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Autore: Silver Blaze    17/09/2016    1 recensioni
[STORIA IN FASE DI REVISIONE: CAPITOLI 1 E 2 MODIFICATI E ACCORPATI]
Sono nata a Londra nel 1737. La mia vita ha attraversato due secoli, la mia piena maturità incuneata tra due rivoluzioni. Dopo quanto accaduto alla mia famiglia ho creduto che tutto fosse finito, la mia esistenza svanita tra le fiamme, ogni certezza ridotta in cenere. Ma come una fenice sono risorta, più consapevole di ciò che mi circondava, cosciente di un fatto e uno solamente: se l'umanità continuava ad esistere ciò era dovuto a qualcuno che manteneva l'ordine, qualcuno che conosceva le sue debolezze e le impediva di collassare sotto il loro peso. Se questo qualcuno avesse trionfato, giustizia e ordine sarebbero divenute realtà e non solo vuote utopie, parole belle a pronunciarsi ma prive di significato. Ho vissuto questi anni nella speranza di vedere l'alba di un nuovo mondo, un mondo di fermezza e ordine. Mi chiamo Evelyn Richards e sono una Templare.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Haytham Kenway, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VIII

 

Le ultime due settimane di traversata erano state in realtà più lunghe del previsto: i primi due giorni erano praticamente volati, trascorsi in un soffio a pensare e riflettere su tutto ciò che il signor Kenway mi aveva raccontato. Come già accennato in precedenza, avevo deciso quasi immediatamente di accettare la sua offerta e, una volta stabilito ciò come fatto certo e assodato, mi ero sorpresa spesso a fantasticare su come sarebbe stata la mia vita una volta sbarcati a Boston, sul tipo di addestramento che avrei ricevuto e sulle mirabolanti scoperte e avventure che la mia nuova vita mi avrebbe offerto. Com’era naturale, non vedevo l’ora di arrivare in America, cosa che si tradusse in un molesto rallentare dello scorrere del tempo: mi pareva di passare ore e ore a riflettere, a rimuginare su tutti i fatti, a pensare al signor Kenway e al ruolo che aveva tra le fila templari e invece, sollevato lo sguardo alla finestra o direttamente al cielo a seconda di dove mi trovassi, mi accorgevo che il carro di Febo non aveva percorso neanche un passo e i raggi solari mi ferivano gli occhi tanto quanto l’ultima volta che avevo levato lo sguardo, a giudicare dalla posizione dell’astro da cui provenivano, non più tardi di dieci minuti prima. Sorprendente come il tempo sia capace di rallentare fin quasi a fermarsi completamente proprio quando vorremmo ch’esso si affretti e come invece acceleri la sua corsa mostruosa e inesorabile quando, al contrario, daremmo metà dei nostri anni su questa terra per un ultimo secondo di tregua.

La mattina del diciassettesimo giorno trascorso dall’ultimo scambio di idee che avevo avuto con il signor Kenway si preannunciò fresca e nebbiosa: appena sveglia gettai uno sguardo distratto oltre la finestra e vidi una pesante cortina bianca coprire il mare e il cielo e mi scoprii incapace di individuare la linea dell’orizzonte anche dopo aver aguzzato la vista. Scossi il capo e decisi di dirigermi sul ponte, ben sapendo che quel giorno la vista sarebbe stata abbastanza monotona se il banco di nebbia si fosse rivelato più esteso del previsto. Attraversando i corridoi che portavano al boccaporto mi ritrovai a passare davanti alla cabina di Kenway e, con mia grande sorpresa, la trovai già vuota, la porta spalancata e il letto rifatto: nonostante fosse molto presto egli era già in giro per la nave, anche se ad essere degno di rilievo non era tanto l’ora del mattino quanto il fatto che fosse uscito dalla cabina dopo giorni e giorni passati in meditazione chiuso lì dentro; rammentando lo stato di profonda concentrazione in cui lo avevo sorpreso la notte in cui ero andata ad avvertirlo delle botti gettate in mare passando dai cannoni esterni al posto del corridoio, non avevo osato disturbarlo e avevo tenuto per me la decisione di unirmi ai Templari in attesa di un momento più opportuno per comunicarglielo. Tale momento sembrava che fosse finalmente arrivato.

Quando emersi sopraccoperta, la vista deprimente della fitta nebbia che nascondeva ai miei occhi tutto ciò che si trovava oltre il parapetto produsse in me un senso di scoramento tale che le spalle mi si afflosciarono: ancora una volta sperai vivamente che fosse un fenomeno passeggero e non destinato ad accompagnarci per tutta la giornata oppure, tra l’impazienza che oramai faticavo a contenere e la profonda noia che il belvedere monocromo mi procurava, mi sarei messa a strillare sul ponte in preda a una crisi isterica: non penso ci fosse bisogno di un medico per intuire che avevo urgentemente bisogno di cambiare ambiente.

Mi guardai intorno alla ricerca del volto spigoloso del signor Kenway ma intorno a me vi erano pochi marinai impegnati nelle solite faccende quotidiane e nessun altro. Un improvviso stridio attirò la mia attenzione e, con profonda sorpresa, mi accorsi che la nave era circondata dai gabbiani: volteggiavano leggeri tra le vele e ogni tanto superavano in volo lo stretto spazio del ponte per poi svanire di nuovo inghiottiti dalla nebbia; malgrado avessi passato due mesi senza occuparmi d’altro, non ero affatto esperta in materia di navigazione tuttavia persino io fui in grado di intuire che la presenza dei gabbiani voleva dire che la terraferma non era lontana: forse se mi fossi arrampicata fino al punto più alto della nave avrei potuto aggirare il banco di nebbia e vedere qualcosa.

Mi issai rapidamente sull’albero maestro e superai velocemente ogni pennone fino a raggiungere la coffa: mentre procedevo verso l’alto a poco a poco il mio viso venne illuminato dai raggi del sole nascente e un cielo di un meraviglioso azzurro scuro solcato qui e là da nuvole di un rosa brillante si aprì alla mia vista e mi scaldò il cuore. Giunta in cima respirai a pieni polmoni e mi beai della vista del mare che si estendeva per miglia ben oltre la linea dell’orizzonte fino alle coste europee che avevo abbandonato così rapidamente quasi tre mesi prima.

-Buongiorno Richards! Sembra che oggi sarà una splendida giornata- mi salutò una familiare voce baritonale alle mie spalle. Mi voltai nella sua direzione.

-Buongiorno anche a voi, signore. Vi stavo giusto cercando per dirvi…- mi bloccai all’istante, incapace di formulare un pensiero di senso compiuto di fronte alla meraviglia che avevo di fronte: un piccolo tratto di mare occupato da navi di ogni forma e dimensione separava la Providence dal paesaggio più bello che avessi mai visto. Un gruppo di case se ne stava raggomitolato sull’oceano, quasi temesse di espandersi troppo e di andare a disturbare le miglia e miglia di verde smeraldino che aveva alle spalle. Montagne all’orizzonte, brune per la distanza, giganteggiavano solitarie e lontane, presenze silenziose che tuttavia ricordavano, nonostante i contorni sfumati e appena abbozzati che si perdevano in morbidi tratti, che la Natura, non l’uomo, era la vera signora di quel territorio selvaggio e inesplorato. Alle loro pendici, come sudditi radunatisi al loro cospetto, scuri pini acuminati si protendevano verso l’alto andando a perdersi, numerosi e fitti, nel cuore del continente americano.

-Bellissimo- mormorai, incapace di trattenermi di fronte a quel paesaggio così diverso da quello a cui ero abituata. Il campanile di una chiesa vicino al porto sfavillò all’improvviso, la campana incendiata dai raggi del sole, quasi avesse percepito i miei pensieri.

-Sei venuta fin quassù solo per dirmi una cosa che so da anni?-

Mi voltai stralunata verso un Haytham Kenway particolarmente di buon umore che sostava alla mia sinistra appoggiato all’albero maestro a braccia conserte, le labbra strette in un sorrisetto divertito: santo cielo, quanti anni aveva?

-Voi siete incapace di restare serio per più di dieci secondi, vero?-

Mi venne da ridere quando il suo sguardo saettò verso di me, un sopracciglio sollevato.

-Una volta sono arrivato a quindici, non sfidarmi- replicò con tono falsamente minaccioso.

-Avrei davvero voluto esserci, allora! Un evento simile è paragonabile al passaggio della cometa di Halley!- esclamai, trattenendo a stento una risata.

Kenway scosse la testa con un sorriso.

-Bando agli indugi: una volta a terra sono quasi certo che ci verrà incontro qualcuno. La tua presenza non era programmata ma sono sicuro che non sarà un problema. Possiamo fare finta che tu mi abbia detto ciò che volevi comunicarmi e passare alla tappa successiva- disse d’un fiato con una certa qual soddisfazione.

Sospirai: ovviamente era perfettamente in grado di prevedere ogni mia mossa, tuttavia non ci stavo a dargliela vinta in quel modo e decisi che volevo divertirmi un po’ a sue spese.

-A dire il vero volevo dirvi l’esatto opposto- dissi lentamente, con cautela, come chi è consapevole di stare comunicando qualcosa di delicato- ci ho pensato con molta attenzione e mi sono resa conto che se quello che abbiamo passato su questa nave era solo un assaggio, allora forse non sono certa di riuscire ad affrontare tutto il menù, non so se mi spiego-

Haytham Kenway,con mia somma soddisfazione, si irrigidì mentre parlavo e mi lanciò uno sguardo penetrante che mi sforzai di reggere, tentando al contempo di sembrare affranta e in imbarazzo contemporaneamente. Ci guardammo per un lungo secondo, poi lui sospirò, deluso, quasi amareggiato.

-Molto bene, se è questo che vuoi. Tuttavia ti ho rivelato troppi dettagli, credendo ingenuamente che mi avresti seguito, perché tu possa andartene in giro come se nulla fosse-

Si voltò verso di me, negli occhi un’espressione indecifrabile, e, senza preavviso, avvicinò il polso destro al mio collo e lo flettè: in una frazione di secondo una lama sottile e affilatissima sembrò sbucare direttamente dal suo braccio andando a fermarsi a un millimetro dalla mia pelle. Deglutii a disagio, mentre dentro di me si faceva strada l’idea di aver tirato troppo la corda. Tuttavia c’era ancora la possibilità che stessimo recitando entrambi e decisi di tirare avanti la commedia, non concependo la possibilità, per quel poco che sapevo di lui, che mi avrebbe ucciso in quel modo e senza pensarci due volte. Incatenai lo sguardo al suo aggrappandomi a questa eventualità, maledicendo senza sosta la mia idiozia senza tuttavia lasciare emergere neppure un barlume del mio turbamento, conscia del fatto che si trattasse di un gioco di nervi puro e semplice. Rimanemmo così, immobili, per un istante che parve dilatarsi all’infinito, poi una leggera, quasi impercettibile contrazione del suo labbro superiore mi fece sorridere: era un bluff.

-Tu sfidi un po’ troppe volte la sorte, ragazza- commentò con un sorriso, mentre faceva scattare la lama nuovamente al suo posto e si allontanava da me –ma complimenti per il sangue freddo. Come sapevi che non ti avrei ucciso?-

Quando Kenway era tornato nella medesima posizione di prima mi ero notevolmente rilassata e non ero riuscita a impedirmi di sospirare di sollievo mentre il battito cardiaco tornava a un ritmo normale: per un bel po’ avrei evitato di sfidarlo, poco ma sicuro.

-Come sapevate che stavo mentendo?- chiesi, ponendogli una domanda retorica che richiedeva la stessa risposta: non lo sapevo, mi ero affidata al buon senso e all’istinto.

Kenway sospirò con un sorriso a fior di labbra.

-Messaggio ricevuto. Ho come l’impressione che ci divertiremo parecchio io e te-

Con la coda dell’occhio vidi che mi stava guardando e anche io non potei fare a meno di voltarmi verso di lui con un sorriso.

-Io invece ne sono più che convinta-

                                                      ***

Attraccammo nel giro di un paio d’ore. Il sole si levava già alto e la temperatura era notevolmente più elevata rispetto a quella a cui mi ero abituata sulla nave, sul cui ponte i raggi solari erano particolarmente intensi ma comunque stemperati dalla presenza costante di un vento gradevole che rendeva tutto molto più sopportabile. Era estate dopotutto, luglio del 1754, un anno indimenticabile.

-Allora ti fermi, smilzo? Non ritorni sulla Providence?- mi chiese Joe poco prima di scendere.

Scossi il capo con un sorriso.

-La vita di mare non fa per me. Credo che cercherò un impiego da queste parti- gli tesi una mano- E’ stato un piacere è un onore incontrarti Big Joe. Mi hai salvato, dico davvero!-

Joe guardò la mia mano per un momento, poi l’afferrò e la usò per tirarmi a sé e stritolarmi in un abbraccio che credo mi abbia incrinato un paio di costole.

-Il piacere è stato mio, bambina! Buona fortuna!-

-Anche a te- replicai senza fiato, quasi certa che con le sue pacche sulla schiena mi avesse fatto sputare almeno un polmone.

Quando imboccai la passerella per scendere, i pochi marinai che non mi avevano crocifisso a causa della mia natura, la maggior parte dei quali era costituita dagli amici di Joe, agitò il cappello nella mia direzione e mi augurò il meglio, ricevendo in cambio da me ringraziamenti e sorrisi riconoscenti: nonostante quanto avevo patito durante il viaggio, provai tristezza al pensiero che non li avrei rivisti mai più e, mentre mettevo finalmente piede a terra, mi ritrovai a riflettere sulla brevità dell’esistenza umana e su quanto fugaci fossero in realtà le compagnie di cui potevamo giovare in vita.

-Mademoiselle- mi riportò al presente una ruvida voce.

-James!- esclamai voltandomi- scendi anche tu?-

Il viso cotto dal sole di James si aprì in un sorriso bianchissimo.

-Sì, con il mare basta così. Vorrei dedicarmi a qualcosa di più tranquillo, ora che non sono più un giovanotto-

-E’ un peccato James, sembravi così portato- esclamò una voce baritonale, il cui proprietario parve materializzarsi dal nulla al mio fianco.

-Qualcosa mi dice che non vi stavate riferendo alle mie doti marinare, signore- sorrise astutamente James –se vi dovesse servire mai aiuto, comunque, sarò ben felice di fare ciò che posso-

-Puoi contarci James: sono sicuro che le tue doti inestimabili si riveleranno molto utili!-

James fece un inchino e sollevò il cappello nel congedarsi, i suoi pochi averi stretti sotto al braccio e avvolti in un panno. Ci voltò le spalle e si incamminò a passo sicuro verso una via affollata, sparendo quasi immediatamente tra la gente: ero certa che ci saremmo rivisti molto presto.

-Mastro Kenway! Mastro Kenway!- sentimmo la voce di un ragazzo alle nostre spalle

-Credo stia parlando con me- mormorò il signor Kenway con un sorrisetto al mio indirizzo -sì?- chiese al giovane voltandosi. Lo seguii a ruota e mi ritrovai a guardarlo stringere vigorosamente la mano a un ragazzo di una ventina d’anni, pieno di gioia ed entusiasmo.

-Charles Lee, signore. Mi hanno mandato per mostrarvi la città, per aiutarvi- si presentò.

–Signorina- aggiunse poi, chinandosi leggermente nel rivolgersi a me. Non accennò al fatto di non avere la più pallida idea di chi fossi, evidentemente affiancare Haytham Kenway era per lui sufficiente garanzia, e mi ritrovai a chiedermi quale posizione occupasse il mio oscuro e misterioso amico per ispirare tanta fiducia e riverenza.

-Evelyn Richards- mi presentai tendendogli una mano che lui strinse con delicatezza. Nel farlo, incontrai i suoi occhi color ghiaccio e vi scorsi una acuta e viva intelligenza.

-Charles Lee, per servirvi, miss Richards- disse galante, chinando la testa ancora una volta –Prego, da questa parte- aggiunse, il braccio destro sollevato a indicare la direzione.

Kenway fece per chinarsi e prendere i bagagli ma il signor Lee lo bloccò prontamente.

-Non preoccupatevi, ho chiesto di portarli direttamente alla locanda-

Solo a quel punto sembrò accorgersi che io non avevo nulla con me e si voltò pensieroso verso la Providence.

-I vostri effetti non sono ancora stati portati a terra, miss Richards?- chiese perplesso.

-Temo che non ci sia alcunchè da trasportare fuori dalla nave, signor Lee: sono partita molto in fretta e non ho avuto modo di portare nulla con me- gli spiegai –è una lunga storia- aggiunsi con un sorriso quando lo vidi farsi ancora più perplesso. Lui annuì e strinse le labbra.

-In tal caso, vogliate seguirmi, prego-

Ci facemmo largo tra venditori di pesce e marinai che affollavano il porto e presto lasciammo le lunghe banchine in legno per immergerci tra i vicoli e le strade di Boston, le cui dimensioni e le straordinarie novità erano per me un irresistibile invito all’esplorazione.

-Sei il figlio di John e Isabella?- chiese d’un tratto Kenway alla nostra guida.

-Il solo e unico- rispose prontamente Lee.

-E sei agli ordini di Edward Braddock, è così?-

-Già. Ma non è ancora giunto in America e pesavo che…beh- esitò –finchè non arriva…insomma…- continuò abbassando la voce sempre di più a ogni secondo, finchè la sua frase non si perse in un imbarazzato schiarirsi di voce e uno sguardo gettato altrove.

-Sì, dimmi pure- lo esortò Kenway con un sorriso rassicurante.

-Ecco, speravo…- si bloccò di nuovo, questa volta per un motivo che mi fu presto chiaro: mi gettò un veloce sguardo di sottecchi, talmente rapido che quasi dubitai di averlo visto, lasciando chiaramente intendere di non sapere se fosse opportuno parlare in mia presenza.

-Sta’ tranquillo, è una dei nostri. Puoi fare liberamente riferimento all’Ordine- lo rassicurò il signor Kenway.

-Oh naturalmente!- esclamò Lee vagamente in imbarazzo- certo, perdonatemi miss Richards. Stavo dicendo…speravo di poter essere vostro allievo ecco…- disse il ragazzo tutto d’un fiato- Non riesco a immaginare mentore migliore di voi- aggiunse con tale spontanea ammirazione che non potei fare a meno di sorridere.

-Sei gentile ma credo che mi sopravvaluti- rispose lentamente Kenway. Mi voltai verso di lui e notai con stupore che sembrava leggermente in imbarazzo, anche se era evidente che il commento del giovane doveva avergli fatto piacere.

-Impossibile, signore!- esclamò il ragazzo con un entusiasmo così genuino che mi domandai nuovamente che cosa avesse fatto mai il signor Kenway prima di imbarcarsi per Boston e mi ripromisi di chiederlo proprio a Charles Lee alla prima occasione.

Svoltammo in una gigantesca via piena di botteghe e bancarelle e io rimasi per un attimo interdetta a fissare quel luogo così simile a Londra ma al contempo completamente diverso: un insieme di accenti e lingue diverse, costruzioni che nella facciata e nella struttura ricordavano quelle londinesi eppure erano più alte, guardie agli angoli delle strade la cui uniforme scarlatta era britannica più di qualunque altra cosa lì presente. Eppure tutto appariva più semplice, quasi rustico, benché contegni e atteggiamenti palesemente mostravano come l’umanità fosse, in fondo, sempre uguale a se stessa nonostante mi trovassi praticamente dall’altra parte del mondo.

-Boston è una città vivace!- notò Kenway che, come me, si stava guardando intorno.

-Eccome! Ci sono tante cose da vedere qui. Quando vi sarete sistemati vi suggerisco di passeggiare per le strade, potreste imbattervi in qualche buon affare- ci consigliò Lee.

-Sono certo che a qualcuno qui piacerebbe molto passeggiare per le strade- commentò il signor Kenway a voce un po’ più alta.

Compresi al volo a chi si stava riferendo per il semplice fatto che mi ero momentaneamente scostata da loro per affacciarmi in un’altra via e vedere così dove andava a sfociare. Mi voltai, le mani allacciate dietro la schiena e le labbra strette in un sorrisetto colpevole, accompagnato da occhi spalancati e aria sorpresa, quasi a volergli chiedere se ce l’avesse proprio con me ma sogghignando come chi non aveva dubbi al riguardo.

Il signor Kenway sospirò con un sorriso.

-Ci sono per caso degli empori in questa strada?- domandò a Charles Lee.

-Certamente! Uno è proprio laggiù, vicino alla stamperia-

-Bene, ho una faccenda da sbrigare, fermiamoci un momento-

-Io vado a cercare dei cavalli, signore-

Ci dividemmo: la nostra guida marciò celere verso sinistra, io trotterellai immediatamente dietro a Kenway, contenta di vedere qualcos’altro di quella città. Al momento di entrare nell’emporio pensai di rimanere fuori e di lasciargli fare ciò che doveva con calma, tuttavia proprio lui mi invitò a seguirlo quando mi vide esitare sulla soglia.

-Seguimi, un giorno dovrai farlo anche tu- disse semplicemente.

Entrammo in un locale in legno con un lungo bancone dietro al quale sostava un signore di mezza età che scribacchiava qualcosa su un gigantesco registro in una grafia sottile e inclinata. La sua vista debole lo obbligava a tenere un paio di occhiali tondi appollaiati sulla punta del naso adunco, tuttavia li ripose in fretta nel taschino del panciotto al nostro ingresso.

Quando Kenway gli disse ciò che desiderava l’uomo sparì in una stanzetta sul retro del locale per fare ritorno con le braccia colme di spade e pugnali. Prese a illustrare i pregi di ciascun esemplare e io annotai mentalmente ogni informazione per farmi un’idea su quella che avrebbe potuto essere un giorno la mia arma ideale, zittendo in modo deciso la parte debole di me, sopita ma ancora presente, che continuava a domandarmi se davvero avrei ucciso qualcuno con una di quelle spade.

Il signor Kenway pescò nel mucchio e osservò da vicino il filo della lama.

-Quella è una delle migliori: leggera e sottile, attualmente in dotazione alla fanteria di Sua Maestà. Ve la consiglio, se state cercando qualcosa con cui difendervi in modo rapido- intervenne immediatamente il venditore –anche se forse in quel caso, un pugnale sarebbe più consigliabile-

Mi avvicinai curiosa al gruppo di pugnali che sostava sul bancone e con un dito ne spostai un paio per riuscire a vederli tutti: al di sotto degli altri ne scorsi uno dall’impugnatura in ebano e stupende volute in argento che pareva quasi ammiccare tentatore. Lo estrassi dal fodero in cuoio nero e ammirai la lama dritta e sottile che ricordava quella di uno stiletto: non ero mai stata particolarmente attratta dalle armi, né mi avevano mai incuriosito, eppure quel pugnale mi tentava in modo strano, a tratti sinistro.

-Visto qualcosa di interessante?- mi domandò di colpo il signor Kenway riportandomi nel mondo dei vivi. Decisi di lasciar perdere e rimisi quel gioiello al suo posto.

-Lo sapete anche voi che le dame sono attratte dalle cose che luccicano. Tuttavia non penso che questi arnesi siano stati forgiati a questo scopo- risposi con ironia sufficiente a fargli credere che il mio interesse fosse puramente frivolo: non avevo nessuna intenzione di metterlo in imbarazzo e costringerlo a comprarmi qualcosa per pura cortesia. 

-Ho quasi finito, se vuoi puoi aspettarmi fuori. Controllo un’ultima cosa e ti raggiungo- disse mentre soppesava tra le mani una pistola ad avancarica. Onde evitare di mettere le mani da qualche altra parte e di fare altri pasticci feci come mi aveva detto e uscii, valutando l’ipotesi di arrivare alla fine della strada. Non feci tuttavia in tempo a fare tre passi che uscì anche lui, la spada della fanteria inglese legata a un fianco, pistola nella fondina e un sacchetto di proiettili che saltellava nella sua mano prima di sparire in una tasca della redingote: se possibile aveva un aria persino più pericolosa del solito.

-Come mai quel sorrisino?- mi chiese, mentre raggiungevamo Charles Lee che ci stava già aspettando dove lo avevamo lasciato. Mi affrettai a riprendere il controllo delle mie espressioni facciali.

-Oh niente, stavo per sgattaiolare via ma non ho fatto in tempo- mentii.

Il signor Kenway si limitò a sospirare e a sorridere scuotendo la testa.

-Signore, ho preso i cavalli. La cattiva notizia è che oggi è giorno di mercato e purtroppo ho trovato solo questi due- si scusò Lee quando gli fummo davanti.

-Nessun problema, Charles, la signorina verrà con me- gli rispose Kenway mentre montava agilmente su un lucido stallone nero.

Decisi di ignorare il cuore che mi martellava insistentemente nel petto mentre mi issavo rapidamente dietro al signor Kenway, occupata com’ero a dissimulare il nervosismo: mi facevo decisamente troppi problemi, ne ero consapevole, ma quell’improvvisa vicinanza alla quale non avevo avuto modo di prepararmi mi metteva vagamente a disagio. A nulla valse appellarmi alla ragione che continuava stancamente a ripetermi che era solo una sciocca cavalcata: presto si sarebbe posto il problema di dove reggermi e io avrei volentieri preferito sedermi al contrario e aggrapparmi alla coda del cavallo pur di evitare quell’imbarazzo. Il fatto che non fossi capace di reggermi in sella perché non avevo mai avuto modo di provare a cavalcare era solo un’ulteriore aggravante.

-Sta’ tranquilla, non mordo. Non di solito almeno- scherzò il signor Kenway con l’effetto di rendere la situazione più informale di quanto non fosse nella mia testa. Mi sfuggì una risata imbarazzata e, giusto in quel momento, partimmo al trotto inoltrandoci nel cuore della città. Presa alla sprovvista, sussultai e le mie braccia finirono avvolte attorno alla prima cosa che mi capitò sottomano, nello specifico la vita del signor Kenway. Ben presto mi ritrovai nella familiare condizione di avere la testa spaccata in due, combattuta tra il dare ascolto alla sua componente razionale, che mi suggeriva di memorizzare i nomi delle strade per distrarmi, e quello romantico, il quale subdolamente mi faceva notare che, dopotutto, quella situazione non era poi così sgradevole. Troppo tardi mi resi conto che, in quella posizione, probabilmente il signor Kenway avrebbe sentito benissimo il mio cuore che gli galoppava imbizzarrito sulla schiena, giusto per restare in tema, tuttavia, in quel momento, l’imbarazzo passò in secondo piano, occupata com’ero a constatare quale gradevole effetto avesse su di me l’essere umano che mi stava davanti, quasi il calore che emanava il suo corpo fluisse attraverso le mie braccia fino a scaldarmi il petto. Distrattamente lo ascoltai chiedere a Charles Lee dove fossimo diretti e se avesse già organizzato l’incontro con altre persone del posto di cui non memorizzai i nomi. Il ragazzo accennò a un locale non molto distante chiamato Green Dragon, dove avremmo trovato ad aspettarci un certo Johnson, uno dei contatti del signor Kenway in America, e rispose negativamente quando questi gli chiese se gli altri membri dell’Ordine gli avessero già rivelato quale fosse la nostra missione nella regione: se non altro non sarei stata l’unica neofita in mezzo a un gruppo di addestrati e letali veterani, come spesso mi ero ritrovata a immaginare con un certo timore.

Dopo una manciata di minuti, o almeno così mi parve, ci fermammo di fronte a un edificio dalla cui porta più grande proveniva un frastuono di stoviglie e un berciare di avventori che giudicai piuttosto chiassoso e per questo molto utile a quel genere di persone che aveva bisogno di concordare piani e linee d’azione senza essere notato o ascoltato, pensai.

Al nostro ingresso due furono le cose che ci accolsero calorosamente: il profumo di un ottimo stufato che il cuoco stava preparando per il pranzo e le urla e gli strepiti di una donna che stava rivolgendosi a un tizio in maniche di camicia, a giudicare dal contegno, probabilmente il suo disgraziatissimo marito. Ci appropinquammo alla coppia nell’istante in cui la donna strillò un epiteto irripetibile che provocò uno scambio di sguardi costernati tra me e Charles Lee e un sarcastico sopracciglio inarcato da parte del signor Kenway. Quando finalmente i due si accorsero di noi si profusero in mille scuse e mostrarono di volersi fare in quattro per noi, anche se, a causa delle strane attenzioni e del voglioso ammiccare che la donna che ci venne detto chiamarsi Catherine riservò al signor Kenway, presto fu il mio turno di sollevare un sopracciglio mentre constatavo con una punta di divertimento quanto liberali di tal pratica sembrassero le locandiere in quella parte di mondo.

-Spero non ci sia alcun problema nel trovare una camera anche per la signorina qui presente-

-Naturalmente no, signore, ce ne sono diverse libere. Vi occorre altro?-

-Solo stare tranquilli-

Il proprietario annuì e intimò alla moglie di portare i bagagli nelle rispettive stanze mentre io e il signor Kenway seguivamo Charles Lee al piano di sopra verso un tavolo isolato al quale sedeva un gentiluomo di mezz’età dalla redingote rosso cupo.

-Signore, miss Richards, vi presento William Johnson- lo introdusse Lee. Il signore si alzò e strinse la mano a entrambi, chinando leggermente la testa quando passò a me. Johnson e il signor Kenway sedettero l’uno di fianco all’altro e dal modo in cui si voltarono, escludendo fisicamente sia me che Charles Lee dalla conversazione, compresi che si trattava di un argomento riservato ai membri dell’Ordine e mi allontanai immediatamente quel tanto che bastava per non udire le loro parole. Mi affacciai alla balaustra e osservai Catherine e il marito correre da un tavolo all’altro per servire i clienti.

-Conoscete da molto Mastro Kenway, miss Richards?- mi sentii domandare ad un tratto. Mi voltai e incontrai lo sguardo caldo eppur glaciale di Charles Lee.

-Vi prego chiamatemi Evelyn non sono abituata alle formalità-

Il giovane mi sorrise.

-Come desideri. Anche tu puoi chiamarmi Charles, se vuoi-

-Con molto piacere Charles. In verità ho conosciuto il signor Kenway sulla nave che ci ha condotti qui. E’ stato un viaggio interessante, devo dire- replicai ripensando con un sorriso a tutti i problemi ai quali avevamo dovuto far fronte.

-Oh, hai dunque avuto un assaggio della vita mirabolante che conduce. Per quanto ne so è quasi sempre così. E d’altronde, considerata la posizione che ricopre, non potrebbe essere altrimenti-

Prima che potessi chiedergli di più su quell’argomento decisamente molto interessante, i gentiluomini al tavolo si congedarono e il protagonista della nostra conversazione si alzò e ci venne incontro.

-Charles!-

-Signore?- scattò immediatamente il ragazzo.

-Meglio muoversi-

-Ma certo-

I due si incamminarono verso le scale e io andai subito loro dietro.

-Vengo anche io, vero?- chiesi, tanto per ricordare loro la mia esistenza.

-No, tu resta qui- disse secco Kenway senza fermarsi.

Rimasi per un attimo pietrificata sul posto, quasi a volermi convincere di aver immaginato quella frase. Capii al volo che non mi considerava abbastanza abile da affiancarlo e che probabilmente lui e Charles stavano andando a stanare un nemico pericoloso o a risolvere qualche losca faccenda: dopo tutto quanto avevamo affrontato insieme mi sentii piuttosto offesa ma decisi di seppellire dentro di me la vena polemica e di armarmi di pazienza.

-Ma, signore, come faccio a imparare qualcosa se voi mi lasciate indietro?- domandai quando l’ebbi raggiunto dopo aver ripreso a camminare a ritmo più veloce. Sia lui che Charles si voltarono verso di me, l’uno con un’espressione indecifrabile, l’altro con lo sconcerto stampato negli occhi quasi avessi appena compiuto un’azione sacrilega.

-Io e Charles non dobbiamo fare nulla di che, tre di noi sarebbero eccessivi- divagò lui.

Scossi la testa.

-Eppure ci state andando di corsa- obiettai io, testarda.

Il signor Kenway inspirò profondamente quasi a volersi imporre la calma.

-Sì esatto, perché prima finiamo meglio è-

-Appunto,io…-

-Evelyn, non credo sia il caso di insistere- intervenne a quel punto Charles. Lo avrei volentieri ignorato se lo sguardo d’acciaio del signor Kenway non mi avesse perforato l’anima e intimidito peggio di qualsiasi schietta considerazione sulla mia condotta inopportuna, ricordandomi quanto fossi in realtà piccola e inesperta. Mi vergogno un po’ ad ammettere che a quel punto cedetti immediatamente e persi ogni desiderio di far valere le mie ragioni, stordita e confusa a causa del repentino cambiamento nei miei confronti e mortificata per aver osato tanto da indisporlo. Li guardai uscire dalla locanda sconvolta e amareggiata, salutata, prima che sparissero, dallo sguardo dispiaciuto di Charles il quale si voltò per un istante prima di superare la porta.

Se fossi stata trattata diversamente, probabilmente avrei potuto anche prendere in considerazione l’idea di seguirli e di intervenire una volta che fosse stato troppo tardi per tornare indietro, tuttavia non era a causa del pericolo che ero stata esclusa: dal momento che erano le mie abilità ad essere in discussione il pensiero non mi sfiorò neppure, detestando io sommamente, come detesto tutt’ora dopo tanti anni, l’idea di essere di peso per qualcuno. Mi avviai lentamente su per le scale e mi appoggiai al muro con le mani in tasca, supremamente annoiata e intristita dalla situazione: per giorni avevo fantasticato su tutto ciò che avrei potuto fare una volta a Boston e invece mi ritrovavo di nuovo ad aspettare che il signor Kenway, la cui personalità mi appariva quanto mai misteriosa, mi considerasse degna di fare qualcosa. Ero decisamente ben avviata sulla strada che mi avrebbe condotta ad avvelenarmi il sangue quando una voce mi riscosse improvvisamente.

-Miss Richards, non statevene lì in piedi. Venite a sedervi- 

Sollevai lo sguardo e vidi il sorriso incoraggiante di William Johnson che mi invitava a raggiungerlo. Non ero dell’umore giusto per conversare, tuttavia mi imposi di essere educata e di non far pagare a quel signore tanto gentile i miei malumori, così sedetti di fronte a lui con espressione neutra.

-Non crucciatevi troppo per quello che è successo. Sono certo che in futuro le occasioni non mancheranno- provò a tirarmi su lui. Io annuii e ne convenni, più per cambiare discorso ed evitare di annoiarlo con le mie lamentele che per reale convinzione. Tuttavia sembrò accorgersene e con mio sconcerto insistette sull’argomento.

-Sentite, attirare l’attenzione di uno come Haytham Kenway non è cosa da poco. Evidentemente qualcosa di buono dovete averlo fatto, vi pare?-

-Suppongo di sì- risposi titubante, incapace di comprendere come avesse fatto a capire che le mie preoccupazioni stavano procedendo proprio in quella direzione e chiedendomi distrattamente se tutti i collaboratori del signor Kenway avessero le sue stesse abilità o se invece ero io ad essere una specie di macchietta con i pensieri scritti in faccia.

-Ad ogni modo credevo che lo conosceste solo da un paio di minuti- lo stuzzicai, dimenticando per un istante il mio dispiacere e tornando la solita inquisitrice. Johnson mi sorrise e annuì.

-Vero- rispose- vero. Ma è un uomo piuttosto conosciuto nel nostro ambiente, ha fama di essere brillante e scaltro, oltre che uno dei migliori spadaccini dell’Ordine. E’ stato addestrato dal Gran Maestro Reginald Birch in persona ed è tutt’ora il suo braccio destro- mi spiegò- inoltre, attualmente, è anche il Gran Maestro del Rito Coloniale, il che vuol dire che è la massima autorità in America-

Rimasi sconvolta da tutte quelle rivelazioni e di colpo compresi la condotta di Charles, il suo timore reverenziale e la sua reazione di fronte a quello che avrei dovuto considerare l’ordine di un superiore senza mettermi a discutere o protestare. Il ricordo dello sguardo minaccioso che mi aveva rivolto il signor Kenway assunse, se possibile, una sfumatura ancora più inquietante.

-Non temete, sono certo che al ritorno avrà dimenticato ogni cosa- mi rassicurò Johnson.

-Beh, dipende dal grado di difficoltà e pericolosità di ciò che lui e Charles sono andati a fare- risposi io. L’uomo di fronte a me sollevò lo sguardo pensieroso.

-Potrebbe risultare assai più pericoloso del previsto e credo questa sia la ragione fondamentale per cui ha deciso di non portarvi. Sospetto infatti che ci siano gli Assassini dietro il furto e non un semplice ladro-

Mi riscossi all’improvviso udendo di nuovo quel nome.

-Dunque vi hanno rubato qualcosa? Documenti, mappe?- provai a chiedergli, pronta a fare un passo indietro nel caso si fosse mostrato restio a rispondermi. Con mia sorpresa invece si dimostrò disposto a parlarne.

-Entrambi, in effetti, e indispensabili per i nostri piani. Per questo sospetto degli Assassini: nessun altro avrebbe potuto trovarli utili o capirci qualcosa. Come potete intuire, ogni istante è prezioso e sono passati già due giorni da quando quelle carte sono sparite. Per fortuna il mio socio, Thomas Hickey, è già riuscito ad individuarle e sono certo che con l’aiuto di Charles e del Gran Maestro presto riavrò tutto-

Fummo interrotti da un signore che si avvicinò rapidamente al tavolo e sussurrò poche parole concitate a William Johnson che annuì e si alzò preparandosi a seguirlo.

-Purtroppo una faccenda urgente richiede la mia presenza a qualche isolato da qui. E’ stato un piacere miss Richards- si congedò lui

-Il piacere è stato mio signor Johnson. E grazie per le vostre parole di conforto-lo salutai.

Mi ritrovai, così, di nuovo da sola a rimuginare su quanto era appena successo, tuttavia la vena polemica si era completamente esaurita e al suo posto era rimasta la semplice rassegnazione di chi si rende conto che la strada da percorrere per raggiungere un qualche peculiare obiettivo è lunga e in salita e non sembrano esistere scorciatoie o sentieri meno ripidi per arrivare in cima.

Dal momento che la situazione sembrava sul punto di essere felicemente risolta, decisi di ingannare il tempo che gli altri avrebbero impiegato per tornare indietro guardandomi un po’ intorno. Scesi le scale e mi diressi in direzione della porta, tuttavia, proprio in quel momento, Catherine mi passò accanto con le braccia cariche di piatti i quali parevano sul punto di frantumarsi in mille pezzi sul pavimento, tanto piccole parevano le braccia che tentavano di contenerli in proporzione al loro numero. D’istinto gliene presi qualcuno e l’accompagnai al bancone dove li appoggiò con uno sbuffo affaticato.

-Sembra davvero molto faticoso questo mestiere- commentai.

-Oh non potete immaginare quanto! Certo dà le sue soddisfazioni ma i grattacapi sono infiniti- rispose lei asciugandosi la fronte sudata con il grembiule. Compresi che aveva bisogno di sfogarsi e la invitai a continuare appoggiandomi al bancone come chi si prepara ad ascoltare qualcosa di lungo. Lei, ovviamente, non ebbe bisogno di ulteriori incentivi.

-Non parlo delle pulizie, naturalmente, quelle sono faticose, certo, ma uno non apre una locanda se non ha voglia di fare certe cose, di sporcarsi le mani. Il problema sono i guai con la giustizia, le risse che una povera donna come me non può fermare, le urla e gli schiamazzi e i furti! Santo cielo non parliamo dei furti!- esclamò lei con tono lamentoso.

Annuii mostrandomi comprensiva, mentre dentro di me mi permisi di sorridere compiaciuta dal momento che Catherine stava arrivando da sola proprio dove io speravo di condurla a sua insaputa.

-L’altro giorno hanno rubato qualcosa di prezioso al signor Johnson, per esempio. Dio sia lodato per aver mandato un simile gentiluomo nella mia locanda! Pensate che non ci ha fatto nessun problema, non ci ha nemmeno denunciati o minacciati di far fallire il locale, chè con i soldi che ha potrebbe benissimo farlo. Figuratevi che ero più in ansia io di lui!-ridacchiò la donna che tuttavia riprese immediatamente a parlare prima che potessi pensare di formulare qualcosa che assomigliasse a una risposta.

-In effetti ero così in ansia che ho dimenticato di dirgli una cosa molto importante che lì per lì mi era entrata in testa ma poi se n’è volata via, puff- esclamò allargando le mani per mimare qualcosa che sparisce. Si avvicinò a me con fare cospiratore –Sapete, io ero presente al momento del furto e ho visto bene in faccia uno dei ladri. Sul momento ero così spaventata che non l’ho subito riconosciuto ma ora mi è venuto in mente chi era- fece una pausa ad effetto poi riprese a sussurrare con fare solenne- l’apprendista del signor Bradford- annuì con importanza e io stuzzicai ulteriormente la sua tendenza al pettegolezzo sgranando gli occhi e coprendomi la bocca con la mano.

-Non parlerete di QUEL Bradford?- chiesi, anche se non avevo la più pallida idea di chi fosse.

-Sì sì, proprio lo stesso che ha la stamperia in Batty Street, non lontano dal porto. Il suo apprendista è davvero inconfondibile: ha due occhi di colore diverso, lunghi capelli rosso fuoco e una cicatrice che gli sfregia la guancia sinistra. Come ho mai fatto a dimenticare un simile individuo non so spiegarmelo!-

Proprio in quel momento dei tizi seduti ad un tavolo vicino reclamarono a gran voce dell’altra birra e la povera Catherine fu costretta a lasciarmi con mio non troppo profondo rammarico. Cercai di non apparire eccessivamente baldanzosa quando uscii dalla locanda e mi avviai di buon passo nuovamente in direzione del porto, ben consapevole del fatto che la mia fosse solo una strada secondaria che mi avrebbe condotto a rivelare qualche dettaglio in più sul furto dei documenti di William Johnson già in corso di recupero da tutt’altra parte.

Non so bene per quanto camminai e, anche se di sfuggita mi resi conto di averci messo molto meno a cavallo, il tempo passò assai in fretta, distratta com’ero da quella nuova città di cui presi a memorizzare vie e punti di riferimento, desiderosa di imparare al più presto a muovermi attraverso di essa con agio e rapidità. Superai la Old State House e mi ritrovai in un’ampia via denominata State Street da cui potevo facilmente vedere il mare e gli alberi delle navi più alte ancorate poco lontano. Presto, però, la mia attenzione venne attratta da un numero spropositato di fogli sparpagliati in giro che svolazzavano pigramente, accarezzati dalla brezza salmastra. Qualche casa più in là un tizio vagamente sovrappeso rincorreva i fogli con espressione disperata, fermandosi di quando in quando per riprendere fiato e per aggiustarsi gli occhialetti che spesso gli scivolavano dispettosamente sul naso. Mi dispiacque per lui al punto che mi misi ad acchiappare i fogli che mi passavano accanto e presi a saltellare per afferrare quelli che il vento sospingeva più in alto, finchè non li ebbi recuperati tutti. Quando lo raggiunsi mi regalò un sorriso smagliante che ricambiai mentre gli consegnavo il plico che avevo provato a raddrizzare alla bell’e meglio.

-Vi ringrazio, mia cara, avete salvato i miei ultimi mesi di lavoro- mi disse, mentre richiudeva il tutto tra le pagine di un libro sottile a copertina rigida.

-E’ stato un piacere, signore- poi non riuscii a trattenermi e accennai alle pagine –come hanno fatto a volare via?-

L’uomo si rabbuiò di colpo.

-Perché dei ladri hanno tentato di prendermi l’almanacco di mano. Io l’ho tenuto stretto ma delle pagine si sono strappate e hanno cominciato a volare dappertutto. Meglio rendersi ridicoli in giro che rifare tutto daccapo- esclamò. A quel punto mi osservò con più attenzione.

-Voi non siete di Boston, vero?- mi chiese, lasciandomi vagamente basita.

-Come lo avete capito?-

-Dall’ abbigliamento, oserei dire. Senza contare che siete evidentemente una persona onesta, vi fermate ad aiutare un vecchio pazzo-

Mi venne da ridere dinanzi a tutta quella schiettezza e autoironia, tanto che lo giudicai estremamente simpatico e a pelle mi piacque moltissimo.

-Non avete un’alta opinione dei vostri concittadini-

-Ah, grazie a Dio vivo a Filadelfia. Vengo di rado da queste parti ma ogni singola volta sembra che qualcuno ci tenga a ricordarmi perché me ne sono andato. Ma ditemi- mi domandò con fare pensieroso- come mai una ragazza gentile e a modo come voi si ritrova in questo nido di gazze?-

-E’ una lunga storia. Al momento, comunque, sono proprio a caccia di un ladro a causa di un furto ai danni di un mio amico. A quanto sembra questo tizio lavora in una stamperia della zona-

Quando pronunciai quella frase il signore si dimostrò subito interessato: mi chiese chi ne fosse il proprietario e quando glielo dissi si illuminò di colpo.

-Ah il vecchio Bradford, lo conosco! E’ un uomo perbene, sono certo che ci aiuterà senz’altro quando gli diremo che c’è un ladro nella sua bottega. Venite con me, so bene dove lavora-

Detto questo, si mise in marcia e io lo seguii prontamente senza riuscire a credere all’incredibile colpo di fortuna che avevo avuto. Lungo il percorso venni a sapere che l’uomo che avevo aiutato altri non era se non Benjamin Franklin, il cui nome all’epoca mi diceva pochissimo ma che in seguito avrei considerato una delle persone più straordinarie che avessi mai conosciuto, opinione comune, d’altronde, alla maggior parte delle persone più influenti e di senno di quello stato neonato. Uomo di scienza e dalle innumerevoli virtù, aveva cominciato in giovanissima età a lavorare nella stamperia del fratello, salvo poi fuggire in segreto a Filadelfia dove presto le sue abilità e il suo altruismo gli procurarono successo crescente negli affari e la stima dei suoi concittadini. Aveva lavorato a lungo in diverse botteghe prima di riuscire ad averne una tutta sua da dirigere autonomamente e nel frattempo aveva esteso le sue conoscenze nel peculiare settore della stampa alle città vicine e all’Inghilterra. Sapendo ciò che ora so di lui non mi sorprende affatto, come invece avvenne in quel lontano 1754, che conoscesse il signor Bradford e anzi fossero amici di vecchia data1. Quando entrammo nella stamperia il proprietario ci venne immediatamente incontro e, quando riconobbe il signor Franklin, il suo viso si illuminò e prese a stringere la mano al suo vecchio amico con calore. Questi gli spiegò in poche parole la situazione e, proprio come aveva previsto, subito lo stampatore si fece sollecito nel volerci offrire il suo aiuto e confermò immediatamente la descrizione che Catherine mi aveva fornito del suo apprendista.

-Questa è l’ultima che mi combina: già altre volte mi ha dato gatte da pelare a causa delle sue scorribande notturne e dei suoi problemi con la giustizia. Per quanto mi riguarda ha chiuso con la mia bottega!- esclamò infuriato mentre ci conduceva all’interno del negozio dove teneva i documenti manoscritti pronti alla stampa.

-Se ha preso delle carte, come voi dite, non posso pensare a un nascondiglio migliore di questo. Anche se non riesco davvero a immaginare cosa possa farsene-

Stavo per dire che i documenti, se anche fossero stati nascosti nella stamperia in precedenza, in quel momento sicuramente non erano più lì, quando una vocina nella mia testa mi disse di tacere e controllare lo stesso se per caso qualche foglio non fosse rimasto nascosto lì sotto. Mi avvicinai alla pila di fogli e presi a leggere frasi a caso qui e là nella speranza di incontrare un qualche argomento insolito e apparentemente senza senso o di imbattermi in frasi cifrate o strane mappe ma tra le pagine manoscritte non vidi assolutamente niente. Stavo nuovamente per dire la verità ai due signori che mi guardavano con apprensione e aspettativa, quando mi venne un’idea decisamente bislacca che decisi di verificare immediatamente: mi buttai a capofitto nello studio di un’altra pila di documenti che differivano dagli altri per il fatto che erano già stampati ed in attesa di essere composti in pagine rilegate. Operette morali, opuscoli, poesie, saggi, articoli di giornale, libelli religiosi, una ventina di pagine su un Tempio dei Precursori…

Poco ci mancò che urlassi un archimedeo “Eureka” in grado di essere udito dall’altra parte del globo! Sollevai i fogli davanti agli occhi con gioia e feci scorrere le pagine con il pollice, ridendo quasi fossi ubriaca: pochi instanti prima mi aveva infatti colpito un pensiero inquietante e che forse poteva spiegare perché quei fogli fossero spariti per due giorni per poi riapparire magicamente da qualche altra parte. Se io fossi stata il ladro, e apprendista in una stamperia per di più, avrei provveduto a fare una copia dei documenti in modo tale che se anche il proprietario, viste le risorse che aveva a disposizione, fosse riuscito a recuperarli, per lo meno gli Assassini non ne sarebbero rimasti sprovvisti. Ben presto, tuttavia, il mio buonumore venne fortemente ridimensionato dalla constatazione che non vi erano mappe tra quei fogli e che all’ultima pagina la frase finale risultava incompleta. Decisi di non darmi per vinta e cercai ancora in quella stanza stipata di documenti le pagine mancanti senza purtroppo avere successo. Intanto il signor Bradford e Benjamin Franklin mi chiesero più volte se potessero aiutarmi, dal momento che credo avessero ben intuito che una parte, chissà quanto rilevante, della refurtiva era sparita e proprio quelle richieste mi fecero venire un’altra idea.

-Ditemi, signor Bradford, voi per caso vi appoggiate ad altre stamperie per smaltire eventuale lavoro in eccesso o fate favori a qualche bottega più piccola ogni tanto?-

Lo stampatore intuì al volo le mie intenzioni e mi fornì immediatamente i loro indirizzi, invitandomi a riferire ai proprietari che erano lui e il signor Franklin a mandarmi. Ringraziai entrambi di cuore e li lasciai alle loro incombenze, non prima però di esaudire la richiesta del signor Franklin e dirgli dove alloggiavo, con la promessa di passare a salutarlo fintantoché fosse rimasto a Boston dopo che anch’egli mi ebbe riferito il nome della sua pensione.

Mi ci volle un bel po’ di tempo per visitare tutte le stamperie di cui avevo imparato nome del proprietario e indirizzo, in parte perché i documenti che cercavo risultavano ben nascosti o cacciati malamente nei posti più strani e in secondo luogo perché non avevo la più pallida idea di quale strada percorrere per raggiungere le varie botteghe e sovente dovetti fermarmi a chiedere informazioni a qualche passante. Dopo che mi fui lasciata alle spalle l’ultima stamperia e i continui ringraziamenti del proprietario il quale, non so bene perché, si era convinto che lo avessi salvato dalla iniqua macchina della giustizia, trovai un posto tranquillo in una stradina deserta e controllai il centinaio di pagine che avevo recuperato. Tra di esse figuravano mappe della zona boschiva alle spalle della città e diversi luoghi erano segnati con un numero scritto a penna, il quale rimandava ad approfondimenti da andare a ricercare tra le diverse pagine grazie ai quali mi parve di intuire che le carte del signor Johnson erano state recuperate tutte. Leggendo tutti quei riferimenti ad un misterioso Tempio intuii che quanto mi aveva rivelato il signor Kenway a bordo della Providence era solamente una parte della verità, per conoscere la quale nella sua interezza avrei dovuto aspettare di entrare a far parte dell’Ordine templare. Oppure potevo leggere quelle pagine.

Rimasi diversi minuti a guardare quelle parole stampate nero su bianco senza vederle, indecisa se soddisfare la mia immensa curiosità ma tradire la fiducia del signor Kenway oppure resistere a quella terribile tentazione e ritirarmi con l’onore ancora intatto: erano lì, tutte le risposte, le avevo tra le mani proprio in quel momento e non dovevo fare altro che leggerle. Alla fine sospirai e mi alzai in piedi senza aver posato lo sguardo neppure su una riga di quel testo e mi incamminai velocemente verso il Green Dragon, decisa ad arrivarvi prima che la mia curiosità incontenibile mi facesse cambiare idea. Quando ne vidi l’insegna in lontananza cominciai a correre ed infilai la porta con tale velocità che diversi avventori si girarono a guardarmi, tuttavia non sono certa che riuscirono a vedermi dal momento che in mezzo secondo avevo già cominciato a salire le scale superando tre gradini alla volta. Arrivata in cima, vidi che il tavolo dove un paio di ore prima avevo parlato con il signor Johnson era occupato da quattro uomini, tre dei quali mi erano già noti. In mezzo a loro vi era una cassa il cui contenuto non era visibile da dove mi trovavo io ma che intuii essere costituito dai documenti scomparsi due giorni prima.

-Dov’eri finita? Mi sembrava di averti detto di restare qui- mi accolse il signor Kenway quando mi portai a un metro di distanza da loro.

-Per fortuna ho deciso di farmi un giro, allora- esclamai appoggiando i fogli sul tavolo accanto alla cassa.

-E questa adesso chi è?- chiese burbero il tizio a me sconosciuto sfoggiando un pesante accento irlandese2. Charles lo guardò con un misto di sconcerto e disgusto.

-Evelyn Richards. Voi siete Thomas Hickey, presumo-

-Presumi bene- brontolò quello, annoiato. Lo conoscevo da tre secondi e già mi stava antipatico.

-Signor Johnson, volete essere così gentile da controllare se c’è tutto?- chiesi.

Sentii su di me tre paia di sguardi incuriositi mentre Johnson, perplesso, sfogliava i documenti con sconcerto crescente.

-Ma…sono le mie ricerche!- esclamò- Dove le avete trovate?-

-Sparpagliate in diverse stamperie del porto. Un testimone mi ha detto di aver riconosciuto uno dei ladri e si era detto sicuro che lavorasse come apprendista per uno dei proprietari. Ho solo fatto due più due- dissi, evitando accuratamente di menzionare Catherine per non procurarle imbarazzo.

-E credete che queste fossero le uniche copie in circolazione?- mi chiese Johnson picchiettando con l’indice sul plico. Annuii, con un sorriso: ci avevo già pensato e sapevo che probabilmente me l’avrebbe chiesto.

-Il processo di stampa è piuttosto lento e il nostro apprendista ha avuto solo due giorni a disposizione, ben sapendo che il vostro socio era già sull’usta. Ammettiamo però che non fosse di fretta: avrebbe potuto farne più di una copia e lasciarne le pagine in giro per tutte quelle stamperie a bella posta, nascondendole in modo da far credere a chiunque le trovasse che fossero le uniche esistenti e portando con sé altre copie, ma mi sembra un espediente eccessivo persino per persone abituate a una guerra sotterranea da qualche millennio a questa parte-

Il signor Johnson annuì soddisfatto.

-Sono d’accordo. Allora, distrutta la copia, saremo gli unici in possesso di queste informazioni, sempre che non le abbiano memorizzate-

-Questo non lo sapremo mai ma ritengo che non ne abbiano avuto il tempo-

-Già. E tu lo sai molto bene, vero?- intervenne a quel punto il signor Kenway.

Ne incontrai lo sguardo, penetrante e affilato come la lama che portava al polso, e fui contenta di non aver letto neppure una riga di quei documenti, realizzando in quel momento che anche il commento del signor Johnson probabilmente era un tranello per mettermi alla prova.

-So quale argomento trattano quelle carte: ho dovuto dare loro un’occhiata per poter capire quali fossero quelle giuste. Tuttavia che cosa venga spiegato nel dettaglio non lo so. Non nego che mi sarebbe piaciuto molto approfondire il contenuto dei documenti ma non l’ho fatto-

Io e Kenway ci guardammo negli occhi ancora per un secondo durante il quale temetti seriamente di vederlo alzarsi in piedi e buttarmi fuori dalla locanda, tanto di pietra appariva il suo volto. Invece, con mio enorme sollievo, si rilassò.

-Ti credo. Ora, se tu e Charles voleste essere così gentili, dovrei discutere un paio di cose con i signori Johnson e Hickey-

Annuii e feci un paio di passi indietro.

-Ah Evelyn!- mi apostrofò un istante dopo, chiamandomi per nome per la prima volta- Ottimo lavoro!- esclamò quando mi voltai verso di lui. Mi regalò uno dei suoi rarissimi sorrisi spontanei e io non potei fare a meno di rimanerne immediatamente contagiata.

-Grazie, signore. Dovere- risposi semplicemente, riprendendo poi a camminare in direzione delle scale: dovevo scambiare due parole con Catherine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 1Tutte le informazioni riportate in questo capitolo e in quelli successivi relative alla vita e alla personalità di Benjamin Franklin sono tratte dalla sua autobiografia (consigliatissima: quell’uomo era un genio e un vecchio volpone J ).

2Delle origini e della nascita di Thomas Hickey non si sa nulla ma io ho ipotizzato fosse irlandese dal momento che il suo cognome è largamente diffuso proprio nell’Isola di Smeraldo J

   
 
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