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Autore: Mikirise    22/09/2016    1 recensioni
"Dove stiamo andando?"
"A cercare Tony."
"E dove sta, Tony?"
"Non lo so."
"E allora dove stiamo andando?"
"Non lo so."
In cui Tony sembra scomparire (uhm), Peter parla sempre a sproposito, Steve entra nel panico e ci sono flashback a caso. Più o meno.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Peter Parker/Spider-Man, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte I









Peter addenta il panino e le briciole cadono sul sedile. Il ragazzino abbassa lo sguardo verso i suoi piedi, che toccano a malapena la parte bassa dell'automobile e un po', giusto un po', si sente in colpa per aver sporcato e vorrebbe rimediare, anche se non sa esattamente come. Allora smette di mangiare, incarta di nuovo il panino e volta lo sguardo verso Steve, con entrambe le mani sul volante e uno sguardo concentrato in maniera quasi goffa.

“Dove stiamo andando?” chiede, giocherellando con la cintura di sicurezza. Vorrebbe semplicemente che quelle briciole ai suoi piedi e sulle sue cosce scomparissero. Puf. Non è successo niente. Nessuno si arrabbierà con nessuno. Non esiste nessuna colpa.

“A prendere Tony” risponde Steve. Stringe un po' di più il volante, e poi sospira.

“E dove sta, Tony?” Può spostare tutte le briciole tra le sue gambe e poi lasciarle cadere una volta scesi dalla macchina. Certo, rimarrebbero le briciole che già sono cadute per terra, ma quelle sono di meno, potrebbe anche far finta di niente. Forse Steve nemmeno se ne accorgerà, finché non troveranno Tony, che si metterà a ridere, perché, davvero, com'è possibile che una cosa gigante come Steve c'entri nella Vecchia, una macchinetta così piccola e… le briciole di pane? Tony avrebbe riso. Avrebbe detto che dovevano progettare (insieme) un'aspira-tutto incorporato nell'automobile e…

Steve gira la chiave e solo adesso Peter si rende conto del fatto che ha appena accostato la macchina. Sbatte la testa contro il volante e sospira. “Non lo so” borbotta. Sono fermi nel nulla. Un deserto. Okay, no. Vicino al Queens non ci sono deserti. Anzi, forse quello nemmeno è un deserto e Peter si è confuso. Magari è solo il New Jersey. Tony dice sempre che il New Jersey è una cosa che, tipo, non vale la pena, e, quando Peter si era ricordato della lezione a scuola, quella sui deserti e gli aveva chiesto se erano come i deserti, Tony aveva detto eh, sì, tipo un deserto, e poi lo aveva tirato in basso per salvarlo da una specie di esplosione in laboratorio e una specie di piccolo fulmine che doveva essere controllato ma che, sorpresa!, non era controllato. Questo, però, Steve non lo deve sapere, quindi zitti. E Steve starebbe ancora con la faccia premuta contro il volante. Evvai.

Peter lancia un'occhiata veloce ai suoi piedi, poi torna a guardare verso l'uomo biondo. “E allora dove stiamo andando?”

“Non lo so” ripete Steve con un altro sospiro. Stacca la fronte dal volante e si guarda intorno. Bene. Si è trovato in macchina col tutore senza il benché minimo senso d'orientamento. Che bello.

“Tony odia il New Jersey.” Peter raddrizza la schiena per guardare fuori dal finestrino. “C'è troppa poca gente e potrei crescere tra quegli schifosi bigotti che non sanno distinguere un reattore nucleare da una batteria nemmeno per sbaglio. Lo dice lui. E poi ha paura di Nikki di Jersey Shore.” Tira su col naso, perché l'aria condizionata non sembra mai essere stata usata e quindi tutta quella polvere che se ne stava lì a pianificare la sua vendetta era finita tra le sue narici. Un'altra grande fortuna. Urrà.

“Perché ha paura di una ragazza di Jersey Shore? Tony Stark?” Steve sembra un po' meno disperato. Forse deve essere semplicemente il fatto che fuori fa caldo e sono in mezzo a quel deserto del New Jersey, quindi, perché è in mezzo a un deserto ha le allucinazioni. Può essere.

“Dice che quando l'ha incontrata era più alta di lui per colpa del…” Peter inizia a fare dei cerchi sulla testa, con aria un po' confusa. “Qualcosa sulla testa. Tipo un ciuffo di tre metri. E quando le ha stretto la mano gli è rimasto qualcosa di marrone in mano. E ha detto che sa di avere qualche antenato che era italiano e quindi potevo fare quella fine perché, sai, anche se non condividiamo il DNA, ha letto in qualche libro di Psicologia, e questo mi ha detto di non dirlo mai a nessuno, perché se ne vergogna un sacco, che certe cose si trasmettono attraverso la cultura e l'atteggiamento. E lui qualcosa di tamarro-barra-Guido ce l'ha. Tipo il fatto che beve un sacco e organizza feste in cui lascia suonare musica techno, che non gli piace, perché lui è più da rock classico e, segretamente, Behr, perché piaceva a Maria.” Sta parlando molto. Decisamente troppo. Ha spifferato almeno due segreti che Tony aveva chiesto espressamente di non raccontare. Uhm. Okay, d'ora in avanti starà zitto. Promesso. Croce sul cuore.

Steve sorride e si passa una mano sulla faccia. Poverino. Deve soffrire di caldo. Sta proprio sotto il sole e ha spento l'aria condizionata, insieme alla macchina. Però ha quel sorriso che a Peter piace. “Parli tanto. Dico, con Tony.”

“N-non…” Il ragazzino sbatte velocemente le ciglia e sente che forse questa cosa del parlare tanto con Tony non va bene. Nel senso. Ehi. È Tony. Stark. Cioè, magari gli dava fastidio, con questa cosa del parlare, e del parlare tanto. Magari Tony è andato dove è andato, senza dire niente a nessuno, perché lì non c'erano ragazzini che parlavano per i nove decimi del tempo in cui gli stavano intorno. Lancia un'occhiata alle briciole di pane ai suoi piedi. Buon Dio. Gliene venisse una giusta. “Non dovrei, vero? A volte mi dico che dovrei starmene buono a leggere Superman ma… è come incontrare Batman.” Arriccia le labbra e inizia a tirare le pellicine intorno alle unghie delle dita. Perfetto. Vuoi aggiungere altro, Peter? “Beh, sì, togliendo il fatto che Tony non è George Clooney.” Uau. Ottimo lavoro. Guarda, l'uscita è da questa parte.

Ma Steve ride. Peter ora si chiede quanto stia effettivamente facendo caldo per avere questa allucinazione. “Questo ci può aiutare, figliolo. Non che Tony non sia… quel tipo. Che tu abbia parlato tanto con lui.” Gli scompiglia i capelli e torna a sospirare, guardando verso la strada vuota. “Se solo ti avesse detto dove se n'è andato…” Ancora un altro sospiro.

“Magari…” Peter inclina la testa e tiene strette le ginocchia. “Una volta ha detto che… parla tanto di un Rhodey. Forse era il suo cane? Magari, non lo so, soffriva di nostalgia e è andato a trovarlo a casa sua. Che non è a New York, vero? Magari… comunque Rhodey sembra il nome di un cane. Magari, invece, è stato il suo pesce rosso. Comunque non ho visto un cane intorno a casa sua. Però c'erano dei pesci. Non sono rossi. Sono come Dory di Alla ricerca di Nemo, o quelli di Aquaman. E c'era una stella marina. Comunque Rhodey mi è sembrato importante e non può essere un gatto, perché Tony ha detto che, quando era al college, doveva uscire con lui a correre. Quindi, forse sì. Forse un cane.” Sta di nuovo parlando a vanvera. Buon cielo, direbbe sua mamma. Lo zio avrebbe solo riso. Peter abbassa lo sguardo ancora una volta. Lo fa spesso, si rende conto. “Comunque è la sua cosa preferita. Magari è andato dalla sua cosa preferita.”

Steve tamburella le dita sul volante nero. “È il suo migliore amico” borbotta. Gira la chiave nel quadrante e la Vecchia brontola irritata.

“Beh, sì. Il cane è il miglior amico dell'uomo, quindi…”

“No, no.” Steve scuote la testa, controllando che nessuno arrivasse di soppiatto dietro di loro. “È il suo migliore amico. Il colonnello James Rhodes.”

Peter annuisce. Bene. Ha appena dato del cane a un colonnello. È da appuntare. Però, in sua discolpa, lui li ama i cani, i cuccioli in generale. Aveva pregato anni per poterne avere uno, ma, il massimo a cui era arrivato era tenere, per solo una settimana, il topo della sua classe, che, per puro caso, era pure scappato in quel lasso di tempo. Ops. “No. Sì. Rhodey sa tanto di colonnello.”

Steve sorride di nuovo.

Però sembra che adesso abbiano una meta. Bene. Okay. Le briciole stanno ancora là, ma okay.


“Uau. Il mio amico vuole assolutamente il tuo numero.” Rhodey era spuntato da dietro le spalle di Tony e aveva fatto sussultare entrambi.

Aveva afferrato il bicchiere dalle mani del moro, che sembrava più che intenzionato a tirarlo addosso al suo interlocutore, in un impeto di troppa passione, come la definirebbe Pepper (con un tic all'occhio e i pugni chiusi, eh, perché Tony sarebbe, per caso eh, un personaggio pubblico che non può fare tutto quello che gli passa per la testa, ma ehi, indovina un po' chi fa tutto quello che gli passa per la testa?). Aveva preso diversi foglietti dalla tasca, cercando con una calma irritante uno che fosse bianco. Borbottava parole. Tony aveva alzato gli occhi al soffitto del bar e stava giusto per andarsene, quando Rhodey aveva sbattuto sul tavolo di legno un foglietto e una penna. “Di telefono dico. Non so che altri numeri ci siano in questo mondo. So che sembra che vi vogliate uccidere ma, Dio mio, la linea tra questo e passione è sottilissima, ve lo giuro. Lo dice anche Pepper. Sì. Tony vuole decisamente il tuo numero.”

“Questo non è vero!” aveva gridato Tony, girato verso il migliore amico. Si era rigirato verso il tavolo e Steve. “Questo non è vero” aveva ripetuto, scuotendo la testa.

“Ripete le cose due volte. È amore.” Rhodey aveva finito di bere dal bicchiere di Tony (analcolico, che strano. Tè. Da quando Tony beveva tè?), per poi spingere un po' più vicino al biondo il foglietto. Ma lui guardava incerto prima la penna e poi i due ragazzi davanti a lui, che puntavano gli sguardi su oggetti diversi. L'oggetto di Rhodey, neanche a dirlo, era Steve. Tony trovava molto interessante un punto indefinito della posta da ballo ad esempio. Ehi, guardami, sono piena di gente che beve birra invece di ballare! Yei! “L'ultima volta che gli ho visto quella faccia addosso, era ancora nella fase Pepper-è-l'essere-umano-più-fantastico-in-questo-mondo… e le ha vomitato sulle scarpe. Beh. Era piccolo e ancora non sapeva flirtare. Io toglierei di lì i piedi” aveva continuato a dire Rhodey, indicando per terra, mentre Tony lo guardava in cagnesco.

(Eh, va bene. Ma Steve che doveva fare? Scrivere il numero? Non scriverlo? In momenti come questi avrebbe voluto semplicemente sparire e tornarsene nella sua camera, nel suo dormitorio a fare l'essere asociale che è per natura. Ma no! Sei al college, diceva Bucky. Fai la vita da college, diceva Natasha. Fatti nuove amicizie! Beh, ecco a voi la novità: Steve era stufo di avere diciannove anni. Lui non voleva uscire tutte le sere a ballare. Lui voleva starsene a casa a fare roba noiosa e addormentarsi alle sei di sera. Amen.)

Tony non faceva contatto visivo. Quella cosa era veramente troppo imbarazzante. Magari se guardava altrove le cose si sistemavano, o, per sbaglio, avrebbe fatto un patto col demone e sarebbe stato inghiottito dalla terra e non avrebbe mai più dovuto pensare a dover uscire fuori da situazioni così imbarazzanti. Le farfalle possono entrare in un bar, di notte? Magari le falene. Magari avrebbe potuto seguire una falena verso la luce -e bruciarsi e morire. Vabbe, scherzando. Più o meno. Stava per dare fiato alla bocca e peggiorare la situazione, che aveva in mano, prima che quell'idiota di Rhodey entrasse in azione per peggiorare tutto. Grazie amico.

Ed era stato lui, il migliore (unico) amico, la guida in quel mondo malato di gente più grande, la sua cosa preferita, l'unica persona di cui si fidava (okay, insieme a Pepper, felici? Ma Pepper era lontana), a parlare, di nuovo. Aveva fatto gli occhi bianchi, afferrando con una mossa sia carta che penna, togliendola da sotto il naso di Steve. “Okay, allora sai che facciamo?” Doveva aver bevuto, questa era stata la conclusione di Tony. No, perché Rhodey non poteva essere così cattivo da fare tutto questo di proposito. No. Si rifiutava di crederlo. E intanto lo vedeva scrivere il suo numero di telefono sul foglietto, con sopra scritto un Tony, che fosse leggibile anche al peggiore dei miopi.“Qui hai il numero del mio amico. È tutto nelle tue mani. Tutto tuo. Tu lo chiami? Bene. Non lo chiami, lo prenderò in giro per tutta la sua vita, quindi meglio.” Poi aveva fatto finta di osservare l'orologio, per poi fare una faccia ancora più falsamente sconvolta. “Per noi è ora di andare a ninna, altrimenti Maria dice che non mi prendo cura di suo figlio e domani abbiamo lezione alle… sette? Se vuoi altri elementi per decidere se chiamarlo: beve in continuazione caffè, quando costruisce roba non si lava, parla coi robot e il sarcasmo è la sua arma più potente.” Aveva preso il polso di Tony, che in quel momento cercava di tenere a bada i suoi peggiori istinti omicidi e stava trascinandolo verso la porta, facendo ciao ciao con la mano ad uno Steve che assomigliava sempre di più ad un cucciolo smarrito.

Tony non ha perso il contatto visivo solo finché Rhodey non aveva chiuso la porta dietro di loro e aveva iniziato a trascinarlo verso i dormitori. E ad un certo punto, lo aveva lasciato andare, solo per iniziare a camminare più velocemente. O almeno così era sembrato a Tony. Non è mai stato un tipo atletico. Aveva già il fiatone.

“Perché?” riesce a chiedere il ragazzetto, seguendo le falcate del migliore amico con un broncio. “Stavo andando bene. Lo stavo convincendo a bere con me, quindi, perché? Dio mio. Rallenta.” E allora si ferma a riprendere fiato. Poggia le mani sulle ginocchia. Che perdente. Si era detto che sarebbe dovuto andare a correre la mattina ma, sinceramente, a chi va di correre la mattina? È già tanto che riesca ad attivare la macchinetta del caffè senza uccidere nessuno. Correre? Nah. “Ora mi dici perché tu sei arrabbiato con me?” Si era seduto sull'erba fresca, che non era stata un'idea geniale, perché già faceva freddo e la maglietta dell'Università non era esattamente calda, ma i polmoni chiedevano pietà e forse Tony era sull'orlo di un infarto. “No, perché io so perché sono arrabbiato con te. Hai rovinato ogni mia possibilità di…” si era fermato senza sapere molto bene come continuare la frase e aveva scosso la testa. La cosa giusta era continuare come se nulla fosse. “…facendomi fare la figura dell'idiota con un amico idiota, che, va bene, non è poi così falso ma… santo cielo, mi hai fatto fare la figura dell'idiota.” Aveva sospirato e poggiato la testa sulle ginocchia.

“Era quella l'intenzione. Sai, quel momento in cui siamo usciti dalla camera e tu mi hai detto: non ti devi preoccupare, amico, oggi la caccia è tutta tua. Non ti abbandono certo. Sarò la miglior spalla del mondo. Tony. Per caso vedi una ragazza qua?” Aveva indicato quasi istericamente lo spazio vuoto davanti a lui, scuotendo la testa. “No, perché a meno che non si tratti di una donna invisibile, non c'è. Miglior spalla di sempre! Ah! E io ci ho anche creduto!”

Ecco, bene, mancava solo questo.

“Avevi due ragazze con te, campione.” Tony aveva alzato la testa e poi l'aveva buttata all'indietro, fino a sdraiarsi completamente sull'erba bagnata di rugiada. “E nessuna delle due era interessata al genio. Erano tutte tue. Ti ho semplicemente lasciato il campo libero. Da brava spalla.”

“Mi hai lasciato ad entrare nel panico davanti a due bellissime ragazze!” Si era avvicinato al ragazzo, sentendo goccioline fredde entrargli nelle scarpe, filtrate dai calzini. Oh, queste cose sono fantastiche soltanto nei film.

“E tu hai distrutto il lavoro di un mese intero con quel ragazzo!” era sbottato Tony. “Sai quanto ci ho messo a parlargli? E a non farmi odiare mentre parlavo? E lo sai che è dura non farmi odiare mentre parlo! Sono stato lì, giorno dopo giorno, a bere succhi di frutta e tè, perché il tipo odia infrangere le regole e non si può bere fino ai 21 anni. Mi sono sorbito l'interrogatorio dell'amica coi capelli rossi e, ti giuro, non è stato per niente gradevole. E ho dovuto parlare di… roba seria e sentir parlare di roba seria e sentimenti e… perché mi stai guardando così? Tu mi hai detto di farmi nuovi amici perché avere sempre incollato il piccolo genio ventiquattro ore su ventiquattro ti metteva in imbarazzo. Io te lo avevo detto che ho già due amici e che quindi non me ne servono altri. Beh, ma visto che tu ti vedi più come mia babysitter, bah, direi uno e mezzo. Uno e mezzo basta e avanza. Anche perché tu hai rovinato una possibile amicizia con Steve, quindi potrò prendere il posto del tuo zainetto e stare insieme a te per tutta la vita.” Aveva portato le mani incrociate sotto alla testa. “Per tutta la vita” aveva ripetuto.

“T-tu” aveva balbettato Rhodey, prima di sentire il bisogno di sedersi accanto a Tony e accarezzarsi la fronte. “Tu hai corteggiato quel ragazzo perché diventasse un tuo amico?” Aveva trattenuto una risata. Fortunatamente era buio, perché non gli avrebbe mai perdonato una risata in quel momento.

“Ha un'intelligenza semplice. Non è stupido, anche se lo sembra, in effetti. E ha un amico con un braccio metallico. Eh, in effetti, all'inizio volevo che lui fosse mio amico, certo non Steve, però, ehi, il Fato… il Caso… il Destino e delle patatine fritte si sono messi in mezzo. E ora il Fato, il Caso… e un Rhodey selvatico hanno rovinato una possibile amicizia.” Alza le spalle e chiude gli occhi. Aveva intenzione di non parlargli più. “Bucky mi aveva promesso che mi avrebbe lasciato dare un'occhiata al braccio meccanico…” E poi un sospiro.

Rhodey lo guardava da seduto, con quel sorriso che ha di solito quando Tony fa qualcosa di molto stupido e lui ne è l'unico testimone. “Magari chiama.”

“E perché dovre…”

Ecco. Prendete appunti ragazzi perché in quel momento ha iniziato a suonare Innocent Exile con un ringtone ancora rudimentale, ideato da un ragazzino di quindici anni secondo il quale lo stile è tutto e quindi non poteva avere una suoneria uguale a quella degli altri, il cellulare, anche quello primitivo nella tasca destra di Tony Stark. La verità è che all'inizio lui si era limitato a canticchiare My life is so empty, Nothing to live for, My mind is all confusion, 'cause I… “Non sarà questo tipo che hai corteggiato per tutto il mese, spero” Rodhey aveva scosso la testa e allora si era alzato a sedere, prendendo velocemente il telefonino dalle tasche.

“È un numero sconosciuto…”

Rhodey aveva ruotato gli occhi. “Non mi dire.”

“E se è Steve? Che gli devo dire?”

“Ce ne siamo andati dal bar neanche mezz'ora fa e già ti chiama? Magari è tuo padre che ha scoperto il modo di chiamarti senza che tu lo sappia. O è una delle tue conquiste.”

Tony aveva annuito più volte. “Eh, magari è una di loro.” Cercava di convincere più se stesso che altro, ma andava bene. Doveva andare bene. Si era asciugato la mano, piena di rugiada e forse un po' di sudore, sui pantaloni, aveva risposto con un incerto: “Pronto?” E poi, certo, aveva premuto il tasto del vivavoce, perché aveva bisogno di appoggio morale, nel caso fossero o Steve o Howard.

“No, Nat, no dai!” “Ha risposto.” “No, non lo ha… uhm. Ha risposto.” “Beh, allora parla, no?” “Okay.” Ed era calato il silenzio. Bene. “Cosa dovrei dire?”

Rhodey aveva dato un pugnetto sulla spalla a Tony, lanciandogli un'occhiata eloquente, mentre lui fissava lo schermo nero e verde del cellulare tra le sue mani. Dì qualcosa, no? Uhm.

Hey.”

“Hey.”

“Sono Tony.” Oookay. Questa è una frase molto intelligente e molto profonda. Grazie cervello. Di niente.

Steve però aveva riso. In maniera abbastanza nervosa, ma comunque una risata. “E io ho il tuo numero di telefono.”

“S-sì…” Tony guardava verso Rhodey per un pin d'aiuto, ma lui continuava a sillabare la parola continua. Continua a fare cosa? A dire scemenze? Dio mio, no. “Le coincidenze, eh.”

“La verità è… che volevo proprio chiamare il mio amico, sai, Sam, perché… di solito ci facciamo una corsetta la mattina presto, prima di frequentare i corsi. Ma… invece ho chiamato te, ma… forse, come dici tu è stato il Destino, il Fato e le patatine fritte che mi hanno fatto sbagliare numero e… forse dovrei correre con te, domani. Potremmo… potremmo correre un po' e poi fare colazione insieme.”

“Correre?” Doveva ridere e non piangere. Ridere. Non piangere.

“E-e poi la colazione” aveva balbettato Steve dall'altra cornetta.

“Fritta e grassa con tanto caffè?”

“È un sì?”

“Non sono un tipo atletico.”

“Fidati. Lo so.”

“E questo cos'era? Uno Steve ironico?”

“Tu che prometti di svegliarti alle sei del mattino per correre” borbotta Rhodey. “Io te l'ho chiesto da quando ci siamo conosciuti e il massimo è stato un Rhodey no, mai, neanche se arrivasse in questo momento un mostro e l'unico modo che ho di salvarmi è correre via. Com'era? Preferisco morire comodo e fresco, che puzzolente e sudato. Se una…”

Allora ci vediamo domani…?”

“Vediamoci… domani…”

E avevano attaccato. Tony si era buttato di nuovo con la testa trai fili d'erba. Una delle cose buone era che non doveva stare attaccato a Rhodey, uno del secondo anno, tsk, per tutto il tempo. Una vittoria per entrambi, no?

“Domani, per favore, non sputare un polmone, eh.” Gli aveva dato una pacca sulla spalla e poi si era sdraiato accanto a Tony. “È difficile trovare nuovi compagni di stanza che siano decenti.”




“È sulla sedia a rotelle” punta Peter, e se ne pente immediatamente, perché perché l'uomo alza un sopracciglio e Steve chiude gli occhi e sospira. “Vo-voglio dire: è un piacere per me conoscerla, colonnello. La sedia a rotelle aumenta il suo fascino.”

Steve sbatte la mano sulla fronte, mentre scuote la testa e Peter ha l'impressione che, se avesse davanti un volante ci avrebbe già sbattuto la testa, come poco prima, nel New Jersey, ma almeno adesso non ha briciole di pane sulle gambe. Non è colpa sua. Peter parla senza pensare troppo. Ecco. Sì, magari è un problema, ma non lo fa con cattiveria.

Rhodey ride. “Questo deve essere il ragazzino di cui parla sempre Tony.” Fa segno di avvicinarsi con una mano e poi gli dà un buffetto sulla guancia. “Questo fa di me tuo zio?”

“Non ho mai avuto uno zio sulla sedia a rotelle.”

“Né io un nipote bianco.” Ride ancora. “Nella mia testa suonava meglio. E non ti offendere, ragazzo, se ti confesso che all'inizio ero sicuro tu fossi un cane.”

“Anche io! Cioè, non che io fossi un cane, quello sarebbe da gente strana. Che tu fossi un cane. Tipo il nome. E poi…”

“… chi potrebbe sopportare Tony per così tanto tempo?”
“Chi potrebbe sopportare Tony per così tanto tempo?”

Ed ecco che ridono. Di nuovo. Steve non sa se ruotare gli occhi o sorridere. Sa solo che è stato dimenticato, anche se sta lì, in mezzo alla stanza, e che la cosa non lo turba più di tanto. Perché quello è il miglior amico di Tony ridendo con Peter. Se non sbaglia era il punto tre della lista che avevano fatto.

Il tre, perché il punto uno era farlo incontrare con Bucky, che non importa quanto sembri un duro, davanti ad un bambino diventa un pezzo di burro con tanto di aww incorporati. E Peter avrebbe amato il suo braccio meccanico. Ma Rhodey?

Con Rhodey ci vuole tempo, perché, per quanto sia un uomo buono, per quanto ami l'umanità (ugh), quando ci sono di mezzo Tony e le relazioni, la priorità è fare in modo che nessuno si faccia male. E con nessuno, era ovvio che s'intendesse sempre e solo Tony.

“Rhodey…” chiama. Steve non è nemmeno sicuro di come chiederglielo, perché nutriva la stupidissima speranza che la persona che sta cercando stesse lì, a mangiare gelato, insultando i giocatori di baseball in una partita pre-registrata, perché la stagione sportiva è finita da un mese. Ma non c'è nessuno, oltre a Rhodey. Ed è, di nuovo, al punto di partenza.

Peter si sposta un ciuffo di capelli castani da davanti gli occhi. “Ha lo stesso sguardo” mormora l'uomo, inclinando la testa. Poi sorride debolmente e sembra voler cancellare il pensiero che gli è appena balenato nella testa. No. “Questo bell'imbusto tratta bene te e Tony? Altrimenti non ho altra scelta se non colpirlo in faccia.”

Il bambino annuisce, ridendo.

E poi niente. Perde interesse nelle persone e, proprio come il suo altro tutore (quello basso e coi capelli sempre in disordine), si dimentica di tutto quello che ha intorno dopo aver incontrato una cianfrusaglia elettronica che serve a telecomandare porte e finestre.

Come dire? Il bambino ha lasciato che gli adulti parlassero? Beh, questa sarebbe una buona frase se Rhodey avesse effettivamente lasciato parlare Steve, prima di tirargli un pugno dritto in pancia.





Ti giuro che non lo ha fatto apposta” aveva mormorato Tony, cercando di allontanare il coton-fiocco dal suo occhio, mentre Rhodey gli aveva bloccato la mano. “Stavamo… oh, dai! Non fare quella faccia!” Aveva scosso via la testa, ridacchiando. “Sono stato distratto dal…” Aveva indicato uno spazio circolare con un movimento della mano davanti a lui. “…panorama? E quindi niente… io guardavo e lui ha colpi… Aho! Ahi! No, no, dai! Davvero, non è niente! È solo un…”

Gli spezzo le gambe a quel…”

Oh, per favore. Come se non conoscessi Steve. Lo sai che poi si è quasi messo a piangere perché mi ha colpito.” Aveva alzato le spalle, sfuggendo allo sguardo di rimprovero del migliore amico. “Senti, mi picchia solo quando è ubriaco…” E aveva riso, ma, ancora, Rhodey non si era unito alla sua risata. Aveva spinto con più forza contro l'occhio di Tony, che si era lamentato in un mugugno. “Sto. Scherzando. Dio mio… te l'ho già detto: dopo la…” Aveva ingoiato a vuoto e guardato altrove. “…cosa dei miei genitori, sai, la situazione gli è sembrata assurda e tu eri in volo in posti in cui vogliono veri eroi come te e Steve per salvare il mondo, quindi… però aveva un… com'è che lo chiamate, voi fantastici soldati? Permesso? Una licenza? Perché doveva andare a trovare sua madre, Sarah, che è una donna squisita, a proposito e…”

Tony…”

Sì, sì, ehm… Steve mi ha fatto una testa così con la storia che mica può tornare a… mi sfugge il nome… aspetta… quale fantastica guerra stiamo combattendo in questi fantastici anni 90? Uhm… vabbe, non poteva tornare là sapendo che io potrei essere rapito o assassinato e che tu non puoi stare qui. E allora… ti ricordi quell'unica volta che sono andato a correre con lui? Santo cielo. Quella volta ci era andato veramente leggero, a quanto pare. Non riuscivo a camminare dal tanto acido lattico, ma, a pensarci adesso, cavolo, sembra uno scherzo.” Aveva fissato un punto dietro le spalle di Rhodey. “È un dittatore bastardo.”

“E ti ha fatto un occhio nero” aveva ripetuto l'amico, asciugando la pelle rotta sul sopracciglio di Tony.

Per farmi un favore. Guarda. Con questo occhio nero sembro un duro. Tipo: Tony Stark fa a botte nei locali, woo!”

“Sembri solo un idiota” aveva borbottato Rhodey, dandogli un buffetto alla guancia. “Non che poi tu non lo sia…”

Tony aveva alzato un angolo della bocca, alzando lo sguardo verso di lui. Dondolava i piedi, seduto su quella sedia troppo alta che sicuramente aveva comprato soltanto per compensare la sua bassa statura. O il fatto che le persone intorno a lui erano alte. E dei soldati. Ma questo non aveva nulla a che fare con la sedia. Forse. “Ehi, Spaccanasi” aveva poi salutato, dirigendosi alla porta.

Steve si era accarezzato la fronte, evidentemente in imbarazzo, o a disagio, sotto lo sguardo di Rhodey, che stava cercando di scartare un cerotto. Quando aveva allungato la mano per aiutarlo, (sono cose che i soldati sanno fare, ma Rhodey era così agitato, che anche un cerotto dava problemi), questo si era spostato leggermente, come se nemmeno si fidasse di lui. Mamma Rhodey era tornata. Gente, temete! Tony aveva alzato gli occhi al soffitto.

Gesù Cristo!” Era sbottato il ragazzo. “Non ho più quattordici anni” aveva detto rivolgendosi al migliore amico. “E mi hai fatto un favore fantastico” aveva detto, invece, rivolto a Steve. “Stasera andrò al club e m'inventerò qualche scusa che farà cadere ai miei piedi tutti. Prevedo una serata divertente. Whisky.” Era sceso dalla sedia e si era toccato sopra il sopracciglio. “I cerotti non fanno figo, scusami, eh.”

Pensi veramente che questa sia…” aveva iniziato Steve, fermandolo dal braccio.

E Tony ha sorriso (quel sorriso che non piace a nessuno, comunque, quello che ti fa capire che Tony non è lì con te) e annuito. “Ho bisogno di whisky. Sai il dolore alla testa, oh, che dolore. Il whisky lo allevia, giusto?” E poi era uscito, quasi saltellando. Si prevedeva una serata esilarante. Perfetto.

“Non pensavo saremmo arrivati a questo giorno, ma è il secondo strike, Capitano” aveva detto Rhodey, e Steve aveva aggrottato le sopracciglia.



“Non pensavo saremmo arrivati a questo giorno. Dopo vent'anni, il terzo strike, Capitano.”

Steve si tiene la pancia e si piega leggermente in avanti. “Vorrei dire che me lo merito” dice, cercando di raddrizzare la schiena. “Ma non so perché me lo dovrei meritare.”

“Scegline una tu. Uhm. Sono indeciso sul fatto che Tony sia scappato a Malibu, o sul fatto che avete un bambino di undici anni a casa da un mese. E su questo: avete veramente deciso di farlo incontrare prima a Barnes? Davvero? Siete degli ingrati.” Rhodey fa scivolare la sedia a rotelle verso la cucina, per afferrare una tazza ormai fredda di caffè. “Che intenzioni avete con lui?”

“Tony è a Malibu?” Lo ignora completamente, cercando, piuttosto, di estrapolare informazioni utili. Avere una meta, quello può aiutare. Non ha mai avuto dubbi che Rhodey sapesse qualcosa sulla scomparsa di Tony, aveva dubbi sul fatto che condividesse quello che sapeva. Magari non avrebbe detto tutto, ma anche poco, anche quello va bene.

Rhodey sospira e poggia sulle sue cosce la tazza. Guarda in basso e alza le spalle. Per qualche breve momento non sembra nemmeno intenzionato a parlare. Ma poi dice: “Questo è un gran bel colpo di scena, eh?” E Steve vuole soltanto continuare a sbattere la testa contro il muro.



Tony stava schizzando di proposito. Saliva sul trampolino, calcolava le traiettorie dell'acqua e si tuffava, così, per dare fastidio, mentre Steve se stava al bordo della piscina, coi piedi in acqua e ancora quello sguardo colpevole. Poi irritata ad ogni schizzo.

“Tony!”

E Tony scoppiava a ridere, galleggiando sulla schiena. “Dovresti prendere la vita con più leggerezza, capitano. Non ti fa male?”

“Cosa?”

“Avere un palo ficcato su per il culo.” E aveva fatto mosse strane con le braccia, fino ad arrivare ad una ciambella con la testa di una papera gialla ed infilarcisi dentro. “A volte mi chiedo come tu faccia a sederti.”

“Con allenamento, onestà e perseveranza” aveva risposto Steve, facendo scoppiare a ridere il ragazzo, che continuava a sbattere i piedi sull'acqua e quindi a schizzare su di lui. Il biondo aveva comunque fatto finta di dover guardare da un'altra parte, mordicchiandosi l'interno delle guance. “Non capisco, comunque, perché ti dia così tanto fastidio dover stare a casa tua. È bellissima.” E forse io e Bucky non saremmo dovuti venire. Non lo dice ad alta voce. Si ferma giusto in tempo. Anche se lo pensa e si sentiva stranamente a disagio in una casa che gli ricordava tanto Tony e che allo stesso tempo non sembrava sua… “E tu dovresti finire le tue ricerche per il tuo dottorato…”

“Il secondo, sai che coglioni.”

“Tony…” Aveva preso un respiro profondo, cercando di passare oltre le parolacce del ragazzino (perché, sì, cavolo, era un cavolo di ragazzino che continuava a voler giocare trai grandi). Stava abbracciando una ciambella con la testa di una papera, buon Dio, quel ragazzo stava lavorando per ottenere il secondo dottorato, santo cielo, aveva a malapena diciotto anni, Gesù Cristo. “Io avevo pensato di…”

“Arruolarti? Sai che novità.” Al dirlo, Tony non era sembrato né sorpreso né colpito. Nuotava da un lato all'altro della piscina, spingendo quell'enorme ciambella e sembrava più piccolo di quello che già era. E allo stesso tempo, più grande. Troppo grande per giocare con una paperella. “Allora verrai in acqua a goderti gli ultimi momenti di libertà, o…”

“Io volevo… ti ricordi quando ho avuto il tuo numero?” Steve aveva guardato l'acqua limpida e il riflesso del sole. Ecco sì. Bello il riflesso del mare che distrae da Tony.

“E mi volevi uccidere con quella corsetta da niente che non rifarò mai più neanche per la cosa che più voglio al mondo?” Aveva schizzato, sbattendo i piedi in acqua. “Quella volta che né Rhodey né Sam mi faranno mai scordare perché stavo per avere un infarto e mi sono dovuto buttare a terra per riprendere fiato? Quella volta?”

“Io non volevo che Sam e Rhodey stessero lì… a…” aveva iniziato Steve.

“E cosa doveva essere? Un appuntamento tra…” Tony non ha nemmeno il tempo di finire la frase, che sente Bucky parlare a vanvera a sua madre e non può fare altro se non distrarsi, guardando il moro hippie con la coda di cavallo, che cercava di acchiappare un pezzo di torta o dei pasticcini. Tony aveva girato la testa verso casa, distogliendo lo sguardo da Steve, che non faceva altro se non torturarsi le mani (e, davvero, quel ragazzo sarebbe voluto entrare in guerra?).

“Sono felice che Tony abbia altri amici oltre a Rhodey” aveva sentito dire a Maria, che poggiava sotto l'ombrellone un vassoio bianco, facendo un gesto con la mano a suo figlio. “Con questa storia di essere un genio e saltare anni di scuola, pensavo rimanesse da solo con le sue macchine. Come Howard.”

“Non è che noi siamo proprio amici, ecco. Io sopporto Tony perché è ricco.” Bucky aveva riso, afferrando, finalmente, un dolcetto e mangiandolo abbastanza rumorosamente. “E poi ho un debole per i piccoletti in cerca di guai” aveva sussurrato, in modo che né Tony, né Steve riuscissero a sentirlo.

Steve non lo avrebbe sentito in ogni caso. Stava lì, guardando le spalle di Tony che si rilassavano e il ragazzo tirarsi fuori dall'acqua. Osservava il suo sguardo, quello di un figlio devoto ad una mamma troppo buona. E quello di un bambino che ama molto i dolci, sì, c'era anche quello. “Io sopporto BuckyPu solo perché ha un braccio metallico” si era difeso, sul bordo della piscina, gocciolante. “Dove trovo qualcun altro col braccio meccanico e che si lascia chiamare BuckyPu?”

Maria aveva riso. Tony aveva alzato un angolo di bocca. E, in quel momento, Malibu era sembrata un po' di più casa sua. Poco poco.


 
  
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