese perplesso.
-Temo
che non ci sia alcunchè da
trasportare fuori dalla nave, signor Lee: sono partita molto in fretta
e non ho
avuto modo di portare nulla con me- gli spiegai –è
una lunga storia- aggiunsi
con un sorriso quando lo vidi farsi ancora più perplesso.
Lui annuì e strinse
le labbra.
-In
tal caso, vogliate seguirmi,
prego-
Ci
facemmo largo tra venditori di
pesce e marinai che affollavano il porto e presto lasciammo le lunghe
banchine
in legno per immergerci tra i vicoli e le strade di Boston, le cui
dimensioni e
le straordinarie novità erano per me un irresistibile invito
all’esplorazione.
-Sei
il figlio di John e
Isabella?- chiese d’un tratto Kenway alla nostra guida.
-Il
solo e unico- rispose
prontamente Lee.
-E
sei agli ordini di Edward
Braddock, è così?-
-Già.
Ma non è ancora giunto in
America e pesavo che…beh- esitò
–finchè non arriva…insomma…-
continuò
abbassando la voce sempre di più a ogni secondo,
finchè la sua frase non si
perse in un imbarazzato schiarirsi di voce e uno sguardo gettato
altrove.
-Sì,
dimmi pure- lo esortò Kenway
con un sorriso rassicurante.
-Ecco,
speravo…- si bloccò di
nuovo, questa volta per un motivo che mi fu presto chiaro: mi
gettò un veloce
sguardo di sottecchi, talmente rapido che quasi dubitai di averlo
visto,
lasciando chiaramente intendere di non sapere se fosse opportuno
parlare in mia
presenza.
-Sta’
tranquillo, è una dei
nostri. Puoi fare liberamente riferimento all’Ordine- lo
rassicurò il signor
Kenway.
-Oh
naturalmente!- esclamò Lee
vagamente in imbarazzo- certo, perdonatemi miss Richards. Stavo
dicendo…speravo
di poter essere vostro allievo ecco…- disse il ragazzo tutto
d’un fiato- Non
riesco a immaginare mentore migliore di voi- aggiunse con tale
spontanea
ammirazione che non potei fare a meno di sorridere.
-Sei
gentile ma credo che mi
sopravvaluti- rispose lentamente Kenway. Mi voltai verso di lui e notai
con
stupore che sembrava leggermente in imbarazzo, anche se era evidente
che il
commento del giovane doveva avergli fatto piacere.
-Impossibile,
signore!- esclamò
il ragazzo con un entusiasmo così genuino che mi domandai
nuovamente che cosa
avesse fatto mai il signor Kenway prima di imbarcarsi per Boston e mi
ripromisi
di chiederlo proprio a Charles Lee alla prima occasione.
Svoltammo
in una gigantesca via
piena di botteghe e bancarelle e io rimasi per un attimo interdetta a
fissare
quel luogo così simile a Londra ma al contempo completamente
diverso: un
insieme di accenti e lingue diverse, costruzioni che nella facciata e
nella
struttura ricordavano quelle londinesi eppure erano più
alte, guardie agli
angoli delle strade la cui uniforme scarlatta era britannica
più di qualunque
altra cosa lì presente. Eppure tutto appariva più
semplice, quasi rustico,
benché contegni e atteggiamenti palesemente mostravano come
l’umanità fosse, in
fondo, sempre uguale a se stessa nonostante mi trovassi praticamente
dall’altra
parte del mondo.
-Boston
è una città vivace!- notò
Kenway che, come me, si stava guardando intorno.
-Eccome!
Ci sono tante cose da
vedere qui. Quando vi sarete sistemati vi suggerisco di passeggiare per
le
strade, potreste imbattervi in qualche buon affare- ci
consigliò Lee.
-Sono
certo che a qualcuno qui
piacerebbe molto passeggiare per le strade- commentò il
signor Kenway a voce un
po’ più alta.
Compresi
al volo a chi si stava
riferendo per il semplice fatto che mi ero momentaneamente scostata da
loro per
affacciarmi in un’altra via e vedere così dove
andava a sfociare. Mi voltai, le
mani allacciate dietro la schiena e le labbra strette in un sorrisetto
colpevole, accompagnato da occhi spalancati e aria sorpresa, quasi a
volergli
chiedere se ce l’avesse proprio con me ma sogghignando come
chi non aveva dubbi
al riguardo.
Il
signor Kenway sospirò con un
sorriso.
-Ci
sono per caso degli empori in
questa strada?- domandò a Charles Lee.
-Certamente!
Uno è proprio
laggiù, vicino alla stamperia-
-Bene,
ho una faccenda da
sbrigare, fermiamoci un momento-
-Io
vado a cercare dei cavalli,
signore-
Ci
dividemmo: la nostra guida
marciò celere verso sinistra, io trotterellai immediatamente
dietro a Kenway,
contenta di vedere qualcos’altro di quella città.
Al momento di entrare nell’emporio
pensai di rimanere fuori e di lasciargli fare ciò che doveva
con calma,
tuttavia proprio lui mi invitò a seguirlo quando mi vide
esitare sulla soglia.
-Seguimi,
un giorno dovrai farlo
anche tu- disse semplicemente.
Entrammo
in un locale in legno
con un lungo bancone dietro al quale sostava un signore di mezza
età che
scribacchiava qualcosa su un gigantesco registro in una grafia sottile
e
inclinata. La sua vista debole lo obbligava a tenere un paio di
occhiali tondi
appollaiati sulla punta del naso adunco, tuttavia li ripose in fretta
nel
taschino del panciotto al nostro ingresso.
Quando
Kenway gli disse ciò che
desiderava l’uomo sparì in una stanzetta sul retro
del locale per fare ritorno
con le braccia colme di spade e pugnali. Prese a illustrare i pregi di
ciascun esemplare
e io annotai mentalmente ogni informazione per farmi un’idea
su quella che
avrebbe potuto essere un giorno la mia arma ideale, zittendo in modo
deciso la
parte debole di me, sopita ma ancora presente, che continuava a
domandarmi se
davvero avrei ucciso qualcuno con una di quelle spade.
Il
signor Kenway pescò nel
mucchio e osservò da vicino il filo della lama.
-Quella
è una delle migliori:
leggera e sottile, attualmente in dotazione alla fanteria di Sua
Maestà. Ve la
consiglio, se state cercando qualcosa con cui difendervi in modo
rapido-
intervenne immediatamente il venditore –anche se forse in
quel caso, un pugnale
sarebbe più consigliabile-
Mi
avvicinai curiosa al gruppo di
pugnali che sostava sul bancone e con un dito ne spostai un paio per
riuscire a
vederli tutti: al di sotto degli altri ne scorsi uno
dall’impugnatura in ebano
e stupende volute in argento che pareva quasi ammiccare tentatore. Lo
estrassi
dal fodero in cuoio nero e ammirai la lama dritta e sottile che
ricordava
quella di uno stiletto: non ero mai stata particolarmente attratta
dalle armi,
né mi avevano mai incuriosito, eppure quel pugnale mi
tentava in modo strano, a
tratti sinistro.
-Visto
qualcosa di interessante?-
mi domandò di colpo il signor Kenway riportandomi nel mondo
dei vivi. Decisi di
lasciar perdere e rimisi quel gioiello al suo posto.
-Lo
sapete anche voi che le dame
sono attratte dalle cose che luccicano. Tuttavia non penso che questi
arnesi
siano stati forgiati a questo scopo- risposi con ironia sufficiente a
fargli
credere che il mio interesse fosse puramente frivolo: non avevo nessuna
intenzione di metterlo in imbarazzo e costringerlo a comprarmi qualcosa
per
pura cortesia.
-Ho
quasi finito, se vuoi puoi
aspettarmi fuori. Controllo un’ultima cosa e ti raggiungo-
disse mentre
soppesava tra le mani una pistola ad avancarica. Onde evitare di
mettere le
mani da qualche altra parte e di fare altri pasticci feci come mi aveva
detto e
uscii, valutando l’ipotesi di arrivare alla fine della
strada. Non feci
tuttavia in tempo a fare tre passi che uscì anche lui, la
spada della fanteria
inglese legata a un fianco, pistola nella fondina e un sacchetto di
proiettili
che saltellava nella sua mano prima di sparire in una tasca della
redingote: se
possibile aveva un aria persino più pericolosa del solito.
-Come
mai quel sorrisino?- mi
chiese, mentre raggiungevamo Charles Lee che ci stava già
aspettando dove lo
avevamo lasciato. Mi affrettai a riprendere il controllo delle mie
espressioni
facciali.
-Oh
niente, stavo per
sgattaiolare via ma non ho fatto in tempo- mentii.
Il
signor Kenway si limitò a
sospirare e a sorridere scuotendo la testa.
-Signore,
ho preso i cavalli. La
cattiva notizia è che oggi è giorno di mercato e
purtroppo ho trovato solo
questi due- si scusò Lee quando gli fummo davanti.
-Nessun
problema, Charles, la
signorina verrà con me- gli rispose Kenway mentre montava
agilmente su un
lucido stallone nero.
Decisi
di ignorare il cuore che
mi martellava insistentemente nel petto mentre mi issavo rapidamente
dietro al
signor Kenway, occupata com’ero a dissimulare il nervosismo:
mi facevo
decisamente troppi problemi, ne ero consapevole, ma
quell’improvvisa vicinanza alla
quale non avevo avuto modo di prepararmi mi metteva vagamente a
disagio. A
nulla valse appellarmi alla ragione che continuava stancamente a
ripetermi che
era solo una sciocca cavalcata: presto si sarebbe posto il problema di
dove
reggermi e io avrei volentieri preferito sedermi al contrario e
aggrapparmi
alla coda del cavallo pur di evitare quell’imbarazzo. Il
fatto che non fossi
capace di reggermi in sella perché non avevo mai avuto modo
di provare a
cavalcare era solo un’ulteriore aggravante.
-Sta’
tranquilla, non mordo. Non
di solito almeno- scherzò il signor Kenway con
l’effetto di rendere la situazione
più informale di quanto non fosse nella mia testa. Mi
sfuggì una risata
imbarazzata e, giusto in quel momento, partimmo al trotto inoltrandoci
nel
cuore della città. Presa alla sprovvista, sussultai e le mie
braccia finirono
avvolte attorno alla prima cosa che mi capitò sottomano,
nello specifico la
vita del signor Kenway. Ben presto mi ritrovai nella familiare
condizione di
avere la testa spaccata in due, combattuta tra il dare ascolto alla sua
componente razionale, che mi suggeriva di memorizzare i nomi delle
strade per
distrarmi, e quello romantico, il quale subdolamente mi faceva notare
che,
dopotutto, quella situazione non era poi così sgradevole.
Troppo tardi mi resi
conto che, in quella posizione, probabilmente il signor Kenway avrebbe
sentito
benissimo il mio cuore che gli galoppava imbizzarrito sulla schiena,
giusto per
restare in tema, tuttavia, in quel momento, l’imbarazzo
passò in secondo piano,
occupata com’ero a constatare quale gradevole effetto avesse
su di me l’essere
umano che mi stava davanti, quasi il calore che emanava il suo corpo
fluisse
attraverso le mie braccia fino a scaldarmi il petto. Distrattamente lo
ascoltai
chiedere a Charles Lee dove fossimo diretti e se avesse già
organizzato
l’incontro con altre persone del posto di cui non memorizzai
i nomi. Il ragazzo
accennò a un locale non molto distante chiamato Green
Dragon, dove avremmo
trovato ad aspettarci un certo Johnson, uno dei contatti del signor
Kenway in
America, e rispose negativamente quando questi gli chiese se gli altri
membri
dell’Ordine gli avessero già rivelato quale fosse
la nostra missione nella
regione: se non altro non sarei stata l’unica neofita in
mezzo a un gruppo di
addestrati e letali veterani, come spesso mi ero ritrovata a immaginare
con un
certo timore.
Dopo
una manciata di minuti, o
almeno così mi parve, ci fermammo di fronte a un edificio
dalla cui porta più
grande proveniva un frastuono di stoviglie e un berciare di avventori
che
giudicai piuttosto chiassoso e per questo molto utile a quel genere di
persone
che aveva bisogno di concordare piani e linee d’azione senza
essere notato o
ascoltato, pensai.
Al
nostro ingresso due furono le
cose che ci accolsero calorosamente: il profumo di un ottimo stufato
che il
cuoco stava preparando per il pranzo e le urla e gli strepiti di una
donna che
stava rivolgendosi a un tizio in maniche di camicia, a giudicare dal
contegno,
probabilmente il suo disgraziatissimo marito. Ci appropinquammo alla
coppia
nell’istante in cui la donna strillò un epiteto
irripetibile che provocò uno
scambio di sguardi costernati tra me e Charles Lee e un sarcastico
sopracciglio
inarcato da parte del signor Kenway. Quando finalmente i due si
accorsero di
noi si profusero in mille scuse e mostrarono di volersi fare in quattro
per
noi, anche se, a causa delle strane attenzioni e del voglioso ammiccare
che la
donna che ci venne detto chiamarsi Catherine riservò al
signor Kenway, presto fu
il mio turno di sollevare un sopracciglio mentre constatavo con una
punta di
divertimento quanto liberali di tal pratica sembrassero le locandiere
in quella
parte di mondo.
-Spero
non ci sia alcun problema
nel trovare una camera anche per la signorina qui presente-
-Naturalmente
no, signore, ce ne
sono diverse libere. Vi occorre altro?-
-Solo
stare tranquilli-
Il
proprietario annuì e intimò
alla moglie di portare i bagagli nelle rispettive stanze mentre io e il
signor
Kenway seguivamo Charles Lee al piano di sopra verso un tavolo isolato
al quale
sedeva un gentiluomo di mezz’età dalla redingote
rosso cupo.
-Signore,
miss Richards, vi
presento William Johnson- lo introdusse Lee. Il signore si
alzò e strinse la
mano a entrambi, chinando leggermente la testa quando passò
a me. Johnson e il
signor Kenway sedettero l’uno di fianco all’altro e
dal modo in cui si voltarono,
escludendo fisicamente sia me che Charles Lee dalla conversazione,
compresi che
si trattava di un argomento riservato ai membri dell’Ordine e
mi allontanai
immediatamente quel tanto che bastava per non udire le loro parole. Mi
affacciai alla balaustra e osservai Catherine e il marito correre da un
tavolo
all’altro per servire i clienti.
-Conoscete
da molto Mastro Kenway,
miss Richards?- mi sentii domandare ad un tratto. Mi voltai e incontrai
lo
sguardo caldo eppur glaciale di Charles Lee.
-Vi
prego chiamatemi Evelyn non
sono abituata alle formalità-
Il
giovane mi sorrise.
-Come
desideri. Anche tu puoi
chiamarmi Charles, se vuoi-
-Con
molto piacere Charles. In
verità ho conosciuto il signor Kenway sulla nave che ci ha
condotti qui. E’
stato un viaggio interessante, devo dire- replicai ripensando con un
sorriso a
tutti i problemi ai quali avevamo dovuto far fronte.
-Oh,
hai dunque avuto un assaggio
della vita mirabolante che conduce. Per quanto ne so è quasi
sempre così. E
d’altronde, considerata la posizione che ricopre, non
potrebbe essere
altrimenti-
Prima
che potessi chiedergli di
più su quell’argomento decisamente molto
interessante, i gentiluomini al tavolo
si congedarono e il protagonista della nostra conversazione si
alzò e ci venne
incontro.
-Charles!-
-Signore?-
scattò immediatamente
il ragazzo.
-Meglio
muoversi-
-Ma
certo-
I
due si incamminarono verso le
scale e io andai subito loro dietro.
-Vengo
anche io, vero?- chiesi,
tanto per ricordare loro la mia esistenza.
-No,
tu resta qui- disse secco
Kenway senza fermarsi.
Rimasi
per un attimo pietrificata
sul posto, quasi a volermi convincere di aver immaginato quella frase.
Capii al
volo che non mi considerava abbastanza abile da affiancarlo e che
probabilmente
lui e Charles stavano andando a stanare un nemico pericoloso o a
risolvere
qualche losca faccenda: dopo tutto quanto avevamo affrontato insieme mi
sentii
piuttosto offesa ma decisi di seppellire dentro di me la vena polemica
e di
armarmi di pazienza.
-Ma,
signore, come faccio a
imparare qualcosa se voi mi lasciate indietro?- domandai quando
l’ebbi
raggiunto dopo aver ripreso a camminare a ritmo più veloce.
Sia lui che Charles
si voltarono verso di me, l’uno con un’espressione
indecifrabile, l’altro con
lo sconcerto stampato negli occhi quasi avessi appena compiuto
un’azione
sacrilega.
-Io
e Charles non dobbiamo fare
nulla di che, tre di noi sarebbero eccessivi- divagò lui.
Scossi
la testa.
-Eppure
ci state andando di
corsa- obiettai io, testarda.
Il
signor Kenway inspirò
profondamente quasi a volersi imporre la calma.
-Sì
esatto, perché prima finiamo
meglio è-
-Appunto,io…-
-Evelyn,
non credo sia il caso di
insistere- intervenne a quel punto Charles. Lo avrei volentieri
ignorato se lo
sguardo d’acciaio del signor Kenway non mi avesse perforato
l’anima e
intimidito peggio di qualsiasi schietta considerazione sulla mia
condotta
inopportuna, ricordandomi quanto fossi in realtà piccola e
inesperta. Mi
vergogno un po’ ad ammettere che a quel punto cedetti
immediatamente e persi
ogni desiderio di far valere le mie ragioni, stordita e confusa a causa
del
repentino cambiamento nei miei confronti e mortificata per aver osato
tanto da
indisporlo. Li guardai uscire dalla locanda sconvolta e amareggiata,
salutata,
prima che sparissero, dallo sguardo dispiaciuto di Charles il quale si
voltò
per un istante prima di superare la porta.
Se
fossi stata trattata
diversamente, probabilmente avrei potuto anche prendere in
considerazione
l’idea di seguirli e di intervenire una volta che fosse stato
troppo tardi per tornare
indietro, tuttavia non era a causa del pericolo che ero stata esclusa:
dal
momento che erano le mie abilità ad essere in discussione il
pensiero non mi
sfiorò neppure, detestando io sommamente, come detesto
tutt’ora dopo tanti
anni, l’idea di essere di peso per qualcuno. Mi avviai
lentamente su per le
scale e mi appoggiai al muro con le mani in tasca, supremamente
annoiata e
intristita dalla situazione: per giorni avevo fantasticato su tutto
ciò che
avrei potuto fare una volta a Boston e invece mi ritrovavo di nuovo ad
aspettare
che il signor Kenway, la cui personalità mi appariva quanto
mai misteriosa, mi
considerasse degna di fare qualcosa. Ero decisamente ben avviata sulla
strada
che mi avrebbe condotta ad avvelenarmi il sangue quando una voce mi
riscosse
improvvisamente.
-Miss
Richards, non statevene lì
in piedi. Venite a sedervi-
Sollevai
lo sguardo e vidi il
sorriso incoraggiante di William Johnson che mi invitava a
raggiungerlo. Non
ero dell’umore giusto per conversare, tuttavia mi imposi di
essere educata e di
non far pagare a quel signore tanto gentile i miei malumori,
così sedetti di
fronte a lui con espressione neutra.
-Non
crucciatevi troppo per
quello che è successo. Sono certo che in futuro le occasioni
non mancheranno-
provò a tirarmi su lui. Io annuii e ne convenni,
più per cambiare discorso ed
evitare di annoiarlo con le mie lamentele che per reale convinzione.
Tuttavia
sembrò accorgersene e con mio sconcerto insistette
sull’argomento.
-Sentite,
attirare l’attenzione
di uno come Haytham Kenway non è cosa da poco. Evidentemente
qualcosa di buono
dovete averlo fatto, vi pare?-
-Suppongo
di sì- risposi
titubante, incapace di comprendere come avesse fatto a capire che le
mie
preoccupazioni stavano procedendo proprio in quella direzione e
chiedendomi
distrattamente se tutti i collaboratori del signor Kenway avessero le
sue
stesse abilità o se invece ero io ad essere una specie di
macchietta con i
pensieri scritti in faccia.
-Ad
ogni modo credevo che lo
conosceste solo da un paio di minuti- lo stuzzicai, dimenticando per un
istante
il mio dispiacere e tornando la solita inquisitrice. Johnson mi sorrise
e
annuì.
-Vero-
rispose- vero. Ma è un
uomo piuttosto conosciuto nel nostro ambiente, ha fama di essere
brillante e
scaltro, oltre che uno dei migliori spadaccini dell’Ordine.
E’ stato addestrato
dal Gran Maestro Reginald Birch in persona ed è
tutt’ora il suo braccio destro-
mi spiegò- inoltre, attualmente, è anche il Gran
Maestro del Rito Coloniale, il
che vuol dire che è la massima autorità in
America-
Rimasi
sconvolta da tutte quelle
rivelazioni e di colpo compresi la condotta di Charles, il suo timore
reverenziale e la sua reazione di fronte a quello che avrei dovuto
considerare
l’ordine di un superiore senza mettermi a discutere o
protestare. Il ricordo
dello sguardo minaccioso che mi aveva rivolto il signor Kenway assunse,
se
possibile, una sfumatura ancora più inquietante.
-Non
temete, sono certo che al
ritorno avrà dimenticato ogni cosa- mi rassicurò
Johnson.
-Beh,
dipende dal grado di
difficoltà e pericolosità di ciò che
lui e Charles sono andati a fare- risposi
io. L’uomo di fronte a me sollevò lo sguardo
pensieroso.
-Potrebbe
risultare assai più
pericoloso del previsto e credo questa sia la ragione fondamentale per
cui ha
deciso di non portarvi. Sospetto infatti che ci siano gli Assassini
dietro il
furto e non un semplice ladro-
Mi
riscossi all’improvviso udendo
di nuovo quel nome.
-Dunque
vi hanno rubato qualcosa?
Documenti, mappe?- provai a chiedergli, pronta a fare un passo indietro
nel
caso si fosse mostrato restio a rispondermi. Con mia sorpresa invece si
dimostrò disposto a parlarne.
-Entrambi,
in effetti, e
indispensabili per i nostri piani. Per questo sospetto degli Assassini:
nessun
altro avrebbe potuto trovarli utili o capirci qualcosa. Come potete
intuire,
ogni istante è prezioso e sono passati già due
giorni da quando quelle carte
sono sparite. Per fortuna il mio socio, Thomas Hickey, è
già riuscito ad
individuarle e sono certo che con l’aiuto di Charles e del
Gran Maestro presto
riavrò tutto-
Fummo
interrotti da un signore
che si avvicinò rapidamente al tavolo e sussurrò
poche parole concitate a
William Johnson che annuì e si alzò preparandosi
a seguirlo.
-Purtroppo
una faccenda urgente
richiede la mia presenza a qualche isolato da qui. E’ stato
un piacere miss
Richards- si congedò lui
-Il
piacere è stato mio signor
Johnson. E grazie per le vostre parole di conforto-lo salutai.
Mi
ritrovai, così, di nuovo da
sola a rimuginare su quanto era appena successo, tuttavia la vena
polemica si
era completamente esaurita e al suo posto era rimasta la semplice
rassegnazione
di chi si rende conto che la strada da percorrere per raggiungere un
qualche
peculiare obiettivo è lunga e in salita e non sembrano
esistere scorciatoie o
sentieri meno ripidi per arrivare in cima.
Dal
momento che la situazione
sembrava sul punto di essere felicemente risolta, decisi di ingannare
il tempo
che gli altri avrebbero impiegato per tornare indietro guardandomi un
po’
intorno. Scesi le scale e mi diressi in direzione della porta,
tuttavia,
proprio in quel momento, Catherine mi passò accanto con le
braccia cariche di
piatti i quali parevano sul punto di frantumarsi in mille pezzi sul
pavimento,
tanto piccole parevano le braccia che tentavano di contenerli in
proporzione al
loro numero. D’istinto gliene presi qualcuno e
l’accompagnai al bancone dove li
appoggiò con uno sbuffo affaticato.
-Sembra
davvero molto faticoso
questo mestiere- commentai.
-Oh
non potete immaginare quanto!
Certo dà le sue soddisfazioni ma i grattacapi sono infiniti-
rispose lei
asciugandosi la fronte sudata con il grembiule. Compresi che aveva
bisogno di
sfogarsi e la invitai a continuare appoggiandomi al bancone come chi si
prepara
ad ascoltare qualcosa di lungo. Lei, ovviamente, non ebbe bisogno di
ulteriori
incentivi.
-Non
parlo delle pulizie,
naturalmente, quelle sono faticose, certo, ma uno non apre una locanda
se non
ha voglia di fare certe cose, di sporcarsi le mani. Il problema sono i
guai con
la giustizia, le risse che una povera donna come me non può
fermare, le urla e
gli schiamazzi e i furti! Santo cielo non parliamo dei furti!-
esclamò lei con
tono lamentoso.
Annuii
mostrandomi comprensiva,
mentre dentro di me mi permisi di sorridere compiaciuta dal momento che
Catherine
stava arrivando da sola proprio dove io speravo di condurla a sua
insaputa.
-L’altro
giorno hanno rubato
qualcosa di prezioso al signor Johnson, per esempio. Dio sia lodato per
aver
mandato un simile gentiluomo nella mia locanda! Pensate che non ci ha
fatto
nessun problema, non ci ha nemmeno denunciati o minacciati di far
fallire il
locale, chè con i soldi che ha potrebbe benissimo farlo.
Figuratevi che ero più
in ansia io di lui!-ridacchiò la donna che tuttavia riprese
immediatamente a
parlare prima che potessi pensare di formulare qualcosa che
assomigliasse a una
risposta.
-In
effetti ero così in ansia che
ho dimenticato di dirgli una cosa molto importante che lì
per lì mi era entrata
in testa ma poi se n’è volata via, puff-
esclamò allargando le mani per mimare
qualcosa che sparisce. Si avvicinò a me con fare cospiratore
–Sapete, io ero
presente al momento del furto e ho visto bene in faccia uno dei ladri.
Sul
momento ero così spaventata che non l’ho subito
riconosciuto ma ora mi è venuto
in mente chi era- fece una pausa ad effetto poi riprese a sussurrare
con fare
solenne- l’apprendista del signor Bradford- annuì
con importanza e io stuzzicai
ulteriormente la sua tendenza al pettegolezzo sgranando gli occhi e
coprendomi
la bocca con la mano.
-Non
parlerete di QUEL Bradford?-
chiesi, anche se non avevo la più pallida idea di chi fosse.
-Sì
sì, proprio lo stesso che ha
la stamperia in Batty Street, non lontano dal porto. Il suo apprendista
è
davvero inconfondibile: ha due occhi di colore diverso, lunghi capelli
rosso
fuoco e una cicatrice che gli sfregia la guancia sinistra. Come ho mai
fatto a
dimenticare un simile individuo non so spiegarmelo!-
Proprio
in quel momento dei tizi
seduti ad un tavolo vicino reclamarono a gran voce dell’altra
birra e la povera
Catherine fu costretta a lasciarmi con mio non troppo profondo
rammarico.
Cercai di non apparire eccessivamente baldanzosa quando uscii dalla
locanda e
mi avviai di buon passo nuovamente in direzione del porto, ben
consapevole del
fatto che la mia fosse solo una strada secondaria che mi avrebbe
condotto a
rivelare qualche dettaglio in più sul furto dei documenti di
William Johnson
già in corso di recupero da tutt’altra parte.
Non
so bene per quanto camminai e,
anche se di sfuggita mi resi conto di averci messo molto meno a
cavallo, il
tempo passò assai in fretta, distratta com’ero da
quella nuova città di cui
presi a memorizzare vie e punti di riferimento, desiderosa di imparare
al più
presto a muovermi attraverso di essa con agio e rapidità.
Superai la Old State
House e mi ritrovai in un’ampia via denominata State Street
da cui potevo
facilmente vedere il mare e gli alberi delle navi più alte
ancorate poco
lontano. Presto, però, la mia attenzione venne attratta da
un numero
spropositato di fogli sparpagliati in giro che svolazzavano pigramente,
accarezzati dalla brezza salmastra. Qualche casa più in
là un tizio vagamente
sovrappeso rincorreva i fogli con espressione disperata, fermandosi di
quando
in quando per riprendere fiato e per aggiustarsi gli occhialetti che
spesso gli
scivolavano dispettosamente sul naso. Mi dispiacque per lui al punto
che mi
misi ad acchiappare i fogli che mi passavano accanto e presi a
saltellare per
afferrare quelli che il vento sospingeva più in alto,
finchè non li ebbi
recuperati tutti. Quando lo raggiunsi mi regalò un sorriso
smagliante che
ricambiai mentre gli consegnavo il plico che avevo provato a
raddrizzare alla
bell’e meglio.
-Vi
ringrazio, mia cara, avete
salvato i miei ultimi mesi di lavoro- mi disse, mentre richiudeva il
tutto tra
le pagine di un libro sottile a copertina rigida.
-E’
stato un piacere, signore-
poi non riuscii a trattenermi e accennai alle pagine –come
hanno fatto a volare
via?-
L’uomo
si rabbuiò di colpo.
-Perché
dei ladri hanno tentato
di prendermi l’almanacco di mano. Io l’ho tenuto
stretto ma delle pagine si
sono strappate e hanno cominciato a volare dappertutto. Meglio rendersi
ridicoli in giro che rifare tutto daccapo- esclamò. A quel
punto mi osservò con
più attenzione.
-Voi
non siete di Boston, vero?-
mi chiese, lasciandomi vagamente basita.
-Come
lo avete capito?-
-Dall’
abbigliamento, oserei dire.
Senza contare che siete evidentemente una persona onesta, vi fermate ad
aiutare
un vecchio pazzo-
Mi
venne da ridere dinanzi a
tutta quella schiettezza e autoironia, tanto che lo giudicai
estremamente
simpatico e a pelle mi piacque moltissimo.
-Non
avete un’alta opinione dei
vostri concittadini-
-Ah,
grazie a Dio vivo a
Filadelfia. Vengo di rado da queste parti ma ogni singola volta sembra
che
qualcuno ci tenga a ricordarmi perché me ne sono andato. Ma
ditemi- mi domandò
con fare pensieroso- come mai una ragazza gentile e a modo come voi si
ritrova
in questo nido di gazze?-
-E’
una lunga storia. Al momento,
comunque, sono proprio a caccia di un ladro a causa di un furto ai
danni di un
mio amico. A quanto sembra questo tizio lavora in una stamperia della
zona-
Quando
pronunciai quella frase il
signore si dimostrò subito interessato: mi chiese chi ne
fosse il proprietario
e quando glielo dissi si illuminò di colpo.
-Ah
il vecchio Bradford, lo
conosco! E’ un uomo perbene, sono certo che ci
aiuterà senz’altro quando gli
diremo che c’è un ladro nella sua bottega. Venite
con me, so bene dove lavora-
Detto
questo, si mise in marcia e
io lo seguii prontamente senza riuscire a credere
all’incredibile colpo di
fortuna che avevo avuto. Lungo il percorso venni a sapere che
l’uomo che avevo
aiutato altri non era se non Benjamin Franklin, il cui nome
all’epoca mi diceva
pochissimo ma che in seguito avrei considerato una delle persone
più
straordinarie che avessi mai conosciuto, opinione comune,
d’altronde, alla
maggior parte delle persone più influenti e di senno di
quello stato neonato. Uomo
di scienza e dalle innumerevoli virtù, aveva cominciato in
giovanissima età a
lavorare nella stamperia del fratello, salvo poi fuggire in segreto a
Filadelfia dove presto le sue abilità e il suo altruismo gli
procurarono
successo crescente negli affari e la stima dei suoi concittadini. Aveva
lavorato a lungo in diverse botteghe prima di riuscire ad averne una
tutta sua
da dirigere autonomamente e nel frattempo aveva esteso le sue
conoscenze nel
peculiare settore della stampa alle città vicine e
all’Inghilterra. Sapendo ciò
che ora so di lui non mi sorprende affatto, come invece avvenne in quel
lontano
1754, che conoscesse il signor Bradford e anzi fossero amici di vecchia
data1.
Quando entrammo nella stamperia il proprietario ci venne immediatamente
incontro e, quando riconobbe il signor Franklin, il suo viso si
illuminò e
prese a stringere la mano al suo vecchio amico con calore. Questi gli
spiegò in
poche parole la situazione e, proprio come aveva previsto, subito lo
stampatore
si fece sollecito nel volerci offrire il suo aiuto e
confermò immediatamente la
descrizione che Catherine mi aveva fornito del suo apprendista.
-Questa
è l’ultima che mi
combina: già altre volte mi ha dato gatte da pelare a causa
delle sue
scorribande notturne e dei suoi problemi con la giustizia. Per quanto
mi riguarda
ha chiuso con la mia bottega!- esclamò infuriato mentre ci
conduceva
all’interno del negozio dove teneva i documenti manoscritti
pronti alla stampa.
-Se
ha preso delle carte, come
voi dite, non posso pensare a un nascondiglio migliore di questo. Anche
se non
riesco davvero a immaginare cosa possa farsene-
Stavo
per dire che i documenti,
se anche fossero stati nascosti nella stamperia in precedenza, in quel
momento
sicuramente non erano più lì, quando una vocina
nella mia testa mi disse di
tacere e controllare lo stesso se per caso qualche foglio non fosse
rimasto
nascosto lì sotto. Mi avvicinai alla pila di fogli e presi a
leggere frasi a
caso qui e là nella speranza di incontrare un qualche
argomento insolito e
apparentemente senza senso o di imbattermi in frasi cifrate o strane
mappe ma
tra le pagine manoscritte non vidi assolutamente niente. Stavo
nuovamente per
dire la verità ai due signori che mi guardavano con
apprensione e aspettativa,
quando mi venne un’idea decisamente bislacca che decisi di
verificare
immediatamente: mi buttai a capofitto nello studio di
un’altra pila di
documenti che differivano dagli altri per il fatto che erano
già stampati ed in
attesa di essere composti in pagine rilegate. Operette morali,
opuscoli, poesie,
saggi, articoli di giornale, libelli religiosi, una ventina di pagine
su un
Tempio dei Precursori…
Poco
ci mancò che urlassi un
archimedeo “Eureka” in grado di essere udito
dall’altra parte del globo!
Sollevai i fogli davanti agli occhi con gioia e feci scorrere le pagine
con il
pollice, ridendo quasi fossi ubriaca: pochi instanti prima mi aveva
infatti
colpito un pensiero inquietante e che forse poteva spiegare
perché quei fogli
fossero spariti per due giorni per poi riapparire magicamente da
qualche altra
parte. Se io fossi stata il ladro, e apprendista in una stamperia per
di più,
avrei provveduto a fare una copia dei documenti in modo tale che se
anche il
proprietario, viste le risorse che aveva a disposizione, fosse riuscito
a
recuperarli, per lo meno gli Assassini non ne sarebbero rimasti
sprovvisti. Ben
presto, tuttavia, il mio buonumore venne fortemente ridimensionato
dalla
constatazione che non vi erano mappe tra quei fogli e che
all’ultima pagina la
frase finale risultava incompleta. Decisi di non darmi per vinta e
cercai
ancora in quella stanza stipata di documenti le pagine mancanti senza
purtroppo
avere successo. Intanto il signor Bradford e Benjamin Franklin mi
chiesero più
volte se potessero aiutarmi, dal momento che credo avessero ben intuito
che una
parte, chissà quanto rilevante, della refurtiva era sparita
e proprio quelle
richieste mi fecero venire un’altra idea.
-Ditemi,
signor Bradford, voi per
caso vi appoggiate ad altre stamperie per smaltire eventuale lavoro in
eccesso
o fate favori a qualche bottega più piccola ogni tanto?-
Lo
stampatore intuì al volo le
mie intenzioni e mi fornì immediatamente i loro indirizzi,
invitandomi a
riferire ai proprietari che erano lui e il signor Franklin a mandarmi.
Ringraziai entrambi di cuore e li lasciai alle loro incombenze, non
prima però
di esaudire la richiesta del signor Franklin e dirgli dove alloggiavo,
con la
promessa di passare a salutarlo fintantoché fosse rimasto a
Boston dopo che
anch’egli mi ebbe riferito il nome della sua pensione.
Mi
ci volle un bel po’ di tempo
per visitare tutte le stamperie di cui avevo imparato nome del
proprietario e
indirizzo, in parte perché i documenti che cercavo
risultavano ben nascosti o
cacciati malamente nei posti più strani e in secondo luogo
perché non avevo la
più pallida idea di quale strada percorrere per raggiungere
le varie botteghe e
sovente dovetti fermarmi a chiedere informazioni a qualche passante.
Dopo che
mi fui lasciata alle spalle l’ultima stamperia e i continui
ringraziamenti del
proprietario il quale, non so bene perché, si era convinto
che lo avessi
salvato dalla iniqua macchina della giustizia, trovai un posto
tranquillo in
una stradina deserta e controllai il centinaio di pagine che avevo
recuperato.
Tra di esse figuravano mappe della zona boschiva alle spalle della
città e
diversi luoghi erano segnati con un numero scritto a penna, il quale
rimandava
ad approfondimenti da andare a ricercare tra le diverse pagine grazie
ai quali
mi parve di intuire che le carte del signor Johnson erano state
recuperate
tutte. Leggendo tutti quei riferimenti ad un misterioso Tempio intuii
che
quanto mi aveva rivelato il signor Kenway a bordo della Providence era
solamente una parte della verità, per conoscere la quale
nella sua interezza
avrei dovuto aspettare di entrare a far parte dell’Ordine
templare. Oppure
potevo leggere quelle pagine.
Rimasi
diversi minuti a guardare
quelle parole stampate nero su bianco senza vederle, indecisa se
soddisfare la
mia immensa curiosità ma tradire la fiducia del signor
Kenway oppure resistere
a quella terribile tentazione e ritirarmi con l’onore ancora
intatto: erano lì,
tutte le risposte, le avevo tra le mani proprio in quel momento e non
dovevo
fare altro che leggerle. Alla fine sospirai e mi alzai in piedi senza
aver
posato lo sguardo neppure su una riga di quel testo e mi incamminai
velocemente
verso il Green Dragon, decisa ad arrivarvi prima che la mia
curiosità
incontenibile mi facesse cambiare idea. Quando ne vidi
l’insegna in lontananza
cominciai a correre ed infilai la porta con tale velocità
che diversi avventori
si girarono a guardarmi, tuttavia non sono certa che riuscirono a
vedermi dal
momento che in mezzo secondo avevo già cominciato a salire
le scale superando
tre gradini alla volta. Arrivata in cima, vidi che il tavolo dove un
paio di
ore prima avevo parlato con il signor Johnson era occupato da quattro
uomini,
tre dei quali mi erano già noti. In mezzo a loro vi era una
cassa il cui
contenuto non era visibile da dove mi trovavo io ma che intuii essere
costituito dai documenti scomparsi due giorni prima.
-Dov’eri
finita? Mi sembrava di
averti detto di restare qui- mi accolse il signor Kenway quando mi
portai a un
metro di distanza da loro.
-Per
fortuna ho deciso di farmi
un giro, allora- esclamai appoggiando i fogli sul tavolo accanto alla
cassa.
-E
questa adesso chi è?- chiese
burbero il tizio a me sconosciuto sfoggiando un pesante accento
irlandese2.
Charles lo guardò con un misto di sconcerto e disgusto.
-Evelyn
Richards. Voi siete
Thomas Hickey, presumo-
-Presumi
bene- brontolò quello,
annoiato. Lo conoscevo da tre secondi e già mi stava
antipatico.
-Signor
Johnson, volete essere
così gentile da controllare se c’è
tutto?- chiesi.
Sentii
su di me tre paia di
sguardi incuriositi mentre Johnson, perplesso, sfogliava i documenti
con
sconcerto crescente.
-Ma…sono
le mie ricerche!-
esclamò- Dove le avete trovate?-
-Sparpagliate
in diverse
stamperie del porto. Un testimone mi ha detto di aver riconosciuto uno
dei
ladri e si era detto sicuro che lavorasse come apprendista per uno dei
proprietari. Ho solo fatto due più due- dissi, evitando
accuratamente di
menzionare Catherine per non procurarle imbarazzo.
-E
credete che queste fossero le
uniche copie in circolazione?- mi chiese Johnson picchiettando con
l’indice sul
plico. Annuii, con un sorriso: ci avevo già pensato e sapevo
che probabilmente
me l’avrebbe chiesto.
-Il
processo di stampa è
piuttosto lento e il nostro apprendista ha avuto solo due giorni a
disposizione, ben sapendo che il vostro socio era già
sull’usta. Ammettiamo
però che non fosse di fretta: avrebbe potuto farne
più di una copia e lasciarne
le pagine in giro per tutte quelle stamperie a bella posta,
nascondendole in
modo da far credere a chiunque le trovasse che fossero le uniche
esistenti e
portando con sé altre copie, ma mi sembra un espediente
eccessivo persino per
persone abituate a una guerra sotterranea da qualche millennio a questa
parte-
Il
signor Johnson annuì
soddisfatto.
-Sono
d’accordo. Allora,
distrutta la copia, saremo gli unici in possesso di queste
informazioni, sempre
che non le abbiano memorizzate-
-Questo
non lo sapremo mai ma
ritengo che non ne abbiano avuto il tempo-
-Già.
E tu lo sai molto bene,
vero?- intervenne a quel punto il signor Kenway.
Ne
incontrai lo sguardo,
penetrante e affilato come la lama che portava al polso, e fui contenta
di non
aver letto neppure una riga di quei documenti, realizzando in quel
momento che
anche il commento del signor Johnson probabilmente era un tranello per
mettermi
alla prova.
-So
quale argomento trattano
quelle carte: ho dovuto dare loro un’occhiata per poter
capire quali fossero
quelle giuste. Tuttavia che cosa venga spiegato nel dettaglio non lo
so. Non
nego che mi sarebbe piaciuto molto approfondire il contenuto dei
documenti ma
non l’ho fatto-
Io
e Kenway ci guardammo negli
occhi ancora per un secondo durante il quale temetti seriamente di
vederlo
alzarsi in piedi e buttarmi fuori dalla locanda, tanto di pietra
appariva il
suo volto. Invece, con mio enorme sollievo, si rilassò.
-Ti
credo. Ora, se tu e Charles
voleste essere così gentili, dovrei discutere un paio di
cose con i signori
Johnson e Hickey-
Annuii
e feci un paio di passi
indietro.
-Ah
Evelyn!- mi apostrofò un
istante dopo, chiamandomi per nome per la prima volta- Ottimo lavoro!-
esclamò
quando mi voltai verso di lui. Mi regalò uno dei suoi
rarissimi sorrisi
spontanei e io non potei fare a meno di rimanerne immediatamente
contagiata.
-Grazie,
signore. Dovere- risposi
semplicemente, riprendendo poi a camminare in direzione delle scale:
dovevo
scambiare due parole con Catherine.
1Tutte
le informazioni riportate in
questo capitolo e in quelli successivi relative alla vita e alla
personalità di
Benjamin Franklin sono tratte dalla sua autobiografia
(consigliatissima:
quell’uomo era un genio e un vecchio volpone J
).
2Delle
origini e della nascita di
Thomas Hickey non si sa nulla ma io ho ipotizzato fosse irlandese dal
momento
che il suo cognome è largamente diffuso proprio
nell’Isola di Smeraldo J