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Autore: Hitchhiked    17/09/2016    0 recensioni
Ripensando alla mia vita riesco a suddividerla in piccoli spezzoni, che rappresentano i momenti più importanti da me vissuti.
Amo chiamare Trailer questi momenti di pazzia random, nei quali la mia vita sembra un film.
Con la differenza che non è un film ma la mia vita, o almeno lo era.
In questa storia vi narrerò di come ho conosciuto i miei migliori amici.
Nata come idea di un racconto a sei mani, ma a causa degli eventi successivi non è mai successo nulla di simile.
Quindi, si.
Dedico questo racconto a Dan.
Dedico questo racconto ad Elia.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incontrai Elia per la prima volta mentre mi annoiavo al golf, in quella che ho solo un vago ricordo essere la festa della notte di San Lorenzo.
Era un botto multicolore in una notte grigia.


Tutta la serata era passata senza turbarmi, un sottofondo ovattato contro i botti assordanti dei fuochi d’artificio che impazzivano fuori dalla finestra.
Era come se tempo fosse un fiume ed io assieme ai fuochi d’artificio la roccia che si oppone alla corrente, pietra in una poltrona di pelle rossa marmorea, che come ti appoggiavi sullo schienale perdevi tre quarti della visuale.
La gente ci andava a sbattere attorno, come ballava o parlava.
Come il fiume, il fiume di gente o di tempo. E la poltrona-sasso.
Ero in un punto strategico: grazie tante, avevo rigato tutto il pavimento del golf per trascinare quella poltrona che pesava più di me per trovare un posto decente.
Alla fine ero lì, il volto colpito dalle luci della sala riflesse e moltiplicate dalle coppe esposte, ma vicino alla finestra, cosicché quella leggera brezza estiva entrasse e mi scompigliasse i capelli
Avevo una gonna nera che arrivava poco più su del ginocchio, una camicetta bianca, e due scarpe nere laccate, che battevo continuamente per noia, mentre facevo oscillare i piedi che non riuscivano ad arrivare al pavimento.
Una ipercritica bambina di sette anni circondata da una nube di fumo di sigari e persone boriose.
Riguardando la scena ora da un altro punto di vista credo che fui risucchiata da quella dura poltrona, probabilmente la gente nemmeno mi avrebbe visto, se non fosse stato per le gambe in un continuo movimento altalenante.
Stavo così bene.
C'era il vento fresco che non riusciva ad attivare completamente dentro la grande sala, ma che qui solleticava le orecchie e scompigliava leggermente i capelli. Avevo una coda alta quel giorno.

Guardavo, perché la noia porta a guardare tutto, i fotografi mentre si facevano in quattro per scattare le migliori foto di gruppo.
La gente chiamava quegli uomini sulla quarantina, con pochi capelli e sudati, con un cenno del capo o una mano alzata, e quelli arrancavano sotto il peso di grandi borse nere per trasportare le macchie fotografiche e gli obbiettivi telescopici. Avevano ancora la giacca, poiché l’etichetta lo imponeva.
C'era la moda delle foto di gruppo, in quel periodo.
Gruppi per campo, gruppi per anno, gruppi per amicizia, gruppi per gara, gruppi per tavolo, gruppi per tutto.
Dio mio, gruppi dentro un gruppo.
Quanto sono complicate le persone.
Tutti che si mettevano in posa per le foto, e poi, un millisecondo prima di fare lo scatto quando ormai non c’era piu tempo per fermarsi, c’era questo bambino, che arrivava da dietro e tirava fuori la lingua, incrociava gli occhi e alle volte gonfiava le guance.
Era sotto tutti i flash in un modo o nell’ altro, costantemente illuminato, sgomitava e riusciva a proiettarsi tra il fotografo e i soggetti, discretamente, ma rovinando la foto.
Il fotografo se ne accorgeva, e allora scattava un'altra foto.
E lui ricompariva.
E le persone non se ne accorgevano e dopo poco si stufavano di rimanere in posa e andavano a mangiare, e il bambino ricominciava il giro, tra le gonne delle signore e flash luminosi, e io stavo lì a guardarlo.
A un certo punto si allentò il nodo della cravatta e la portò sulla fronte.
Sorrisi.
Ed era la prima cosa che mi avesse fatto ridere quella serata.
Ma faceva troppo caldo, c’era troppa gente.
I flash delle macchine fotografiche mi davano fastidio.
E la musica mi dava fastidio.
Presi un respiro grande quanto mi permetteva il vestito, e comincai ad andare verso l’uscita.
Addio poltrona.
Il rumore dei tacchi si sentiva a malapena sul pavimento di legno, ma rimbalzava sulle pareti , sul soffitto e sulle colonne di marmo, della hall, che era deserta.
Arrivavano ancora la voci ovattate della gente, che passavano anche attraverso le doppie porte dato il volume sproporzionato.
Scavalcai, in modo molto femminile s‘intende, il cordone rosso, che in teoria vietava l’accesso ai giardini, almeno per quella sera.

E in poco tempo arrivò anche lì, nei giardini.
Il ragazzo delle fotografie. Sentii prima il rumore dei passi e solo dopo essermi girata lo vidi: seduto, gambe che oscillavano pericolosamente, sul carrello che segna "illustre circolo del golf" o qualche altra cazzata simile.
Tutti i bambini che ho conosciuto hanno la strana abitudine di oscillare le gambe.
A me è rimasta.
Era alto come me quel cartello al tempo, e lui era lì sopra e mi dava la schiena.
Ora è un ottimo poggiamiti, il cartello intendo.
Tremava leggermente, quindi credevo che piangesse, ma dopo mi accorsi che inghiottiva.
Mangiava qualcosa, ma vedevo solo la sua schiena quindi non sapevo cosa fosse.
Aveva ancora la cravatta sulla fronte, che gli stringeva i capelli scuri ricordando un’hippie in miniatura, nodo ancora sulla tempia destra, e i lati lunghi della cravatta, che gli scendevano fino sulla schiena ricurva senza giacca. Mi appoggiai ad un muretto, distogliendo l'attenzione da lui.
Mia madre parlava poco distante con una signora della quale non ricordo nemmeno la faccia.
Ero uscita per non vedere più persone, e per non diventare un tutt’uno con la poltrona, non per conoscere nuova gente.
Guardavo quel bambino, nonostante tutto con la coda dell’occhio.
Sono sempre stata una bambina abbastanza curiosa.
E sapevo, in qualche modo, che meritava la mia curiosità.
Notai che mi fissava, lo sentii più che vederlo, come un formicolio alla base del collo. Come voltai la testa per guardarlo, non la smise, girava la testa e appoggiava il mento sulla spalla.
Lui mi dice: “Lo vuoi un biscotto?”
Era un cretino che non sapeva che se fosse andato dentro quelle porte di vetro e avesse attirato l'attenzione di uno di quei bei ragazzi vestiti da pinguino, gli sarebbe stato dato tutto: dalle ostriche ai biscotti.
Ed io ero una bambina indecisa tra il farglielo notare a farmi un nuovo amico.
Glielo feci notare.
“Allora niente biscotto?”
Lo fissai, lui mise la mano dentro il sacchetto e si riempì la bocca di briciole.
Masticava con la bocca aperta.
Allungai la mano, non smettendo di fissarlo.
Lui mi guardò.
Poi guardò la mia mano. Poi di nuovo me.
Io guardavo lui e la mia mano.
La mia mano si sentiva in imbarazzo.
Svuotò le briciole e i pezzi di biscotti rimanenti dentro il sacchetto sopra il palmo della mia mano.
Tutte le grandi amicizie cominciano con del cibo.
O con delle sigarette.



Le recensioni fanno girare il mio piccolo mondo. Ci tengo dirvi che le foto di gruppo di quella sera sono le uniche che trovano spazio sulla mia scrivania.
Un grazie speciale va a Marco per avermi aiutato, mostrandomi le foto di me sulla poltrona e di Elia, e di tutta la serata.
Questa schifezza è anche colpa sua, tirateli a lui i pomodori.
   
 
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