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Autore: rossella0806    01/10/2016    2 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Spesso è la tenacia, non il talento, che governa il mondo.

                                                            (Julia Cameron, giornalista, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica americana, 1948)




Due settimane dopo il mio risveglio, mi stavo lentamente riprendendo.
Ero stata trasferita in Neurochirurgia, dove condividevo la camera con una sessantenne isterica, che non faceva altro che tiranneggiare il povero malcapitato del marito.
Lei era una donna minuta, la carnagione lattea e ricca di efelidi, ma vantava un tono di voce incredibilmente acuto: era logorroica fino allo sfinimento, mentre il consorte era alto e timido, occhialuto, la testa brizzolata e mezza calva che ricordava un uovo.
Quel giorno diluviava ed io ero profondamente delusa di me stessa e dei miei non progressi: come ogni mattina e pomeriggio, infatti, erano venute la logopedista, la dottoressa Mazza -una donna di qualche anno più grande di me, i capelli biondi tagliati a caschetto e gli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali D&G- e le due fisioterapiste, Marzia e Simona, che godevano di un'immensa pazienza nei miei confronti, qualità che non ricambiavo minimamente.
Dal canto mio, quel paio di ore giornaliere -suddivise equamente tra le tre donne- non faceva altro che irritarmi.
Non riuscivo, infatti, a notare alcun minimo miglioramento, se non che la voce mi era ricomparsa quasi completamente, ma dal punto di vista muscolare era come se mi fossero rimasti solo ossa e tendini.
A riprova del mio sconforto, ad esempio, posso riportare un episodio davvero frustrante.
Marzia, qualche giorno prima, aveva cercato di rimettermi in piedi, convincendomi che ero pronta per quell’importante traguardo.
“Insomma” mi spronava “non puoi continuare a muoverti su questa dannata sedia a rotelle come se fossi una novantenne avvizzita!”
Ed io, mi lasciai fiduciosamente convincere, dicendomi che era lei l’esperta, e che facevo bene a fidarmi, che era quello che volevo anch’io.
Tuttavia, nonostante le fossi abbarbicata come l'edera su una parete di mattoni, l'intera stanza cominciò a girare vorticosamente, la vista mi si annebbiò, tanto che urlai di farmi sdraiare, di lasciarmi in pace, che ero stanca di quelle torture senza senso.
Perché non mi reggevo neppure in piedi? Perché mi trovavo chiusa lì dentro? Non riuscivo a rispondere ad alcuna di queste domande, tanto meno ricordavo che cosa fosse accaduto più di tre mesi prima, quando tutto aveva avuto inizio.
I medici, dal canto loro, si appellavano all'opportunità che la mia amnesia lacunare sarebbe lentamente svanita, permettendomi di far luce sugli avvenimenti misteriosi che mi avevano costretta a rimanere in coma, per mantenere in stand-by il mio cervello.
Tutti imputavano la mia debolezza all'evidente situazione di allettamento forzato a cui ero stata sottoposta: i muscoli di braccia e gambe, infatti, si erano in gran parte atrofizzati, per non parlare di quelli del collo, che quasi non mi permettevano di mantenere sollevato il capo per un minuto di fila.
A farmi compagnia, inoltre, ci pensava una continua e fastidiosissima tosse stizzosa, testimonianza di quanto i miei polmoni fossero ancora ristagnanti di secrezioni e poveri d'aria.
Avevo la pressione arteriosa sotto i piedi, tanto che, ormai, rinunciavo spesso a farmela rilevare quotidianamente, nonostante, alla fine, venissi puntualmente obbligata dalle infermiere.
La mia derivazione ventricolare, invece, stava decisamente bene, a tal punto che, entro fine settimana, l'avrebbero rimossa, almeno era ciò che mi aveva detto il dottor Cavani, il quale, per scrupolo, aveva deciso di tenerla in sede ancora un po’.
Anche i primi esami strumentali a cui ero stata sottoposta avevano dato esito molto soddisfacente: il mio cervello era in ottima forma, sicuramente migliore della sottoscritta, persino il liquor si stava man mano riassorbendo.
Se continuavo di questo passo, entro tre o quattro settimane sarei potuta ritornare a casa.
A patto che mi fossi rimessa in piedi da sola, ovviamente, e che fossi riuscita a compiere un tragitto accettabile di qualche decina di metri, senza sembrare un’ubriaca la notte di Capodanno.
Ritornando a quel pomeriggio di diluvio universale, i miei torturatori travestiti da giovani fisioterapiste erano finalmente andati via, lasciandomi sdraiata a mezzo busto sul mio ormai inseparabile letto elettronico.
Avevo il capo rivolto verso la finestra -il cui paesaggio era lo stesso del reparto in cui mi trovavo prima, ovvero uno scorcio del cortile interno dell'ospedale, spruzzato di abeti, pini e aiuole inzuppate d'acqua- quando avvertii dei passi sicuri entrare nella stanza.
Mi voltai istintivamente, notando che la porta era rimasta aperta.
La mia vicina di letto isterica era a passeggiare per il corridoio, in attesa di effettuare un esame radiologico di controllo, quindi non aspettavo nessuno, tanto più che all'orario di visita mancava ancora un'ora.
“E’ permesso? Ciao, Lara! Come è andata la seduta riabilitativa?”
Era lui, il dottor Cavani, splendido nella sua divisa verde di sala operatoria e con la barba perfettamente curata.
Quel giorno, ancora, non lo avevo visto, e la cosa un po’ mi dispiaceva.
Mi ero sentita trascurata, temevo di essere passata in secondo piano, ma capivo anche che doveva rispettare delle responsabilità da cui non poteva esimersi.
Cercai di sorridergli, spiegandogli che non ero stata brillante come avrei voluto, ma ci stavo lavorando.
“Ci vuole tempo, lo sai anche tu”
La comprensione che traspariva dalle sue parole, quasi mi indusse al pianto: non sarei mai più ritornata come prima, sarei rimasta invalida per sempre, senza poter camminare e muovermi in autonomia come una qualunque persona della mia età!
E se non mi fosse ritornata la memoria? Ricordavo a malapena i giorni precedenti il mio incidente, mentre l'unico punto fermo era rappresentato dalla mia famiglia e dai miei studi, che avevo dovuto abbandonare in maniera tanto brusca.
“Ehi, di nero voglio vedere solo questo cielo. Mi hai capita?”
Lui si avvicinò e mi sfiorò una guancia, abbozzando un sorriso di incoraggiamento.
Non volevo che mi vedesse così avvilita ed intristita, ma davvero non potevo farci nulla.
Sarà stata colpa di quel tempaccio, del rumore molesto della pioggia che ringhiava contro i vetri, o magari di quelle nubi oppressive che sembravano voler ingoiarmi, ma non riuscivo a partecipare a quella innocente conversazione.
“Se non hai voglia di parlare, ti lascio da sola. Ci vediamo domani mattina”
Lo lasciai andare passivamente, il capo rivolto dalla parte opposta, senza nemmeno ringraziarlo per la gentilezza che mi aveva dimostrato.
Non era tenuto a venire a trovarmi alle cinque del pomeriggio, dopo una giornata trascorsa ad aprire scatole craniche e a tamponare sangue, nessuno lo costringeva ad asciugare le mie lacrime, che tra l'altro avevo orgogliosamente trattenuto, nessuno gli imponeva di essere così disponibile ed affabile nei miei confronti.
In fondo, ero una tra le tante pazienti, una tra le centinaia che aveva incontrato e già dimenticato.
Eppure lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E io, forse, mi stavo innamorando …
Scacciai quel pensiero inaspettatamente piacevole e a dir poco stupido, recuperando dal cassetto del comodino bianco e azzurro l’iPod fucsia.
Mentre riflettevo che avrei dovuto cambiarlo perché quel colore era vergognosamente adolescenziale, vidi la mia immagine sfumata riflessa sullo schermo del piccolo apparecchio elettronico.
Un’infermiera mi aveva pesata, la settimana precedente, e così avevo scoperto che ero dimagrita di otto chili, l’unico risvolto positivo in tutta quella faccenda.
Il viso ovale era ancora emaciato, ma le guance non apparivano più incavate, come pochi giorni prima; mi sfiorai i capelli, quel mucchietto di ciuffi castano chiaro che ricordava la mia lunga e folta chioma, reprimendo un sospiro impotente.
La bocca, almeno quella, era sempre carnosa come un tempo, sopra cui si disegnava la fossetta che la divideva dal naso, l'elemento che maggiormente odiavo del mio volto: lo trovavo troppo grande, a patata, e avrei fatto una rinoplastica molto volentieri, ma decisi che quell’intervento avrebbe potuto aspettare un momento più propizio.
Infilai il filo delle cuffiette nell'apposito spazio circolare, e accesi il lettore musicale.
Chiusi gli occhi verdi, cominciando ad inspirare ed espirare come mi avevano insegnato Marzia e Simona.
Che non mi si venga a dire che non faccio gli esercizi, sdrammatizzai.
Insomma, stavo pur unendo l'utile al dilettevole, cercavo di convincermi, mentre speravo che la malinconia volasse via.
Ma l’unica cosa che svanì, di lì a breve, fu l'armonia indotta dalla Sinfonia n°40 di Mozart, lasciando invece il posto all'immagine radiosa del dottor Cavani.
Aprii le palpebre in un impeto di spaesamento: che strano effetto mi stava regalando la musica classica, l'unica che riuscisse a rilassarmi veramente quando ero così nervosa e depressa? Avevo bisogno di pace, di tranquillità, non di sognare l'impossibile.
Volevo rimanere lucida, continuare a soffrire, se fosse stato necessario, ma stando con i piedi per terra.
Non riuscivo a togliermi dalla mente la figura atletica e sorridente di lui, i passi decisi che si avvicinavano al mio letto, quel profumo inebriante di cui ignoravo il contenuto floreale.
Smettila, mi dissi, la tua è solo riconoscenza!
Inaspettatamente, però, mi ritrovai a mormorare le stesse parole di pochi minuti prima …
Eppure lui, nonostante tutto e tutti, c'era sempre.
E io, forse, mi stavo innamorando.
   
 
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