Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: xX__Eli_Sev__Xx    04/10/2016    1 recensioni
Il messaggio di Moriarty ha sortito l’effetto desiderato: trattenere Sherlock a Londra. Ma il consulente investigativo sa bene che Moriarty non può essere l’autore di quel messaggio dato che si è ucciso sul tetto del Bart’s tre anni prima. Eppure qualcuno aveva degli interessi nel trarlo fuori da quella missione suicida. Ma chi?
Le indagini riprenderanno e Sherlock si ritroverà a dover affrontare un nuovo nemico, forse ancora più pericoloso di Moriarty che non solo sembra conoscerlo così bene da sapere esattamente dove andare a colpire, ma che è pronto a tutto per ottenere quello che vuole. E Sherlock, ancora una volta, dovrà fare i conti con i suoi demoni e con il suo cuore, sperando di riuscire ad avere la meglio.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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For darkness shows the stars
 
XIII
Consequences
 
 Il corpo di Moran si accasciò a terra con un tonfo sordo, mentre un lamento, simile a un gorgoglio, si liberava dalle sue labbra. Lentamente, il suo corpo smise di tremare e con un ultimo gemito, il criminale smise di muoversi.
 John, la pistola sollevata e puntata verso Moran, sentì una scossa elettrica attraversare la sua spina dorsale. Come se solo in quel momento si fosse accorto di quello che era accaduto, portò lo sguardo sulla pistola. I suoi occhi si spalancarono. Abbassò lentamente il braccio e si voltò verso Sherlock.
 «Stai bene?» chiese voce flebile.
 Sherlock annuì, si portò una mano alla fronte, e, aiutato da John, che lo sorresse, si mise seduto sul pavimento. Annuì, inspirando profondamente per poter riprendere la lucidità e per reprimere la nausea, poi si volse verso Moran, il cui corpo era ormai immobile.
 «Bel colpo.» disse, incrociando lo sguardo dell’amico.
 John abbassò lo sguardo sulla pistola. «Ho… ho sentito lo scatto del proiettile e…» mormorò, le mani che tremavano a causa della scarica di adrenalina.
 «Ehi» lo chiamò Sherlock, cercando il suo sguardo. Poi poggiò una mano su quella di lui, che stava ancora impugnando la pistola. «Lasciala, John.» disse. «È finita, lasciala.»
 John, quasi il metallo dell’arma lo avesse scottato, lasciò cadere a terra la pistola, ritraendo la mano. Poi sollevò nuovamente lo sguardo sul viso del consulente investigativo. Chiuse immediatamente gli occhi e abbassò nuovamente lo sguardo, non riuscendo a sostenere quello dell’amico.
 «Devo chiamare la polizia.» disse Holmes, mettendosi lentamente in piedi ed estraendo il cellulare dalla tasca della giacca. «Perché non controlli Gemma? Io torno subito.»
 John annuì e quando Sherlock ebbe lasciato la stanza, si mise in piedi e raggiunse la culla, dove sua figlia stava dormendo profondamente, il viso rilassato, le manine chiuse a pugno accanto al capo. Il medico le rimboccò le coperte e le accarezzò il viso, sfiorandole una guancia e ringraziando il cielo che stesse bene. All’improvviso sentì un brivido corrergli lungo la schiena all’idea che Moran avrebbe potuto farle del male se solo lui non fosse intervenuto.
 John d’istinto si voltò e i suoi occhi si posarono sul cadavere del criminale.
 Sul volto di Moran era ancora dipinto un ghigno perverso e carico di odio e Watson si ritrovò a pensare che avrebbe tanto voluto strapparglielo dal volto, esattamente come Sebastian aveva strappato il sorriso a lui, togliendogli tutto per mettere in atto un’insensata vendetta.
 Avrebbe tanto voluto farlo soffrire, proprio come aveva fatto lui… ucciderlo in quel modo non era stata altro che una cortesia, perché, alla fine, Moran non avrebbe mai pagato davvero per i suoi crimini e avrebbe vinto ancora una volta.
 
 Watson strinse i pugni al pensiero di tutto ciò che aveva subito a causa sua e, prima che potesse fermarle, le lacrime presero a rigargli le guance con violenza. Ricordare quei momenti terribili gli procurava tanto dolore da impedirgli di respirare.
 Un ansito lasciò le sue labbra e John si portò le mani alle tempie, tentando di allontanare quei ricordi per impedire loro di ferirlo ancora e ancora. Ma quel dolore sembrava non avere fine.
 John gemette, chinandosi in avanti, sentendo una fitta trafiggergli il petto con violenza, togliendogli ulteriormente il fiato.
 Le immagini di quella terribile settimana passata in balia di Moran, riemersero improvvisamente, prendendo a scorrere nella sua mente così rapidamente da mescolarsi, confondendosi fra loro in un marasma di frammenti senza senso.
 Il medico si impose di mantenere il controllo.
 Doveva respingerle. Allontanarle dalla sua mente.
 Non poteva lasciare che lo sopraffacessero ancora una volta. Non poteva permetterlo.
 Doveva essere forte.
 Tuttavia, quando tentò di inspirare e prendere aria per recuperare la lucidità, l’ossigeno non sembrò riuscire a raggiungere i suoi polmoni.
 John annaspò, sentendo un terribile peso sui polmoni e sul cuore, si portò una mano al petto, stringendola intorno alla camicia. Poi cadde in ginocchio. Le sue gambe cozzarono contro il pavimento in legno producendo un rumore secco che rimbombò in tutta la stanza.
 Perché faceva così male?
 Perché continuava ad essere così doloroso anche a distanza di settimane?
 Cosa aveva fatto per meritarlo?
 I suoi respiri si fecero più affannosi e rotti.
 «Dottor Watson?» una voce femminile irruppe nella stanza, riportandolo alla realtà.
 John, che aveva le mani poggiate sulle orecchie, sollevò il capo e le scostò, studiando la persona che era entrata.
 Era una donna sulla trentina. Probabilmente un’infermiera arrivata con l’ambulanza.
 John la osservò per qualche istante, la vista offuscata dalle lacrime, poi colse un movimento alla sua destra con la coda dell’occhio. Si voltò e vide che altri due infermieri si stavano occupando di coprire il corpo senza vita di Moran.
 «Dottor Watson, va tutto bene.» proseguì la donna, avendo notato che l’uomo stava facendo fatica a respirare.
 Watson tornò a voltarsi verso di lei, incrociando il suo sguardo.
 «Sono un’infermiera.» disse la donna, parlando con gentilezza. «Sono qui per aiutarla.» si inginocchiò accanto a lui e allungò una mano per controllare il suo polso.
 John ansimò e indietreggiò, gli occhi spalancati dal terrore. «No…» gemette. «No… non… non mi tocchi… non mi tocchi…» balbettò sollevando le mani per impedirle di avvicinarsi e toccarlo.
 «Voglio solo assicurarmi che non sia ferito.» spiegò l’infermiera, ma quando gli poggiò una mano sulla spalla John annaspò, sentendo i polmoni svuotarsi nuovamente e il cuore accelerare.
 «No!» esclamò il dottore, fra le lacrime. «Non lo faccia… non si avvicini… per favore…»
 La donna allontanò immediatamente le mani dal corpo del dottore, sollevandole per tranquillizzarlo. «Stia tranquillo, John, va tutto bene.» assicurò. «Va tutto bene.»
 John scosse il capo, mentre singhiozzi strozzati lasciavano le sue labbra convulsamente. «Sherlock» riuscì a biascicare tra le lacrime. «Sherlock…» mormorò e si portò le mani al volto, premendole sulle tempie. «Sherlock!»
 
 Quando Sherlock sentì pronunciare il suo nome, in meno di qualche secondo raggiunse il salotto, lasciando Donovan e gli altri poliziotti – a cui stava esponendo la dinamica dei fatti – in corridoio. Si bloccò sulla soglia e vide John accovacciato a terra, le mani premute sulle orecchie e il corpo che tremava per la paura. Aggrottò le sopracciglia, poi vedendo che l’infermiera stava tentando di tranquillizzarlo, poggiandogli una mano sulla spalla, capì il perché di quella reazione.
 «Non lo tocchi.» disse, rivolto alla donna, avanzando verso di loro.
 La donna sollevò lo sguardo.
 «Non sopporta essere toccato.» proseguì. «Non lo tocchi.» ordinò. Avrebbe dovuto immaginare che John avrebbe reagito così. Dopo ciò che era successo… dopo ciò che Moran gli aveva fatto… come aveva potuto pensare che lasciarlo nella mani dei medici sarebbe stata una buona idea?
 L’infermiera allontanò le mani dal corpo del dottore.
 Sherlock raggiunse l’amico e si inginocchiò al suo fianco. «John» lo chiamò, poggiandogli una mano sulla spalla.
 John sobbalzò.
 «Ehi, ehi…» sussurrò Sherlock, cercando il suo sguardo. «Sono io. Va tutto bene.»
 Watson volse il capo e vide che a toccarlo era stato il suo migliore amico, esitò solo qualche secondo prima di rifugiarsi tra le sue braccia, aggrappandosi alle sue spalle e affondando il capo nell’incavo del suo collo.
 «Sherlock…» ansimò, senza fiato, singhiozzando e tremando senza controllo.
 «Shh… sono qui.» sussurrò Holmes, stringendolo a sé e accarezzandogli teneramente i capelli. «Sono qui… va tutto bene. Tranquillo.»  
 John continuò a piangere, stringendosi contro il petto di Sherlock, che lo tenne stretto a sé, accarezzandogli la schiena e i capelli, cullandolo fra le braccia per tranquillizzarlo.
 Dopo un momento, sentendo che il medico stava facendo fatica a respirare, Sherlock lo allontanò da sé e gli prese il volto fra le mani. Gli accarezzò delicatamente le guance con le dita e i loro occhi si incontrarono.
 «John, guardami.» disse. «Respira.»
 Watson ansimò, mentre altre lacrime lasciavano i suoi occhi. Circondò i polsi di Sherlock con le mani e scosse il capo, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi. «Non ci… riesco…» gemette. «Non… non posso… non posso…»
 «Sì, invece.» insistette Holmes, chinando il capo per cercare lo sguardo dell’amico. «Fai respiri profondi e tranquillizzati.» gli accarezzò il viso. «È tutto finito. Andrà tutto bene. Devi solo respirare.» proseguì. «Dentro e fuori. Dentro e fuori.» lo istruì, parlando lentamente.
  John gemette dal dolore, sempre più pallido e agitato, portandosi una mano al petto.
 A quel punto intervenne l’infermiera, che porse una mascherina per l’ossigeno – collegata alla bombola che portava sulla schiena – al consulente investigativo e gli chiese di farla indossare al medico per aiutarlo a respirare.
 Sherlock la prese e la poggiò delicatamente sul viso di John. «Respira profondamente, John.» disse, poggiando una mano dietro la sua nuca per sostenerlo. Poi si posizionò alle sue spalle, lasciando che John poggiasse la schiena contro il suo petto. Con una mano tenne la mascherina poggiata sul viso dell’amico, mentre con l’altra prese ad accarezzargli il petto, che si stava alzando e abbassando convulsamente e rapidamente. «È tutto finito. Va tutto bene.» continuò a ripetere. «Sei al sicuro. Siamo tutti al sicuro.»
 Lentamente, il corpo di John si rilassò contro quello dell’amico, adagiandosi tra le sue braccia e smettendo di tremare. Il suo capo si adagiò sulla spalla di Holmes, che inclinò il proprio, andando a poggiare la tempia contro quella del medico. La mano di John salì fino al volto, andando a poggiarsi su quella di Sherlock, che ancora reggeva la mascherina.
 John gemette sommessamente. «Sherlock…» mormorò, dietro la mascherina d’ossigeno.
 «Shh… sono qui.» sussurrò in risposta il consulente investigativo, muovendo la tempia contro quella di John, in modo da accarezzarla. «Sono qui, John.»
 «Dobbiamo portare il dottor Watson in ospedale per un controllo.» affermò l’infermiera, incrociando lo sguardo di Holmes. «E dovrebbe farsi visitare anche lei.»
 John, udendo quelle parole, si agitò. «No…» gemette, tremando. «No…»
 Sherlock gli circondò il petto con un braccio. «Vogliono solo controllare che stiamo bene.» sussurrò. «Non ti succederà nulla. E ti prometto che non ti lascerò solo neanche per un secondo.» poi, una voce famigliare lo riportò alla realtà, facendolo voltare di scatto verso la porta.
 In piedi sulla soglia c’era Mycroft, che lo stava osservando con gli occhi spalancati dalla paura. Quando notò il sangue sopra il camino e sul soffitto, impallidì. 
 «Cos’è successo?» chiese il politico, avanzando.
 «Moran è morto.» spiegò Sherlock, sbrigativo.
 Mycroft abbassò lo sguardo su John, ancora stretto tra le braccia del consulente investigativo e con la mascherina poggiata sul viso. «State bene?» domandò.
 «Sì.» replicò Sherlock. «Ti spiegherò tutto, ma adesso ho bisogno che ti occupi di Gemma. Portala alla signora Hudson e poi raggiungici in ospedale.» concluse, vedendo che due infermieri avevano varcato la soglia e avevano poggiato a terra una barella per permettere a John di sdraiarsi.
 Mycroft annuì e si avvicinò alla culla.
 Sherlock tornò a rivolgersi all’amico. «Adesso ti aiuto a sdraiarti sulla barella, ok?» disse, accarezzandogli il petto.
 Watson gemette.
 «Ti prometto che rimarrò al tuo fianco per tutto il tempo.» aggiunse Sherlock, con estrema dolcezza.
 John, dopo qualche secondo di immobilità, annuì.
 Holmes lo aiutò a mettersi in piedi, gli cinse i fianchi con un braccio e lo fece sedere sulla barella. «Sdraiati.» disse. Poi reggendogli il capo e poggiandogli una mano sul petto, lo fece sdraiare in posizione supina, agganciandogli la mascherina dietro il capo con l’elastico.
 Gli infermieri sollevarono la barella, in modo da poterla muovere usando le ruote, e slacciarono le cinghie per legare Watson e assicurarsi che non cadesse.
 Non appena tentarono di legarlo, però, John ansimò. Le lacrime gli rigarono le guance e lui prese ad agitarsi, annaspando per cercare aria, nonostante la mascherina d’ossigeno lo stesse aiutando a respirare.
 «No.» intervenne Sherlock, bloccandoli.
 «Signore, dobbiamo…»
 Holmes scosse il capo. «Niente cinghie.» ordinò, rivolgendo loro un’occhiata penetrante.
 I due si scambiarono uno sguardo e annuirono.
 Sherlock a quel punto tornò a voltarsi verso John e gli prese la mano. «Stai tranquillo.» disse. «Respira profondamente.» poi sorrise dolcemente, accarezzandogli il capo e insieme agli infermieri raggiunsero l’ambulanza.
 Sherlock non lasciò la mano di John nemmeno per un secondo.
 
 Una volta in ospedale, i medici accertarono che sia Sherlock che John stavano bene. Non avevano riportato danni o ferite, perciò i medici convennero che a parte lo shock, i due stavano bene. Ricoverarono John per assicurarsi che si rimettesse completamente dopo lo shock subito, e dopo aver somministrato a Sherlock delle pillole per la pressione, li lasciarono soli all’interno della stanza che avevano assegnato a Watson.
 Durante la visita, Sherlock non aveva mai lasciato la mano di John, rimanendo al suo fianco come gli aveva promesso. E anche il quel momento, seduto sul materasso accanto a lui, il consulente investigativo aveva ancora la mano chiusa intorno alla sua e la stava accarezzando con delicatezza, osservando il viso del suo migliore amico, rilassato grazie ai calmanti che gli infermieri gli avevano somministrato.
 Gli di John agganciarono i suoi.
 «Grazie.» sbottò il medico, ad un tratto.
 «Per cosa?» domandò Sherlock, aggrottando le sopracciglia.
 «Per essere rimasto.»
 Il consulente investigativo sorrise dolcemente. «Ti avevo promesso che l’avrei fatto.»
 Gli occhi di John si riempirono improvvisamente di lacrime. «Io non me lo merito… non dopo tutto ciò che ti ho fatto… non mi merito nulla di tutto questo…» disse, scuotendo il capo. «Come puoi voler rimanere qui dopo quello che ti ho detto? Come puoi volermi aiutare?»
 Sherlock sembrò spiazzato di fronte a quelle parole. Scosse il capo, confuso. «John, di cosa stai parlando?» domandò, stringendogli maggiormente la mano.
 «Di quello che ti ho detto…» replicò lui. «Ti ho allontanato quando volevi solo aiutarmi. Ti ho respinto e ti ho ferito… e ti ho incolpato per qualcosa che non avevi fatto solo per…» abbassò lo sguardo. «Mi dispiace. Mi dispiace tanto…»
 Sherlock sospirò. «John, è acqua passata.» assicurò. «Non importa. Va tutto bene.»
 «No, invece.» replicò John, incrociando il suo sguardo. «Ti ho ferito. So di averti fatto del male. L’ho visto.» disse, gli occhi che scintillavano a causa delle lacrime. «Quando ti ho detto quelle cose, ho visto quanto ti avessero ferito. Ma ho continuato a infierire.»
 Sherlock abbassò lo sguardo. «L’hai fatto perché Moran ti aveva plagiato.»
 «No.» affermò John. «Quello che ho detto…» si interruppe. «Sì, erano parole di Moran, ma io… io non gli ho mai creduto. Non ho mai creduto che tu mi avessi usato come una pedina, o che ti fossi avvicinato a me per i tuoi interessi. Mai, nemmeno per un secondo, ho pensato una cosa del genere.»
 Sherlock si stupì. «Ma…» esitò. «Allora perché…?»
 «Perché tengo troppo a te.»
 «Io non… non capisco.» dichiarò il consulente investigativo.
 John abbassò lo sguardo sulle loro mani, ancora chiuse una sull’altra e accarezzò le dita di Sherlock con le proprie. «Dopo quello che Moran mi ha fatto, io…» si interruppe e le lacrime gli rigarono finalmente le guance. «Io mi sento sporco.»
 Quelle parole colpirono Holmes come una coltellata al cuore. «Cosa?» chiese, incredulo.
 «Non volevo costringerti a stare con me dopo quello che Moran aveva fatto…» spiegò Watson, la voce tremante e instabile. «Non voglio che tu rimanga con me. Sono sporco e non voglio che tu debba avere a che fare con qualcuno come me...» ansimò.
 Sherlock gli prese il volto fra le mani. «John, ma cosa stai dicendo?» chiese, cercando il suo sguardo. «Tu non sei sporco.»
 «Sì, invece.» singhiozzò il medico, scuotendo il capo. «Lui mi ha violentato e io non sono più degno di stare con te.»
 «Mio Dio…» sfuggì a Sherlock. «John, questo non è vero.» disse con voce ferma, sollevando il viso dell’amico, in modo da incrociare i suoi occhi. I loro sguardi si agganciarono. «Tu non sei sporco. Non potresti essere più puro e degno ai miei occhi.» sussurrò, accarezzandogli le guance e asciugandogli le lacrime. «Sei sempre lo stesso. Sei sempre tu.»
 Watson scosse il capo. «No, Sherlock. Non è vero… Guardami. Questo non sono io.» disse. «Non sono più la stessa persona che ero. Non sono più l’uomo di cui ti sei innamorato. Non sarò mai più lo stesso.»
 «Non ha importanza.»
 «Ne ha, invece.»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrebbe?» domandò, allontanando le mani dal viso del dottore.
 «Perché non potrò darti le stesse cose che avrei potuto darti prima.» spiegò John. «Non mi comporterò nello stesso modo. Non potrò amarti nello stesso modo. E ho paura che quando ti renderai conto che non sono più lo stesso, non mi vorrai più.»
 «Questo non accadrà mai.» replicò Holmes, scuotendo il capo.
 «Come lo sai?»
 «Perché non importa quello che eri o quello che sarai.» disse Sherlock, incrociando il suo sguardo. «A me importa quello che sei. Mi importi tu. Il John che è qui adesso.»
 John lo osservò per un lungo istante. Poi sollevò le mani e circondò i polsi di Sherlock con le dita. Chiuse gli occhi, sospirando. «Perché sei così buono con me?» domandò in un sussurro. «Cos’ho fatto per meritarlo?»
 Sherlock non poté fare a meno di sorridere. «Oh, John… davvero non riesci a capire?»  
 John lo osservò, ma non parlò.
 «Tu mi hai salvato.» disse Sherlock. «Nel momento stesso in cui sei entrato nella mia vita, mi hai reso migliore. Hai visto in me qualità che nessun altro era riuscito a vedere. Mi hai sempre guardato con occhi diversi, fin dal primo giorno… Mi hai trattato come un essere umano e non come un mostro, come invece avevano fatto tutti gli altri. E mi sei stato vicino. Sempre. Anche quando è stato più difficile.» accarezzò le guance di John con le dita, poi sorrise. «Hai una minima idea di quanto immensamente io ti ami, John?» sussurrò. «Tu sei tutto per me. Sei e sarai sempre tutto il mio mondo. E non riesco a immaginare di vivere un solo secondo senza di te. Perciò no. Non ti lascerò e non smetterò mai di amarti.» affermò. «Non ne sarei capace.»
 Le lacrime rigarono le guance di John prima che potesse fermarle, quasi quelle parole l’avessero distrutto e poi rimesso insieme, ucciso e poi riportato in vita. Un sospiro lasciò le sue labbra, seguito da altre lacrime.
 Sherlock le asciugò prontamente e quando John lo abbracciò, lo strinse a sua volta, dolcemente e con tutto l’amore di cui era capace, sentendo il suo cuore tornare finalmente a battere.
 
 
 ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti. ;) Chiedo scusa per l’ENORME ritardo nella pubblicazione del tredicesimo capitolo, ma la mancanza d’ispirazione, in combutta con esami e lavoro, mi hanno reso impossibile concentrarmi al meglio su questa storia e non volevo pubblicare nulla prima di essere certa che fosse perlomeno accettabile.
Non so quando pubblicherò il prossimo, ma spero di farlo a breve, tempo permettendo.
Grazie a tutti coloro che hanno continuato a seguirmi. ;)
A presto, Eli♥
 
 
 
 
 
 
   
 
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