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Autore: rossella0806    16/10/2016    2 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Se fossi tu
chissà se riusciresti ad indossare per un’ora i miei occhi
e fissarti fino a che non ti stanchi
[…]
Guardo il cielo sopra la città che sta morendo
penso che forse non te l’ho mai detto
ma era una vita che ti stavo aspettando

(Francesco Renga ,“Era una vita che ti stavo aspettando”, 2014)




Avevo trascorso il pomeriggio a studiare.
Ero stanca ed annoiata, anche per il caldo che cominciava, solo allora, a diminuire.
La verità è che ero nervosa: aspettavo che lui mi chiamasse, che mi facesse avere sue notizie.
L'indomani sarebbe tornato in città, dopo il congresso a cui aveva preso parte a Marsiglia, e contavo le ore che ci separavano con una spasmodicità che quasi non riconobbi come mia.
Quella mattina, verso le otto e mezza, ci eravamo sentiti per messaggio, prima che si recasse all'ennesima conferenza di cervelloni da cui mi aveva volutamente esclusa per non ferirmi, come mi aveva ripetuto più volte.
Buongiorno, piccolo angelo. Mi manchi. Ci vediamo presto.
Nell'arco della giornata, rilessi quelle frasi spezzate almeno una decina di volte, solamente per convincermi che ancora mi pensava, che non si era dimenticato di me, e che non poteva mettersi in contatto con maggiore assiduità per il semplice fatto che esistevano degli impegni a cui doveva fare fronte.
Portavo il cellulare appresso ovunque andassi, persino in bagno, per paura che la suoneria fosse ad un livello troppo basso da impedirmi di rispondere nell'arco di un nanosecondo.
Verso le undici, stanca di quella cappa emotiva a dir poco opprimente, uscii dal convitto per andare a fare qualche acquisto in libreria: nel negozio in fondo all'angolo, infatti, comprai due volumi di una scrittrice triestina che tanto avevano acclamato sui giornali e in alcuni programmi TV, e ne approfittai per prenotare il seguito di una saga norvegese che mi stava appassionando come pochi.
Mi distaccai dal locale di malavoglia, giusto in tempo per il pranzo, sebbene continuassi ad avere lo stomaco in subbuglio.
All'una, infatti, avevo appuntamento con una mia amica per mangiare una piadina in uno dei bistrot cosiddetti di ultima generazione, poco lontano dal centro, ma in realtà non avevo per niente fame.
Così, con una scusa banale quale può essere un improvviso mal di testa, rimandai all'indomani, scusandomi infinitamente per averla avvisata tanto in ritardo.
Di ritorno al convitto, andai di filato nella mia stanza, pregando di non incontrare anima viva.
Condividevo la camera con un'altra mia coetanea, Alessia, in città per svolgere lo stesso corso di potenziamento estivo offerto dalla Facoltà, corso che avrei dovuto frequentare anch’io, se non fossi stata impegnata ad inventarmi escamotage d’amore uno dietro l'altro.

Dribblai la sala comune, incredibilmente affollata, in cui noi ospiti passavamo gran parte del tempo libero, e sorpassai altrettanto fulmineamente la cucina, dove quella mattina, dopo colazione, avevo avvisato
le consorelle addette ai fornelli, suor Fabrizia e suor Augustina, che avrei pranzato fuori.
Ma la buona sorte, purtroppo, decise di voltarmi le spalle.
Non appena aprii la porta della mia camera, convinta di trovarla assolutamente vuota di qualsiasi presenza umana, mi si parò davanti Alessia, reduce da una doccia.
Aveva ancora i capelli lunghi e mossi umidicci, il phon in una mano, e indossava una maglietta bianca su dei pantaloncini turchese che ricordavano senza troppo difficoltà il colore dei suoi occhi.
“Lara! Che ci fai qui?”
“Io … non avevo fame. Cioè, non ho fame, e ho preferito tornare indietro. Tu, piuttosto, perché non sei ancora a mangiare?”
Lei fece spallucce, per poi levare lo sguardo disperato al soffitto immacolato.
“Suor Fabrizia ha di nuovo rischiato di far saltare in aria la cucina. Hanno chiamato il solito elettricista, ma sembra che questa volta ci vorrà più tempo: sono saltati dei fili di non so quale importanza, perciò ci tocca aspettare pazientemente
Mi tolsi i sandali, mettendoli nell'apposita apertura della portafinestra, quindi buttai la busta con i miei preziosi acquisti sulla scrivania che avevamo in comune, controllando subito dopo che non avessero subito danni.
“Ma che cos'hai?”
Alessia aveva riacceso il phon, e urlava per sovrastare il rumore dell'apparecchio.
In effetti, mi rendevo conto di quanto la mia tristezza fosse palese e senza un motivo apparente, ma tale doveva rimanere, perché non potevo raccontarle nulla.
“Te l'ho detto, non ho fame …”
Rovistai nell’armadio di pino alla destra dell’ingresso, alla ricerca di un vestito più informale rispetto a quello rosso che avevo infilato per uscire.
Ne scelsi uno verde oliva, sbracciato, e lo indossai silenziosa, per poi sdraiarmi sul letto e coprirmi gli occhi con un braccio, in modo da riflettere.
Il cellulare era rimasto nella borsetta a tracolla, abbandonata su una delle due sedia di legno davanti allo scrittoio: non era mia intenzione alzarmi per recuperarlo, nonostante vibrassi di curiosità e di ansia dettate dall’avere sue notizie, ma mi imposi un certo contegno.
“C'è qualcosa che ti turba, Lara, lo so” cercò di indagare la mia amica, spegnendo il phon.
Erano tre anni che ci conoscevamo e che condividevamo la stessa camera: inoltre, era stata una delle poche persone a rimanermi veramente vicina, a supportarmi e a consolarmi silenziosamente in quei mesi ormai lontani in cui avevo lottato per riprendermi, per questo detestavo ulteriormente doverle mentire.
“Lasciami stare, Alessia, non ho voglia di parlarne. Credimi, te lo chiedo per favore”
Mi si avvicinò irriducibile, sorda alle mie insistenze, e si sedette sul letto, alzandomi il braccio che mi proteggeva metà viso.
“È per un ragazzo? Fino alla scorsa settimana eri così euforica, invece adesso sei diventata mogia e apatica ...”
Voltai lo sguardo contro il muro alla mia sinistra, per non fissarla negli occhi, mentre avvertivo il senso di colpa divorarmi.
“Non è niente, stai tranquilla. Semplicemente sono stanca e non ho fame”
“Sì, ma io …”
Il suono della campanella che avvertiva le venti ospiti del convitto che il pranzo stava per essere servito, arrivò come un lenitivo sulle mie ferite del cuore.
Alessia rimase a guardarmi ancora una manciata di secondi, indecisa su cosa dire, se insistere o lasciar perdere, quindi si alzò e si guardò allo specchio a muro, sistemato in un angolo della stanza, vicino alla scrivania davanti a noi.
“Guarda che non finisce qui … non mi piace il tuo comportamento”
Il suo tono di rimprovero era più che giustificato, ma in quel momento l'unica cosa che desideravo era che lei se ne andasse.
Appena uscì, grugnendo all'ennesimo rimprovero, mi sollevai dal letto, disposto parallelamente a quello della mia coinquilina, con i comodini di legno bassi e tozzi ai lati delle due brande.
Ringraziai mentalmente l'elettricista che aveva riparato così velocemente i fornelli, sorridendo per la sbadataggine che contraddistingueva suor Fabrizia.
La verità era che non sapevo cosa fare, anche se mi rendevo conto che non potevo continuare a vivere nell'incertezza, nella speranza che lui mi chiamasse, nell'attesa di trascorrere qualche ora insieme, il tutto solamente una volta la settimana.
Mi rimisi distesa, lo stomaco che cominciava a brontolare, e fissai il soffitto, da dove pendeva uno striminzito lampadario bianco.
Quella stanza mi era sempre piaciuta, fin da quando ero venuta a vederla, ormai quattro anni prima, dopo l'ultimo anno delle superiori nella mia città.
Aveva le pareti di un rosa pallidissimo, che sembravano un tutt'uno con il mobilio di legno chiaro che poteva vantare, arredamento che si componeva della coppia di letti e di comodini sopra citati, di uno specchio dalla cornice nera anni Settanta, da due sedie bianche, da una scrivania del medesimo colore e dall'armadio di pino a cui ho accennato poco fa.
Ci muovevamo a malapena, Alessia ed io, ma a me piacevo lo stesso, forse per il senso di famigliarità che emanava, e anche per il minuscolo bagno attiguo decorato minuziosamente a mosaico, ideato per ospitare un piccolo lavabo ed un altrettanto WC in miniatura.
Rimasi a fissare il soffitto ancora per qualche istante, le braccia dietro la testa, poi decisi di raggiungere le altre ragazze in sala mensa, sperando che fosse rimasto qualcosa anche per me.
Lo so che sarebbe potuta sembrare una pazzia, anzi, un controsenso, ma improvvisamente mi resi conto di aver bisogno di compagnia, di qualcuno che mi aiutasse a dimenticare la solitudine che avvertivo rodermi senza ritegno il corpo, il cuore e l'anima.
Liberare la mente dal pensiero ossessivo di lui non mi avrebbe fatto altro che bene, ne ero convinta, anche se ciò avrebbe implicato un notevole quanto disumano sforzo.


Come scritto all'inizio, passai il pomeriggio a studiare.
Verso le sei, dopo che mi ero arresa e stavo per andare a fare una doccia nei bagni in comune situati nel corridoio, sentii il cellulare squillare.
Avevo ancora una mano sull'anta dell'armadio che avevo appena richiuso, indecisa se considerarmi preda di un sogno oppure no.
Quando mi resi conto, però, che quel suono penetrante e costante non era il frutto della mia immaginazione, buttai tutto sul letto per fiondarmi a rispondere, acchiappando il telefonino sul comodino con la rapidità di un ghepardo.
Ciao, Lara
Era lui, finalmente era lui!!
“Ciao. Come è andata oggi?”
Avrei voluto salutarlo con un "allora ti ricordi di me!", ma non volevo fare la parte della ragazzina asfissiante e morbosa.
Bene. Oggi è toccato ad un collega di Napoli intervenire. Sai, abbiamo appena finito: è stata una giornata lunghissima ed interessante, però stancante come poche. Ho mangiato un pessimo panino e ho la testa che mi rimbomba, ma adesso basta, non parliamo di me. Come stai? Mi manchi, non vedo l'ora di rivederti
Sembrava un vecchio bollettino telegrafico. Ciao. Stop. Passo e chiudo.
Nemmeno un accenno al fatto che fosse praticamente sparito, che da quasi dieci ore non dava sue notizie.
“Anch'io sto bene. E mi manchi. Stamattina sono andata alla libreria all'angolo e ho comprato due volumi che sono osannati dalla critica come non capitava da anni, poi dovevo pranzare con una mia amica, ma non avevo voglia di incontrare nessuno, e così sono tornata al convitto. Com'è il tempo? Qui ci sono trentadue gradi”
Mi diedi della stupida: mi ero lamentata fino a un minuto prima perché aveva ritardato a cercarmi, ed io cosa avevo di meglio da fare? Nulla, se non raccontargli il resoconto della mia interessantissima giornata.
Lui è un uomo, mi dissi, non desidera sentirsi dire queste cose, lui vuole altro, vuole … già, che cosa voleva?
Il tempo è bello e fa molto caldo. Il mare l’ho visto praticamente solo dalla finestra dell’albergo. Mi è dispiaciuto non fare nemmeno una nuotata: domani dovremo essere in aeroporto per le undici e … Lara, sei ancora lì?
“Sì, scusa"
Avevo trattenuto il respiro senza accorgermene, preda di uno sconforto che non sapevo spiegare, a tal punto da avergli trasmesso la sensazione di parlare ad una cornetta vuota.
"Comunque sono contenta che tutto stia andando bene. Vorrei tanto che fosse già venerdì, così potremo vederci”

Morsi il labbro, sperando di non aver detto qualche altra sciocchezza, e rimasi in attesa.
Ho voglia di te, Lara. Ho bisogno di te
“Anche tu. Sapessi quanto. Le mie giornate sono vuote, praticamente vivo aspettando un tuo messaggio, una tua chiamata ...”
Ecco, lo avevo confessato. A rischio di risultare stucchevole o melensa, gli avevo espresso tutto il mio spaesamento senza di lui.
Sei il mio piccolo angelo, ricordatelo sempre. Ora devo andare, mi devo cambiare per la cena. Ti scrivo per le undici, quando andrò a dormire. Se non mi senti, è perché sarò sprofondato in un sonno talmente profondo che nemmeno le cannonate potrebbero svegliarmi!
Annuii meccanicamente, e lo salutai con un banale torna presto, reprimendo il desiderio di dirgli "ti amo".
Gettai il cellulare sul letto, pronta come un automa a recuperare il cambio dei vestiti per andare a fare la doccia, prima che Alessia tornasse dalla sala comune e mi facesse il terzo grado.
Mi avviai lungo il corridoio con l'entusiasmo di uno zombie, pensando che, probabilmente, avrei dovuto dirgli comunque che lo amavo, superando la timidezza che mi aveva inaspettatamente colta.
Dalla nostra prima volta, due settimane prima, non lo avevo più ammesso se non a me stessa, ma vivevo in funzione della sua approvazione, esistevo solo per i nostri passionali ed intensi incontri.
E se non avesse gradito? Se non gli avesse fatto piacere? continuavo a ripetermi, rimuginando se avevo fatto davvero bene a non essere più disinibita.
Aprii il getto dell'acqua fredda con quel dubbio che mi rimbombava in testa, mentre le miriadi di gocce si diffondevano ed abbracciavano vigorosamente il mio corpo, desideroso solamente del contatto delle sue mani e della sua bocca.

   
 
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