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Autore: Nemainn    10/10/2016    5 recensioni
Un'antica guerra ha sterminato tutti i loro uomini, così le streghe hanno cercato di sopravvivere usando la più antica delle magie: quella del sangue.
Aderyn è uno dei volontari, uno di coloro che desiderano il Sangue di Strega, ma non tutti coloro che l'ottengono ne sono veramente degni e l'antica magia risveglia desideri e conoscenze che avrebbero dovuto rimanere celati.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 
- 1 -
- Sangue di Strega -


«Hilm'een.»
Quella parola scivolò tra le labbra di Aderyn, uscendo dalla sua bocca in un sussurro musicale.
«Hilm'een» ripeté, assaporando quel suono, facendolo rotolare nel palato, vibrare in gola.
Alla fine sospirò e si mise a sedere, distogliendo lo sguardo dal cielo al tramonto davanti a lui e spostandolo sul suo villaggio, alle pendici della collina. Era salito in cima al declivio erboso nel pomeriggio, dopo l'ennesima lite con sua madre, usando il desiderio di andare a caccia come scusa per allontanarsi.
Come faceva a non capire che per lui era importante cercare di diventare un hilm'een?
Si grattò le guance, coperte dalla prima soffice barba, desiderando di poter sparire e presentarsi solo l'indomani, quando sarebbero arrivate le streghe a chiedere se c'erano volontari. Ogni dieci anni facevano il giro di tutto il regno, cercando uomini tra i sedici e venticinque anni disposti ad abbandonare tutto per diventare hilm'een, accogliendo in sé il loro sangue.
Era solo un bambino quando erano arrivate la volta precedente, era un marmocchio di sette anni attaccato alle gonne di sua madre, eppure ricordava perfettamente quelle donne: i capelli adornati di piume e lacci di cuoio, i visi dipinti e i loro animali che si diceva fossero i loro compagni, parte della loro anima e del loro potere.
Ricordava come le aveva guardate, meravigliato e spaventato, affascinato e in un certo senso sedotto dalla loro selvaggia bellezza, dagli occhi dalle pupille verticali che davano l'impressione di brillare, dai loro movimenti aggraziati che sembravano in armonia con il soffiare del vento e il fluire dell'acqua. Erano parte di tutto quello che viveva, in perfetta simbiosi ed equilibrio con il creato della Dea.
Si diceva fossero le predilette figlie di Nut, a cui la divinità aveva donato la comprensione profonda della magia della terra, della natura, di ogni cosa vivente; i loro saggi insegnavano che l'equilibrio tra esseri umani e streghe dipendeva dal rispetto che portavano a quelle donne schive e potenti, che vivevano nelle profondità delle foreste o in grandi caverne nel grembo roccioso della Dea Madre stessa.
Da quando le aveva viste, da quando aveva visto quegli occhi cosi strani eppure splendidi, aveva deciso che sarebbe diventato un hilm'een.
All'inizio sua madre aveva pensato alle solite parole di un bambino, ma con il tempo nulla era cambiato e la donna aveva iniziato a cercare di scoraggiarlo in qualunque modo.
Aveva anche cercato di farlo accasare, inutilmente.
Certo, erano decisamente belle le ragazze che gli aveva presentato e alla sua età in molti già si erano trovati una compagna, ma lui non voleva una famiglia o una donna, lui voleva entrare nel mondo delle streghe; il richiamo che quella prospettiva aveva su di lui era quasi doloroso.
Con indolenza si avviò lungo il sentiero, raccogliendo l'arco e la lepre che aveva preso e scuoiato; non poteva evitare di farsi vedere l'ultima sera che avrebbe passato a casa, con sua madre e sua sorella, come uomo.
Sospirò. Capiva il dolore di sua madre, ma lui non era obbligato a rimanere lì come surrogato del padre morto; lui aveva la sua vita e né la madre, né la sorella, avevano davvero bisogno che lui ci rinunciasse per loro. Gli dispiaceva dare un dolore alla sua famiglia, eppure sapeva che non sarebbe mai stato felice al villaggio facendo la vita che sua madre desiderava per lui.
Cercando di mettere in un angolo della propria mente quei pensieri, Aderyn s'incamminò. Il suo passo era lento mentre seguiva il sentiero; nonostante la giovane età, era un ottimo cacciatore, silenzioso e attento a ciò che lo circondava. Attorno a lui la vita era ovunque, palpitante, la sentiva come una carezza sulla pelle: tra gli alberi c'erano gli uccelli che si preparavano al sonno della notte e i predatori del buio che iniziavano a destarsi; nell'aria il sottile frinire degli insetti e il fruscio dell'erba. Tutto gli parlava, da sempre.
Alcuni dicevano che Nut avesse avuto un occhio di riguardo con lui, ma quelle parole lo facevano solo ridere; sosteneva con chiunque che bastava tenere le orecchie e gli occhi ben aperti perché quelle capacità fossero alla portata di tutti.
Il villaggio si aprì davanti a lui.
Oltre una curva del sentiero, le prime case si mostrarono con le finestre illuminate e le pietre dei muri sfiorate dal chiarore dell'ultima luce.
Il cielo era scuro all'estremità opposta del tramonto che mostrava le ultime linee di luminoso oro e porpora; le prime stelle brillavano, puntini di luce distanti e magici che si stendevano sul velluto del cielo.
Le stelle, gli raccontava sua madre da piccolo, erano i gioielli di Nut, nate dal suo amore per il suo popolo. Diceva che ogni stella era la culla di un'anima, che lei proteggeva mentre attendeva di poterla far nascere. Sorrise ripensando a quelle vecchie storie che lei gli raccontava, mentre attraversava la parte dell'abitato che lo separava dalla sua casa. La costruzione era su due piani, di legno e pietra, con il tetto di tegole rosse; dal camino si alzava il fumo e dalle imposte aperte alla fresca brezza serale la luce si riversava all'esterno.
Aprì la porta, lasciando gli stivali infangati accanto a essa, e scostò la tenda che separava l'ingresso dalla sala centrale della casa, dove l'enorme camino ospitava un piccolo fuoco su cui stava cuocendo la cena.
«Aderyn, finalmente!» Alisea, la madre, sedeva al grande tavolo con la figlia e l'anziana del villaggio. Abbigliata completamente di bianco, con uno scialle leggero sulle spalle di un tessuto a quadri verdi e blu, l'ospite gli sorrise.
«Alisea, la tua impazienza ti fa sembrare che il ragazzo sia più in ritardo di quel che effettivamente è» disse, con voce pacata e musicale.
Aderyn, spiazzato, guardò la loro ospite lanciando uno sguardo interrogativo alla madre.
«Cosa sta succedendo?» Il tono era guardingo, mentre osservava con attenzione i volti delle tre donne. Milith, la sorella, era annoiata, ma cercava di nasconderlo. La madre era evidentemente ansiosa e l'anziana appariva divertita. «Non voglio mancarvi di rispetto, Saggia, ma non capisco come mai siate qua. Ci sono problemi di cui nessuno mi ha parlato?»
Alisea aprì la bocca per parlare, ma un gesto dell'anziana donna la bloccò.
«Il cuore preoccupato di una madre, tutto lì. Eppure le sue parole potrebbero non essere dettate solo da quello. Voglio quindi capire se, effettivamente, ti rendi conto di ciò che implica la tua scelta. Siediti, Aderyn.» Il giovane ubbidì, arrabbiato con la madre per quell'iniziativa: avrebbe mai compreso che per lui quello non era né un gioco, né un colpo di testa?
Una volta che si fu accomodato, la Saggia riprese il suo discorso. «Non voglio che tu faccia qualcosa senza averne capito l'effettiva portata, ragazzo mio. Sei davvero consapevole di cosa voglia dire scegliere di diventare un hilm'een? Della pericolosità del processo di trasformazione?»
Aderyn annuì. «Sì, Saggia.» Quel discorso gli era stato fatto da chiunque, più e più volte, e iniziava a esserne notevolmente annoiato. «La metà dei prescelti muore, ne sono consapevole ed è un rischio che sono disposto ad affrontare.»
«Come immaginavo, questo genere di cose ti è stato detto da molti. Lo capisco dal modo in cui mi hai risposto, caro ragazzo. Voglio però chiederti se hai fatto i conti con la morte di chi ami. Con quella di tua madre, di tua sorella, dei tuoi amici. Tu rimarrai giovane per centinaia di anni, mentre tutti quelli che conosci invecchieranno e moriranno, scomparendo uno a uno. Nessuno di noi ci sarà quando per te sarà passata la giovinezza e con il tempo nel tuo villaggio, nella tua casa, vivranno solo estranei. Non avrai più alcun legame con gli uomini, perderai ogni cosa che ti lega al nostro mondo; sarà un processo lento, ma inesorabile, che ti porterà via da ogni legame famigliare e umano, lasciando vivo in te solo il sangue di strega. Non avrai compagna o famiglia, non come lo intendiamo noi; allo stesso modo non sarai padre dei tuoi figli come potresti esserlo qua. Saranno frutto del tuo seme, eppure non potranno chiamarti papà. A questo, Aderyn, hai pensato?»
Il ragazzo, lentamente, annuì. Sotto gli occhi della Saggia si portò le mani al viso, strofinandolo, cercando di trovare le parole necessarie a esprimere quella specie di bisogno che fin da bambino lo teneva in scacco.
«Lo so, lo capisco.» Le parole uscirono lentamente, mentre si torceva le mani in grembo. «Io lo so. Però non posso fare a meno di voler diventare un hilm'een, è come un bisogno, un... no. Bisogno non è la parola giusta. É un pensiero fisso, un desiderio che negli anni non ha mai perso forza, come una specie di idea martellante sempre presente in un angolo della mente, come...»
«Come se ti chiamasse?» La voce della Saggia si era fatta straordinariamente gentile.
«Sì.»
La mano leggera, percorsa dalle vene azzurrine della Saggia, si posò su quella di Aderyn, comprensiva.
«Alisea, non c'è nulla che potrebbe impedire a tuo figlio di diventare un hilm'een. Ci sono uomini che Nut stessa chiama e lui è tra essi. Ho sempre visto su di lui la sua benedizione, dovresti cercare di rendere questa sera indimenticabile per tutti voi e non una fonte di profonda tristezza.»
Con l'espressione affranta, la madre di Aderyn sospirò.
«Ora almeno so che ho fatto tutto ciò che era in mio potere per essere certa che fosse davvero sicuro» mormorò.
Alzandosi con i movimenti attenti della vecchiaia, l'anziana del villaggio si diresse, accompagnata dalla sorellina di Aderyn, alla porta. «Ci vediamo domani, passate questa ultima sera in letizia, fatelo per voi stessi.»




 



Aveva cercato di dormire, ma era stato completamente inutile. L'alba l'aveva quindi trovato già desto, seduto sulla panca di legno nel piccolo cortile dietro la loro casa, mentre gli animali della stalla dovevano ancora svegliarsi del tutto. Possedevano poche bestie: qualche gallina, una capra, alcuni conigli, nulla di più. Vivevano grazie al lavoro della madre che era un'ottima sarta e un'abile tintrice di stoffe in grado di ottenere colori che nessun altro, al villaggio, sapeva eguagliare.
«Aderyn?» Il giovane voltò il capo, incontrando lo sguardo della madre, in piedi nella cornice della piccola porta del retro. «Vieni, facciamo colazione.»
La sera prima era stata tranquilla, Milith aveva giocato a dadi con lui e gli aveva tenuto la mano per tutto il tempo mentre la madre cuciva, canticchiando. Era diventata una serata colma di una strana quiete malinconica, dal sapore dolce e amaro di un addio privo di parole. Si sarebbero visti ancora, ma lui sarebbe stato un hilm'een a quel punto e sapeva che tutto sarebbe stato diverso. Era certo che non sarebbe morto, che il sangue delle streghe non l'avrebbe ucciso, però ciò che sarebbe diventato sarebbe stato solo in parte il vecchio Aderyn.
Sospirò appena, seguendo la madre dentro la casa di pietra, i piedi nudi che non facevano nessun rumore sul pavimento.
La donna si affaccendò al focolare, mentre la sorella scendeva le scale e li raggiungeva, la lunga treccia di un biondo cupo come il suo che ondeggiava su una spalla.
«Hai svegliato quella povera capra per mungerla?» Alisea sorrise al figlio, indicando l'otre di coccio pieno di latte ancora caldo.
«Sai che si merita ogni dispetto!»
«E tu non gliene risparmi nessuno.» Il rimprovero della madre era dolce, divertito, mentre rientrava e metteva le uova strapazzate in un piatto, assieme a fette di pane abbrustolito, sul tavolo. Si sedette e mangiarono, l'atmosfera della sera prima che ancora aleggiava attorno a loro rendendoli silenziosi.
Alla fine della colazione, quando il sole era sorto completamente e ormai tutti erano svegli nel villaggio, la certezza che le streghe fossero giunte solleticò la mente di Aderyn. Era una sensazione che gli faceva rizzare i peli sulla nuca, come una specie di solletico.
«Sono qua.»
«Come fai a...» La madre sospirò. «Lascia perdere. Andiamo, allora.»
Aderyn annuì, andando a mettersi gli stivali e prendendo il suo arco. Quando si andava per la scelta non si portava con sé nulla della propria vita, seguendo poi il proprio destino unicamente accompagnati dalle proprie forze.
Percorse con al fianco la madre e la sorella la via principale del villaggio, unendosi ai pochi altri che si sarebbero offerti per diventare hilm'een. Era una processione silenziosa, un addio senza parole da parte di ogni abitante che li guardava e poi li seguiva a una certa distanza, per assistere.
Le streghe erano belle e potenti, affascinavano e spaventavano con il loro aspetto selvaggio, la loro libertà e stranezza. Erano le prime figlie di Nut, coloro che sentivano la voce della dea nel sussurro del vento e nel respiro della terra, che vedevano presagi nelle scintille del fuoco e dominavano i fulmini con un gesto; erano i loro canti a domare le maree e gli incendi, le loro voci che tessevano incantesimi per fermare valanghe e alluvioni. Salvavano i raccolti e i villaggi, curavano le loro genti e i loro animali, commerciavano con loro e in cambio di tutto ciò chiedevano quel tributo volontario e necessario per la loro sopravvivenza.
Erano le figlie di Nut, ma i figli erano andati perduti e uccisi, sepolti nella memoria di chi ancora ricordava e mantenuti in vita nelle leggende di chi aveva dimenticato.
Davanti agli occhi di Aderyn, ai confini del villaggio nella direzione della foresta, tre streghe erano in piedi, in silenziosa attesa. Una delle tre, dai capelli ramati intrecciati tra di loro in una cascata di treccine fermate da lacci di cuoio, fece qualche passo avanti, la candida civetta delle nevi che riposava sul suo braccio sembrò fissare Aderyn con i gialli occhi per un lungo istante, prima di disinteressarsi di lui.
«Tutti coloro che desiderano affrontare la prova sono qua?»
Musicale come quella di ogni strega, la sua voce arrivò al giovane, che sentì come una carezza a quel suono e un brivido dolce e pieno di aspettativa percorrerlo. Era davvero lì, era davvero il momento. Per anni aveva atteso quell'istante in cui avrebbe detto sì.
La Saggia del villaggio si fece avanti, apparentemente sbucata dal nulla, con il bastone intagliato a cui si appoggiava per camminare tenuto saldamente nella sottile mano nodosa.
«Sì, i nostri giovani che hanno scelto di essere sottoposti alla prova del sangue sono qua, onorata cacciatrice. A nome del villaggio vi saluto e vi offro la nostra accoglienza. Se volete fermarvi siete le benvenute.»
«No.» La strega scosse appena il capo, il viso era delicato, dipinto da righe verdi e i grandi occhi, dello stesso colore di quelli del suo famiglio, studiarono la Saggia. «Ti ringrazio, l'ospitalità è come se fosse accettata.» Socchiuse gli occhi, per poi sorridere con dolcezza. «Sono passati molti anni, Lunia, sono felice di vederti ancora tra la tua gente.»
«Quasi quaranta, Nel'thi. Tu sei sempre bellissima, come il fuoco dell'alba.» Le due donne si sorrisero, mentre l'ombra di un celato dolore passava negli occhi di entrambe. La Saggia annuì appena. «Il tempo però è stato generoso con me, mi ha permesso di vederti ancora una volta prima che Nut mi chieda di sedermi al suo banchetto.»
«La Madre ama ogni figlia e ogni figlio, ma sono certa che tu siederai tra i più amati al suo fianco, amica mia. Tra molti, moltissimi anni.»
Certo di aver assistito a qualcosa di molto più grande di quel che gli riusciva comprendere da quello scambio di battute, Aderyn studiò attentamente il volto dell'anziana del villaggio: le linee di quel volto sottile mostravano l'ombra di un'antica avvenenza che avrebbe potuto oscurare persino quella delle streghe. Guardò le due, perplesso, dimenticandosi però di ogni domanda quando l'attenzione di Nel'thi si focalizzò su di lui.
«Il tuo nome, giovane cacciatore?»
«Aderyn, figlio di Alisea e Muir.» Quelle iridi dorate e intense, dalle pupille verticali, si fissarono nelle sue.
«Bene, Aderyn, saluta chi ami e vieni con me.»
Il giovane si voltò verso la madre e la sorella solo quando l'attenzione della strega passò sul secondo volontario, liberandolo da quelle invisibili catene che l'avevano avvinto al suo sguardo. Erano solo in tre a offrirsi, quell'anno; solamente loro avevano deciso di tentare. Si conoscevano benissimo tra di loro e avevano passato assieme lunghe ore parlando di cosa li spingeva a intraprendere quella via, confrontando motivazioni tra di loro enormemente diverse, eppure tutte accomunate da quella strana ossessione che si risvegliava al pensiero delle streghe. Il desiderio di fare parte di quella tribù unica, di quella razza primigenia figlia di Nut, era quasi doloroso.
«Ci rivedremo.»
Alisea strinse a sé il figlio a quelle parole, abbracciandolo con tutta la sua forza, senza più riuscire a trattenere le lacrime.
«Che la dea ti benedica e accompagni, figlio mio. Oh, Aderyn!» Un singhiozzo interruppe le parole di lei, mentre quelle braccia sembravano volerlo stringere in eterno. «Torna a trovarmi, almeno una volta, mostrami che sei vivo figlio mio, ti prego!»
«Mamma...» Le lacrime che stringevano la gola del giovane lo resero muto per un lungo istante, prima di riuscire, infine, a liberare le parole. «Te lo prometto, mamma. Te lo giuro, mi rivedrai. Andrà tutto bene, diventerò un hilm'een, non morirò.»
«Non tutto di te, morirà, non tutto... ma non sarai più mio figlio, sarai sangue di strega, figlio di Nut.»
Il dolore di quelle parole trafisse il cuore del ragazzo, che strinse ancora più forte la madre tra le sue braccia.
«Sarò sempre tuo figlio, non sarà il sangue di strega a farmi dimenticare tutto quello che mi ha portato fino a qua. Tu mi hai cresciuto, mi hai abbracciato quando avevo paura o piangevo, tu e nessun'altra è mia madre. Non dimenticherò la mia famiglia.»
All'abbraccio si unì anche la sorella che singhiozzava apertamente; e rimasero così, avvinti in quell'intrico di braccia che come nodi cocciuti non volevano districarsi, mentre il tempo passava e le tre streghe attendevano in disparte che i saluti fossero fatti, gli addii dati.
Quando Aderyn si staccò aveva il viso solcato da lacrime; le asciugò con il dorso della mano e sorrise alla madre e alla sorella, cercando di mostrarsi molto più sicuro di quanto si sentisse. Improvvisamente il dolore della separazione lo faceva vacillare, ma non poteva rinunciare a quello che lo attendeva. Non poteva, semplicemente, tirarsi indietro.
Si voltò, raggiungendo la strega rossa che la Saggia aveva chiamato Nel'thi, pronto a iniziare il viaggio verso il cuore pulsante di quel popolo, il luogo conosciuto come il Palazzo di Pietra.
Le streghe non usavano le strade degli uomini, camminavano attraverso la foresta passando come brezza tra le fronde, sfiorando ciò che le circondava senza intaccarlo.
Leggiadre, agili e bellissime, una visione che rischiava, però, di smarrire a ogni passo e Aderyn dovette usare ogni sua capacità per non rimanere indietro: tutto ciò che sapeva sul muoversi nei boschi, sul correre sul terreno ricco di insidie nascoste, sul seguire le tracce. Doveva essere una sfida, una prova, il primo passo per dimostrarsi degni, probabilmente.
Corse tutto il giorno, il passo rapido di quelle donne era impalpabile, senza sforzo, ma lui ben presto fu coperto di sudore mentre le sue gambe divoravano distanze enormi su un terreno che mai aveva calpestato prima, in direzioni verso cui mai si era spinto, verso il cuore di quel territorio che, per rispetto, gli umani non avvicinavano.
Le gambe non avrebbero retto un solo altro passo, tremavano, non lo sostenevano più. Mentre il sole stava calando, solo con la forza di volontà continuava ad andare avanti seguendo le poche e quasi invisibili tracce lasciate dalle streghe. I tre giovani erano separati ormai da tempo: dopo il primo breve tratto, ognuno aveva affrontato quella prima giornata di marcia da solo, con il suo passo e le sue forze. Aderyn aveva perso di vista gli altri quasi subito, lasciandoseli alle spalle. Era il più abile e veloce del villaggio, era inutile negarlo; eppure tutta quella bravura non gli aveva permesso di tenere il passo con le streghe.
Era ormai stremato e, quando muovere anche solo un altro passo sembrava impossibile, davanti a lui Nel'thi sembrò comparire dal nulla.
«Vieni, potrai riposare per la notte al nostro fuoco.»
Guardò la strega e lei sorrise, sfiorandogli il volto con la punta delle dita in una specie di carezza. Era fresca, come se avesse passato la giornata seduta a riposare, mentre lui era sporco e grondante di sudore, assetato e affamato.
La seguì, trovando un piccolo fuoco in una radura, acceso in modo da essere praticamente invisibile e da produrre ben poco fumo. Si lasciò cadere a terra, il respiro ancora pesante e il corpo esausto come mai prima.
«Spero tu abbia cacciato, ognuno deve procurarsi la sua cena.»
A quelle parole il ragazzo spalancò in silenzio la bocca, fissando la strega dai capelli neri come se non capisse. Poi il significato effettivo di quelle parole gli entrò in testa e si trovò a imprecare silenziosamente.
«Non l'ho fatto» trovò solo la forza di dire. «Domani, domani lo farò... c'è dell'acqua?»
La strega indicò una borraccia e lui la prese, trangugiandone il contenuto. «Grazie.»
Si sedette allungando le gambe, togliendosi gli stivali per controllarli. Se si fossero rotti avrebbe dovuto rallentare notevolmente il passo, ma erano ottimi e resistenti e, al controllo del ragazzo, non mostravano problemi di sorta. Lo stomaco brontolava e nonostante la stanchezza si guardò attorno: stare a pancia vuota avrebbe voluto dire meno energie per il giorno seguente e ancora meno forza per trovare del cibo lungo il percorso. Non c'era solo la caccia per potersi nutrire, però, e con fatica si alzò, camminando a piedi nudi sull'erba di quella radura, osservando nella fioca luce quello che vi si trovava. Individuò subito del tarassaco, qua e là della camomilla, alcune altre erbe commestibili e le raccolse in un angolo della camicia, andando poi verso un tronco caduto che aveva adocchiato, dove trovò alcuni funghi e, staccando un pezzo di corteccia che usò come piatto, delle grosse larve. Nulla di appetitoso, ma si poteva mangiare ed era più che sufficiente a riempirsi lo stomaco.
Sentiva gli occhi delle streghe su di lui e Nel'thi gli sorrise, mentre tornava al fuoco, per guardare divertita le due compagne. «Ve l'avevo detto che non sarebbe rimasto senza cena, Nut gli ha dato buoni occhi.»
«O molta fame.»
Aderyn guardò la strega mora sorridendo mentre metteva i funghi sulla pietra calda del fuoco a cuocere e puliva il tarassaco.
«O entrambi» aggiunse, con un sorriso.
Le tre annuirono mentre Nel'thi si alzava. «Stanno arrivando gli altri, vado a prenderli.»
Passò poco tempo prima che gli altri ragazzi, sfiniti quanto Aderyn, capissero che dovevano cercare del cibo. Guardarono le larve che il giovane stava finendo e in poco tempo imitarono ciò che aveva fatto lui, anche se impiegarono più tempo a cogliere i dettagli del terreno che gli avevano permesso di trovare da mangiare e che a lui erano balzati agli occhi con naturalezza.
Con l'ultimo boccone, finirono anche le energie e il giovane lasciò che il sonno lo facesse sprofondare nel buio, donandogli il riposo di cui aveva bisogno in vista della giornata successiva.
Viaggiando in quel modo, impiegarono una settimana ad arrivare a una grande radura al cui centro un enorme albero, di una specie che Aderyn non conosceva, troneggiava. Il tronco chiaro era così ampio che neanche un centinaio di uomini avrebbero potuto abbracciarlo e pur ricordando una quercia non lo era, i pesanti rami che si innalzavano erano pieni di un fitto fogliame di un colore sorprendente, di un verde simile al blu, dalle iridescenze che ricordavano la coda di un pavone.
Si fermarono ai bordi della radura che incorniciava quel regale albero, osservandolo alla luce del primo pomeriggio con occhi ammirati che si riempivano di quella bellezza.
«Questa è l'entrata al Palazzo di Pietra, tra le radici dell'Ankhetela c'è l'accesso al nostro regno sotterraneo.»
Nel'thi guardò i giovani, in piedi accanto a lei e attenti alle sue parole.
Aderyn si era abituato molto più in fretta dei compagni all'andatura che usavano, cogliendola già nella sua essenza il secondo giorno. L'anima del ragazzo era già protesa verso Nut, trepidante, mentre gli altri avevano faticato di più a percepire, imitare e seguire quella specie di connessione con il terreno che sembrava guidare i passi delle streghe. Eppure ora erano tutti lì, stanchi eppure felici.
Nel'thi sperava riuscissero tutti a passare la prova, ogni volta che un umano periva a causa del loro sangue era un grande dolore, una perdita che le streghe piangevano dal profondo del cuore, eppure non c'era modo di sapere se un maschio sarebbe o meno sopravvissuto fino a quando non avesse bevuto.
Solo allora c'era la risposta, non sempre positiva.
Si avviarono attraverso la radura, Aderyn camminava con lo sguardo puntato alla chioma di quell'albero, immensa e quasi luminosa nella luce che rifletteva. Sembrava quasi brillare di suo, in realtà, e la cosa stava affascinando il giovane che non distoglieva lo sguardo dal movimento delle foglie. Ipnotico, nella impalpabile brezza che da sud sfiorava ogni superficie, il vento sembrava quasi sussurrare parole d'amore a quella chioma arborea, pareva accarezzarla con dita d'aria come un amante.
«Vedi anche tu ciò che sta oltre l'apparenza.»
Aderyn si riscosse, fissando Nel'thi, perplesso. «Oltre l'apparenza...?»
La strega si limitò a sorridere misteriosamente per poi guidarli lungo un sentiero battuto e delineato da piccoli fiori azzurri, simili a erica. Quella piccola via si univa poi a una più grande e, tra le radici dell'albero, enormi e nodose, un passaggio a forma di arco si aprì davanti a loro mostrando un varco verso il sottosuolo.
Non esisteva solo quella città delle streghe; erano cinque in tutto e ognuna era in un luogo singolare per bellezza e posizione.
«Quest’albero fu piantato dalla regina Aislin, prima di partire per la guerra che finalmente mise fine al conflitto tra uomini e streghe. Viene chiamato Ankhetela, un termine che nell'antica lingua sacra indica la vita, il suo continuo e il cerchio della rinascita che nulla può spezzare. Lei sapeva che sarebbe morta, ma che il suo popolo avrebbe continuato a vivere; così creò un seme con i suoi poteri e chiese a Nut stessa di benedirlo. Lo piantò all'entrata della sua città e nel momento della sua morte esso prese a crescere e germogliare diventato in pochi anni immenso. Il suo dono d'amore ora è per sempre a protezione del suo popolo.»
La strega camminò fino a quell'arco di pietra scolpita che emergeva tra quell'intrico, grande abbastanza da far passare un gigante, e scomparve oltre la soglia, dove due guardie erano poste a sorveglianza; erano le prime due streghe completamente vestite di nero che vedeva.
Nel notare il suo sguardo, Nel'thi lo aspettò oltre il varco dai battenti di pietra spalancati.
«Quando vedi una strega vestita come loro, porta molto rispetto. Le chiamiamo Cail'ka, sono... cacciatrici particolari, che hanno rinunciato a qualunque cosa per mettersi al servizio del popolo e della regina. Sono guerriere e streghe particolarmente potenti. Fortunatamente ora la loro presenza non serve più che sia numerosa come un tempo, la pace è un dono che permette a tutti una vita migliore.»
Aderyn annuì e, lanciando un'altra occhiata a quelle due guardie, seguì la loro guida.
Così quella era la capitale, chiamata il Palazzo di Pietra perché scendeva nelle viscere della terra, serpeggiando attraverso la roccia con le sue sale rischiarate da torce, lanterne ed enormi colonie di funghi luminosi. Passo dopo passo scopriva quella bellezza sotterranea e piena di una magnificenza da togliere il fiato: i pavimenti erano lisci, di pietra colorata e talmente lucidi da riflettere la luce e le pareti piene di dipinti e bassorilievi, che raffiguravano elementi arborei e naturali così ben fatti da sembrare veri. A intervalli regolari sale enormi si aprivano lungo i passaggi, ospitando veri e propri villaggi segreti, scolpiti nella roccia. Colonne di stalattiti che univano soffitto e pavimento erano scalpellate in forme che ricordavano alberi dalle sagome impossibili, mentre piccoli animali delle profondità, simili a farfalle luminescenti, volavano tra i tronchi di quella foresta di pietra. Ovunque Aderyn guardasse c'era solo bellezza, gemme intagliate a forma di fiore adornavano muri e colonne, foglie d'oro e di cristallo incorniciavano stipiti e finestre, fontane gorgheggiavano, sgorgando in coppe di marmo scolpito.
Attorno a lui però non vedeva nessun hilm'een: c'erano solo streghe dagli occhi pervasi di magia, dall'aspetto fiero e selvaggio.
Voleva chiedere, però qualcosa lo bloccava, una specie di consapevolezza interiore gli sussurrava all'orecchio, consigliandogli di attendere in silenzio, dandogli la strana certezza che le risposte sarebbero presto arrivate. Proseguirono attraverso quelle che il giovane capì essere vie che portavano sempre più in profondità, abbandonando quella ricercata bellezza per addentrarsi in strade meno abbellite e più funzionali.
Entrarono in una specie di cortile dove sostavano alcune streghe, che sui fuochi rimestavano erbe dentro calderoni, in quello che sembrava una specie di laboratorio. Aderyn però riconobbe l'odore: erano tinture e gli scappò un sorriso. Guardò più attentamente e vide le mani di quelle donne macchiate dai colori e quella cosa così semplice, famigliare e umana, cancellò quella paura che aveva iniziato a bussare contro la sua anima.
Anche le streghe erano semplici donne: lavoravano la terra, cucivano abiti, mangiavano.
L'odore del tannino gli entrò prepotentemente nelle narici, le pelli stese ad asciugare in un angolo avevano colori che sua madre avrebbe sognato, brillanti e uniformi. Passarono attraverso quella specie di cortile, affiancando le grandi vasche dove i tessuti riposavano nel colorante, e si addentrarono lungo un'apertura simile a un corridoio dove delle ripide scale scendevano sempre più in profondità. Nel'thi aveva tra le mani una lampada, ma per gli occhi umani di Aderyn la luce era davvero scarsa e così andò più a istinto che a vista, rischiando, assieme ai compagni, di cadere più volte.
Infine si fermarono e davanti a loro il corridoio, ora in piano, presentava varie aperture a destra e sinistra. Ripresero a camminare e, guardando dentro quelle nicchie, Aderyn vide che erano piccole stanze. La strega iniziò a rallentare dopo essere scesa di un altro piano, arrivando a un corridoio uguale al precedente e infine si fermò, indicando il cunicolo a uno di loro; quando l'amico entrò, proseguirono finché l'ultimo a entrare in una di quelle stanzettine spoglie di pietra fu Aderyn.
«Vi chiedo di non uscire, di non andarvene, di non parlare. Abbiate fiducia e pazienza, il primo passo per la luce è il buio. Il grembo materno è un luogo di calda oscurità che protegge il bambino, per poi farlo venire al mondo nella luce. Rinascerete e, come un neonato, troverete la luce dal buio.»
Con queste parole la luce venne spenta e Aderyn, pur non sentendo alcun rumore, fu certo che le streghe se ne erano andate, lasciandoli soli.
A tentoni, usando le mani in quel buio assoluto, misurò quei pochi metri di spazio, sentendo poi sotto le dita il pagliericcio che aveva intravisto e vi si sedette sopra. Tolse gli stivali, mettendosi a gambe incrociate, e attese che il suo corpo cessasse di essere irrequieto, calmando la propria mente e portando la sua consapevolezza all'esterno. Sentì il respiro dei due amici, spaventati da quell'oscurità, e si dispiacque per loro. Eppure c'era altro, lo sentiva come un brivido sulla pelle.
Non faceva freddo, la pietra che aveva toccato era quasi calda e anche se la ricordava disadorna e grigia, ora nello sfiorarla al buio gli pareva che avesse qualche forma incisa. La parete accanto a sé, almeno, sembrava presentare una specie di disegno che era stato invisibile agli occhi e, curioso, iniziò a tracciarlo con le dita. Non seppe quanto rimase lì, in ginocchio, completamente assorbito mentre i suoi polpastrelli sfioravano e toccavano, cercavano, percorrevano e imparavano.
Alla fine si rese conto che c'era un complesso disegno lungo tutta la parete, un'immagine che non capiva, ma che percepiva chiaramente. Alcuni elementi sembravano parole, eppure non le aveva riconosciute. Tutte quelle linee si muovevano sinuose creando curve e spirali, cerchi e nodi. Percorse tutta la parete, seguendo quei tratti lungo il perimetro della porta che fu attento a non varcare, sulla parete opposta. Era convinto che anche nel soffitto ci fossero e, controllando, la sua ipotesi che anche il pavimento ne fosse pieno fu avvalorata.
Si distese sul pagliericcio, il poco spazio esplorato, e sentì una strana calma pervaderlo. Lentamente cadde in una specie di dormiveglia dove i ricordi si alternavano ai sogni e quando una lieve luce attrasse la sua attenzione, si rese conto che doveva essere passato molto tempo. Aveva sete e fame, e la donna, una strega, sembrava brillare debolmente.
Non era un sogno, di quello era certo.
Guardò con attenzione quella figura velata che teneva tra le mani una coppa d'argento con attorcigliati viticci d'edera, lavorati con tale maestria da sembrare veri. Le lunghe dita snelle accarezzavano il bordo mentre si avvicinava fino a mettersi al suo fianco e Aderyn si mise seduto, sentendo la testa girare violentemente e la vista appannarsi.
«Sono Mabd.»
Quella voce era quanto di più melodioso il giovane avesse mai sentito e il suo cuore perse un battito quando intravide chiaramente il volto di lei: occhi dell'oro più puro, luminosi come soli, lo guardavano attraverso una piega di quel velo che ora pareva inesistente.
Lui rimase in silenzio, osservando quella coppa che era stata messa tra di loro piena di un liquido che, nell'ombra, pareva nero. La strega prese un rametto d'edera e posò tra di loro la coppa, versando in essa qualche goccia di liquido da un'ampolla e mescolando il tutto. Poi dalla cintura della veste prese un falcetto con cui si incise il palmo e dalla ferita iniziò a sgorgare il sangue, che arrossò quella pelle bianca e perfetta, gocciolando nella coppa.


 

«Dall'oscurità e dal sangue rinascerai, nuova vita tu avrai.

Aderyn sangue di strega, che la magia sia ciò che ti lega.

Bevi il succo dell'albero sacro, dissetati di sangue donato,

prendi la via di difficile risalita, alla sua fine troverai la vita.»



Quelle parole cantilenate ammaliarono il giovane che prese la coppa che la donna gli porgeva, sfiorando con le proprie le dita sporche di sangue di lei, e bevve. Il liquido era amaro, denso, e sembrava bruciare in gola mentre scendeva fino allo stomaco dove, come un masso, sembrò fermarsi.
Un dolore acuto iniziò a propagarsi lungo i nervi del giovane, mentre il respiro accelerava e il mondo sembrava perdere consistenza.
Gli sembrava di affondare nel pavimento di pietra e di esserne allo stesso tempo schiacciato.
Urlò, quando una fitta più violenta lo colpì e senti le grida degli altri fare eco alle sue, mentre sprofondava in una specie di incubo in cui il dolore di una trasformazione, di una rinascita, lo avvolgeva.
 

 

 


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