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Autore: arsea    03/10/2016    3 recensioni
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo: "Cosa vuoi fare?" domandò spaventato "Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace" "Cosa stai dicendo?" gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua "Fidati di me" disse "Ti troverò" lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Emma Frost, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non che fosse estraneo alle situazioni imbarazzanti.
A dire il vero poteva tranquillamente dichiarare di essere un esperto a riguardo, tanto da aver sviluppato una certa destrezza nell’affrontarle, aveva imparato piuttosto bene ad incassarle e non permetter loro di segnarlo.
Non che fosse particolarmente sfrontato, solo certi argomenti non lo scomponevano quanto poteva accadere ad altri.
Non lo faceva la sessualità ad esempio.
Riusciva a parlare di sesso con una certa tranquillità, con la maggior parte degli interlocutori per lo meno.
Aveva passato nel suo dormitorio situazioni che avrebbero rivaleggiato con gogne medioevali senza lasciarsi prendere dallo sconforto, compresa quella volta che si era risvegliato su un letto sconosciuto e aveva scoperto di aver urlato Amazing Grace per metà della nottata.
Questo per dire che avrebbe dovuto essere abbastanza preparato, ecco.
Ma nessuno può essere preparato a sufficienza ad Erik e Cain seduti allo stesso tavolo.
Con Kurt da una parte del tavolo e Sharon dall’altra, i rimanenti commensali si erano ritrovati a spartire il resto dei posti e caso aveva voluto che lui e Erik si fossero seduti vicini, con Raven di fronte e il fratellastro faccia a faccia con il loro ospite.
Avrebbe potuto evitarlo, non poteva negarlo.
Ma le parole di Erik nel corridoio continuavano a ronzargli in testa, inutile dire che le sue conclusioni lo avevano colpito, perciò non si era reso conto della gravità della situazione fino a quando Raven non lo aveva colpito con un calcio sotto al tavolo, richiamando la sua attenzione sui due che si stavano letteralmente mangiando con gli occhi.
Se poteva dirsi relativamente abituato alla sadica violenza di Cain, era rimasto incredulo dell’animosità di Erik invece: i suoi pugni erano stretti ferocemente vicino al piatto, il suo intero corpo era in tensione, e gli occhi brillavano sinistramente, il grigio delle iridi era quasi trasparente, così che l’azzurro e il verde fossero ancora più taglienti, con le pupille che vi annegavano nel mezzo quasi fossero pozzi oscuri.
Aveva sempre saputo della minaccia che incarnava il colosso a poca distanza, Cain da sempre era sinonimo di pericolo in qualche modo per lui, ma quel che emanava Erik era altrettanto palpabile, una sensazione quasi fisica, la stessa che si può avere davanti ad una fiera selvaggia.
Persino con il suo completo perfettamente appuntato, cravatta e gemelli e scarpe lucide, Charles aveva l’impressione di sedere accanto ad un lupo, o uno squalo, un animale pronto ad azzannare.
Non aveva mai fatto attenzione agli oggetti metallici che vedeva intorno a sé, ma Charles si ritrovò a pensarvi adesso, improvvisamente consapevole del numero di lame e possibili armi a disposizione dell’uomo.
Non sapeva in base a cosa potesse dirlo, eppure gli pareva perfettamente in grado di usarle.
Forse non era un pensiero molto lusinghiero, ma non poteva impedirselo.
Era stato solo dopo queste riflessioni che si era reso conto di essere lui il motivo di tutto quello.
Erik non si era mai mostrato possessivo o geloso, c’erano giorni in cui riusciva persino a dimenticare quel che l’altro provava per lui, l’amico perfetto persino, eppure adesso niente in lui trasmetteva la parola “amico”, in nessuna accezione, era talmente palese che il sorriso beffardo di Cain sembrava essere perfettamente consapevole dei suoi sentimenti.
Non che Erik facesse sforzi per nasconderlo, ovviamente << Di cosa si occupa principalmente nel suo lavoro, signor Lehnsherr? >> domandò Kurt dopo qualche minuto di silenzio, e per un lungo momento Charles temette che lo avrebbe ignorato, poi però quello diede in un respiro profondo, riluttante distolse lo sguardo da Cain e lo volse all’altro, anche se non doveva sembrare affatto cordiale << Opere architettoniche >> rispose, e la sua voce aveva una nota glaciale che non gli aveva mai sentito << Ponti, dighe, grattacieli. Anche se mi trovo più a mio agio con le costruzioni di metallo >> << Erik >> Charles non riuscì a dire altro, né tantomeno riuscì a fermare del tutto la sua lingua, ma quello gli rivolse semplicemente un sorriso, volgendosi ancora a fissare Cain prima di tornare al padre, che adesso aveva sollevato un sopracciglio incuriosito << C’è qualche allusione che non ho colto nel suo tono? >> << No >> disse Charles, attirando così l’attenzione di tutti loro.
Aveva preso una dose così alta di inibitori da essere completamente sordo alle vibrazioni emotive o psichiche di chi lo circondava, ma desiderò con tutto se stesso avere il potere di zittire Erik.
O almeno capire perché stesse agendo in quel modo, e invece si limitò a guardarlo, si sentì quasi trapassare da quello sguardo << Sono sicuro che il tuo amico sia capace di rispondere da solo, fratellino >> intervenne Cain passandosi una mano trai capelli perfettamente tagliati.
E accadde allora proprio ciò che temeva: << Non vedo perché nasconderlo, tantomeno a questo tavolo. Sono un mutante >> dichiarò fieramente, per Dio, usando proprio quella parola, mutante, con una tale disinvoltura che persino Raven trasalì.
Il silenzio scese denso come melassa, anche Sharon aveva smesso di mangiare, eppure Erik continuò impietoso, incurante << Posso controllare i metalli. Beh, Charles mi ha spiegato che in realtà ciò che controllo davvero sono i campi magnetici, ma il risultato è lo stesso >> e nel dirlo indicò con un dito uno dei cucchiaini per farlo sollevare, ma il telepate vi posò la mano sopra per impedirglielo.
Fu un gesto istintivo, era regola tacita dei presenti fingere di essere persone perfettamente normali, umane, e Charles sbiancò alla sola idea di tradire questo comandamento.
Non con sua madre presente.
Non aveva uno specchio davanti, ma sapeva di avere tutto il corpo contratto e in tensione, la mascella tanto serrata che gli doleva e la mano così stretta su quell’innocente cucchiaino che le nocche erano bianche.
Quel che Erik vide in lui non lo sapeva, ma lasciò perdere << È stato Charles a trovarti? >> domandò Kurt, di tutte le cose che poteva chiedere, con quella sua snervante e apatica curiosità che faceva risalire i brividi lungo la schiena a Charles << Non sono un radar per mutanti, Kurt >> ribatté caustico, ascoltando con un orecchio soltanto il modo in cui Sharon si schiarì la gola.
La mano di Raven attraversò il tavolo e si unì alla sua sul cucchiaino, invitandolo alla calma.
Quando la guardò gli occhi di lei avevano la pupilla piccola come uno spillo, spaventati a morte << Da quanto tempo si trova nel suo campo? >> domandò Sharon con il suo tono assurdamente controllato, come se Erik non avesse appena fatto una rivelazione sconvolgente << Tre anni >> << Il signor Darkholme mi ha raccontato meraviglie su di lei, pare che sia uno dei suoi collaboratori più fidati e capaci a quanto mi ha detto >> << Mio padre era un umile operaio, signora Xavier, ma mi ha insegnato che devo dare il meglio in tutto ciò che faccio, ancor di più se vengo pagato per farlo> << Un uomo moralmente elevato >> commentò lei << Direi più che altro onesto. Del resto non c’è limite a quel che un uomo può fare se non se stesso >> e nel dirlo sorrise, un sorriso sinistro che fece inspessire di nuovo la tensione.
Qual era la sua intenzione?
Charles lo guardò infilzare i fagiolini con disinvoltura, come se quell’atmosfera pesante come piombo non lo sfiorasse nemmeno << Ovviamente la mia mutazione non fa eccezione >> continuò imperterrito << Erik. Per. Favore >> sapeva che lo avrebbe ignorato.
Non avrebbe dovuto stupirsene << È dell’idea che le vostre capacità non debbano essere sottoposte a limitazioni? >> chiese Kurt, mentre Charles invece desiderò disperatamente che quel dannato pasto giungesse alla sua fine << Limitare le capacità di una persona può essere giudicato in modo diverso dalla tortura? >> << È sufficiente >> intervenne il telepate adesso, attirando la sua attenzione battendo debolmente il pugno sul tavolo.
Quel che provava nemmeno Charles avrebbe saputo definirlo.
Rabbia di certo, o qualcosa che le somigliava, con un retrogusto di vergogna e umiliazione, anche se non sapeva dovuto a che cosa, o almeno non voleva saperlo.
Ad ogni modo Erik lo percepì.
C’erano state altre volte in cui aveva avuto l’impressione di sapere per certo cosa l’altro pensasse, altre in cui invece era lui ad esser sicuro di essere compreso come con nessun’altro, ma in quel momento quando i loro sguardi si unirono Charles seppe senza alcun ombra di dubbio che Erik condivideva le stesse identiche sensazioni.
Odiava Kurt perché vedeva il mondo come il suo laboratorio sperimentale personale.
Odiava che Raven fosse costretta a restare in quella forma anche in casa propria.
Odiava che Charles prendesse inibitori solo per timore.
Odiava Cain... beh, odiava Cain per tutti i motivi per cui una persona può essere odiata.
Solo che lui, a differenza di Charles, aveva il coraggio di mostrare quel che pensava.
Lo vide nei suoi occhi, un fiume di parole passò in quel semplice scambio d’occhiate, una comprensione cristallina, Charles si sentì nudo e scoperto, per la prima volta in vita sua sperimentò cosa significasse essere letto da qualcun altro << Ma le mie sono solo le parole di un profano >> disse, falso come una banconota da tre dollari, falso come il sorriso che gli piegò le labbra subito dopo.
I loro occhi faticarono ad allontanarsi gli uni dagli altri, ma le iridi grigie si spostarono sul resto dei presenti << Non mi permetterei mai di giudicare le scelte di qualcuno in proposito >> riprese a tagliare la sua carne, perfettamente padrone di sé.
Charles fissò il suo piatto, si costrinse a continuare a mangiare nonostante gli occhi di tutti puntati su di lui, nonostante gli occhi di Cain puntati su di lui, e si chiese quanto sarebbe stato terribile se non avesse preso una pillola extra << Posso chiedere invece di cosa si occupa lei, signor Marko? >> lo ascoltò proseguire con la conversazione con un orecchio soltanto, in qualche modo aveva visto in lui qualcosa che lo aveva fatto desistere dai suoi intenti, ma non rendeva più facile da ingoiare il fatto che sapesse.
Sapesse che Charles non aveva il fottuto coraggio di parlare.
Si chiese se lo avesse mai avuto.
Quanto debole e patetico doveva apparirgli?
Arrivare alla fine di quel maledetto pasto richiese tutte le sue energie residue, lo lasciò prosciugato, tanto che sentirlo congedarsi a causa di un impegno sicuramente inventato gli procurò un senso di sollievo << Ti accompagno alla porta >> disse soltanto, inevitabilmente seguito dallo sguardo del fratellastro, ma ormai era troppo stanco anche per curarsi di quello.
Non appena fuori dalla portata degli sguardi degli altri Charles vide tutte le finzioni dell’altro sgretolarsi, tornò l’ira e la frustrazione, ne emanava come fossero il suo profumo, ogni passo ne era intriso << Come puoi sopportare tutto questo? >> azzannò una volta che furono fuori.
Il sole stava già tramontando, ma i lampioni del giardino illuminavano abbastanza perché i loro occhi non faticassero nella penombra sempre più incombente << Ci vediamo lunedì >> fu tutto ciò che riuscì a dire.
Il silenzio che seguì quelle parole aveva consistenza solida, dura e aguzza come la lama di un bisturi << È tutto quel che hai da dire? >> ribatté l’altro, dritto e testardo come un muro.
Charles poteva sbattervi contro o girargli intorno.
Decise di prenderlo a testate: << Con quale diritto mi chiedi una cosa simile? >> sibilò, e una rabbia cocente avvampò in lui, alta e ustionante come la fiamma di un incendio estivo, tanto improvvisa che si chiese se invece non fosse sempre stata dentro di lui, brace silenziosa che aspetta solo il pretesto per scatenarsi.
Lo lasciò senza parole << Non sai niente di me. Non sei nessuno, Erik. Tre fottutissime settimane non ti danno alcun diritto di giudicare la mia vita, la mia famiglia e le mie scelte >> o almeno avrebbe dovuto essere così << Puoi prendertela con me, ma sai che ho ragione >> rimandò l’altro senza fare una piega << Prendermela con te? >> soffiò Charles, con un’ira divorante, violenta, così violenta che lo raggiunse con un passo minaccioso e lo spinse a mani aperte sul petto << Prendermela con te?! Tutto questo non ti riguarda! >> gridò << Ho detto quel che tu non hai le palle di dire >> << Vaffanculo >> << È la verità. Diventi sempre sboccato quando ti usano contro la verità >> << Direi che possiamo finirla qui. Arrivederci >> fece per andarsene, ma Erik lo afferrò per una mano, un tocco ancora gentile, cauto, lasciò la presa subito dopo averla stretta.
In qualche modo questo rese Charles solo più furente << Per chi mi hai preso, Lehnsherr? >> fece, velenoso, sì, non riuscì ad impedirselo << Non so cosa tu abbia visto in me, ma non sono la tua damigella in pericolo. Non ho alcun bisogno di te. Se finora ti ho permesso di ronzarmi intorno è stato solo per pietà, è chiaro? >> ringhiò, un altro passo minaccioso in avanti << Niente che tu possa dirmi può farmi allontanare da te. Non ci provare nemmeno >> << Su questo non posso che dirmi d’accordo, certo >> lo derise, ridacchiò persino.
Desiderò ferirlo.
Lo fece: << Posso sopportare una scopata senza impegni anche da parte di un uomo, ma non venire a propinarmi lezioni di vita, per favore >> lo vide tentennare.
Se ne accorse chiaramente, solo non gli importò << No, certo che no. Sei senz’altro tu quello che fa lezioni, Professore >> << Puoi andare adesso >> gli uscì in un cupo ringhio << Puoi liberarti di me, certo, ma cosa hai intenzione di fare per quel te stesso che soffochi come il peccato? >> << Vattene! >> urlò Charles fuori di sé, e di nuovo lo spinse, ma questa volta Erik gli afferrò entrambi i polsi, immobilizzandolo con la sua forza, fisica e non, con quegli occhi e quell’animo d’acciaio temprato.
Insopportabile.
Non poteva competere con una cosa simile.
Il suo sguardo gli rapì il fiato dai polmoni, si rese conto che qualsiasi parola, qualsiasi sfogo o insulto non avrebbe affatto nascosto quel che provava, Erik era capace di vedere oltre ogni menzogna.
Lo lasciò andare e Charles indietreggiò di un passo << Ci vediamo lunedì >> lo sentì dire, per poi allontanarsi verso la macchina.

*

Si allentò il cravattino con un’imprecazione, sbottonandosi il colletto mentre si sedeva sullo scalino della porta della servitù.
Aveva indosso lo smoking delle occasioni e le scarpe lucide, con i capelli ben pettinati all’indietro e la barba fatta, la perfetta incarnazione della persona che avrebbe dovuto essere.
Davanti a lui c’era il giardino, ammantato di neve e silenzio, ben lontano dalla parte illuminata a festa del viale e della facciata, vicino alla fontana.
Lì era nella parte nascosta della tenuta, quella che non doveva esistere, quella che tutti fingevano di non vedere.
Un posto perfetto per lui.
Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette insieme ad uno zippo che non aveva la più pallida idea di dove l’avesse procurato, portandosene quindi una alle labbra rabbrividendo contro il freddo dell’esterno.
Dentro c’era senz’altro più caldo, ma nonostante l’aria di festa e il chiacchiericcio che vibrava attraverso le mura anche a quella distanza, Charles preferiva di gran lunga quel piccolo angolo lontano dagli occhi di tutti rispetto all’interno, freddo glaciale compreso.
Non era strano che sua madre organizzasse un ricevimento per Natale.
Sarebbe stato solo più felice di esserne avvertito prima, tutto qui.
Inspirò a pieni polmoni, sentendo il fumo scendere giù caldo e confortante fino a perdersi da qualche parte vicino al suo stomaco.
Lo assaporò per un istante, sapore di tabacco e amaro, poi esalò in una lunga scia di fumo bianco contro il nero che lo circondava.
Il suo cellulare vibrò per l’ennesima volta, e lui lo tirò fuori per scorrere altri messaggi d’auguri, scoprendo se stesso a rispondere meccanicamente con una gioia che non provava.
Se Babbo Natale lo avesse giudicato per il cinismo che provava in quel momento Charles non avrebbe meritato nessun regalo, questo era certo.
Aveva fatto il bravo bambino all’inizio.
Aveva accolto gli ospiti, aveva sopportato le prime venti battute stantie, si era mostrato felice di rivedere persone di cui conosceva a malapena il nome, aveva posato per le foto.
Dal suo punto di vista il suo ruolo istituzionale era stato perfettamente ricoperto, che nessuno avesse da lamentarsene, ma se aveva costretto Raven a togliergli l’ennesimo bicchiere di mano significava decisamente che aveva bisogno di una pausa.
Si passò una mano sul volto, cercando di allontanare lo stordimento, e si rialzò in piedi per fare qualche passo nell’aria gelida con la speranza che lo aiutasse a sbollire, dirigendosi riluttante verso l’area illuminata della facciata.
Il freddo era quasi insopportabile, infilò la mano che non teneva la sigaretta nella tasca del pantalone, come se fosse sufficiente a riscaldarlo, e gironzolò per un po’ tra le aiuole e i cespugli, fino a raggiungere la macchia di alberi da cui partiva il viale, sul limitare della luce prodotta dalle luminare che decoravano il davanti della villa.
Un’altra sigaretta e sarebbe rientrato, promesso.
Si appoggiò al muro di pietra sotto alle finestre del salone centrale, incrociando le caviglie e facendo vagare lo sguardo per le costose macchine parcheggiate nello spiazzo intorno alla fontana.
Dopo il litigio con Erik non era più riuscito a liberarsi della spiacevole e invadente sensazione della rabbia velenosa che lo aveva portato ad urlargli contro e a cacciarlo via come un nemico.
In realtà sapeva perfettamente di averlo usato come capro espiatorio.
Se c’era qualcosa di cui era sicuro era proprio quello.
Ora la rabbia aveva solo trovato un nuovo bersaglio: se stesso.
Eppure la soluzione era semplice, sarebbe bastato chiamarlo per chiedere scusa, Erik non gli avrebbe portato rancore per uno stupido sfogo, ma proprio quella consapevolezza lo faceva desistere.
Rendersi conto di quanta forza possedesse quell’uomo non era stato piacevole, lo aveva messo di fronte alle proprie debolezze con crudele precisione, e chiedere scusa era un po’ come accettarle in se stesso, anche se non c’era assolutamente nulla che potesse e volesse fare per cancellarle.
Non solo a tavola. Anche prima, quel “Io ti amo” scandito come fosse una verità immutabile e indissolubile, un sentimento cristallino e inamovibile come lo era lui.
La verità più dolorosa era che Charles per un momento avrebbe voluto cedervi.
Sarebbe stato così terribile farlo ad un tale sentimento?
Abbandonarsi ad esso, lasciare che quel che Erik provava bastasse per entrambi?
Inutile fingere che non importasse, che non lo desiderasse, che nascondersi dietro l'ombra di una tale forza non lo allettasse.
C'era solo l'orgoglio a trattenerlo, il timore di finire risucchiato da una tale personalità, no, anzi, dover accettare il proprio bisogno di una persona simile, ingoiare la consapevolezza del fatto che si sentiva tanto vuoto e inconsistente che avere qualcuno che riuscisse a trovare in lui qualcosa di cui colmare uno sguardo lo rendeva felice.
Un pensiero che aveva del ripugnante di per sé.
Non era forse per questo che era stato così crudele nell’urlargli contro?
Che Erik poi non lo meritasse affatto non faceva altro che farlo sentire peggio.
Non importava chi avesse ragione e chi torto.
L’unica cosa che importava davvero era che lui non riusciva a vedere alcuna soluzione per la sua situazione, non senza mandare all’aria tutta la sua famiglia, aprendo voragini che probabilmente non era in grado di affrontare né tantomeno risanare.
La sigaretta finì e lui diede in un sospiro mentre schiacciava il mozzicone sotto il tacco << I patti esistono per essere rispettati >> si disse per darsi la forza di tornare dentro, ma mentre si avvicinava al portone sentì la voce di sua madre e istintivamente tornò a nascondersi dietro uno dei cespugli che decoravano l’entrata: << Non hai alcun diritto di dirmi una cosa simile >> la sentì dire, glaciale nel rivolgersi ad un uomo che Charles non conosceva, un distinto signore in smoking e lungo cappotto di cachemire << Ti sto solo consigliando, Sharon. Lo rimpiangerai >> << Non credere di sapere cosa rimpiangerò o meno! >> era sicuro di non averla mai sentita alzare la voce, e anche adesso non lo fece propriamente, si limitò ad usare un’enfasi più accentuata, ma anche solo quella era così inusuale in lei che ebbe lo stesso effetti di sentirla ululare << L’hai detto alla tua famiglia? A tuo figlio almeno. Charles merita di saperlo >> << Lo saprà quando sarà opportuno >> << Quando sarà troppo tardi per nasconderlo >> la corresse lui con aria rassegnata << Non ha alcun senso dirglielo. Ha i suoi studi, la sua vita... non voglio che abbia pietà di me >> dichiarò fermamente << In questo momento la tua famiglia dovrebbe starti vicino. È Natale, Sharon. Non avresti dovuto fare un galà, ma goderti la vicinanza dei tuoi cari >> lei gli ridacchiò in faccia, amara, asciutta, persino un po’ sarcastica << Non siamo quel tipo di famiglia >> sentenziò incrociando le braccia al petto con fare sostenuto.
Il tubino di velluto verde che indossava brillava sotto le luci dell’entrata, riverberando nei suoi riflessi dei gioielli d’argento e smeraldo che portava a collo e braccia << Stai morendo, Sharon >> disse l’uomo con voce grave.
Per Charles fu come uno schiaffo improvviso << Qualsiasi tipo sia la tua famiglia, questo fatto non cambia. Non li rivedrai mai più. Questo è il tuo ultimo Natale e lo stai sprecando >> ci fu un momento di silenzio, gli occhi gelidamente azzurri di Sharon Xavier si posarono sull’uomo come potesse trafiggerlo con lo sguardo << Mi sono occupata della mia famiglia riguardo a questo. Non è certo lo stupido Natale quello che conta, Robert. Non ho alcuna intenzione di vivere gli ultimi mesi che mi restano circondata da sorrisi condiscendenti e sguardi di commozione. Resterò viva finché sono viva >> << M-mesi...? >> ansimò Charles, senza rendersi conto di essere uscito allo scoperto, ed entrambi si voltarono di scatto nel sentirlo.
Sharon inorridì nel riconoscerlo, sconvolta anche più di lui, eppure non si mosse né per avvicinarlo né per allontanarlo << Charles >> disse soltanto, poi un piccolo movimento delle dita per sistemarsi l’acconciatura ancora perfetta, e fece un passo avanti << Robert, questo è mio figlio, Charles Xavier. Charles, lui è Robert Stenford >> << Il tuo oncologo >> terminò per lei il telepate, non decidendo di sondare la mente dell’uomo, ritrovandosi semplicemente a farlo.
In qualche modo quello non sembrò né stupito né spaventato dalla sua precisazione, anzi, i piccoli occhi castani si appannarono e persero nel vuoto, catturati dal potere del ragazzo che inconsciamente stava dilagando intorno a lui.
Avrebbe dovuto prendere un’altra pillola, solo che non riusciva a muovere un muscolo << Mamma...? >> gli uscì invece, un suono straziato, ferito, così colmo di sofferenza che nemmeno lui lo riconobbe come proprio.
La donna guardava Stenford, preoccupata dalla sua immobilità << È a causa tua? >> chiese senza riuscire ad evitarsi di fare un passo indietro.
Charles guardò quello.
Guardò la propria casa, o quella che chiamava tale, la propria madre, i propri piedi << Morirai >> disse << Non c’è bisogno di essere così sconvolti, caro. Perché non vieni dentro? Ti spiegherò ogni cosa >> gli porse la mano ma lui non la prese.
Sentiva il suo sangue scorrere così velocemente da suonare assordante alle sue stesse orecchie << Dammi le chiavi della macchina >> ordinò al medico con voce atona, a malapena si rese conto di averlo fatto, ma l’altro obbedì meccanicamente sotto lo sguardo attonito di sua madre << Charles! >> le voltò le spalle, a lei e al suo rimprovero, a lei che moriva, a lei che presto non sarebbe più stata << Torna qui, Charles! >> non lo seguì, anche se lo avrebbe voluto, anche se forse era l’unica cosa che voleva in quel momento.
Non poteva restare lì.
Non aveva la lucidità necessaria per farlo, c’era una tale confusione in lui, un tale venefico silenzio nei suoi pensieri che non aveva la più pallida idea di come avesse trovato l’auto di Stenford e si fosse immesso in carreggiata.
Non percepiva le lacrime che scorrevano sul suo volto, né il battito assordante del suo cuore, né tantomeno il pulsare atroce delle sue tempie.
Si fermò sul ciglio della strada e vomitò ad un certo punto, ma aveva come l’impressione di trovarsi in un sogno, di galleggiare a metà tra realtà e incoscienza, non del tutto sicuro di nessuna delle due.
Non era sicuro di niente in realtà, nemmeno di dove fosse o dove stesse andando, solo una certezza rimbombava nel suo cervello con la veemenza di un urlo ferino.
Sharon aveva il cancro.
Sharon sarebbe morta.
Mesi.
Mesi.


PS. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui e spero tanto che la storia vi stia piacendo quanto a me <3
Per chi ha letto "Rimettere insieme i pezzi" ci sarà un piccolo deja-vu ma sappiate che è voluto e spero tanto che questa volta vada come non è andata nell'altra fic XD XD
*spoiler, spoiler ovunque*

   
 
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