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Autore: Lost In Donbass    10/10/2016    3 recensioni
Tom è un traduttore di romanzi, squattrinato, disordinato, con la memoria particolarmente corta e la mania di cacciarsi in casini molto più grandi di lui.
Bill è un giornalista, geniale, psicologicamente instabile, dotato di una memoria elefantiaca e affetto da nevrosi acuta.
Si sono visti e rivisti, questi due ragazzi, ma solo ora si decideranno a parlarsi, a riconoscersi, a entrare in un contatto che di sano non ha proprio niente. E in una Berlino misteriosa, tra amici inconcludenti, grunge degli anni 90, ricordi che vengono a galla, crisi di nervi e perle filosofiche di periferia, riuscirà Tom a salvare Bill da se stesso? O lo perderà di nuovo, forse per l'ultima volta?
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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CAPITOLO OTTO: MI ABBRACCI?

Erano oramai le due di notte quando Tom decise di spegnere il computer e lasciare perdere gli ultimi due capitoli della traduzione, gli occhi pesti dal sonno, la fastidiosa ansia di quello che avrebbe trovato una volta entrato nella stanza da letto che lo aspettava inquietante e buia di fronte a lui. Aveva fatto finta di non dare particolare peso all’ultima affermazione di Bill, quella che gli aveva dato un’ansiogena buonanotte. Era pazzo, doveva infilarselo in quella testa cocciuta che si ritrovava: soffriva di qualche psicosi misteriosa, quindi non poteva fidarsi ciecamente di ciò che gli diceva. Eppure qualcosa di fastidioso e pressante continuava a suggerirgli di investigare un po’ meglio su quella grottesca frase mormorata a mezza voce. Ma ora era decisamente troppo stanco per poter ragionare lucidamente su qualcosa che non fosse strisciare in un letto e non sul divano verde. Tom si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando rumorosamente, sentendo la musica di qualche night club di periferia rimbombare qualche via più in là, insieme alle regolari sirene della polizia, delle ambulanze, e alle ancora più ovvie urla di gente senza nome e senza dimensione. C’era qualcosa di caldo e di protettivo in quel guscio di periferia; forse, non avevano tutti i torti quando dicevano che un legame simile tra i più persi dei persi porta a qualcosa di troppo elevato e assurdo per poter essere compreso da persone normali. Sospirò rumorosamente, cominciando a strascicare i piedi verso la stanza avvolta nella penombra della notte. Non appena entrò, le sue narici cominciarono a sezionare accuratamente tutto ciò che gli si riversò addosso: fumo, sicuramente. Fumo di sigarette fatte a mano, quelle che Bill teneva sempre tra le lunghe dita pallide e nervose e che fumava in continuazione. Profumi da donna, quegli stessi profumi che gli impregnavano la pelle così a fondo da sembrare che ci fosse nato col profumo di vaniglia e rosa addosso. Trucchi, che gli coprivano il viso come una maschera da Pierrot e da cui era impossibile liberarsi, appiccicosi e meravigliosi come lo stesso Bill. Tempere, che coloravano tutto, le armi che combattevano la guerra contro il mondo intrapresa dal biondo ventisette anni prima, violente e ribelli contro un nemico senza nome e senza identità. E infine, qualcosa che era solo Bill, l’insieme tossico di tutte queste cose che davano alla testa più di una sniffata di coca o di una musica meravigliosa. La lucina sul comodino era ancora accesa, una matita e un album da disegni giacevano stretti tra le braccia anoressiche di Bill, come se lui si fosse semplicemente addormentato così, senza accorgersene. Si avvicinò il più silenziosamente possibile al letto matrimoniale che troneggiava in mezzo alla stanza, cercando di non inciampare nella miriade di vestiti e libri sparpagliati un po’ dovunque sul pavimento, visualizzando la figura di Bill accoccolata scompostamente in mezzo al piumone. Sorrise suo malgrado con aria ebete, allungandosi a spegnere la luce sul comodino quando l’occhio un po’assonnato gli cadde sul disegno lasciato incompleto che Bill stava facendo sul suo album. Ora, che fosse stanco era un dato di fatto, ma la sua curiosità era patologica. Ne era un esempio la settimana in cui non aveva chiuso occhio per starsene attaccato alla tv a vedere tutte le stagioni di Downton Abbey. Sospirò, sottraendo dolcemente dalle mani del biondo l’album e scivolò con rapidità nel suo spazio di letto, accarezzando piano i capelli arruffati ma incredibilmente morbidi di Bill, scompigliandoglieli con delicatezza. Era bellissimo, notò. Bellissimo perché era tranquillo, teneva quegli occhioni vuoti chiusi e quindi scomparivano tutti i demoni che li animavano quando era sveglio, il viso era rilassato, non più contratto in una perenne smorfia terrorizzata da tutto ciò che lo circondava, una specie di sorriso infantile stampato sulle labbra, vecchissimo e giovanissimo allo stesso tempo, il sorriso di chi ha visto tutto prima di quando avrebbe dovuto vederlo. Il corpicino da modella anoressica si avviluppava su se stesso, avvolto in una sgraziata maglietta dei The Cult, soffocato dal piumone rosa shocking che fece ridere Tom tra sé e sé. Sì, Bill era sempre bellissimo, ma quando dormiva assumeva un’accezione così celestiale che avrebbe risvegliato pure Raffaello e Tiziano dalle tombe per fargli un ritratto.
Si sdraiò nella sua parte di letto, lontano dal piumone rosa che gli metteva caldo solo a vederlo, rimanendo in boxer. Sperava solo che una volta che si fosse svegliato, Bill non lo prendesse per un maniaco. Accese la lucina del suo comodino, sperando tra sé che Bill non si svegliasse a causa della debole luce e cominciò a studiare il disegno rimasto incompiuto. Come al solito, l’abilità del biondo era qualcosa di inquietante nella sua perfetta bellezza che pareva fotografare l’immagine e riportarla sulla carta esattamente uguale all’originale. Tom sorrise da solo, lanciando un’occhiata a Bill che mugolava qualcosa di indistinto nel sonno e osservò con curiosità le figure ritratte nel disegno. C’erano due ragazzi, seduti su un letto. Uno di loro teneva in braccio un neonato di cui non si distingueva il volto ma solo la forma, l’altro teneva la manina microscopica del bambino e sorrideva, il capo poggiato sulla spalla aguzza del compagno. Per un assurdo, potente, geniale momento, Tom credette che quei due ragazzi fossero lui e Bill con il loro futuro bambino e gli sembrava già di essere partito per il Valalla e ritorno, quando presto la sua antipatica coscienza gli rese presente che i suoi occhi cisposi dal sonno avevano preso lucciole per lanterne, come al solito. No, quei due non potevano essere lui e Bill, effettivamente. Primo, perché il ragazzo che teneva in braccio il bambino era di una magrezza eccessiva, e lui non era affatto anoressico. Secondo, aveva i capelli molto più lunghi dei suoi e lasciati bianchi, quindi sarebbero dovuti essere presumibilmente biondi. Terzo, aveva il viso affilato, incavato e glabro. Quindi anche lì corrispondeva come potevano corrispondere un gatto e un elefante. L’altro, invece, poteva tranquillamente essere scambiato per una ragazza, e solo l’occhio allenato di un ragazzo assolutamente omosessuale poteva comprendere la vera natura dell’immagine di un ragazzo coi capelli corvini acconciati in una crocchia scomposta e spettinata, il viso uguale a quello del Bill più giovane che piangeva in ogni autoritratto appeso alle pareti della casa. Sì, quelli potevano essere Bill e un altro uomo sconosciuto. E quel bambino, chi sarebbe mai potuto essere? Si grattò una guancia, sfogliando senza far rumore un altro foglio dell’album, incontrando nuovamente i due personaggi in bianco e nero del primo disegno. Questa volta il quadretto era completo, con quelle due figure sedute su una spiaggia, teneramente abbracciate, come se lo stessero guardando e gli volessero comunicare tutta la loro felicità e il loro amore. Era strano, pensò Tom, che Bill, un ragazzo così solo, sociopatico e ipersensibile disegnasse cose di quel genere, come il perfetto prototipo di ragazza innamorata che illustra i punti salienti della sua relazione. Acceso di curiosità, continuò a sfogliare l’album e si imbatté nel meraviglioso disegno del ragazzo biondo impegnato a suonare un pianoforte a coda disegnato magistralmente su cui stava seduto a gambe accavallate il Bill moro. Un altro rappresentava un muro ricoperto di graffiti dove sedevano i due impegnati in un bacio piuttosto appassionato. Quello ancora dopo presentava un letto sfatto con i due ragazzi seminudi che dormivano stretti uno all’altro. Tom grugnì silenziosamente di disapprovazione. Bellissimi, certo, e finti. Ma moriva dal desiderio di sapere chi fosse quella figura bionda che popolava      quei dipinti. Che ruolo aveva avuto nella vita di Bill, sempre che non fosse il parto malato di quella mente distrutta e martoriata? E come mai i disegni lo rappresentavano più giovane e non ve n’era nessuno, in quell’album di bianchi e neri, che fosse com’era in quel momento? C’erano tanti segreti in quella casa e in quel personaggio angelico rinchiuso nella sua mente che dormiva serafico al suo fianco, che Tom si sentiva già la testa pesante. Voleva risolverli, certo, ma non si sentiva molto all’altezza di un mistero simile.
-Toooom? Tom, perché sei sveglio?
La voce impastata dal sonno di Bill lo fece sobbalzare di scatto e gettare l’album per terra, nel terrore di essere colto in flagranza di reato.
-Eh? No, Bill, tranquillo, dormi.- disse impappinandosi – Io … sto bene.
-Ma Tooom, sono quasi le tre … chiudi la luce.- Bill lo guardò con gli occhi semi chiusi, tirandolo per il braccio.
-Sì, tesoro, chiudo la luce.- Tom si tuffò a spegnerla, per non incappare in qualche crisi isterica notturna. – Non ho molto sonno, ma tu dormi.
-Vuoi una tisana per conciliare il sonno? Ne dovrei avere qualcuna.- mormorò Bill, avvolgendosi nel piumone e facendo quasi sudare Tom dal caldo boia che c’era.
-No!- quasi urlò il ragazzo, nel terrore che gli rifilasse una di quelle robe imbevibili da stregoni hippy anni 60 – Davvero, non ti preoccupare per me. Buonanotte.
Si chinò su Bill, stampandogli un bacio sulla fronte. Bacio che Bill accolse con un mugolio indistinto da gatto che fa le fusa e con un’arpionata al braccio.
-Buonanotte, Tom.- lo tirò per il braccio fino a farlo sdraiare – Mi abbracci?
Tom non sapeva se essere contento della richiesta o no, siccome gli bruciava non poter continuare la sua indagine ricavata dai carboncini, ma accettò silenziosamente, facendo scivolare le braccia attorno al corpo magrissimo del biondo, facendogli posare la testa sul suo petto, sospirando rumorosamente per il caldo che Bill e il piumone gli stavano portando ma tacque, sorridendo debolmente quando sentì quel meraviglioso paio di gambe da modella avvinghiarsi con una presa resistentissima al suo bacino, e le braccia stringerlo come a non volerlo mai lasciare andare. Sembrava un cucciolo di koala. Tom rimase così, a fissare il vuoto di quella camera bollente, il cuore di Bill che batteva a contatto col suo, il suo respiro lontano ma regolare soffiargli direttamente sulla pelle nuda della scapola, tante strane immagini di ricordi dimenticati e sovrapposti a scorrergli davanti come un cinema muto disordinato, un sonno terribile a gravargli addosso e l’impossibilità fisica di addormentarsi normalmente. Erano anni che Tom non dormiva decentemente, ed erano anni che viveva assonnato, incapace di soddisfare il suo bisogno di dormire, incapace di lottare contro la sua mente perennemente eccitata e piena di immagini da riproporgli in mille salse diverse, incapace di fare qualcosa che non fosse rincorrere un sogno vissuto che nessuno avrebbe mai potuto raccontargli.
 
-Tesoro, ma che cosa stai … oh mio dio, Tom!
Lo strillo di Bill fece immobilizzare il ragazzo sul posto, i capelli sparati dappertutto, una mano mezza ustionata, gli occhi gonfi, e un paio di toast carbonizzati ai piedi.
-Ehi, Bill, buongiorno!- rise istericamente Tom, notando che quel coltello poteva essere interessante per farla finita una volta per tutte. Si era svegliato prestissimo dal suo orribile dormiveglia, in un bagno di sudore, soffocato dalle continue visioni notturne che prendevano vita davanti ai suoi occhi gonfi e arrossati senza dargli tregua e aveva pensato bene che non sarebbe stata una brutta idea quella di preparare la colazione. Era abilmente strisciato in cucina, avanzando eroico ed impavido tra la quantità industriale di roba sporca e dipinti che troneggiava dappertutto, fino a raggiungere dopo una specie di percorso minato che solamente un militare super addestrato reduce del Vietnam avrebbe potuto superare indenne (ovviamente, Tom non era un militare super addestrato reduce del Vietnam. No, Tom era solamente un ragazzo molto poco atletico, rovinato dai Cavalieri dello Zodiaco, troppo fissato con Street Fighter e convinto di poter un giorno sedere sul Trono di Spade con l’Anello del Potere al dito, la spada di Shannara al fianco e un leone gigante come animale domestico.) la poltrona piazzata strategicamente al posto di un qualunque tavolo o qualsivoglia ripiano. Giunto lì, vi era collassato miseramente, i capelli unti più che mai appiccicati al collo e un improvviso, terrificante bisogno di patatine fritte che, a quando vedeva, non ve ne erano. Julia non lo lasciava mai senza patatine, conscia di cosa si sarebbe scatenato se si fosse trovato senza la sua primaria fonte di sopravvivenza, e faceva in modo che non gliene mancassero mai, neppure la notte. Ma ora, era tutto diverso. Era in territorio nemico, dove non poteva fidarsi di nessuno e dove doveva ancora studiare il territorio per trovare fonti di approvvigionamento. Aveva cominciato a saggiare il campo, senza trovare altro che delle grandi riserve di melanzane alla parmigiana, tanto che si chiese se Bill si nutrisse solamente di quello. La sua ricerca non gli aveva fruttato altro che smangiucchiare svogliatamente una di quelle benedette melanzane, mentre tentava senza successo di aprire la finestra della cucina per arieggiarla, ma trovandola ineluttabilmente sbarrata dall’esterno. Aveva tentato di ignorare le bambole nel forno e alla fine aveva optato per tornare a farsi un giro per la casa in penombra, per evitare di fuggire a gambe levate da quella stagnante situazione da incubo. Forse stava definitivamente impazzendo. Anzi, probabilmente era già impazzito del tutto e niente gli vietava di essere in realtà sotto l’effetto allucinogeno di qualche sedativo da cavallo. Era tornato in camera, avanzando a tentoni nel buio pesto, intravedendo la sagoma di Bill soffocata dal piumone che pareva dormire ancora come un ciocco, anche se a stento gli si sentiva il respiro, per poi ritrovare dopo un po’ di tastate sul pavimento l’album che aveva risvegliato la sua attenzione quelle notte. Più alla cieca che mai, era ritornato in cucina, dove si era nuovamente appollaiato nella sua Minas Tirith elettiva, in compagnia del piatto di melanzane che in fondo erano pure decisamente buone e dell’album dei segreti. Aveva potuto studiare con più attenzione i disegni e bearsi della loro perfezione, aggravata da quell’aura malinconica e nostalgica che lo stesso Bill aveva addosso, nella voce, nel modo in cui ondeggiava, in cui fumava, in cui viveva. Sembravano tanto il rigetto di una periferia bastarda e assassina. Sembravano tanto i sogni mai morti di un ragazzo che non ha mai avuto il diritto di vivere la sua vita e che si era rifugiato nella fantasia per sfuggire a un mondo che non lo voleva. Sembravano tanto la disperazione suicida di una persona persa. Solamente con la luce smorta della cucina, Tom si rese conto che sotto quei disegni così belli c’erano delle frasi, talmente piccole e delicate da essere a fatica scorte. Mosso dalla curiosità, le avvicinò agli occhi, tentando di decifrare quella piccola, morbida calligrafia, un po’ arzigogolata e molto poco maschile. Si strofinò gli occhi, e scorse, con una certa fatica che sicuramente sotto al disegno del pianoforte c’era scritto “Sono un indovinello così oscuro, non puoi distruggermi”. Passò oltre, a quella del bacio, dove, nei graffiti che riempivano il muro, si poteva distinguere un “Le pallottole urlano a me da qualche parte”, come in quella del letto tra le coperte erano intrecciate le parole “Perso nella mia testa malata, vivo per te ma non sono vivo”, e allo stesso modo in quello con la spiaggia citava “Mi piace vedere come tutti voi sanguinate per me”. Erano pezzi di canzoni grunge, lo capiva da solo, forse gli Alice In Chains, gli parevano sul loro stile. Ma che significato misterico avevano rispetto a quei disegni oscuri animati da personaggi senza nome e senza tempo? Sembravano essere semplicemente senza dimensione, avvolti da questa sfera grunge che sapeva tanto di periferia americana anni ’90 , qualcosa di cui l’inconscio di Tom era a conoscenza e che lui si sforzava di ricordare. C’entrava il grunge e c’entrava l’America, ovvio. Ma come al solito era perso nelle nebbie impenetrabili del suo cervello addormentato. Quindi, alla fine aveva pensato che forse fare due toast e mettere su il latte avrebbe riscosso successo al risveglio di Bill, e magari come ragionamento non avrebbe fatto una piega se presto non si fosse ritrovato con un dannato tostapane diabolico con su disegnato il simbolo dei Nirvana che non la voleva sapere di tostargli il pane ma che anzi, aveva deciso di bruciarglieli e di scoppiargli praticamente in faccia. Senza contare il fatto che l’unico latte che aveva trovato era scaduto da almeno due mesi. E ora era lì, con Bill seminudo che lo fissava con aria innocente e lui era lì con due pezzi di pane bruciato in mano e l’aria sconvolta. Riusciva sempre a mettersi in buona luce con la gente, sempre.
-Oh, Tom, ma come mai hai voluto fare tu la colazione?
Bill lo guardò con quei suoi grandi occhi malinconici, un incerto e dolce sorriso stampato sulle labbra piene che avrebbe voluto far sprofondare Tom sotto dieci metri di terra. Solamente lui, su tutto il pianeta Terra, avrebbe potuto essere così cretino da trovarsi ad avere problemi con uno stupido tostapane degli anni ’90 e con un paio di fette di pane da tostare dall’aria vagamente stopposa. Sì, solamente lui era in grado di fare quelle figure letteralmente terribili davanti al suo nuovo … già, che cos’era poi in fondo Bill per lui? Un amante? Un amico molto stretto? Un angelo sceso dalle nebbie per salvarlo? Forse rappresentava semplicemente il suo tutto. Il suo tutto che aveva appena assistito a uno dei suoi più clamorosi esempi di imbranataggine più che unica.
-No, io … beh … speravo di farti una sorpresa.- Tom arrossì un po’, grattandosi il retro del collo con aria evasiva.
Bill scoppiò a ridere, quella sua risata argentina e scrosciante come una cascata anche di primo mattino, e gli si appese al collo, stampandogli un sonoro bacio sulle labbra, bacio che sorprese non poco Tom, che si aspettava già di venir cacciato di casa inseguito da un mattarello volante.
-Ti ho fatto esplodere il tostapane, e ti ho bruciato due fette di pane. Credo che … - iniziò il ragazzo, osservando Bill che, serafico come sempre, prendeva il vecchio tostapane e lo riponeva sopra al frigo cinguettando
-Su, tesoro, non ti preoccupare per così poco. Il tostapane è morto com’è morto Kurt Cobain. Non gli ho disegnato sopra il simbolo dei Nirvana per niente, no?
Tom non fece nemmeno in tempo a replicare qualcosa, che Bill lo spinse sulla poltrona, gli si sedette in braccio, e gli propinò una delle porzioni di melanzane alla parmigiana che riempivano tutta la cucina, mentre trillava
-Oggi, mi devi assolutamente accompagnare in un posto!
-Davvero? E dove?- a Tom si illuminarono gli occhi, ignorando che quella che tecnicamente avrebbe dovuto essere la sua porzione stava venendo allegramente divorata da Bill. Accompagnarlo da qualche parte voleva dire solo una cosa: che Bill si stava abbastanza innamorando di lui. E di meglio non chiedeva.
-Devo andare a fare una serie di interviste al centro sociale della zona nord.
Tom rischiò di strozzarsi con la saliva che stava cominciando a scendere a sentire Bill che si era praticamente spalmato sopra e che gli si strusciava impunemente addosso
-Cosa?! Ma stai scherzando?! Perché ci dovresti andare?
Il biondo sfarfallò gli occhi, posandogli le lunghe mani sulle spalle
-Che cosa c’è, Tom? Devo solo andare al centro sociale perché sono l’unico della Redazione abbastanza matto per metterci il naso dentro. Che problemi ci sono?
-Che problemi? Ma Bill, te lo sei detto da solo! Non è per sputtanare i centri sociali, visto che praticamente ci vivo dentro, ma quello della zona nord è un covo di avanzi di galera, di violenti, di schizzati … ti distruggeranno!
-No, stai tranquillo.- Tom non sapeva se essere terrorizzato dal sorriso tranquillo del biondo o dal fatto che si stessero per andare a infognare nel peggio del peggio – Nessuno può nulla contro un angelo nato prima del mondo. E cosa vuoi che siano!
-Saresti andato da solo a infognarti in un posto simile?- Tom fece tanto d’occhi.
Bill lo osservò attentamente, prima di stringergli le guance tra le dita e sussurrargli sulle labbra
 -Ma non sono solo, Tom. Ci sei tu con me. Dai, ora preparati che dobbiamo muoverci!
-Che cristo di casino hai fatto, razza di deficiente?
La voce di Hansi rimbombò nelle orecchie di Bill come uno sparo. Chiuse gli occhi, raggomitolandosi su se stesso come un riccio, nella speranza vana che lo ignorasse, stringendosi le mani sulle orecchie, il caldo sangue che cominciava a sporcargli la pelle pallida e malaticcia.
-Ma porca puttana, Bill! Cosa cazzo hai combinato?!
Soffocò un gemito quando sentì le lunghe dita di Hansi avvolgersi ai suoi capelli e strattonarlo fino a fargli tirare su il viso, sporco di trucco, lacrime e sangue. lo guardò negli occhi, quegli occhi di un pallido celeste assatanato, il viso affilato sconvolto da una smorfia scioccata, i capelli platino che gli ricadevano fino alla vita, la bocca malvagia distorta in una piega furibonda. Si era arrabbiato. Lo avrebbe picchiato. Lo avrebbe ucciso, forse. Ma a Bill non importava. Non disse nulla, si limitò a singhiozzare, i polsi tagliati, fradicio di sangue che gli sgorgava dalle cosce, dalle braccia, dalle caviglie. Aveva provato a morire da solo, ma nemmeno quello era in grado di fare. No, non aveva combinato altro se non insudiciare tutto la stanza da letto e scatenare la furia di suo fratello. Sei un buono a nulla, Bill. Non sai nemmeno suicidarti senza dare fastidio a qualcuno.
-Mi chiedo come è potuto venire al mondo un essere tanto abietto come te! Tanto stupido da non poter nemmeno farla finita senza rovinare la mia vita! La smetti di essere sempre a mezzo? Cosa dico adesso a Holly? Come le spiego tutto il casino che hai combinato tu, mostro schifoso? Perché non sei nato morto?
Bill guardava Hansi e piangeva piano, spezzato dal dolore dei tagli che gli ornavano tutto il corpo, dei capelli tirati e strattonati, del cuore sempre ferito e frustato. Sperava di morire prima che tornasse a casa. Sperava che così suo fratello almeno avrebbe avuto una vita felice, senza lui attorno. Lui voleva solo che fosse contento.
 
Quello fu probabilmente il viaggio in metropolitana più inquietante che Tom avesse mai sperimentato in vita sua, lui e Bill abbandonati all’alba di una triste mattina uggiosa e afosa su una delle carrozze più male in arnese di tutto il sistema metropolitano della capitale tedesca, in compagnia di un vecchio ubriaco che puzzava di birra stantia e di due ragazzine seminude che ridacchiavano istericamente canticchiando le canzoni di qualche boy band del momento. E poi c’erano loro due, un tipo mezzo addormentato coi capelli unti impegnato a leggere un brutto libro in inglese lurido di maionese e una sorta di diavolo senza ali che si ritoccava il trucco specchiandosi nel vetro sporco che non facevano altro che completare quel quadretto di infima qualità che si prospettava secondo i dettami della falsa Guerra Fredda nello specchio di una Berlino che nascondeva nel suo sterile grembo i figli imperfetti della sua opulenza. Non c’era nulla di poetico in Tom e Bill che scivolavano giù dalla metro, lasciandosi alle spalle le lacrime dell’ubriaco e le cantatine delle ragazzine, come fantasmi pallidi nell’ombra della notte che si eclissava via e lasciava spazio alla nebbiolina umida del mattino. Nulla di romantico nel vederli strisciare silenziosamente, uno appeso all’altro come a doversi sostenere in una partita a scacchi in cui continuavano a venire distrutti da una regina invisibile, verso il grosso edificio grigio fumo di stampo sovietico che si ergeva inquietante in mezzo alla polvere che si alzava e alla nebbia della Sprea. Nulla di soave nel sentire la voce melodiosa e triste di Bill canticchiare quella canzone degli Screaming Trees di cui Tom si scordava sistematicamente il nome, nel sordo rombare delle macchine che ingolfavano il traffico mattutino, nel debole risuonare di una radio lontana. Nulla di emozionante nel guardare Bill che come se nulla fosse gli si appendeva al collo, stampandogli un bacio sulle labbra dicendogli “Non credo di metterci dei secoli, là dentro” e vederlo ondeggiare sui tacchi a spillo vertiginosi, tenendosi in piedi per modo di dire, verso la porta semi distrutta del centro sociale, ancheggiando in modo tropo sensuale per quel posto, lasciandolo lì, seduto sugli scalini paciugati di graffiti a scrivere pacificamente la sua traduzione come fosse normale che un ragazzo di buona famiglia se ne stesse seduto alle sette del mattino in un posto simile a lavorare mentre aspettava una buffa creatura che superava le leggi della fisica e del tempo. Sicuro, a Tom non importava. Anzi, a modo suo si divertiva pure, a vedere la città svegliarsi mentre seguiva le gesta di Lloyd che finalmente stava arrivando in Florida, sperando in cuor suo che Bill riuscisse a fare la sua dannata intervista e che nessuno gli facesse qualcosa di sconveniente. Certo, da parte sua era comunque convinto che Bill mettesse più paura da solo, col suo sorriso innocente, gli occhi vuoti e l’abbigliamento da battona che lui con la sua faccia impregnata di sonno e i suoi pugni, che a onore del vero erano piuttosto efficaci, se si arrabbiava veramente o se gli toglievano la tv. Avrebbe benissimo potuto cavarsela da solo, a fare quelle interviste che nessuno avrebbe mai voluto fare. Sì, indubbiamente Tom sapeva che se la sarebbe cavata da solo se non che dopo un tempo indefinito sentì uno degli inconfondibili strilli terrorizzati di Bill risuonare nel silenzio uggioso di Berlino. Fece giusto in tempo ad alzarsi di scatto, senza nemmeno capacitarsi davvero di cosa fosse successo, mosso solamente dalla voce angelica del suo demonio, per precipitarsi dentro l’atrio poco illuminato e appesantito dalla puzza di marijuana che vide qualcosa che lo fece semplicemente bloccare boccheggiando, come quelle tre o quattro persone che erano lì. Perché per quale diavolo di motivo Bill se ne stava raggomitolato per terra a strillare come un’aquila verso una normalissima ragazza bionda che lo fissava terrorizzata, tenendosi le mani premute sulle orecchie e piangendo disperato qualcosa che poteva essere interpretato come un “Lascialo stare, Holly, è tutta colpa mia”?
  
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