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Autore: Rei_    26/09/2016    3 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Nessuno parlava dentro la stanza. Sembrava che tutti avessero addirittura il timore di respirare per rompere quell’innaturale silenzio che da qualche minuto si era creato.
Nicolò fissava il letto dove vi era disteso un uomo che sembrava addormentato. Era ingessato in più punti e una parte del suo volto era piena di cicatrici e tagli appena ricuciti. Una maschera gli permetteva di respirare, mentre diversi tubi gli entravano da entrambe le braccia. Attorno a lui c’erano diverse persone ma per Nicolò, in quel momento, erano come parte di uno sfondo anonimo. L’unica cosa che i suoi occhi vedevano era quella figura distesa sul letto, immobile. Le macchine segnalavano costantemente la presenza della vita dentro quel corpo, ma lui in quel momento non riusciva proprio a vederla.
Non sapeva dove aveva trovato la forza di arrivare fino a lì. Da quando aveva ricevuto quella notizia era come se il vero Nicolò se ne fosse tornato a ballare spensierato e un’altra sconosciuta entità razionale aveva preso il suo posto, facendo le cose che andavano fatte e dicendo quelle che andavano dette, senza alcun coinvolgimento emotivo. Soltanto in un primo momento era riuscito ad avere un qualche tipo di reazione, prendendo a pugni il muro della camera fino a far svegliare tutti i suoi amici, godendo fino in fondo dal provocare dolore all’unica persona che in quel momento se lo meritava: se stesso.
Da quando il suo aereo era atterrato a Roma non aveva pianto, neanche una volta. Aveva respinto gli abbracci di Giorgio ed evitato qualsiasi altro contatto fisico. Uno schiaffo lo avrebbe accettato volentieri ma degli abbracci, delle pacche sulle spalle e delle parole vuote non sapeva che farsene. Qualcuno gli aveva parlato spiegandogli ciò che era successo, dalla precedente aggressione che Michele aveva tenuto nascosta a tutti alla sua scelta di testimoniare di nascosto. Nicolò aveva registrato tutte quelle parole nella mente senza mai rispondervi, perché non aveva alcuna risposta da dare.
L’ospedale in cui lo avevano condotto era dipinto con colori troppo vivaci per contenere il dolore che aleggiava nell’aria. Greco e Costa erano seduti su due sedie vicine al letto, mentre Marchesi e Pasqui erano un po’ più distanti. Nessuno parlava, tutti fissavano la piccola figura distesa nel letto come se da un secondo all’altro si fosse potuta risvegliare. Il deputato più anziano aveva il volto scavato dal dolore e a stento riusciva a tenere gli occhi aperti.
Il silenzio innaturale si ruppe solo quando entrò un infermiera, sgridandoli perché non si poteva stare dentro in più di due per volta, e che comunque l’orario delle visite era già ampiamente terminato.
Thomas e Arturo uscirono seguiti da Pasqui, ma il segretario di Sinistra Democratica rimase nella stanza insieme a Nicolò, che non si mosse di un millimetro.
«Per favore, signori» pregò la ragazza.
«Io non me ne vado» chiarì subito Nicolò. Doveva essere la sua solita voce, quella che usava quando voleva fare il testardo, ma in quel momento assomigliava solo ad un lamento disperato.
«Nemmeno io uscirò da questa stanza, e se non è d’accordo chiami pure il direttore» affermò Marchesi con un tono ben più autoritario del suo, ma comunque alterato dal dolore.
«So benissimo chi è lei» precisò l’infermiera, «ma questo non cambia la situazione».
«Mi ascolti bene. Senza il mio contributo quest’ospedale non sarebbe stato neanche costruito. Non ho mai chiesto riconoscenza, è stato il regalo per un amico, chiedo solo di poter stare accanto al mio deputato» comunicò freddamente.
La ragazza sospirò e girò i tacchi, lasciandoli soli nella stanza.
Dopo altri minuti, Nicolò trovò il coraggio di avvicinarsi lentamente al letto. Fece un passo alla volta osservando come, più si avvicinava, più le cicatrici sul volto di Michele diventavano più nitide.
Non poteva essere lui lo stesso uomo con cui aveva diviso il cortile così tante volte, con cui aveva scherzato, mangiato, scritto una legge e curato la febbre. L’uomo che aveva cercato di aiutare e che poi, come un vigliacco, aveva abbandonato nel momento del bisogno.
Gli toccò una mano e la strinse. Non sapeva neanche perché lo stava facendo. Voleva solo avere un segnale, una qualche speranza che non fosse tutto finito.
«Non può sentirti».
Le parole di Marchesi gli arrivarono come un pugno nello stomaco e all’improvviso il vero Nicolò scacciò violentemente la sua caricatura razionale, tornando ad impadronirsi del suo cervello.
«Certo che può!» ribatté, più convinto che mai.
«Oh no, non più».
Marchesi si sedette di fronte a lui, dall’altro lato del letto. In faccia aveva stampato un sorriso che non aveva nulla di felice. Il volto era più scavato del solito e i capelli e la camicia erano in disordine, tanto da togliergli completamente la sua solita aura di superiorità.
«Ha provato a cercarti, sai? Dopo che è stato aggredito. Ti chiamava ogni sera».
Nicolò sentì una fitta allo stomaco, ed ebbe di nuovo il bisogno di prendere a pugni qualcosa. Osservò rabbioso lo sguardo di Marchesi, il quale era evidentemente soddisfatto dell’effetto provocato dalle sue parole.
«E tu? Tu non hai fatto niente per lui. Niente! E non dire che non potevi fare niente. Avevi mille modi per proteggerlo!» gridò in risposta, accecato dalla rabbia.
Riccardo sorrise di nuovo.
«Certo, non ho fatto niente, sono solo stato ogni giorno accanto a lui. Non volevo che si sentisse abbandonato solo perché un vigliacco si rifiutava di rispondergli al telefono. Non se lo meritava, perché lui è sempre stato innocente in questa storia, anche se nessuno gli ha mai creduto. Ho pagato i migliori dottori perché si riprendesse presto e ho assunto degli investigatori per sapere l’identità degli stronzi che lo hanno aggredito. Però hai ragione, non ho fatto assolutamente niente. Avrei dovuto anche io scappare via e ignorarlo completamente».
Nicolò si alzò, raggiunse Marchesi e lo afferrò per la camicia, dandogli uno scossone. Sentiva la mano tremargli per la voglia di dargli un pugno, ma una certa razionalità residua gli impedì di continuare.
Lo spinse via e subito dopo sentì le lacrime riempirgli gli occhi, minacciando di rompere l’assurda compostezza con cui aveva vissuto gli ultimi tragici eventi. Si coprì la bocca con la mano, impedendosi di singhiozzare davanti all’uomo che odiava fin nel profondo, mentre il suo intero corpo minacciava di cedere sotto il peso del senso di colpa, che fino a quel momento aveva tenuto sepolto per poterci fare i conti più tardi.
«Lasciami da solo con lui. Per piacere, solo cinque minuti».
Non si aspettava che Marchesi ubbidisse, ma inspiegabilmente accadde. L’uomo uscì dalla stanza, chiudendosi dietro la porta senza dire una parola.
Frenò le lacrime istantaneamente, avvicinandosi a Michele il più possibile. Doveva fare qualcosa, anche se tutto sembrava suggerirgli che non poteva più fare niente.
Se solo non se ne fosse andato. Se solo avesse preso sul serio la paura di Michele per quella minaccia al telefono.
Se solo avesse risposto ad una sola delle sue chiamate.
La soluzione era sempre stata lì, a portata di mano. Aveva avuto mille occasioni per aiutarlo e non ne aveva colta nessuna per il suo stupido orgoglio.
Afferrò una delle mani immobili di Michele. La strinse forte, come se fosse bastato quel contatto per comunicargli tutto ciò che aveva da dirgli.
«Quella volta, quando ti hanno colpito con quel sasso… Sai, mi sono sentito una merda. Non per averti difeso, naturalmente. Ma perché mi sono reso conto che se oggi non fossi un parlamentare in quella piazza ci sarei stato anche io a contestarti. Mi ha fatto male pensarlo».
Respirò profondamente, come se in ogni parola ci fosse intrisa la possibilità di riaverlo di nuovo guarito e cosciente.
«Io ti ho creduto fin dall’inizio, sai? Dentro di me sapevo che non c’entravi niente. Ma quella sera, quando ho saputo per la prima volta dell’indagine su di te, ho deciso di scappare via. Perché non potevo accettare di avere dei dubbi su di te. Il fatto è che…»
Si morse la lingua, cercando le parole giuste.
«…che se tu non fossi così importante per me, non sarei mai scappato così. Non potevo accettare che tu fossi un mafioso, non dopo tutto ciò che abbiamo vissuto insieme. Non so spiegarti esattamente perché, credo di aver voluto bene a poche persone nella mia vita…»
Gli passò una mano sui capelli. In apparenza erano gli stessi di sempre, tranne che ora appartenevano ad un corpo immobile.
«Sarei dovuto restare accanto a te anche se avevo paura di sbagliarmi. Poteva andare diversamente. Avrei potuto rincorrere quegli stronzi che ti hanno picchiato, avrei potuto mettermi io davanti alla macchina che ti ha investito».
Strinse i capelli di Michele, quasi a volerli strappare. Voleva solo che si svegliasse in qualche modo, che sentisse le sue parole, che lo insultasse, che gli dicesse qualsiasi cosa.
«Ora invece potrei anche cercare quegli stronzi che ti hanno fatto questo e ammazzarli di botte con le mie mani, ma tu continueresti a dormire, vero?»
Appoggiò la testa sul suo petto, bagnando con le lacrime le lenzuola. Lacrime che erano rimaste dentro di lui per troppo tempo e che ora non si sarebbero fermate facilmente. Era come se tutto fosse diventato improvvisamente reale, da un momento all’altro. Non era un sogno, era il presente, lo schifoso e tragico presente, e lui era proprio Nicolò, uno dei colpevoli di quel presente, il coglione che non aveva mai risposto al telefono a quella persona a cui teneva veramente.
«Non so neanche perché ti parlo. Lo so che tanto non mi senti, non sono completamente impazzito. Ma ho bisogno che mi ascolti. Devi svegliarti, perché non posso aiutarti così. Come faccio a rimediare se te ne vai? Come farò a perdonarmi, a guardarmi di nuovo allo specchio? Non puoi farmi questo. Non farlo. Ti prego… ti prego…» Continuò a mormorare quelle ultime due parole come una litania, in mezzo agli innumerevoli singhiozzi. Sentiva solo di non poter smettere. Sapeva che alla centesima o forse alla millesima volta Michele si sarebbe svegliato. ma ad ogni “ti prego” il miracolo continuava a non accadere, e Nicolò non poteva fare altro che piangere, perché non c’erano altre soluzioni da applicare in quei casi, altre cose che con il suo impegno avrebbe potuto migliorare. No, a quel punto era rimasta solo l’amarezza per la realtà, quell’ingiustizia assurda, irreparabile e incancellabile.
Non riuscì a capire quanto tempo era passato quando venne staccato con forza da quel corpo senza calore. Sentì solo il pacco di fazzoletti che gli veniva lanciato in grembo e la presenza di un altro uomo al quale non aveva fatto in tempo a nascondere il suo dolore.
Marchesi si sedette sulla sedia dall’altra parte del letto. Nicolò lo distingueva a malapena attraverso la barriera di lacrime, e
immediatamente si sentì violato nel profondo per quell’atto di intromissione.
Usò l’intero pacchetto di fazzoletti. Gli occhi gli diventarono secchi e gonfi, e la testa iniziò a pulsargli dolorosamente. Sprofondò dentro la poltrona in cui si trovava, sperando che lo ingoiasse completamente. Chiuse gli occhi e per un po’ cercò di udire il respiro di Michele, ma l’unico suono era quello del vento leggero che muoveva le persiane e i passi pesanti degli infermieri nel corridoio.
Prima di rendersene conto, cadde addormentato, con l’ennesima lacrima che ancora non si era del tutto spenta negli occhi verdi.
 
 
Quando si svegliò era già mattina tardi.
Era sdraiato sulla stessa poltrona, con un braccio che sfiorava il pavimento e le gambe fuori da una coperta che non ricordava di essersi mai messo addosso.
«…le sue condizioni sono stabili. Non possiamo agire, purtroppo. In questi casi tentare degli interventi potrebbe essere fatale. Il rischio c’è, ma non sappiamo quantificarlo».
Un uomo con un camice bianco stava parlando con Marchesi, davanti al letto di Michele. Nicolò ebbe un sussulto sentendo la parola “rischio”, e subito scattò in piedi.
«Dottore! Dottore la prego, lo aiuti, faccia qualcosa!» L’uomo si voltò verso di lui, sospirando.
«Mi dispiace onorevole Andreani, stavo giusto informando il suo collega che non è possibile intervenire in queste condizioni.
Dobbiamo monitorare, aspettare una risposta dall’organismo agli stimoli…»
Nicolò ricadde sulla poltrona, fissando il vuoto. Non ricordava di avere mai avuto nella sua vita un risveglio così devastante e amaro.
«La ringrazio, dottore. La prego di fare tutto ciò che è in suo potere, non mancherò di fare fronte a qualsiasi spesa» lo rassicurò Marchesi. I due uomini si salutarono con una stretta di mano, e Nicolò e Riccardo tornarono ad essere le uniche due persone vigili della stanza.
Il silenzio si protrasse per diversi minuti, senza che nessuno dei due si preoccupò di romperlo.
«La sua famiglia è venuta?» mormorò Nico piano, quasi sperando che l’altro non lo sentisse.
«No. Qualche ora fa sono venuti alcuni amici del circolo di Cutro, ma nessun parente» rispose Marchesi.
Nicolò annuì. Non si aspettava altro, naturalmente. Nessuno di quei criminali della sua famiglia lo avrebbe omaggiato per aver rischiato la vita nel testimoniare contro di loro.
«E la polizia?» chiese di nuovo, questa volta più deciso.
«Nessun indizio. Non c’erano telecamere. Qualche testimone dice che la targa dell’auto era stata coperta, ma non sappiamo altro».
Nicolò tirò un pugno al muro. Si era talmente abituato a farlo che si era momentaneamente dimenticato di non essere a casa sua.
«Sappiamo solo che prima della scorsa aggressione qualcuno ha chiamato Michele da un telefono pubblico. Nella telefonata minacciava ritorsioni se lui fosse andato a testimoniare. È sicuramente uno di quelli che lo hanno aggredito e che lo hanno investito con quella macchina».
«Lo so… so di quella chiamata… lui me l’ha detto…» mormorò Nicolò, sconvolto per il rinnovato senso di colpa che non aveva ancora affrontato del tutto. Come aveva potuto non ascoltare la sua richiesta d’aiuto e non prevedere come sarebbe andata a finire?
Si prese la testa tra le mani, coprendosi gli occhi. Non voleva più vedere niente, in particolare se stesso.
«A noi ha fatto credere che l’aggressione fosse stata compiuta da quelli che hanno manifestato contro di lui. Non avevamo elementi per pensarla diversamente. Ci ha chiesto di non dire in giro la notizia, e così facendo abbiamo anche noi dato il contributo a tutto questo. Non gli avrei mai permesso di testimoniare se lo avessi saputo».
La voce del segretario di SD era calma e incredibilmente lucida, ma Nicolò non voleva sentirla. In quel momento voleva solo punirsi il più possibile per ciò che aveva fatto.
«Se vogliamo fare a gara a chi ha più colpe non andremo avanti» insistette il segretario di SD.
Nicolò si chiuse la testa tra le mani per non guardare. In quel momento odiava Marchesi per la sua razionalità, per quanto nonostante la sofferenza trovasse la forza di pensare, di mettere in fila i fatti. Avrebbe voluto farlo anche lui, se solo la sua mente non fosse stata così annebbiata dal dolore e dall’odio.
Dopo quasi un’ora di assoluto silenzio, un uomo fece il suo ingresso nella stanza.
«Nico?»
Era Giorgio, visibilmente preoccupato. Aveva in mano un sacchetto con dei vestiti di ricambio e delle coperte, che subito appoggiò per terra.
«Ho pensato che volessi rimanere qui».
Nicolò non riuscì neanche a mormorare un grazie. Annuì, cercando di sembrare meno distrutto di come non fosse, mentre l’amico si informava sulla situazione di Michele.
«È terribile tutto questo… con la testimonianza di Michele, però, sono partite molte indagini. Forse abbiamo una speranza di fare giustizia».
Giorgio cercò di fare un sorriso incoraggiato, ma Nicolò non vi rispose. In quel momento odiava anche il suo amico per il suo solito, ingenuo ottimismo. Non c’era nulla per cui stare allegri. Non finché Michele non si fosse rialzato da quel letto, sano e cosciente come prima.
Per tutto il resto della giornata, il capogruppo del Fronte assistette immobile alla sfilata di solidarietà di tutti i deputati di SD, di persone che venivano direttamente da Cutro o da Palermo e dei suoi stessi colleghi del Fronte. I fiori si ammucchiarono ai piedi del letto, e Nicolò odiò anche quelli. Li trovava fuori luogo e di pessimo gusto, non era un maledetto funerale.
Ogni volta che un dottore entrava per controllare qualcosa o per cambiare la flebo lui alzava di poco lo sguardo, speranzoso di ricevere una qualsiasi notizia di miglioramento, che però non arrivava mai. Almeno tre volte entrò la stessa giovane infermiera del giorno prima a offrire loro da mangiare, ma Nicolò si rifiutò categoricamente di toccare cibo. Alla terza, Marchesi si spazientì e gli posò il piatto sul tavolino davanti.
«Non è digiunando che lo aiuterai a guarire. Cerca di essere un attimo ragionevole!»
Il capogruppo del Fronte non aspettava che una parola per saltare in aria. Si alzò di scatto, rovesciando il piatto e il suo contenuto per terra.
«RAGIONEVOLE? TI SEMBRA RAGIONEVOLE TUTTO QUESTO? TI SEMBRA RAGIONEVOLE CHE MICHELE STIA MORENDO? COME CAZZO FAI A DIRMI DI MANGIARE IN QUESTO MOMENTO, ME LO SPIEGHI?» urlò.
«Non sta morendo! Smettila!» gridò Riccardo.
Ma il capogruppo del Fronte non era più in grado di trattenere la rabbia. Aveva dentro di sé interi giorni di silenzio razionale da sfogare, e aveva davanti l’uomo che più di tutti gli altri aveva cercato di danneggiare sia lui che Martino, e che ora se ne stava fisso nella sua stanza come se gli fosse sempre stato amico. Lo agguantò per il collo della camicia, lo alzò da terra e colpì con la mano chiusa a pugno tutto ciò che riusciva a colpire, mentre il segretario di Sinistra Democratica non opponeva resistenza.
Forse non sarebbe riuscito a fermarsi facilmente se un uomo più grosso di lui non fosse entrato in quel momento e non lo avesse staccato dall’oggetto del suo odio, spingendolo a terra con così tanta forza che Nicolò non riuscì minimamente a fare resistenza.
«Questa me la paghi» mormorò a denti stretti Pasqui.
«Marcè, fermo, lascialo!» ordinò Marchesi.
Nicolò si tirò su e si appiattì contro la parete, pronto a difendersi da eventuali attacchi. Vide Riccardo con un labbro quasi rotto e un occhio completamente pesto.
«Aveva bisogno di sfogarsi. Va bene così» stabilì il segretario. Il capogruppo di SD non smise di fissarlo, con uno sguardo impregnato di un odio che Nico non gli aveva ancora mai visto addosso.
L’istante dopo, nella stanza entrarono diverse persone in camice bianco. Un uomo si piazzò davanti a tutti gli altri, schiarendosi la voce con fare autoritario.
«Signori, devo chiedervi di lasciare subito la stanza. Mi dispiace Ric, vale anche per te. Questo genere di cose non sono tollerabili».
Nicolò capì in fretta che sarebbe stato inutile protestare, e anche Riccardo uscì dalla stanza senza ribellarsi. Il capogruppo del Fronte fece abilmente slalom tra tutti i vari rimproveri che gli stavano per arrivare addosso, crollando direttamente sulla sedia più vicina.
Iniziò a misurare centimetro per centimetro lo spazio che ora divideva lui da Michele. Ora non poteva più vedere il suo battito sullo schermo, non poteva toccargli la mano per provare a se stesso che era ancora presente.
Tenne lo sguardo fisso davanti a sé, lasciando che il tempo passasse da solo, senza cercare di dargli uno scopo. Vedeva la gente passargli davanti, ma la loro esistenza era completamente estranea alla sua.
Facevano parte di quello sfondo dai colori vivaci, che sembrava prenderli in giro per quanto il resto del mondo proseguisse tranquillo la sua vita, mentre loro erano semplicemente lì, immobili.
Ad ogni ora, le persone diminuivano. All’una di notte non rimase più nessuno, solo qualche infermiera che passava di tanto in tanto per il corridoio.
«Tregua?»
Si ritrovò di nuovo davanti Riccardo Marchesi, mentre gli porgeva un caffè in un bicchiere di carta. Accettò istintivamente, ma non disse una parola. I segni della sua violenza di prima erano stati puliti e rimarginati, ma Nicolò non aveva comunque la forza di chiedere scusa, né di pentirsi sul serio.
«Ho parlato con il mio amico, il direttore. Dice che potremo vedere Michele per massimo cinque minuti al giorno. Ho provato a insistere, ma non ha voluto sentire ragioni» sospirò.
«Per fortuna che è amico tuo» sbottò Nicolò in risposta.
«Beh, la sua amicizia mi è stata molto utile per permettere a me e a te di restare in quella stanza, fino ad oggi» Riccardo scrollò le spalle, sospirando, «in ogni caso, è inutile che adesso resti qui. Non risolverai niente».
«Nemmeno tu, quindi vattene» mormorò Nicolò. Non aveva più la forza di litigare, desiderava solo essere lasciato in pace.
«Me ne vado, certo» lo assecondò Marchesi, «ma prima vorrei che tu ragionassi. La tua rabbia, qui, è inutile. Se fossi in te, sarei subito là fuori a cercare i responsabili, a fare qualcosa nel mio ruolo politico. Non me ne starei qui a fare niente e a punirmi per cose che non si possono riparare».
Nico scosse la testa, come per cacciarlo via. Sapeva che in fondo aveva ragione, che quella era la cosa più razionale da fare, che stare lì fermo non avrebbe salvato Michele né avrebbe dato un significato agli ultimi accadimenti. Ma non poteva ammettere a quell’uomo di non avere la forza di staccarsi da quella stanza, come se all’esterno dell’ospedale ci fosse stata solo l’oscurità più tetra.
«In caso tu ti decidessi, fuori c’è un taxi che ti aspetta. Fai pure con calma, l’ho pagato per la pazienza».
Marchesi si allontanò, lasciandolo solo. Nicolò restò lì immobile per diversi minuti. Dopodiché si strinse nelle spalle, indossò la giacca, tirò un forte pugno alla sedia su cui era seduto e corse fuori senza voltarsi indietro.
 
 
*
 
 
Quel giorno, fuori dalla finestra pioveva a dirotto.
Erano mesi che il cielo di Roma non mandava neanche una goccia d’acqua, tanto che gli abitanti della città si erano dimenticati di come fosse fatta la pioggia, che in quel momento faceva quasi paura per la sua irruenza e per come aveva reso il cielo nero e il paesaggio animato in modo scomposto.
Riccardo era sdraiato per terra nella sua camera da due giorni. Probabilmente si era anche preso una bella febbre, ma non era una cosa importante. La salute, come il partito, Goffredo e l’associazione, faceva parte di quelle cose che prima considerava essenziali, ma che ora occupavano solo un angolo remoto della sua mente, un piccolo spazietto di cui da un po’ si era dimenticato l’esistenza. Il suo stomaco non sentiva il bisogno di mangiare, la sua mente non sentiva il bisogno di distrarsi. Si muoveva dalla sua posizione solo per assumere altre droghe. Un tempo era attentissimo a non mischiarle e a non esagerare, ora invece anche quella premura gli pareva irrilevante. Il suo corpo ogni tanto insisteva nel chiedergli conforto, anche solo con una coperta, un cuscino o qualcosa da mandare giù, ma lui non era disposto a darglielo. Non pensava di meritarselo, gli sarebbe sembrato quasi egoista concedersi dei favori in un momento del genere.
I passi bagnati di una persona che saliva le scale risuonarono per l’enorme villa. Marchesi non perse tempo a fare congetture su chi potesse essere, anche quella era una cosa che non aveva alcuna importanza.
«Ric, sei qui?»
Marcello si chiuse la porta alle spalle senza fare rumore. Riccardo non riuscì a vedere la sua espressione mentre l’amico analizzava la stanza per ricostruire la situazione, studiando la sua figura per terra e le diverse bottiglie sparse intorno.
Marchesi si sentì sollevare da terra come un peso morto. Venne appoggiato sul letto e coperto da numerosi strati di coperte, che mano a mano gli tolsero via il freddo dal corpo. Evitò di posare lo sguardo su Marcello, terrorizzato dall’idea di vedervi rispecchiato il suo stesso dolore.
«Devi smetterla, Ric».
«Non c’è motivo per smetterla».
Aveva un immensa paura dalle parole che sarebbero nate da lì in poi. Ognuno era, fino a quel momento, rimasto da solo nel proprio dolore. Adesso, parlare di ciò che era successo lo avrebbe reso irreversibilmente reale, avrebbe esposto ciascuno alla sofferenza dell’altro.
«La sua foto. Non dovevano. Non dovevano farlo» disse Riccardo.
«Lo so. Abbiamo aperto un procedimento contro i giornali che l’hanno diffusa».
«Non mi importa. Non dovevano. Continuo a vedermelo davanti. Ogni volta che chiudo gli occhi quella foto mi entra nella testa». Aveva intervallato ogni frase con diverse pause, non riconoscendo quelle parole, così deboli e autentiche, come sue. Marcello gli strinse forte una spalla e Riccardo sapeva che stava cercando di controllarsi per non cedere anche lui.
«Dobbiamo andare» disse l’amico ad un certo punto.
«No. Non verrò al funerale. Goffredo vuole che io sia freddo e composto. Freddo e composto» ripeté, come per sottolineare
l’assurdità di quelle parole in quel contesto.
«Non andremo al funerale» sospirò Marcello «andremo via». Riccardo non rispose. Non riusciva a capire cosa volesse dire quella frase.
«Il taxi ci aspetta. L’aereo parte tra un’ora e mezza».
«Per andare dove?»
Non gli interessava affatto saperlo, non gli interessava come ogni altra cosa che era stata svuotata d’importanza nella sua vita, ma voleva capire fin dove era arrivata la pazzia dell’amico.
«Lontano».
Riccardo si rigirò nelle coperte.
«Non voglio andare da nessuna parte. Non voglio più fare niente».
«Già. Starai qui, a stordirti di droghe fino ad ucciderti, non è vero? Perché Francesco voleva questo, giusto?»
Riccardo scattò in piedi e cercò di spintonare l’amico contro il muro, senza però in realtà smuoverlo di un centimetro. Fu allora che notò il suo volto, contrito da un dolore che stava cercando in ogni modo di reprimere, e la visione bastò a fermarlo.
Tornò a sdraiarsi per terra, esausto. Il freddo lo inghiottì di nuovo. Non era riuscito ancora a farci l’abitudine.
Si aspettava che Marcello lo tirasse su di nuovo con la forza per caricarlo su un taxi diretto chissà dove, invece l’amico uscì dalla stanza senza chiudere la porta, come aspettandosi che lo seguisse. Due ore dopo, un aereo solcava il cielo romano fendendo le nuvole, e Riccardo guardava indifferentemente quel paesaggio vuoto,
nell’attesa che quegli anonimi ammassi gassosi si dipanassero per mostrargli qualcosa di diverso da quell’asfissiante vuoto.
 
 
*
 
 
Alla Camera, nulla sembrava essere più come prima.
Non che fosse cambiato tanto nel concreto. A frequentarla erano sempre le stesse persone, che si scambiavano le stesse fredde strette di mano e gli stessi brindisi nei bar, che si riunivano in gruppi per parlare degli affari loro e affollavano gli stessi divanetti di pelle, sempre in attesa che succedesse qualcosa. La differenza, però, Nicolò la notava negli sguardi. In quegli sguardi di solidarietà e di impotente pietà che gli altri deputati rivolgevano agli onorevoli di SD. D’altra parte, c’era ben poco da dire in occasioni del genere. Erano frasi di circostanza quelle che ogni tanto Nicolò intercettava, e non potevano essere altrimenti.
I giorni passavano inesorabilmente, e il capogruppo del Fronte andava ovunque. In televisione, per strada, nelle piazze, sui giornali, in ufficio. Faceva comizi, interviste, spronava i suoi colleghi per fare leggi, emendamenti, mozioni, qualsiasi cosa che potesse fare in modo che quell’organizzazione sporca che aveva quasi ucciso Michele non avrebbe avuto più spazio nel Paese.
I suoi tentativi, però, non producevano grandi risultati. Il Parlamento aveva sempre “altro” da discutere, e i suoi pugni sul tavolo ad ogni conferenza dei capigruppo gli procuravano solo pacche amichevoli sulle spalle e la promessa di avviare la discussione “quanto prima”. A Nicolò, quindi, non restava che commentare i fatti della giornata. La testimonianza di Michele aveva fatto smuovere le indagini, e ogni giorno saltava fuori un nome, un incontro, una conversazione telefonica. Era un puzzle che poco a poco si rivelava, i cui contorni si facevano sempre più inquietanti.
In quelle settimane, Giorgio stava cercando di non tartassarlo, e Nicolò non poteva esserne più sollevato. Si era reso conto di avere bisogno di tantissimo tempo per restare da solo a percorrere con la mente le stesse strade, come per cercare quel dettaglio che gli era sfuggito e che avrebbe risolto tutta la storia.
Una parte di lui aveva ritrovato la voglia di combattere, di mettersi in movimento. L’altra parte invece rideva di quel Nicolò e delle stupide illusioni che si faceva, mentre Michele continuava a dormire in un letto d’ospedale.
Nelle ultime settimane, quasi ogni giorno bussava all’ufficio di Marchesi. Nemmeno per un secondo aveva smesso di odiare
quell’uomo, ma forse era l’unico che in quel momento condivideva la sua stessa determinazione nel fare qualcosa. Né Thomas, né Arturo, sembravano avere troppa forza di reagire. Raramente si vedevano nei corridoi, si rifiutavano di lasciare dichiarazioni e svolgevano il loro lavoro con piatta indifferenza. Nicolò aveva cercato in diverse occasioni di restare loro vicino, specialmente al più anziano, ma si era sempre considerato incapace di consolare altre persone.
Entrò dall’ufficio senza aspettare il permesso, cosa che ogni volta irritava molto il segretario di Sinistra Democratica.
«La legge. A che punto siamo?»
Marchesi gli fece un cenno, invitandolo a sedersi e nel frattempo versandosi un bicchiere di vino. Aveva gli occhi infossati e la mano che tremava da quando se n’erano andati da quell’ospedale, ma ormai Nicolò ci aveva fatto l’abitudine.
«Ho parlato con chi dovevo parlare, ma non faranno un passo
indietro sulle loro idee da bigotti. L’unica soluzione è martellare sulla stampa, cercare di sfigurarli davanti al Paese…»
Nicolò si trattenne dallo sbattere un pugno sul tavolo. Ormai aveva le nocche distrutte a furia di farlo, ma più i giorni passavano, più la rabbia che aveva dentro diventava meno reprimibile.
«Lo sto facendo. Non sto facendo altro, io. Sto girando tutti i giornali e le televisioni, ma non serve a niente!»
«Nella politica bisogna avere pazienza, Andreani» borbottò Marchesi.
«Eppure non vedo il vostro capogruppo in prima linea!» ribattè Nicolò.
Il segretario iniziò a fissare insistentemente il bicchiere che teneva tra le mani. Ogni giorno, tra loro due, i discorsi erano sempre gli stessi.
«Pasqui è in disaccordo. Ho cercato di spiegartelo almeno dieci volte».
«E perché cazzo dovrebbe esserlo? Non stai facendo niente per convincerlo!»
«No, è diverso» sospirò di nuovo Marchesi, «lui non si farebbe convincere da nessuno. Per lui i principi sono sacri».
«Maledetti democristiani del cazzo!» imprecò Nicolò.
«Sto facendo il possibile» sibilò acido Marchesi.
«Non è abbastanza!» gridò Nicolò.
«Perché immagino che tu sia molto più bravo di me, giusto? Quante leggi hai fatto passare, esattamente?»
Il capogruppo del Fronte si prese la testa fra le mani. Sapeva che da solo non sarebbe riuscito a fare niente. Riccardo aveva i contatti, non solo nella politica ma anche con la stampa, con la magistratura e con tutte le persone che contavano. Lui non aveva niente, se non una gran voglia di spaccare il mondo, quello schifoso mondo di merda che aveva quasi ammazzato un uomo innocente.
«Ci sono progressi con…» mormorò infine.
«Nessuno. Non reagisce ancora agli stimoli».
Da quando era corso via da quell’ospedale, non aveva più trovato il coraggio di tornarci. Sapeva che rivedere Michele in quelle condizioni avrebbe fatto crollare in un secondo tutto il suo castello di carte fatto di cose da fare per tenersi impegnato e illudersi di stare andando avanti.
«Qualcuno viene a trovarlo?»
«Thomas viene spesso. Arturo non riesce a guardarlo per più di trenta secondi. Tanti miei deputati passano a lasciare dei fiori. Non ho più visto quelli del suo circolo, ma ogni giorno mi chiamano per avere notizie».
«Fammi sapere se ci sono novità» borbottò congedandosi, sapendo che tanto il giorno dopo avrebbe bussato di nuovo per fare le stesse domande.
 
 
*
 
 
Si svegliò nella penombra, una penombra che però era insolitamente accogliente. Il freddo, che era stato un suo fedele compagno in quelle settimane, lentamente stava andando via, sostituito dal calore che il sangue gli portava in ogni angolo del corpo. Sentiva addirittura il suo stesso battito accelerare piano e i muscoli riprendere poco a poco la sensibilità perduta.
Cercò di alzarsi in piedi, riprendendo possesso delle proprie gambe. Trovò una bottiglia d’acqua con dei bicchieri sul tavolo lì vicino, ma il solo avvinarsi gli causò una fatica enorme, con i muscoli che
minacciavano di cedere da un momento all’altro sotto il suo stesso peso.
Si sedette, sforzandosi di ricordare qualcosa.
Doveva andare a testimoniare, quel giorno. Ma sì, c’era andato! Aveva parlato per più di due ore con i magistrati! E poi? Chiuse gli occhi, cercando di rivivere la giornata, ma non ci riuscì.
Doveva essere successo qualcosa. Per quale motivo il suo corpo era pieno di fasciature? E perché si sentiva così indolenzito?
Il suo ultimo pensiero prima del buio totale era stato per Nicolò. Giusto, doveva andare da Nicolò a dirgli che aveva testimoniato, che era innocente. Non poteva più aspettare. Anche se avesse incontrato il suo coinquilino, Iannello, avrebbe trovato un modo per mettersi in contatto con lui.
Con una fatica enorme si staccò dalla sedia, cercando per la camera i suoi vestiti. Li trovò tutti dentro un sacchetto dove non ricordava di averli mai messi, perfettamente puliti e in ordine.
Impiegò un po’ di tempo a infilarsi un paio di jeans e una maglietta, accorgendosi di stare compiendo enormi sforzi anche solo per le operazioni più elementari.
Poi, con estrema lentezza, percorse il corridoio alla ricerca
dell’uscita. Evitò di incrociare gli infermieri, doveva essere piena notte e con ogni probabilità nessuno gli avrebbe permesso di uscire a quell’ora.
Una volta fuori, fermò il primo taxi che vide passare per strada, per poi accorgersi il momento dopo di non avere dietro il portafoglio.
«Mi scusi, non ho contanti dietro in questo momento. Sono Michele Martino di Sinistra Democratica, sono un parlamentare… le farò un bonifico domani stesso».
«Martino? Ma certo, so chi è lei. Si è ripreso?»
«Sì... sì, credo di sì».
«In tal caso non deve preoccuparsi, per me è un grande onore offrirle la corsa!»
Michele osservò le strade mezze vuote di Roma, con uno strano senso di nostalgia. Sembrava fosse passato troppo tempo da quando le percorreva a piedi, quando ancora non c’era nessuno che lo riconoscesse per strada o che lo contestasse.
Scese in via Merulana, ricordandosi solo vagamente a che altezza stava la casa di Andreani. Si sentiva spossato, come se avesse fatto un’enorme fatica, e mentre camminava sentiva i dolori risvegliarsi in ogni parte del corpo, ma si impose di non ascoltarli.
Trovò il campanello giusto e suonò, un po’ vergognandosi per l’ora tarda. Forse avrebbe aperto Iannello e lo avrebbe cacciato via. Con che coraggio si presentava di punto in bianco a casa loro, poi?
Udì una voce familiare al di là della porta.
«Giò, ma le chiavi non le hai?»
Michele non rispose, sentendo il cuore accelerare nel petto per la paura di trovarsi faccia a faccia con lui. Non se lo aspettava per davvero, era convinto che fosse ancora fuori Roma.
La porta si aprì e Nicolò gli comparve davanti, completamente sveglio e vigile ma con un aspetto diametralmente diverso rispetto all’ultima volta che lo aveva visto. Le guance erano più scavate, il viso sciupato, i capelli ricadevano scomposti attorno al viso e i suoi occhi erano privi della loro solita lucentezza.
«Senti… lo so che non è l’ora, ma ho bisogno di parlarti» mormorò, cercando di imprimere nella voce una certa decisione.
Nicolò si irrigidì. Sgranò gli occhi e lo squadrò da capo a piedi. Aprì bocca, ma non pronunciò alcun suono.
«Oggi sono andato a testimoniare. Ho detto tutto ciò che sapevo sulla mia famiglia. Non posso fare altro per dimostrarti che non c’entro niente con loro. Quei voti non so davvero da dove siano saltati fuori, quando sono stato eletto anche io ne sono rimasto sorpreso. Dopo la minaccia che mi hanno fatto al telefono sono andato a denunciarli e mi hanno aggredito. Non vogliono che testimoni, ma io l’ho fatto lo stesso. Non ho intenzione di fermarmi, perché so che sto facendo la cosa giusta. Ho bisogno solo che tu mi creda, per quanto ti sembri assurda tutta questa storia. Guardami negli occhi, non mi sto inventando niente».
Aveva cercato di sembrare convinto, ma la sua stessa voce faceva una gran fatica ad uscire. Cercò un qualsiasi appiglio dentro quegli occhi verdi, ma per una volta l’espressione di Nicolò era indecifrabile. Lo vide scuotere la testa e indietreggiare di qualche passo, mentre ansimava in modo incontrollato.
«Sto sognando, vero? Non puoi essere davvero tu…»
Michele avanzò cautamente, non riuscendo a comprendere la sua confusione. Gli prese con delicatezza una spalla, sperando che non si sottraesse.
«Per favore, credimi. Io posso andare avanti e combattere, non ho paura, ma la tua fiducia per me è importante».
La mano di Nicolò si strinse forte intorno alla sua, quasi stritolandola, mentre continuava ostinatamente a fissarlo con gli occhi sgranati.
«Così però mi fai male…» si lamentò Michele sottovoce.
Fu a quel punto che, all’improvviso, si ritrovò circondato dalle sue braccia. All’inizio con una stretta esitante, come se Nicolò avesse paura a toccarlo, ma che poi lentamente si trasformò in una stretta forte e decisa. Michele restò immobile, abbastanza sconcertato per quell’atteggiamento che non apparteneva sicuramente a Nicolò.
Stupore che aumentò esponenzialmente quando si accorse che stava piangendo.
Nicolò Andreani stava piangendo. Davanti a lui, per la prima volta. Stava anche dicendo qualcosa, ma quelle parole erano mormorate così piano che Michele non riusciva ad afferrarle.
«Non è possibile… mi dispiace… mi dispiace…»
Sentiva il suo respiro ansimante per i singhiozzi, le sue lacrime che scendevano copiosamente una vicina all’altra bagnandogli la maglietta, la mano che graffiava la sua schiena per quanto lo stringeva forte.
«Nicolò? Che succede?»
Lui non rispose, continuando a stringerlo. Non lo aveva mai visto così sconvolto, e in quel momento non sapeva nemmeno come comportarsi, troppo sconcertato nel vedere un uomo che aveva sempre considerato il più forte e temerario di tutti piangere in quel modo.
Ci volle un bel po’ prima che Nicolò riprendesse il controllo di sé.
«Tu… tu non sai niente? Ma che… aspetta, che ci fai qui?»
«Dovevo parlarti-»
«Ma sei completamente impazzito? Uscire a quest’ora, da solo, dopo quello che ti è successo? Chi è stato ad autorizzarti? Mi sentiranno quei deficienti dei dottori, altro che ospedale d’eccellenza!»
Michele continuò a non afferrare il discorso.
«Ma di che stai parlando?»
«Sei stato in coma, Michele. Per quasi tre settimane. Sembrava che…»
Nico non riuscì a finire la frase. Si coprì gli occhi con una mano, impedendosi di mostrare altre lacrime, poi si accasciò sulle ginocchia. A Michele la notizia arrivò dritta come un pugno nello stomaco.
Tre settimane?
«Io… cosa?»
E poi, all’improvviso, arrivò. Il ricordo fulmineo di una macchina scura che gli piombava addosso, lui che per un secondo aveva sentito la vita scivolargli via…
Tutto iniziò a farsi più confuso. Si premette le mani sulle tempie, vide la propria vista annebbiarsi e sentì di stare cadendo a terra, come se le gambe non riuscissero più a sopportare il suo peso.
«Ehi!»
Nicolò lo afferrò prontamente. Iniziò a gridare sempre più forte, e Michele avrebbe tanto voluto dirgli che lo sentiva, che ora stava bene, ma per qualche motivo non ci riusciva.
«Andrà tutto bene! Tranquillo, ti riporto in ospedale. Adesso andrà tutto bene, ci sono io…»
Michele gli strinse debolmente il braccio, per fargli capire che aveva capito, che era tranquillo, perché ora non era più da solo.
 
 
*
 
 
Nell’ufficio di Marchesi non volava una mosca. Intorno al tavolo c’erano lui, Pasqui e Goffredo Ranieri. Tutti e tre si guardavano in silenzio.
«Maledizione!» sbottò Goffredo ad un certo punto «Tutto questo guaio perché quel bastardo ha parlato, e adesso noi siamo nella merda!»
Riccardo non parlò. Stava osservando il suo avviso di garanzia quasi con curiosità. Poteva essere l’inizio dei suoi guai veri, la fine stessa dell’esperienza di Sinistra Democratica, ed era tutto racchiuso in un semplice foglio.
«Ricorrerò ad ogni mezzo per fermare questa faccenda. Non permetterò a nessuno di fermarci» mormorò Pasqui deciso.
Il segretario di SD, però, non aveva intenzione di stare ad ascoltare le posizioni strategiche dei due colleghi. La sua attenzione era tutta rivolta verso la nuova alba che si faceva spazio nel cielo nero.
Iniziò a contare i giorni in cui aveva assistito all’alba dal suo ufficio, dalla sede del suo partito o dalla finestra di camera sua, e si accorse con sconcertante sorpresa che quella debole luce che racchiudeva la promessa di un nuovo giorno non provocava in lui più alcuna emozione.

 
   
 
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