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Autore: Lady R Of Rage    13/10/2016    1 recensioni
Una giovane, fragile umana è tutto quello che si frappone fra Mettaton e i suoi sogni.
Quando lui e la ragazza si fronteggiano per un’ultima, strenua battaglia, la star è convinta che sarà questione di poco.
A volte, però, le cose non vanno come noi vorremmo, e un fallimento può originarsi dalla ragione più insospettabile.
E mentre un dolore atroce si fa largo attraverso il suo corpo, incomprensibile per Alphys e ancor meno per lui, Mettaton capisce che è giunto il momento di scendere a patti con la realtà.
E di capire per davvero quali sono i suoi sogni.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alphys, Frisk, Mettaton, Napstablook
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie '#MTTBrandVitaDiM...'
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Chiacchiere

I see the love in disguise
I see the pain hidden in your pride
I see you're not satisfied
And I don't see nobody else
I see myself

(Mirror, Lil Wayne ft. Bruno Mars)

Si incontrarono alle Cascate.
Undyne indossava una canottiera nera sopra un paio di pantaloni dello stesso colore; neri erano i suoi stivali anfibi, la fascia che le stringeva i capelli, le secche e frettolose strisce di eyeliner, e c’era una sfumatura di cupezza anche dentro i suoi occhi.
Anche Alphys aveva indossato un maglioncino nero sotto il camice, recuperato rapidamente dal fondo del suo armadio nel suo appartamentino a Hotland, adiacente al laboratorio dove lavorava. Là si era anche lavata il viso, soffiata il naso e ripassata il trucco, ma guardandosi allo specchio aveva comunque notato, per primi, due occhi rossi e stralunati, dilatati per il lungo strofinio e le molte lacrime versate.
Per un attimo le era balenato alla mente di provare ad affidarsi alle mani di truccatore esperto di Mettaton per limitare il danno, ma non aveva osato tornare al Resort. Probabilmente il robot era ancora di cattivo umore, e l’ultima cosa di cui Alphys aveva voglia in quel momento erano altra scortesia e un atteggiamento di sufficienza.
Aveva anche pensato, mentre si dirigeva verso le Cascate stringendosi nel camice come se sentisse freddo, di chiedere all’amica qualche consiglio su come ricompattare il rapporto con lui. Nonostante fosse ancora irritata dal suo comportamento indisponente, era comunque dispiaciuta nel vederlo soffrire, e in ogni caso non poteva tollerare di avere uno screzio aperto con uno dei suoi amici.
Sapeva benissimo di stare dalla parte della ragione, ma non riusciva comunque a tollerare l’idea di perdere uno dei suoi pochi cari. Il pensiero della solitudine la spaventava come la più macabra delle novelle, soprattutto in quel momento con re Asgore sparito per sempre
Undyne, se possibile, sembrava stare anche peggio di lei. Sembrava quasi una copia sbiadita dell’impetuosa eroina che lei conosceva. 
“Non avrei mai creduto di vederla tremare” pensò sedendosi accanto a lei su una panchina, guardando attonita le sue mani unghiute strette attorno a una delle travi.
-A quando è il funerale?- domandò la donna anfibia in tono monocorde, guardando distrattamente verso la volta della grotta.
-T-tre giorni.- rispose lei. Tirò fragorosamente su col naso: l’umidità delle Cascate non le avrebbe fatto per niente bene alla salute.
Undyne torreggiava al suo fianco come una guardiana, la mano stretta attorno alla sua schiena, gli occhi ancora umidi puntati altrove. Era una visione rassicurante nonostante tutto. C’era qualcosa di piacevole nel poter condividere con qualcun altro un dolore così grande.
Un pugno di Undyne, scagliato con violenza contro il lato della panchina, la strappò dai suoi pensieri. Alphys guardò con un certo spavento le dita della guerriera che si stringevano su sé stesse con forza, come spire attorno a un ramo.
-Secondo te… se fossi stata là…- la voce di Undyne era fredda come l’acqua delle cascate. -Avrei potuto fermarlo.-
Alphys sospirò lungamente, massaggiandosi le piccole mani squamose.
-Non p-possiamo sempre salvare tutti q-quelli che vogliamo. Nemmeno t-tu puoi.- disse piano, quasi senza pensarci.
Undyne sbatté le palpebre rapidamente, come per ricacciare negli occhi qualche lacrima fuggitiva.
-Sei… sei molto saggia, Alphys.- mormorò distrattamente. Si voltò verso la sua piccola amica e allungò una mano verso la sua spalla. Alphys sentì un rapido brivido nel corpo, di pura emozione.
-Quando ero piccina, Asgore mi insegnò che il dolore nasce per essere superato. Che la gente può guarirsi a vicenda, diciamo.-
Strinse la mano attorno alla spalla di Alphys, facendola sussultare. 
-Tu ci credi?-
Alphys si sistemò gli occhiali sul muso, deglutendo impercettibilmente. -Io… io c-credo di sì.-
Le sue dita, un po’ per l’umidità e il freddo, un po’ per l’improvvisa timidezza, si intrecciavano fra di loro rapide ed attive come piccoli insetti nella terra.
-Diciamo che… c-che l’ho g-già sperimentato. E s-sì… direi che può essere m-molto importante p-per te.-
-Sarà.- disse Undyne, con un tono carico di inattesa rassegnazione.
Si alzò dalla panchina e si voltò verso l’amica ravviandosi i capelli.
-Andiamo a curarci, allora..- 
Gli occhi della guerriera incrociarono quelli timidi e umidicci della piccola lucertola, che sentì una punta di timore, sicuramente visibile anche attraverso le pupille, scorrerle attraverso la schiena. 
Ma Undyne accennò un triste sorriso sulle labbra sottili; poi allungò una mano verso Alphys e le indicò una stradina sottile che si allontanava serpeggiando fra le pozzanghere e i cespugli..
-Vieni a casa mia.- disse. -Ci beviamo del te.-
Alphys rimase in silenzio per lunghi secondi, in un silenzio pesante e umido interrotto solo dal gentile gocciolio dell’acqua dolce.
Nella sua mente apparvero, una dopo l’altra, l’immagine di un laboratorio buio e polveroso, infestato da creature senz’anima né coscienza; quella di un trono vuoto, ammantato da uno strato di polvere grigia; infine due freddi occhi magenta, illuminati da un lucore vetroso, dall’espressione carica di disprezzo.
Poi rispose:
-V-va bene.-

Il mondo era bianco quando Mettaton rinvenne. Un universo senza orizzonte, ovattato da un silenzio quasi sacrale, che lo avvolgeva come una coltre di neve.
Il robot impiegò parecchi secondi a capire che, semplicemente, era crollato faccia in giù nel suo tappeto di pelo bianco. Puntellò le mani contro il pavimento e si levò a sedere, prendendo profondi respiri nella quiete completa della sua camera vuota.
Se avesse avuto saliva nella bocca, se la sarebbe sicuramente sentita riarsa e disseccata. Era confuso e debole, in preda a un capogiro tormentoso. 
Lo stomaco continuava a dolergli con forza lancinante. Quella volta, però, riuscì ad alzarsi senza fare troppa fatica, e a trascinarsi nuovamente verso il letto. Impiegò un minuto intero a raggiungerlo, gattonando sul terreno con una mano premuta sopra la cintura; poi si mise seduto  al suolo, con la schiena appoggiata alla testiera, e iniziò a pensare assaporando la solitudine. Il sapore amaro, stantio, del senso di colpa, gli riempiva la bocca come cloroformio, e le immagini sconnesse e abbaglianti del suo sogno gli illuminavano gli occhi come riflettori puntati male.
La stanza era completamente silenziosa, e con le luci spente non era illuminata che dal riverbero della calda luce di Hotland, calcando sul pavimento di legno bianco delle lunghe e lugubri ombre. Mettaton si sentiva sempre più scomodo ogni attimo che passava. 
Quella camera così bella e lussuosa cominciava a stargli stretta.
Preso da una strana idea si alzò, ansimando teatralmente in un tentativo di sfogare il male al corpo, e con la schiena incurvata come un vecchio si incamminò verso il suo piccolo soggiorno.
L’ala più interna della sua suite, separata dalla stanza da letto da un gradino discendente, era arredata come un salotto, con quadri alle pareti, suppellettili sugli scaffali, tre divani di finta pelle nera disposti a rettangolo, un mobiletto basso nel mezzo, e un realistico caminetto dipinto sulla parete, con delle fiamme che sembravano ballare nella penombra come se fossero vere. 
Era uno dei posti in tutto il Sottosuolo che Mettaton preferiva. Preferiva considerare sé stesso un individuo estroverso e socievole, sempre circondato da una compagnia adorante, ma quella di stare, una volta ogni tanto, per conto proprio, era una necessità da fantasma che la grande star non era mai riuscita ad eliminare del tutto. Poche cose lo rilassavano come sedersi la sera su uno di quei divani, ammirando il proprio corpo sotto una luce calda e soffusa, e sedersi per un’oretta o due nel silenzio, bevendo olio caldo o benzina e lasciando scorrere i pensieri.
Su uno dei divani era adagiata una coperta di lana fucsia, fatta ai ferri, un dono ricevuto tempo prima di una fan a Snowdin. Mettaton vi si avvolse come in uno scialle, allungò le gambe su tutto il divano, stringendo i denti per il dolore allo stomaco, e digitò un numero sul suo cellulare rosa pastello.
-Burgerpants? Sì, sono io. Potresti portarmi, per favore, un’altra tazza di olio bollente?-
La voce irritata e annoiata del mostro felino rispose subito alla sua: -Sono subito da voi, capo. Vi serve altro?-
-Forse una cosa sì, tesoro.-
-E di cosa si tratta?-
-Ho bisogno di parlare con qualcuno.-

Angolo della Lady:
Scusatemi in anticipo per il ritardo su questo terzo capitolo.
1. Sì, non ho messo volontariamente la scena in cui Undyne ed Alphys arrangiano per incontrarsi. Mi piace iniziare le cose in medias res, concentrandomi più sul worldbuilding. 
2. Le OST delle Cascate, Waterfall (quella che si sente un po' dappertutto nel livello) e in misura minore Quiet Water (quella che si sente, ad esempio, fuori dalla casa di Napstablook) sono tra le mie preferite, e in generale le Cascate sono il luogo che preferisco. Hanno più atmosfera e pienezza degli altri livelli (le Rovine, il percorso innevato, Hotland e il Core hanno spesso un'aria... vuota, diciamo), e hanno l'aspetto più creativo, con il mondo più tridimensionale. Le ho ascoltate più volte per aiutarmi a scrivere le scene Alphyne.
3. Mettaton non ha una semplice gastrite fulminante. Direi che si è capito.
4. Il prossimo capitolo sarà, come questo, prevalentemente dialogue-based. 
Lady R (di fretta)
  
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