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Autore: Lost In Donbass    30/09/2016    5 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO QUATTORDICI: ALIEN
Save me with your love tonight
Come and bring me back to life
Save me with your light tonight
You can make the darkness shine
Alien …
 
Bill era felice, in quel momento. Felice di una felicità che non aveva mai conosciuto, non quella futile e superficiale di quando tornava a casa con un nuovo paio di stivali col tacco quadrato neri e argento o con una nuova maglia firmata, non quella vittoriosa e altezzosa di quando otteneva i suoi soliti voti stratosfericamente alti e nemmeno quella tranquilla e frizzante di quando stava con le sue amiche. No, quella era una felicità nuova, più viscerale, potente e totalizzante, che lo riempiva completamente dalla punta dei piedi alle punte bianche dei capelli sparati. Era quella felicità estranea, effervescente come champagne e elettrica come una foresta di lampi che precipitavano sul mare in tempesta. Una felicità che poteva sembrare strana, fatta di un sorriso ebete e di una serie di battiti accelerati nella sua cassa toracica, piena e splendente come una stella che aveva cominciato a colorare la sua triste e grigiastra vita. Ci era voluto così poco a trovare la vera felicità, pensava, mentre se ne stava seduto sull’erba verde smeraldo acciambellato accanto a Tom. Il suo sogno di qualche tempo prima sembrava che si stesse avverando: eccoli lì, accoccolati sul prato, con la chitarra lì accanto insieme al libro di  filosofia del ‘900 da studiare per la verifica, impegnati a imboccarsi a vicenda di gelato alla pesca e darsi qualche bacino a stampo, ridacchiando per cose che normalmente non li avrebbero mai fatti ridere.
-E ora, continuiamo a studiare filosofia!- Bill si scostò di colpo dall’abbraccio del rasta, con una risatina, afferrando il grosso libro che li aspettava.
Tom si strozzò col gelato e cominciò a tossire
-Ma scherzi?! Dai, Bill … abbiamo già studiato prima.- lo avvolse in un abbraccio tentacolare, tentando di rubargli qualche bacio – Non puoi costringermi a …
-Shh!- Bill sfuggì ridacchiando all’abbraccio, e gli mise un dito sulle labbra – Adesso si studia, pasticcino alla vaniglia.
Il rasta alzò gli occhi al cielo, buttandosi a peso morto sull’erba e ricevendo immediatamente una librata sulla testa seguita da una delle meravigliose risate argentine che solamente Bill poteva produrre. Gli piaceva sentirlo ridere in quel modo, così spensierato e allegro come se fosse un normalissimo diciottenne alle prese con la vita di tutti i giorni e non dovesse lottare giorno per giorno con una malattia che lo stava divorando. Gli piaceva vederlo sorridere sinceramente, senza quella patina di viscida antipatia che lo aveva caratterizzato fino al momento della loro pace e del loro amore sancito in quella stanza da letto gelida e asettica. Gli piaceva coccolarselo davanti a tutti e venire guardato da quei grandi occhi troppo truccati e troppo adoranti verso la sua scanzonata persona, di come era già una settimana che erano rinati dalle loro ceneri e che si erano uniti in una storia fatta sì di punk e stoner rock, con le loro divergenti e potenti personalità sempre messe a contatto, ma anche di ballad metal e new wave, che si prendevano il loro tempo per avvicinare le loro infiammate anime e spegnerle uno con l’altro. Gli piaceva addormentarsi con il solito messaggio “Buonanotte amore, mi manchi”, solo che ora gli rispondeva “Anche tu mi manchi, Bill, e smettila di studiare!” perché lo sapeva che per Bill studiare era un’ossessione compulsiva. Gli piaceva arrivare a scuola con la sua aria strafottente e divina, la sigaretta appesa all’angolo della bocca e lo skateboard sotto braccio e vedere sbarcare Bill dalla Suzuki di Ria, come prima, e vederlo arrivare ancheggiando, senza degnare nessuno di uno sguardo, il suo charme aristocratico e viziato, tutto uguale a quando erano nemici giurati, con l’unica sostanziale differenza che ora si baciavano in cortile davanti all’attonita popolazione della Schiller e si avviavano a braccetto in mezzo alla folla che si apriva come le acque al loro passaggio. Gli piaceva andare al parco come quel giorno, a studiare insieme e a limonare abbondantemente sotto la Grande Quercia, o andare dalle fabbriche in disuso ad andare sullo skate e vederlo scrivere le sue storie in mezzo ai tossici, per poi fare qualche graffito insieme con le loro iniziali intrecciate. Gli piaceva andare a suonare per le strade sapendo che suonava per una persona sola, che quelle canzoni d’amore che inaspettatamente si riversavano fuori dalle sue mani e dalla sua chitarra erano rivolte a Bill. Gli piaceva sapere che Bill era vivo e che stava vivendo la loro storia come il sogno della sua travagliata esistenza.
-Facciamo così, Tom.- Bill gli si sedette a cavalcioni sulla pancia, sogghignando – Ora ti interrogo, e ogni risposta giusta che mi darai ti varrà un bacio.
-Mi interroghi standomi seduto sulla pancia?- Tom rise, guardando nel profondo di quegli occhi meravigliosi la gioia che voleva esserci letta.
-Così non mi scappi.- Bill si fregò le lunghe mani, cominciando a sfogliare il libro – Ecco qui: dimmi che cos’è lo Zeitgeist.
-E’ come dire tutto l’insieme delle idee e di un’atmosfera che tutto sommato crea lo spirito di una certa epoca.- ripeté Tom, grattandosi la testa – Dai, è giusto. Ho vinto un bacio.
-Uhm … - Bill si abbassò quel tanto per far sfiorare le rispettive labbra e si staccò di scatto, facendo imprecare Tom di disappunto.
-Vaffanculo, Bill! È giusto!
-Sì, pasticcino, è giusto ma non è abbastanza. Devi essere più … prolisso.
-Cos’è che devo essere? Pro cosa?- Tom lo guardò sfarfallando gli occhi, e si beccò un buffetto sulla testa e una risatina
-Prolisso, Tom! Ero ironico comunque; la persona prolissa è una persona che non arriva mai al punto del discorso, che ci gira intorno. Tu sei stringato all’inverosimile!
Il rasta sbuffò e con un colpo di reni rovesciò il moro sul prato, schiacciandolo sotto al suo peso
-Ah sì? E allora vediamo signorina so tutto io. Chi è l’esistenzialista più famoso?
-Jean-Paul Sartre, che oltretutto era pure l’amante di Simone de Beauvoir.- disse immediatamente Bill – Amore, fai delle domande facili.
-Vaffanculo, Bill.- ripeté Tom, ricadendogli al fianco con uno sbuffo – Non vale!
-Sì che vale, pasticcino.- Bill sorrise e si allungò per stampargli un sonoro bacio sulle labbra – E ora continuiamo con filosofia!
 
Tom e Bill erano seduti uno accanto all’altro sulle scale di marmo che, dal ponte, scendevano sul fiume largo e placido che scorreva limaccioso sotto di loro. Se ne stavano così, in silenzio, a guardare il tramonto che tingeva di scarlatto le acque verde petrolio, rimandando deliziosi bagliori dorati sulle loro pelli pallide. Bill se ne stava accoccolato accanto a Tom, sospirando rumorosamente. Era così meraviglioso poter vivere finalmente un momento così con il ragazzo a cui aveva deciso di donare la sua breve vita. Probabilmente, quella era stata la settimana più bella che avesse mai vissuto, passata tra le braccia del rasta, conscio di essersi finalmente donato anima e corpo a una persona che lo aveva accettato, adorato, amato così come era, tappando tutti i buchi della sua adolescenza e infanzia disastrate. Oramai si era completamente appoggiato a lui, e sapeva che se davvero fosse successo qualcosa che li avesse allontanati, che fosse stato Tom ad andarsene o qualcuno a separarli, allora per lui sarebbe stata la fine, e quella volta non per scherzo, sarebbe morto di consunzione nel giro di nulla. Lui viveva perché viveva il rasta, respirava perché lui respirava. Bastava distanziarli e sapeva che nulla l’avrebbe più salvato dal baratro che lo aspettava a fauci spalancate. Strofinò il nasino nel collo caldo di Tom, sentendo qualche nota uscire dalla chitarra che il ragazzo aveva imbracciato. In realtà, lui non aveva mai lo mai davvero sentito suonare per lui. Che domande, lo sapeva che suonava per le strade, una volta, quando si odiavano ancora, si era perfino appostato in un angolo solo per sentirlo, ma non gli aveva mai chiesto di suonargli una canzone. Non se l’era mai sentita, in fondo, di obbligarlo a suonare.
Tom si girò verso di lui, la chitarra imbracciata e gli chiese, con un tono imbarazzato e incerto che non gli aveva mai visto addosso
-Ehm … Bill, qual è la tua canzone preferita?
Bill sfarfallò i grandi occhi truccatissimi, atteggiando la boccuccia in una smorfia interrogativamente dolce
-La mia canzone preferita? Non saprei … credo … “My happy ending”, quella di Avril Lavigne, oppure “Letterbomb” dei Green Day, o “Leuchtturm”, quella di Nena, o “Lorelei”, degli Scorpions … non so, Tom, è una domanda difficile! Perché?
Tom si grattò i dread e cominciò a suonare qualche accordo, arrossendo, sotto lo sguardo incuriosito di Bill da sotto le lunghe ciglia ricoperte di mascara.
Non che si vergognasse propriamente a suonare di fronte a Bill, il suo Bill, che dio, era diventato così strano poter dire davanti a tutti “Ehi, tu, questo è il mio ragazzo, non provare a guardarlo così, cerchi rogne?” e le risatine soffocate del moro che ne conseguivano, solamente che … si sentiva inaspettatamente inadeguato. Lui, Tom Kaulitz, il perfetto, eroico, scanzonato Tom Kaulitz che si sentiva inadeguato di fronte a qualcuno! Un fatto di portata epocale la cui colpa era solo ed esclusivamente di Bill. Sì, Bill, che lo faceva sentire un bambino, che lo obbligava a rendere conto a qualcuno delle sue azioni, che lo costringeva a ragionare e a non buttarsi alla cieca, che lo teneva per il collare e non lo lasciava andare ma anzi, stringeva il morso sempre di più. E inaspettatamente, questo a Tom piaceva da morire. Gli piaceva essere vittima costante delle sue attenzioni, tenersi a vicenda in piedi come se in fondo fossero davvero dipendenti. Cosa avrebbero fatto senza l’altro? Come sarebbero potuti sopravvivere senza conoscersi? Incarnavano la teoria degli opposti di Eraclito alla perfezione. Non potevano vivere senza dipendere come dei tossici agli ultimi stadi, drogati dei rispettivi esseri fino alla morte. Erano i motociclisti fantasma, poche storie, la loro moto oramai era partita a solcare i ciechi infiammati di un inverno bruciato dalle luci delle strade e di un’estate congelata dall’amore a senso unico, stavano cavalcando la luna, e pugnalando il sole, stavano ammazzando la sanità mentale e stavano sposando la follia, stavano assoggettando le città al loro volere e stavano comandando gli oceani, stavano scombinando un mondo già scombinato di suo, sbattendoselo come preferivano, governandolo con violenza come fosse un impero romano decadente e terribile, ricco da far schifo, ubriaco di sogni irrealizzabili e speranze senza sbocco reale. Erano i padroni del mondo, se ne rendevano conto. I bambini che ci giocavano a palla. Gli uomini che se lo giocavano con una partita di poker. Gli adolescenti che se lo fottevano con un drink di troppo e una limonata con la persona sbagliata.
Si mordicchiò il piercing all’angolo del labbro, continuando ad accennare qualche timida nota dell’unica canzone di Avril Lavigne che conosceva abbastanza bene da potersi permettere una cover, anche se non era My Happy Ending e forse la stava decisamente violentando. Osservò da sotto le ciglia il viso di Bill piegato in una smorfia incantata che era uno spettacolo per la vista. Qualcosa a cui le stelle si sarebbero dovute inchinare. Forte di quel sorriso dolcemente ebete e dello sguardo perso sulle sue dita, si fece un po’ più di coraggio a continuare la canzone, cominciando ad aumentare un po’ il ritmo del suono e a guardare il viso di Bill mutato in una smorfia persa nel vuoto, appoggiato a lui, il libro di filosofia caduto mollemente sul prato, abbandonato al suo destino. Fu proprio in quel momento che Tom si stupì non poco di udire, accanto al suo orecchio, la voce perfetta di Bill, melodiosa e leggiadra, forte ma sempre dolce, seguire i suoi accordi
-I like your smile, I like your vibe, I like your style … but that’s not why I love you
Tom sfarfallò gli occhi e guardo Bill, gli occhi fissi dentro i suoi, la bocca che emetteva un delicato pigolio che erano i versi della canzone, le guance ricoperte da uno spesso strato di trucco vagamente rosee. Il rasta annuì, sorridendogli incoraggiante, cercando di estraniarsi dal casino della città e di concentrarsi più che poteva sulla melodia di quella stupida canzone che passavano alla radio.
-And I, I like the way you’re such a star, but that’s not why I love you!
Bill alzò lo sguardo su di lui, aumentando un po’ il volume della voce, come facendosi coraggio di vedere che sì, stava succedendo davvero come nei sogni notturni che prima popolavano le notti di Tom. Lui e Bill erano lì, seduti per terra sulle scale che scendevano al fiume a fare una cover di una canzone di Avril Lavigne come se non gliene importasse niente, assolutamente a caso, senza chiedere soldi o gente che li ascoltasse, pronti a suonare per loro stessi e per le loro anime distrutte.
-Hey, do you feel, do you feel me, do you feel what I feel too, do you need, do you need me, do you need me?
Si guardarono ancora, mentre Tom cominciava a darci sul serio dentro con  quella chitarra e Bill ad alzare davvero la voce per farsi sentire dai passanti, per sputare loro in faccia che sì, erano loro due che si amavano e che avevano affrontato roba indicibile per stare insieme come nei suoi sogni. Cominciò a cantare la canzone della sua cantante preferita con molto più trasporto, guardando Tom, sapendo che in fondo quella canzone era perfetta per loro due. Erano loro, in quelle parole.
-You’re so beautiful, but that’s not why I love you, I’m not sure you know that the reason I love you is you being you, just you, yeah, the reason I love you is all that we’ve been trough and that’s why I love you!
Due persone si erano fermate a guardarli, dall’altro lato della strada, osservandoli con un sorriso sulle labbra, parlottando tra loro. Sì, erano consci che forse non erano proprio quello che dovrebbe trovarsi al fiume, un mezzo trans e un rasta che tirano su una cover molto improvvisata di una canzone pop come c’è n’è a milioni, ma non gliene importava nulla. Lo facevano per loro stessi, un tacito patto d’amore, quello di buttarsi nella mischia a fare quello che poi in fondo Tom era abituato a fare, mettersi per strada per far vedere al mondo che lui non si era arreso, che era sempre lì a farsi valere. Voleva insegnarlo a Bill, a lasciarsi andare, a buttarsi tutto alle spalle e fare cazzate come quella, a soffocare tutti i suoi demoni e vivere senza pensare al dopo.
-I like the way, you misbehave when we get wasted, but that’s not why I love you, and how you keep your cool, when I’m complicated, but that’s not why I love you!
Ora Bill stava letteralmente strillando, con quella voce da usignolo che riempiva Tom da ogni parte, che lo faceva sentire complete e perfetto, quel tono che solamente Bill poteva produrre e in cui solamente Tom poteva trovare sé stesso. Erano felici, in quel momento, seduti per terra in un freddo dicembre, stretti uno all’altro, i sorrisi sulle labbra, una risata segreta nei loro cuori che tutti potevano udire ma a cui nessuno poteva partecipare perché quella era la loro risata, fatta di tutto ciò che li aveva distrutti. La risata segreta di due sovrani che si erano uccisi e ora brindavano insieme nel Valalla dei morti in battaglia, cantando. Continuarono così, con il ritornello, buttandoci loro stessi dentro a quelle parole, spingendo tutti i loro sentimenti, il loro orgoglio rocker, la loro rabbia, il loro amore travolgente e disperato, le loro lacrime perse, le loro risate ritrovate, i loro sogni, la loro innocenza forse mai perduta e la loro fine forse ancora lontana o forse già oltrepassata. Non si resero nemmeno conto che quando Bill finì di strillare
-Even though we didn’t make it through, I’m always here for you … you … you’re so beautiful but that’s not why I love you, I’m not sure you know that the reason I love you is you being you, just you, yeah the reason I love is all that we’ve been through and that’s why I love you … that’s why I love you …
un folto capannello di curiosi si era riunito attorno a loro, tra vecchiette che gli lanciarono qualche monetina, persone che si limitarono ad applaudire, bambini che ridacchiavano tra di loro a vedere la faccia imbarazzata di Bill, rosso in faccia di allegria e quella infantilmente allegra di Tom che, anche se sapeva che forse non era proprio una mossa intelligente, lo afferrò per il retro del collo da cigno e lo baciò così, davanti a tutti, senza peli sulla lingua. Rimaneva sempre una storia d’amore punk, dopotutto. Dove ce se ne fregava di tutto e si viveva i propri diciotto anni come se non ci fosse un domani, perché forse Bill non ce l’avrebbe avuto un domani. E Tom voleva che potesse vivere ogni giorno come se fosse il migliore della sua vita.
 
Quando Bill rientrò in casa, non era molto stabile sulle gambe e gli girava la testa, ma sicuramente si sentiva completo come mai prima d’allora. Il solo aver cantato “I Love You” davanti a tutti, in perfetta coppia con Tom era valso tutti i suoi anni di vita. Non riusciva ancora a capacitarsi di come avessero potuto essere così perfetti assieme senza che avessero nemmeno mai provato a fare un duetto. Eppure era stato tutto così spontaneo da averlo sconvolto, lui, che aveva sempre tutto sotto controllo e che non faceva nulla che non fosse stato già deciso, si era trovato in una situazione così surreale da farlo quasi temere di stare sognando e di svegliarsi sul più bello nel suo letto grande e vuoto. Ma non si era svegliato da nulla, era rimasto ancorato a quel sogno speciale dove loro due potevano fare finta di vivere allegramente la loro giovinezza senza catene di nessun genere. Sorrise tra sé e sé, saltellando in camera sua, ripensando al rasta che lo aveva accompagnato fino a casa e gli aveva rivolto uno di quei suoi sorrisi che lo avrebbero sempre sciolto come cera al sole, e poi di quando aveva atteso a metà della porta che svoltasse l’angolo della strada, trovandosi a fissarlo mentre scivolava rapidamente sullo skate e saettava in mezzo ai pochi passanti, la coda di dread che frustava l’aria, i soliti vestiti sformati che si gonfiavano col vento della pianura che si era alzato, la chitarra appesa alla schiena, quel movimento sensuale e volgare che era tutto il suo essere, perché in fondo Tom era proprio quello, un buffo connubio di eccitante mascolinità e di inguaribile popolana infantilità. Lo amava per quello, e non avrebbe mai smesso di credere che in fondo erano fatti per stare insieme, per odiarsi da quanto si amavano, per venerarsi da quanto si invidiavano. Si era ritrovato a guardare il cielo grigio di Magdeburgo, il tramonto già morto e la nebbia umida che non se ne andava mai e per una volta scoppiò a ridere anche in faccia alla città che non poteva soffrire. Era in pace, e niente avrebbe potuto smontarlo, a quel momento. Sì, nulla effettivamente, se non la voce fastidiosa di Monica che lo gelò sulle scale
-Bill, vieni giù un attimo.
-Cosa vuoi? Devo finire di ripassare filosofia!- strillò di rimando, affacciandosi dalla balaustra di marmo bianco, guardando sua sorella palesarsi nell’ingresso e guardarlo con il suo solito e inguaribile odio. C’era solo una cosa che stonava: ghignava.
-Ci sono novità importanti, scendi!
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, massaggiandosi le tempie e scese in salotto, dove trovò la sua implacabile madre seduta in poltrona come la matrona dei tempi che furono, affiancata da Monica, gelida e silente come al solito. Sbuffò, lasciandosi cadere sul divano, resistendo all’impulso di accendersi una sigaretta per distendere i nervi già improvvisamente tesi come corde di violino. Cercò di scacciare l’agitazione guardandosi con finta noncuranza le lunghe unghie smaltate di nero, studiando i pesanti anelli che gli decoravano le belle dita.
-Che c’è? Riunione di famiglia?
-Bill, potresti guardarmi in faccia, per piacere.- non era un invito, era un ordine, il moro lo sapeva bene e sapeva anche che non era mai stato in grado di reggere lo sguardo calcolatore e freddo di sua madre. Si limitò ad alzare gli occhi, facendoli vagare sul viso severo e raggelato della donna, inquieto dentro l’animo più di quanto lo fosse stato per il suo ultimo ricovero in ospedale. C’era solo un motivo se sua mamma aveva deciso di parlargli, e sicuramente non era una bella notizia. – Ho delle novità per te.
-Andiamo alle Barbados per Natale?- Bill tentò di fare una delle sue solite pungenti e amare ironie, quelle solite battutine a cui tutte ridacchiavano ma di cui tutte potevano cogliere l’amara acidità che si nascondeva sotto il sarcasmo ferito che si trascinava dietro e che aveva eretto come protezione – Sia chiaro, se fa troppo caldo io non mi voglio scottare, e sicuramente ci portiamo dietro Tom.
-Smettila di fare l’idiota.- lo congelò Monica, guardandolo storto – E’ una cosa seria.
-Ti levi dalle palle una volta per tutte?- Bill non era mai riuscito a tenere davvero testa a sua madre e a sua sorella maggiore.
-Bill, andrai a Berlino.- la signora Kaulitz fissò il figlio con un certo astio, non sembrando avere alcuna reazione quando il ragazzo boccheggiò e spalancò i grandi occhi scuri, sfarfallando ripetutamente le ciglia.
-A Berlino?- Bill non poteva credere alle proprie orecchie, gli sembrava che fosse tutto un buffo sogno che superava i limiti dell’assurdo – Fantastico! Mi date l’appartamento in centro? Monica, prestami la tua Porsche. Ovviamente, verrà anche Tom con me, è superfluo dirlo. Ci possiamo stare tutte le vacanze di Natale?
Bill sapeva da solo che sicuramente una cosa del genere doveva per forza contenere la fregatura, e quindi tentò di sdrammatizzarla come meglio poteva, costruendosi uno dei suoi ennesimi castelli di carte che venivano smontati con un soffio di tramontana, rifugiandosi dentro le stanze più nascoste dalle regine di picche e di cuori, confondendosi con quell’asso di denari e facendosi proteggere dal quel sette di fiori che non serviva mai a nessuno.
-Non hai afferrato il concetto, Bill.- sua madre si liscò la castigata gonna del tailleur,  nemmeno l’ombra di risentimento nelle sue parole affilate come un coltello che gli ricordarono così tanto il momento tragico di quando gli aveva fatto a pezzi la sua prima storia, perché “Sei un Kaulitz, Bill. Sei nato per vincere e per spezzare tutti al tuo passaggio. Non sei nato per fare lo scribacchino”. – Tu non andrai in nessun appartamento, con nessuna macchina e soprattutto con nessuna persona. Sicuramente, poi, non con quel ragazzo che frequenti.
Bill non fece in tempo a controbattere, che sua madre fu rapida ad alzarsi e a lasciargli sulle gambe un opuscolo bianco latte, cominciando ad avviarsi verso la porta con quei suoi tacchetti che risuonavano oscuri sul pavimento di graniglia immacolato, seguita a ruota da Monica, esattamente come quella tragica volta di dodici anni prima. Il moro sfarfallò gli occhi, abbassando lo sguardo sull’opuscolo che aveva in grembo, e gli bastò solo vedere il titolo per soffocare un urlo e sentire il suo già debolissimo cuore perdere un battito. Quella era la pubblicità di una clinica privata per malati terminali, asettica come casa sua, perfettamente progettata per togliere quella poca voglia di vita ai moribondi e ricchissimi personaggi che vi finivano dentro come lui. Incredulo e incapace di capacitarsi di quello che si mostrava sotto ai suoi occhi, boccheggiò. Gli sembrava di essere appena precipitato in un incubo orrendo che non sembrava avere fine; anche tutti quei momenti meravigliosi che Tom gli aveva donato sembravano parte di quel diabolico gioco per tirarlo su di morale per poi farlo cadere ancora più giù e ucciderlo dentro fino a strappargli il cuore. Di nuovo, qualche strana divinità a lui avversa aveva cominciato a lavorare sodo per distruggergli la felicità, a farlo ritornare Bill, il ragazzo malato che soffriva dolori indicibili nell’anima e che voleva solo essere amato. Ora che sembrava che l’amore fosse finalmente arrivato anche da lui, si presentava un altro incubo a portargli via il sorriso che così raramente gli decorava le belle labbra piene, a divorarlo e a lasciarlo nuovamente inerme e incapace di combattere una guerra di logoramento che, lo sapeva, era già persa ancora prima di iniziarla.
Boccheggiò, sentendo antipatiche lacrime cominciare a inumidirgli gli occhi e scivolare come perle lungo le guance pallide, mentre rapidamente sfogliava quel documento in cui c’era scritta la sua condanna a morte, praticamente firmata col suo nome, il diavolo pronto a divorargli l’anima, il suo Dottor Faust personale, il giuramento di morire prima di quando avrebbe dovuto, e l’unica cosa che riuscì a fare prima di scoppiare in una vera e propria crisi isterica fu afferrare il cellulare e chiamare l’unica persona che era abbastanza matta da poterlo strappare all’incubo che aveva preso vita di fronte a lui, la cosa che più aveva temuto fino ad allora. Attese tremando e piangendo che la voce dicesse, allegra e solare come al solito
-Ehi, piccolo! Cosa c’è, senti già la mia mancanza?
Dovette fare uno sforzo immane per non mettersi a urlare
-Tom, ti prego, vieni subito.
-Bill, sei sicuro di sentirti bene?- la voce del rasta aveva assunto una nota preoccupata che quasi fece ridere istericamente il moro. Sicuro, come no.
-Per favore, sono nei guai io … devi venire … ti scongiuro …
-Ma sì, arrivo, aspettami, vengo, che diamine ti è successo?! Sei in ospedale?
Adorava quella nota preoccupata che non riusciva mai a dissimulare, quanto invece odiava il suo classico pianto isterico che non riuscì ad arginare e che si riversò con tutta la sua potenza nel cellulare
-Tom, sono finito, vieni a casa mia, subito!
-Ti ho detto di calmarti, cos’è successo?! Ti senti male?
Bill prese un profondo respiro, prima di accasciarsi al suolo in ginocchio, assurdamente davanti alla foto dei suoi genitori e di Monica felici, quando lui non era ancora nato, il pianto che gli spezzava la voce nel petto
-Una clinica. Mi vogliono portare in una clinica privata per malati terminali.
 
  
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