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Autore: My Pride    05/05/2009    10 recensioni
«C'è qualcosa. Qualcosa d'oscuro, in me, che non comprendo. Ma quando ci riuscirò, forse capirò anche perché mi hanno risparmiato, perché non ho fatto la stessa fine di molti che li hanno incontrati tempo addietro»
«Roy... ti supplico» riprovò Hughes, sentendo le lacrime minacciare di rigargli il volto.
«Non supplicarmi, Maes», disse sorridendo. «Non sono Dio»
[ Seguito de «Il bacio del vampiro» ]
[ INCOMPIUTA - Un giorno verrà aggiornata (forse) ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Edward Elric, Maes Hughes, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Il figlio delle Tenebre_Act 4
ATTO QUARTO. POSSIBILI SOLUZIONI


Nei pressi di Sheerness, 1889

    Fuori, in ogni strada del paesino, gli abitanti decoravano le vie con rami di pino e fiori selvatici, le cui fragranze serpeggiavano ovunque miste all'odore del vino che lambiva i boccali.
    I popolani festeggiavano il ritorno del loro Sindaco, tornato dopo cinque mesi d'assenza. Lui, dopo essersi liberato della sacca da viaggio, era stato letteralmente sequestrato e stava parlando animatamente con alcuni di loro, mettendoli al corrente di ciò che aveva visto e presentando loro il bambino che aveva adottato a Sheerness; lo teneva per mano e lui, il quale non faceva altro che guardarsi intorno come se fosse spaventato, si aggrappò forte al cappotto dell'uomo, cominciando a tremare senza un motivo apparente.
    Il Sindaco abbassò lo sguardo verso di lui e, sorridendo, si chinò a mezzo busto per prenderlo in braccio, rivolgendo un cordiale cenno del capo agli uomini che aveva dinnanzi.
«Adesso se volete scusarmi, signori, devo andare da mio figlio», si rivolse loro in tono gentile, facendo un altro cenno cordiale prima di dirigersi fin dentro al villaggio, verso la sua casa. Era poco illuminata e sulla soglia, ad aspettarlo, c'era la governante a cui aveva affidato suo figlio, una donna grassoccia e un po' severa ma dall'animo più che gentile.
    Appena lo vide, quest'ulrima gli rivolse un sorriso radioso, abbassando in modo referenziale la testa e scostandosi, in modo da permettergli di entrare.
«Ben tornato, Signor Hughes», gli disse. «Maes sarà felice di rivedervi». Poi, una volta rialzato lo sguardo, la sua attenzione si appuntò sul bambino che teneva fra le braccia, e il sorriso divenne ancor maggiore. Seppur severa, era una donna a cui piacevano molto i bambini. «E lui?» domandò divertita, vedendo il bambino nascondere il viso nel petto dell'uomo.
    Il Sindaco ridacchiò, issandoselo meglio in braccio prima di accarezzargli i capelli mentre attraversava l'ingresso per sbucare nel salotto.
«Lui è Roy, Rosberta», le rispose, scostando un po' il bambino da sé per guardarlo. «Non ti fa niente, non spaventarti», sghignazzò, e il bambino si arrischiò a voltarsi verso la donna. Lei aveva incrociato le braccia al seno prosperoso, e adesso lo osservava con un cipiglio divertito sul volto paffutello e roseo. Preso coraggio, rivolse lei un piccolo sorriso.
    L'uomo non poté evitarsi di ridacchiare, guardando a sua volta la donna, per poi guardarsi attentamente intorno come se stesse assaporando il momento del suo ritorno a casa.
«Mio figlio?» le chiese, e lei riappuntò la sua attenzione su di lui, abbandonando le braccia lungo i fianchi per ridacchiare a sua volta.
    «Credo sia nella sua camera», lo informò, gettando un altro sguardo al volto del bimbo, che l'uomo aveva ora adagiato sul piccolo divano. «Vado subito a chiamarlo». In men che non si dica, nonostante la mole massiccia, la donna sparì di gran carriera su per le scale, e prima che potesse scendere a sua volta, fu superata da un bambino dai capelli scuri che corse immediatamente in salotto strillando come un matto.
    «Papà!» esclamò sorridente, saltando subito al collo dell'uomo. «Mi sei mancato!»
    Il Sindaco lo strinse a sé abbracciandolo, scompigliandogli i capelli e baciandogli la fronte.
«Anche tu mi sei mancato, Maes», gli mormorò, strofinando il naso contro il suo. «Hai fatto il bravo, in mia assenza?»
    Il bambino alzò il mento e drizzò la schiena, nel tentativo di imitare suo padre, battendosi fieramente una mano sul petto.
«Io sono sempre bravo, anche quando ci sei», informò al genitore, che subito rise, divertito dall'innocenza del figlio.
    «Giusto, ormai sei un ometto», fece, scompigliandogli ancora una volta i capelli. Poi si chinò a mezzo busto per fargli poggiare i piedi a terra, sorridendogli al di sotto dei baffi neri, vedendolo osservare con uno sguardo incuriosito il piccolo divano; si voltò a sua volta, sorridendo maggiormente. Puntellandosi sulle ginocchia, passò un braccio dietro alle sue spalle, facendo cenno all'altro bambino di alzarsi e farsi più vicino. Lui si morse il labbro inferiore e, tentennando, scese dal divano avvicinandosi all'uomo, che si sedette a terra picchiettandosi le cosce, come a volere che i due bambini si sedessero su di esse. Guardandosi appena, loro ubbidirono.
    «Maes, lui è Roy», disse al figlio, divertito da come si squadravano.
«Roy, lui è Maes», fece poi, guardando l'altro bambino prima di spostare lo sguardo del suo unico occhio nuovamente sul volto del figlio, picchiettando le cosce di entrambi per farli alzare e alzarsi a sua volta, pulendosi con una mano i pantaloni. «Parla poco la nostra lingua, ma la capisce». Scompigliò i capelli di entrambi, sorridendo per l'aria curiosa che si era dipinta sui volti di entrambi, che si guardavano attentamente negli occhi. «Io devo tornare un attimo nella piazza del villaggio», li informò. «Non litigate, mi raccomando». E detto questo lì lasciò soli nel salotto, immobili l'uno di fronte all'altro.
    Il piccolo Maes, passato l'attimo iniziale di curiosità, rivolse all'altro un enorme sorriso, i grandi occhi smeraldo brillarono dietro alle lenti. Roy invece, ancora intimidito, fece un piccolo passo indietro, abbassando lo sguardo.
«Vuoi diventare il mio fratellino?» gli chiese innocente, inclinando la testa e piegandosi un po' sulle ginocchia per guardare il volto del moretto, vedendolo arrossire appena.
    Lui alzò poi titubante lo sguardo, incrociando con i suoi occhi d'onice quelli smeraldo di lui.  Fece per aprire la bocca, ma ci ripensò, ricordando le parole che l'uomo gli aveva detto durante il viaggio di ritorno, e cioè di non parlare in quella strana lingua. Si sforzò quindi di cercare di parlare in inglese, come gli aveva insegnato il Sindaco in quei pochi mesi in cui erano stati insieme, ma, non ricordandola esattamente, si limitò ad annuire piano, con un piccolo sorriso sulle labbra. Un sorriso portava ad un altro sorriso, e quindi anche l'altro bambino gliene rivolse uno, sporgendosi verso di lui e prendendolo per mano per condurlo fuori.
    «Ma è vero che non sai parlare inglese?» domandò ancora Maes, lanciandogli uno sguardo mentre lo portava per la piccola cittadina, come a volergliela mostrare.
    Roy scosse la testa, corrugando per la concentrazione la fronte. Chiuse gli occhi d'onice e poi li riaprì, stringendo più forte la mano dell'altro bambino.
«Lo so, ma... poco», rispose, soddisfatto di essere riuscito a ricordare alcune parole. Ricevette una piccola risata da Maes, che si fermò accanto ad un arbusto che sorgeva nel centro della piazzetta, per voltarsi verso di lui con un sorriso.
    «Allora ti aiuterà il mio papà ad impararlo», gli disse, quasi fiero. «Lui sa fare tante cose». Gli occhi d'onice dell'altro bambino si fecero interessati, mentre lo osservava sbattendo di tanto in tanto le palpebre. Ancora una volta, Maes gli sorrise raggiante. «Quanti anni hai?» chiese, prendendolo nuovamente per mano. «Io ne ho quasi cinque», lo informò riprendendo a camminare per il piccolo paesino. Alcuni abitanti gettavano loro occhiatine divertite, mentre finivano di sistemare la città per la festa della sera o di riempire le botti di vino.
    Il piccolo Roy cercava di stare al suo passo, provando nel contempo a parlare la lingua che gli aveva un po' insegnato il Sindaco.
«Quattro», disse poi, avvicinandosi di più all'altro.
    Un'altra risata cristallina e infantile scappò dalle labbra di Maes, che rallentò un po' la sua andatura in modo che l'altro potesse affiancarglisi.
«Sono più grande, allora», gongolò, muovendo divertito la testa. E continuarono a camminare un altro paio di minuti sotto il calore del sole del mezzogiorno, per quelle strade adornate e addobbate a festa dove sui lati erano state riposte delle panche con ogni cibo, prima di arrivare ai limitari del villaggio, mano nella mano, con il volto rivolto verso la Chiesa che sorgeva poco lontano dalla cittadina.
    Maes lo guardò con i suoi occhi verdi, sorridendogli per l'ennesima volta.
«Ti proteggerò io da tutto, fratellino».


    Hughes ed Havoc si trovavano adesso nei meandri dell'Antica Abbazia, le cui fiaccole appese ai muri illuminavano le pareti in pietra, con le fiamme che creavano sinistre ombre che si confondevano sinuose e bieche nella triste luce arancione. Sotto suo tacito consenso, avevano legato Padre Roy ad una sedia con una corda spessa, e adesso si osservavano senza dire una parola, l'aria opprimente condensata fra il vasto spazio di pietra.
    Durante tutto il tragitto, il Sindaco non aveva fatto altro che pensare a quando si erano incontrati, a ciò che lui gli aveva detto in quel giorno di chissà quanti anni prima e a come le cose a quei tempi sembrassero obiettivamente più facili, e non poteva non sentirsi peggio di quanto avesse mai creduto possibile. Aveva detto che l'avrebbe protetto da tutto, ma non c'era riuscito. Non c'era mai riuscito, in realtà. Era stato il suo stesso amico a proteggere lui nell'andare in quella radura, e quella era una colpa a cui non si poteva fare ammenda.
    Maes gettò uno sguardo al prete, il quale aveva continuato a far saettare le pupille nere prima su di lui e poi su Havoc, senza fiatare. Non si riusciva a capire ciò che pensasse o ciò che stesse architettando, dato che la sua espressione era vuota come quella d'una statua; d'un tratto, come se si fosse trattato di una bambola, i suoi occhi si fermarono sul volto del Sindaco. Il suo sembrava lo sguardo cupo e vacuo di un folle.
    «Ho acconsentito a farmi legare, Maes, ma ho una certa sete», disse, forse non in sé, abbozzando un sorriso dal quale fece lampeggiare le zanne, e a quelle parole uno strano brivido corse lungo la schiena del Sindaco, il quale gettò un'occhiata interrogativa ad Havoc; lui se ne stava con la testa fra le mani, come se stesse cercando una soluzione a sua volta, ma lo vedeva fremere, quasi volesse farla finita e sparare. «Mi ha sentito, signor Sindaco?» riprese il prete, con un tono tra il sarcastico e il divertito, mentre ironizzava sul titolo che aveva ereditato dal padre.
    «Ricordi cosa mi hai detto in quel maniero, Roy?» chiese invece Hughes, alzando lo sguardo per osservare seriamente le sue labbra. Sapeva fin troppo bene che non bisognava mai guardare un vampiro negli occhi.
    Forse stupito, lui sbatté le palpebre, come se non avesse capito, poi reclinò la testa all'indietro, scoppiando in una sonora risata che rimbombò contro le pareti di pietra, riecheggiando nella sala e nelle loro menti.
«Io non ho mai detto niente!» esclamò tra sbuffi di risa. «Anzi, non capisco nemmeno perché mi trovo in questo postaccio, in questo momento!»
    I due uomini si scambiarono un'occhiata, senza capire. Persino la sua voce sembrava diversa, forse d'un'ottava più alta. Lo videro gettarsi un'occhiata intorno come se cercasse qualcosa, la lingua svettava di tanto in tanto fra le labbra, simile a quella d'un serpente che assaggia l'aria. La sua attenzione si riconcentrò su di loro, gli occhi quasi parvero lampeggiare sinistramente.
    «Non so cosa speriate di fare, ma...» Scosse appena la testa, in modo che i lunghi capelli oscillassero al suo movimento. «...la vostra è solo una perdita di tempo».
    Il volto del Sindaco acquistò un colorito biancastro, a quel tono e a quelle parole. «Non sei tu che parli, Roy, ti hanno condizionato», sussurrò, intimorito dallo strano luccichio che vedeva in quei pozzi neri.
«Tornerai come prima, te lo giuro», gli promise, ma riuscì solo a farlo ridere di più.
    «Farmi tornare come prima?» ironizzò, inarcando un sopracciglio. «E ditemi, Sindaco, com'ero prima?» Aveva persino smesso di chiamarlo per nome. Anche i suoi occhi, in quel momento, erano vuoti quanto il suo viso.
    «Non puoi non rammentare nulla della tua vita, o almeno di ciò che mi hai detto poche ore fa», provò Hughes, con la voce più supplichevole che riuscì a trovare.
    Il vampiro lo guardò vacuamente, poi spostò la sua attenzione sulle fiamme che guizzavano sulle pareti di pietra, come se le trovasse molto più interessanti.
«La mia vita...» ripeté pensoso, toccandosi con la lingua il labbro inferiore. «Ora che mi ci fa pensare, Sindaco, non credo di aver mai avuto una vita».
    «Che cosa stai dicendo, Roy?»
    Un altro sguardo veloce, un guizzo negli occhi scuri. «Sacrifici e rinunce», mormorò inconsapevolmente. «Sacrifici e rinunce, già. Una vita che non era vita, passata nella piccola Chiesa d'un villaggio senza provare i piaceri della carne, e ancor prima un'infanzia senza saper nulla di chi l'ha messo al mondo né tanto meno da dove venisse», continuò a testa china, prima di puntare velocemente il suo sguardo sul volto stranito del Sindaco. «Non mi sembra se la passasse poi così bene, questo prete».
    Era voluto, quel suo modo di parlare? O c'era forse qualcun altro, in quel corpo? Questo si domandava Hughes mentre continuava a fissarlo sconvolto.
Si alzò per avvicinarsi a lui, tenendosi una mano alla cintola per precauzione. Era sempre meglio tenersi pronti. Chi gli assicurava che non sarebbe riuscito a liberarsi dalle corde che lo imprigionavano? «Non capisco di cosa stai parlando», farfugliò Maes, agitato e non poco. «Sei stato tu a scegliere la via del Signore, Roy, non ricordi neanche questo?»
    Un'altra risata si levò dal petto del vampiro, i suoi occhi d'onice lo fissarono, scintillanti di un qualcosa che non gli aveva mai visto.
«Mi conosco abbastanza bene da assicurarle che non l'avrei mai fatto, Sindaco», replicò, con un cipiglio cordiale tipico degli uomini dei tempi andati. Persino Havoc, che fino a quel momento se n'era stato in disparte, lo fissò perplesso. Vide la sua lingua serpentina accarezzate le labbra livide, il corpo flettersi come in procinto di attaccare, impedito però dalle corde che lo tenevano ben fissato alla sedia. «Lasciate perdere, qualsiasi cosa abbiate in mente. Tra non molto lui, il mio Signore, tornerà a prendermi», mormorò con devozione assoluta, leccandosi ancora le labbra in un gesto inconsapevolmente erotico. «Aye, a prendermi».
    A quelle parole, Havoc recuperò la croce dal tavolino e si avvicinò a grandi falcate al prete, il quale ringhiò alla vista della reliquia argentata, con il corpo che si contorceva nel tentativo di liberarsi. Dalla fondina, il biondo tirò fuori la pistolae la puntò dritta alla sua testa, il cui sguardo era ancora fisso e immoto sulla croce. Sibilava e soffiava come un gatto, mentre sfregava le braccia contro le corde.
«Non mi costringa a sparare, Padre», gli disse pacato Havoc, gli occhi azzurri erano animati da una ferocia simile a quella del vampiro. «Da questa distanza, le spappolerei il cervello», sembrò sorridere con sadica soddisfazione, «e mi sporcherei inutilmente i vestiti».
    Un altro basso ringhio, simile ad una risata, attraversò la gola del prete, prima che quello sguardo d'onice, inespressivo quanto quello di un serpente, si puntasse su Jean.
«Non ne avresti comunque il coraggio», lo sbeffeggiò divertito, senza smettere di leccarsi le labbra con desiderio. Un colpo risuonò d'improvviso vicinissimo al suo orecchio, e le iridi d'onice si dilatarono dalla sorpresa; la pistola che Havoc reggeva tra le mani rilasciava appena il fumo dell'aver fatto fuoco.
    «Come vede, Padre, il coraggio ce l'ho eccome». La voce era inespressiva, e sembrava desideroso di volerla fare finita con quella storia il prima possibile. «Renda le cose più facili ad entrambi, la smetta di sparare cazzate». 
    «Havoc, per favore», lo richiamò il Sindaco, intimorito. «Lascialo stare».
    Il biondo si voltò appena, come a volerlo fulminare con lo sguardo.
«Non ti intromettere, Hughes», sbottò schietto, riportando la sua attenzione sul prete. «L'affetto che nutri per lui ti offusca la ragione», fece per sparare nuovamente, ma la mano di Hughes, stretta sulla sua spalla, glielo impedì. Si era avvicinato a lui in silenzio, bloccandolo.
    «Non. Sparare», gli intimò, e, a quell'ordine travestito da richiesta, Havoc sollevò le sopracciglia.
    «Sei o non sei un cacciatore, Hughes?» chiese sarcastico. «Devo ricordarti che molte persone, e persino tuo padre, sono stati uccisi da uno di quei mostri?»
    Maes trattenne un imprecazione, serrando un pugno lungo il fianco.
«Roy non c'entra nulla», si sforzò di restare calmo. «E' anch'egli una vittima di quelle creature», asserì, ma la risata del prete richiamò la loro attenzione. Gli occhi vuoti e scuri fecero tremare entrambi. Deglutirono all'unisono; Havoc stringeva ancora nella mano destra la pistola e la teneva puntata al petto del vampiro, il dito vicinissimo al grilletto. Il Sindaco gli fece abbassare l'arma, senza staccare lo sguardo dal suo amico.
    La sonora risata che scaturì nuovamente dal petto del prete li fece trasalire e li costrinse a fare qualche passo indietro, mentre lo vedevano flettere il corpo come se tentasse di avvicinarsi.
«Queste sono il genere di cose che divertono il mio Signore», sussurrò sghignazzando, muovendo le braccia dietro alla schiena. «Vedere le persone in disaccordo è il suo passatempo preferito».
    Il volto di Jean si storse in una smorfia di puro disgusto. Quel mostro, una volta, era stato davvero il prete che l'aveva confortato tante volte, persino al funerale della sua fidanzata? A vederlo adesso stentava a crederci. Era possibile che fosse cambiato tanto, in quei lunghi anni? Dov'era quella voce ovattata e comprensiva con cui parlava ai suoi fedeli? Dov'erano quei dolci occhi neri che sembravano sempre sorridere? Non era più lui, il suo amico Hughes doveva farsene una ragione. Così come se l'era fatta lui.
«Suppongo lei sia diventato un schiavo, Padre, non è così?» chiese senza nessun tono di voce. «Chissà che poteri funesti ha su di lei questo cosiddetto Signore, quella piaga che l'ha costretta a diventare così», ottenne dai lui un basso ringhio, quasi simile a quello di un cane che difendeva rabbioso il suo osso.
    «Non ti permetto di parlargli in questo modo irrispettoso», rispose Roy con un brontolio minaccioso, sollevando le spalle come se si stesse preparando ad un balzo.
    Havoc lo guardò privo d'espressione, facendo un passo indietro per ogni evenienza. Non aveva la minima intenzione di rischiare.
«Non credo che una creatura simile meriti rispetto, Padre», replicò pacato, vedendolo digrignare maggiormente i denti.
    «Tu non lo conosci, non puoi saperlo», sibilò, come se sapesse ciò che diceva. Mostrò le zanne e allungò il collo verso di lui, gli occhi color pece lampeggiarono d'ira e rifletterono il fuoco delle fiaccole appese al muro; molte di esse si spensero all'improvviso e un vento gelido cominciò a vorticare furiosamente nei meandri di quel sotterraneo, spazzando ogni cosa.
    I due uomini si coprirono gli occhi per proteggerli dalla polvere che si alzava dal pavimento roccioso, cercando frattanto di non perdere di vista la figura del prete attraverso quella foschia. Tutto ciò che era lì stipato esplose in un lampo di fiamme guizzanti,
gocce d'acquasanta e frammenti di vetro si sparpagliarono in giro e uno di essi ferì Hughes al viso, lasciandogli un taglio netto che sanguinò immediatamente lungo la guancia.
    La forza che animava il vampiro scemò d'un tratto quando alle narici gli giunse quell'odore inebriante di ruggine; annusò l'aria, boccheggiando, puntando i suoi occhi vacui verso il volto del Sindaco, che si era frattanto coperto con il palmo la ferita. Con uno scatto felino, Roy incassò la testa nelle spalle e guizzò in avanti, spezzando con un unico movimento fluido le corde che lo legavano per avventarsi contro di lui.
    Colto alla sprovvista, l'unica cosa che Maes riuscì a fare fu portarsi le mani al volto per proteggerlo, sentendo solo vagamente lo scatto della sicura della pistola che teneva il suo compagno. Un colpo risuonò nella sala di pietra, un guaito gli fece eco subito dopo; la mano di Havoc scattò rapida verso il coltello d'argento per immergerlo in un liquido color sangue, e
la lama, calata di netto sulla pelle del vampiro, riuscì a ferirlo.
    Lui sibilò e ringhiò, sentendo un intenso dolore nel punto in cui era stato colpito, dove piccole venature scarlatte cominciarono a crearsi tutt'intorno, disperdendosi al di sotto della sua pelle diafana; storse il collo e portò una mano su di esso come se gli mancasse il fiato, contorcendosi sul pavimento mentre teneva stretta l'altra sul braccio, dove il foro d'un proiettile spiccava vivido dalla camicia strappata. Sibilò ancora una volta, allungando il viso verso Havoc nel tentativo di morderlo, ma si sentì debole a poco a poco, come se il suo corpo stesse reagendo in modo negativo a quel liquido vermiglio che veniva assorbito; gli occhi gli si chiusero di colpo, facendolo accasciare in avanti senza emettere suono.
    Lanciandosi sguardi terrorizzati, i due uomini deglutirono all'unisono, senza fiatare. Facendo attenzione, Havoc fece qualche passo avanti, allungando titubante un braccio verso il corpo immobile del vampiro, quasi temesse di vederlo muoversi, ma, anche quando lo scosse, rimase nella stessa posizione. Sembrava stesse dormendo, data l'espressione immota che aveva imporvvisamente assunto.

    Jean sospirò. C'era mancato veramente poco. Gettò uno sguardo al volto pallido del Sindaco, il quale non faceva altro che fissare ad occhi sgranati la figura di quello che una volta era stato suo fratello. Gli si avvicinò e gli diede una leggera pacca sulla spalla, ricevendo da lui uno sguardo velato di panico.
    «Perché ha reagito a quel modo?» sussurrò Hughes con voce incrinata, il respiro ansimante mentre deglutiva a fatica.
    Havoc sospirò ancora.
Proprio non voleva capire. Fin quando si era trattato di licantropi, non aveva esitato un attimo a premere il grilletto, ma, adesso che si trovava di fronte ad un vampiro, era diventato un codardo e non si capacitava della situazione in cui si erano cacciati. Forse solo perché quel vampiro aveva le sembianze di colui che, un tempo, era stato un suo amico e il suo unico fratello. «Non è più l'uomo che conoscevi», fece calmo. «E' solo una di quelle sporche creature, adesso». Che il prete fosse cosciente o meno della sua situazione, poco gli importava. Nemmeno gli importava che non fosse stato lui ad uccidere la sua Riza. Riza. Eliminando uno di loro, avrebbe compiuto metà del suo dovere. La vendetta completa sarebbe avvenuta presto.
    Un altro sguardo di Hughes bastò a riportarlo alla realtà. Lo vide deglutire ancora una volta, con l'espressione che aveva in volto sembrava non voler credere a quanto era appena successo.
«Non può essere cambiato così tanto», mormorò sottovoce, avvicinandosi piano al fratello e inginocchiandosi accanto a lui. Delicato, gli scostò i neri capelli dal volto, ravvivandoglieli dietro alle orecchie prima di passargli un braccio dietro la schiena, in modo da sollevarlo a mezzo busto; restò a guardarlo in silenzio, sentendo su di sé lo sguardo ceruleo del biondo, e proprio lui sbuffò, infastidito.
    «Invece sì, da quanto hai visto», sentenziò, scuotendo la testa.
«Ma ti rendi conto o no che voleva ammazzarti?» soggiunse, raggiungendolo accanto al vampiro.
    Hughes alzò la testa per incontrare i suoi occhi, riabbassando subito dopo gli occhi per osservare nuovamente il volto diafano del moro. Fece poi scorrere lo sguardo tutt'intorno alla sala, soffermandosi sul disastro che in poco si era creato. Non credeva possibile che fosse capace di una tale potenza. Possedeva una forza spaventosa.
 «Cerca piuttosto di non guardare mai un vampiro negli occhi», replicò schietto, evitando accuratamente di rispondere a quella domanda, che gli parve più un'affermazione. Voleva ammazzarlo, e allora? Dopo che l'aveva consegnato a quei mostri solo perché non voleva fare i conti con ciò che erano stati i suoi avi, non gli avrebbe dato torto. Ma era meglio tenere tali congetture per sé.
    Accarezzò per un'ultima volta quei fili d'ebano, rialzandosi per far cenno ad Havoc di aiutarlo a trasportarlo su per la scala tortuosa che dava all'interno di una delle sale dell'Abbazia; risalendo piano nell'oscurità, con i loro passi che riecheggiavano nella mezza oscurità delle pareti di pietra all'unisono con le gocce d'acqua che cadevano dalle stalattiti, e con il peso ben bilanciato del prete caricato sulle spalle dal quale non avvertiva respiro, fecero ritorno nello stanzino segreto che avevano scoperto grazie al diario del Sindaco Bradley; spostarono la piccola statuetta di marmo riposta sullo scaffale, riemergendo al di sotto dell'altare.
    Gettando uno sguardo fra le panche, Hughes fece cenno ad Havoc di seguirlo, attraversando in silenzio la cappella e percorrendo i corridoi per giungere alle porte dell'Abbazia, dove uscirono nell'aria ovattata al cui chiarore nebbioso si distinguevano appena le case del villaggio; scesero il sentiero che li separava dalla cittadina, dirigendosi però verso sinistra, dove, solitaria tra gli alberi, sorgeva una piccola stalla abbandonata, proprio accanto al granaio. Dopo qualche resistenza, le vecchie porte cedettero con una leggera spallata, girando quasi silenziosamente sui cardini di cuoio, ed entrando, l'odore della paglia e del fieno li avvolse, così come l'odore di muffa, umidità e polvere. Le poche aperture per la ventilazione erano semplici feritoie che non lasciavano passare abbastanza luce, solo sottili fasci riuscivano ad insinuarsi all'interno. Luogo più che perfetto per tenere sotto chiave un vampiro.
    «Leghiamolo qui», esordì il Sindaco, indicando l'enorme colonna che faceva da sostegno alla stalla, aggirando i box vuoti.
«Quando riprenderà i sensi, non potrà fuggire».
    Havoc squadrò per un po' la colonna, pensoso, poi si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Ma con uno strattone potrebbe far crollare il sostegno», rispose pronto.
    Il Sindaco ridacchiò.
«Ho pensato anche a questo», gli gettò svelto le corde, e Havoc poté sentirle umide sotto il palmo della mano. «Sono imbevute d'acquasanta. Anche con tutta la sua nuova forza da vampirom non potrà spezzarle o far crollare il sostegno. Per questo voglio legarlo».
    Havoc inarcò un sopracciglio, incredulo. «Ammazzarlo sarebbe stato più facile», gli fece notare, ma Maes lo guardò di sbieco e adagiò il vampiro svenuto contro il palo, inginocchiandosi accanto a lui.
    «Non voglio», disse schietto, cominciando a legare il prete. «Quando l'ho incontrato in quel vicolo avrebbe potuto benissimo attaccare sia me che Winry». Trasse un sospiro. «Ma non l'ha fatto. E' rimasto a fissarci finché non è comparso l'altro vampiro e sono spariti insieme». Fece un nodo stretto prima di rimettersi in piedi e ripulirsi i pantaloni dal fieno. «Voglio credere che ci sia ancora qualcosa di umano, in lui. Roy è forte, ha resistito dieci anni... non abbandoniamolo».
    Havoc lo fissò, traendo un profondo respiro. Decise di assecondarlo, ben sapendo che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Sapeva che, ormai, sarebbe stato inutile. Quando si metteva in testa una cosa la faceva e basta, esattamente come suo padre. Che senso aveva, quindi, continuare a dirgli di ammazzarlo? Nessuno. Si sfilò la croce d'argento dalla tasca e la legò ad una trave in alto, davanti al prete, in modo che fosse ben visibile; diede poi una pacca sulla spalla al Sindaco, passandogli un braccio intorno alle spalle e portandolo fuori dalla stalla, con il giorno non ancora lontano. Un'ora. Almeno un'ora, mancava all'alba. L'avevano portato lì dentro appena in tempo. Chissà se la luce del sole aveva davvero effetto come si diceva in giro.
    «Assumitene la responsabilità, Hughes», disse pacato, riscuotendosi da solo dai suoi pensieri sconnessi.
«Se tutto ti sfugge dalle mani, non dire che non ti avevo avvisato».
    Hughes gli rivolse un sorriso tirato. Era costato molto, ad Havoc, starlo a sentire. Se fosse stato per lui, non avrebbe esitato ad ammazzare il suo amico.
 «Logico che me ne assumo la responsabilità, sono il vostro Sindaco», scosse la testa. «Non posso mettervi in pericolo solo per capriccio», un mesto sospiro gli sfuggì dalle labbra. «Ti ho esposto anche troppo stanotte, chiedendoti di seguirmi».
    L'ombra di un sorriso illuminò il volto stanco di Jean.
«Se c'è da dar fuoco a qualche vampiro io sono sempre pronto, lo sai», mormorò, ed entrambi sparirono poi alla volta del villaggio, ignari di due frammenti ambrati che, nascosti fra le ombre, osservavano ogni loro movimento con un basso e rauco ringhio a rompere il silenzio.


ATTO QUARTO. FINE




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