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Autore: Pathetic    16/10/2016    5 recensioni
[Fanfiction Interattiva | New Prophecy | Blood, Tears and Death | Iscrizioni chiuse]
Un mare nero macchia la pelle degli dei.
Alcuni miti sono rimasti sepolti più di altri, racchiusi nell’ombra di una colpa celata agli occhi dei mortali.
Ma tutti i segreti sono destinati a riemergere e ritrarre gli Olimpi per ciò che sono davvero.
Sarà una guerra senza pietà e i mezzosangue dovranno schierarsi su di uno o su di un altro fronte.
Perché la giustizia non esiste.
Non quando è un bambino a cadere nel sangue di una colpa che non gli appartiene.
E nemmeno Apollo seppe deviare la rotta di quella freccia maledetta.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Gli Dèi, Oracolo di Delfi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La Quiete prima della Tempesta
 



Non aveva mai amato particolarmente quelle giornate fredde e uggiose, ma d’altronde non poteva di certo aspettarsi che per tutta l’estate splendesse il sole. Si strinse maggiormente nella sua divisa mentre la mano che stringeva la sua spatha di oro imperiale rimaneva ben salda all’impugnatura. Erano già passate un paio di ore da quando aveva iniziato il suo turno di guardia insieme a Matt, un guerriero della Terza Coorte nonché suo compagno di baracca. Erano arrivati al Campo nel medesimo anno e avevano cercato di darsi man forte per tutto il periodo in cui quella maledettissima piastrina era stata messa in mostra al loro collo. Non era stato facile farsi accettare, soprattutto da quelli della Prima Coorte, ma alla fine erano riusciti a ritagliarsi un posto tra le fila della legione.
Quando ripensava al passato, Jackson rivedeva i giorni che aveva trascorso alla Casa del Lupo, là dove era stato addestrato fino a sputare sangue. Erano passati anni dal giorno in cui vi aveva messo piede per la prima volta, ma al solo pensiero risentiva i muscoli contrarsi nelle sfide che aveva dovuto affrontare, tutti quei percorsi e combattimenti che gli avevano imbrattato i capelli di sudore e terriccio.
Non si vergognava ad ammetterlo: era stata dura. Alzarsi ogni mattina con ancora i vestiti sporchi del giorno prima; maneggiare un’arma che non aveva mai visto; imparare le arti della guerra, il latino; e superare tutti gli ostacoli che la dea Lupa aveva in serbo per lui. Ogni volta che impugnava la sua spada del colore del miele e fendeva l’aria poteva risentire quell’odore di pini, abeti e fatica, il sapore del ferro in bocca e quegli occhi oscuri che lo fissavano nell’ombra. Era un ragazzino nemmeno poi tanto alto allora, sperduto, confuso, pieno di domande, ma non si era tirato indietro. Si era macchiato di terra ad ogni caduta, aveva sentito il sapore della sconfitta e quello della rivincita, la voglia di riprendere a combattere come mai prima di allora. Sapeva di avercelo nel sangue, combattere lo faceva sentire vivo, essere sempre sul punto di morire gli trasmetteva un’adrenalina che un semplice essere umano non avrebbe mai potuto comprendere. Quando stringeva quell’elsa scura Jax non era più il ragazzo pieno di dubbi, ma un Romano della dodicesima legione fulminata.

Strinse gli occhi nelle nubi che oscuravano il cielo, sarebbe stata una notte fredda e piena di pioggia, forse anche una delle più tempestose. Era già qualche settimana che il tempo pareva essersi atrofizzato nell’inverno.
“Non sembra il tempo ideale per una buona passeggiata a Nuova Roma” sollevò le spalle Matt puntando le iridi celesti appena sopra le punte degli alberi “Un vero peccato, ma almeno dormiremo freschi stanotte.”
Jackson poteva percepire una nota sarcastica nella prima frase, lanciò uno sguardo al compagno mentre il vento piegava i fili d’erba del grande prato verde oliva e i rami degli abeti si colpivano l’un l’altro. Aveva un’aria serena nonostante le strane voci che erano cominciate a girare al Campo, qualcuno mormorava l’inizio di una nuova profezia, qualcun altro le solite idiozie sugli dei e le loro liti.
Jackson era troppo giovane per sapere quanto sangue avevano versato le ultime profezie, aveva sentito dei racconti su prodi semidei e forze antiche, ma non erano che parole influenzate dall’immaginazione di chi gli stava accanto. La profezia dei Sette, ad esempio, era stata predetta trent’anni prima, decenni fin troppo lontani perché Jax potesse conoscerli. Tutta la sua vita occupava solo metà della lunga attesa che aveva accompagnato il silenzio dell’augure.
Non sapeva molto sull’aruspicina che vigeva ancora a Nuova Roma o sulle profezie che si presentavano in modo assai più macabro e sovrannaturale al Campo Mezzosangue. Qualcuno gli aveva parlato di un fumo verde che fuoriusciva dalla bocca dell’Oracolo, di un contorcersi agonizzante e di un’amnesia improvvisa, il che gli faceva pensare più alla stregoneria che non all’antica Grecia. Non gli sarebbe piaciuto affatto fare da spettatore a una visione del genere.
Lasciò che i suoi polmoni si riempissero dell’aria ormai intrisa di pioggia e si rimise con la schiena dritta, a volte dimenticava la corretta postura che il suo Centurione soleva ripetergli con insistenza.
-Sei un soldato, non un contadino.- continuava a ripetere con forza e spesso Jackson sarebbe stato ben felice di fulminarlo con un’occhiataccia. C’erano parti di Bronn che proprio non sopportava, ad esempio il suo essere così ligio al portamento e il suo spronarlo a dare sempre di più, anche quando Jax non si sentiva più il fiato e la testa gli pulsava dallo sforzo. Gli era grato per la fiducia che riponeva in lui, per il suo essere sempre pronto ad istruirlo nonostante avesse già superato i dieci anni di servizio e potesse tranquillamente congedarsi con tutti gli onori. Bronn era rimasto, aveva continuato ad aiutarlo a contenere e controllare i suoi poteri, e a buttarlo giù dal letto per una sana e stancante corsa mattutina. Da parte sua, Jackson aveva sempre odiato i riscaldamenti, tutto quel tempo buttato in esercizi noiosi e strazianti solo per prendere in mano una spatha e iniziare a combattere. Non era uno stupido, sapeva che servissero a riscaldare i muscoli ed evitare così gli strappi, eppure ancora non riusciva proprio a digerirli.
“Ci dovrebbe essere il tramonto da quella parte” indicò Matt, sollevando il mento verso una porzione di cielo ad ovest. Se quella pelliccia di grigio zucchero filato non si fosse messa ad oscurare il paesaggio, Jackson era sicuro che avrebbe potuto vedere una splendida tela dai colori caldi e fruttati, come un frullato di pesche e fragole che andava a ricoprire la volta e l’infinito firmamento che li attendeva. Non aveva mai avuto un grande interesse per le stelle, quelle piccole lucciole che stavano lì a fissarlo ogni notte e vegliavano sui suoi sogni non gli avevano mai fatto né caldo né freddo, ogni volta che alzava la testa a mezzanotte non vedeva nient’altro che un cielo bucato da mille occhi splendenti e sentiva di perdere l’equilibrio per qualche istante. Sua madre glielo aveva sempre detto che non era tipo da campeggio.
Tornò con gli occhi alla cotta di maglia che gli rivestiva il petto, non era molto visibile da sotto l’armatura di bronzo, ma ogni volta che si muoveva Jax poteva percepire gli anelli di ferro tintinnare appena. Prima di mettere piede al Campo Giove, non avrebbe mai immaginato che indossare una tunica rossa che gli copriva gran parte delle cosce sarebbe stato tanto comodo. Le uniche cose che gli avevano fatto storcere il naso e che ancora non condivideva appieno erano i calzari, lunghi sandali chiusi a stivaletto che andavano ad intrecciarsi per tutto il polpaccio con strisce di cuoio che irritavano le pelli più sensibili. Ci aveva messo un po’ ad abituarsi, ma ancora rammentava con nostalgia le comode scarpe da ginnastica e i pantaloncini della tuta. Forse la parte che aveva trovato meno scomoda era stata, con suo immenso stupore, l’elmo d’ottone, munito di cresta di crine di un rosso splendente, paraguance e paranaso. La prima volta che l’aveva visto aveva pensato che gli sarebbe stato d’intralcio, ma poi aveva dovuto ricredersi. Gli dava un’aria assai più seria, lo difendeva dai colpi che avrebbero potuto ucciderlo ed era stato costruito su misura perché non si scostasse di un centimetro. Valérie diceva persino che gli risaltava lo sguardo.
Sentì Matt muoversi un poco spostando il peso da un piede all’altro come faceva quando stava per dire qualcosa di importante.
“Credi che stia per succedere qualcosa di brutto?”
Jackson si voltò a guardarlo, aveva un’espressione stranamente pensierosa e meditabonda, come se stesse ripercorrendo dei brutti ricordi e tentasse in qualche modo di riportarli a galla.
“Che cosa intendi?”
Oh, Jax sapeva perfettamente a cosa si riferisse Matt. Garrett, il loro augure, era stato così indaffarato in quella settimana da sollevare molti dubbi e il giorno prima avevano potuto scorgere Karim Sharif, il loro pretore, raggiungerlo e seguire con attenzione i suoi auspici. Tutti li avevano notati insieme; Garrett era un augure un po’ strano, non sacrificava molti animali nel tentativo di scoprire il volere degli dei nelle loro viscere, tuttavia sembrava particolarmente interessato al volo degli uccelli e a ciò che essi tentavano di suggerirgli.
Jackson ignorava come una persona potesse capire il futuro guardando dei semplici corvi, ma Karim sembrava avere molta stima del loro augure, perciò non poteva fare a meno di adeguarsi.
“Sono tutti in fermento negli ultimi giorni, più ansiosi del solito. Ho sentito che Chirone ha inviato un messaggio dal Campo Mezzosangue; non è un buon segno.”
“No” concordò il figlio di Marte “Stanno succedendo cose strane ultimamente”
Non era superstizioso, ma aveva notato anche lui che il vento aveva cominciato a tirare più forte di notte, come se Elio tentasse in qualche modo di spingere il sole a risorgere e allontanare le tenebre e gli incubi.
Già, incubi. Jackson ne aveva fatti molti, alcuni completamente assurdi come ci si aspetterebbe da un adolescente, ma altri erano stati talmente vividi che non aveva potuto ignorarli. Passeggiando per le vie di Nuova Roma aveva scoperto di non essere l’unico, erano in molti ad aver sognato scene tragiche e bambini. Ancora non sapeva cosa avrebbe potuto significare, ma di certo non era una coincidenza. Non per dei semidei, non con una profezia alle porte.

La tromba suonò proprio in quel momento, quando le cupe elucubrazioni di Jackson avevano avuto inizio e tentavano di ingrigire il suo viso.
Si raddrizzò con le spalle per l’ennesima volta e lasciò andare l’elsa della spatha che teneva chiusa nella guaina, legata alla cinta di cuoio. Tornò dentro insieme a Matt mentre un colpo di vento li trapassava come spettri. Mentre facevano ritorno videro altri due legionari camminarli incontro per prendere il loro posto come sentinelle. Si salutarono con un breve cenno del capo e proseguirono per la loro strada.
Aveva proprio bisogno di fare un salto alle terme e rilassare i muscoli in un bagno caldo. Era stata una giornata dura, aveva passato la mattina a rimettere in ordine l’armeria insieme a una figlia di Vulcano e a pranzo il suo stomaco era rimasto serrato negli incubi che lo avevano rincorso la notte prima, aveva preso parte agli allenamenti insieme ai suoi compagni della Terza Coorte e poi aveva dovuto presiedere al turno di guardia del tardo pomeriggio. Mancava ancora un’oretta alla cena che si sarebbe svolta al padiglione della mensa, ma sinceramente non aveva poi tutta questa fame. Si era sforzato di mangiare qualcosa all’ora di punta, aveva mandato giù qualche buon bicchiere dal sapore dolciastro e poi si era buttato a capofitto nei propri compiti con ancora il fantasma di quella bambina a stuzzicargli la memoria.

Era stato un sogno strano, pallido, aveva sentito un odore sgualcito di farmaci e le luci delle lampade appese al soffitto gli avevano scavato le pupille con rudezza. Aveva percepito un suono di passi continui e la divisa bianca di un dottore superarlo senza fretta. Si trovava in un’ala dell’ospedale, uno dei reparti più alti dell’edificio, forse al quinto piano e c’era un lettino immobile all’angolo della stanza. Raggomitolata sotto le coperte, una figura tutta esile e sottile dormiva quieta sul cuscino. All’inizio aveva pensato si trattasse di un bambino, ma avvicinandosi aveva potuto notare dei lineamenti più femminili, scavati dalla malattia e derubati dal colore rosso del sangue. Non aveva capelli sul capo e le dita parevano aghi di pino, spigolosi come stalattiti.
Accanto al letto, appoggiata a una sedia che aveva fatto ormai radici nel pavimento, una donna sedeva con sguardo perso ad osservare la figlia. Non c’erano lacrime a scavare il suo volto, ma aveva negli quell’oblio che solo la morte può portare.

Jackson non sapeva se quella visione, se così si poteva chiamare, apparteneva a un passato nemmeno troppo lontano o fosse uno scorcio del presente che si stava avverando da qualche parte nel mondo. L’ambiente era troppo famigliare per fargli pensare ad un passato o ad un futuro lontano, le tecnologie dell’ospedale erano quelle del loro tempo.
Quando aveva aperto gli occhi al mattino, si era ritrovato mille brividi sulle braccia e le occhiaie sul volto della ragazzina ben impresse nella mente.
La notte prima ancora una della Quarta Coorte si era svegliata di soprassalto urlando e aveva farneticato per tutto il giorno su dei bambini in orfanotrofio. Quando quel racconto gli era pervenuto alle orecchie, Jax non aveva voluto crederci. Troppo macabro per essere udito o narrato, una di quelle storie che hanno bisogno di buio e silenzio prima di poter essere raccontate.
Anche Matt aveva scorto qualcosa, Jackson ne era sicuro. Ne aveva avuto il sospetto sin da subito, ma aveva avuto una conferma solo qualche minuto prima, quando gli aveva accennato i suoi timori.
Prese fiato e si voltò verso di lui “Hai sognato anche tu un bambino, non è vero?”
“Cosa?!”
Matt balzò dalla sorpresa, fissandolo cupamente con quelle sue iridi grigie e metalliche, poi scosse la testa.
“A me puoi dirlo”
“Mi prenderesti in giro” tornò a fissare il selciato di pietre e sassi che stavano percorrendo per raggiungere le terme, era strano vederlo così scosso. Da che lo conosceva, Jackson aveva avuto miriadi di occasioni per deriderlo, ma non l’aveva mai fatto.
“Matt” lo richiamò “Siamo amici”
Il figlio di Robigus rimase in silenzio per qualche altro istante e il compagno dovette dargli una spallata per indurlo a parlare.
“E va bene” scrollò le spalle il biondo, preparandosi a snocciolare quel che si era tenuto per sé “Credevo d’aver sognato la vacanza che ho fatto con la mia famiglia in campagna, ma poi mi sono reso conto che il posto mi era del tutto sconosciuto. Non credo nemmeno mi trovassi negli USA, vedevo tutti quei bambini magri saltare da un tetto all’altro con la polizia alle calcagna, alcuni di loro tenevano delle mele o qualche pezzo di pane all’aglio. Dovevi vederli, correvano come lepri.”
Jackson ascoltava con interesse mentre teneva l’elmo pesante sottobraccio e inchiodava gli occhi davanti a sé, verso un edificio color perla che si innalzava oltre le capanne. “E?”
Matt inghiottì a vuoto “Uno di loro è scivolato e … beh sai com’è la polizia nei quartieri poveri.” Jackson annuì, da piccolo aveva visto qualche vecchio film. Non era riuscito ad apprezzarli appieno: mancavano di effetti speciali, non erano disponibili in 3D e risalivano ancora ai primi anni duemila perciò la qualità grafica non era decisamente delle migliori.
Tornò a guardare davanti a sé, concentrato.
“Che fine ha fatto il bambino?”
Matt scosse la testa “Non lo so, il cielo pieno di sole si è infranto in una notte fredda appena dopo il pestaggio, credo d’aver scorto un cane muoversi tra le stradine buie, ma non ne sono sicuro.”
Si tenne per sé le sue considerazioni, quel piccolo furfante doveva essere povero per rubare della frutta al mercato e scappare con la sua banda di trovatelli, a scuola la maestra gli aveva fatto vedere un film indiano con delle scene simili, anche se ora non ricordava bene il nome.

Tornò a concentrarsi sulla strada e intravide le porte delle terme proprio davanti a sé, si affrettò a salire i gradini e varcarne la soglia.
Non ci mise poi molto a disfarsi dell’armatura e deporre le armi sulla banchina, accanto alla tunica. Appoggiò il pilum e si passò una mano tra i capelli scuri, sentiva il sudore bagnargli la fronte appiccicosa e i corti capelli castani erano attecchiti sotto il peso dell’elmo. Si sentiva terribilmente stanco, sciupato dal maltempo e dalla routine della legione. Cercò di rilassarsi le spalle e prese un lungo respiro, prima di voltarsi e dirigersi verso le calde sale da cui proveniva tutto quel vapore.
Raggiunse la vasca fumante in pochi passi portandosi dietro un asciugamano, per un attimo gli balenò in testa l’idea di tuffarsi, ma era sicuro che i bagnanti già immersi non avrebbero gradito la sua entrata in scena. Raggiunse i gradini a lato della piscina e si lasciò investire dal vapore dell’acqua, tiepido come gli abbracci di sua madre.
Si lasciò trasportare dall’acqua fino ad appoggiarsi al bordo tiepido e prendere un lungo respiro. Quel posto era forse l’unico con un minimo di quiete, soprattutto con l’augure che girovagava a farneticare di vendette e tragedie.  Jackson aveva bisogno di tranquillità, di un luogo in cui poter poggiare la testa e svuotarla di ogni preoccupazione. A volte si chiedeva come potesse Karim risultare così imperturbabile, mantenere la calma e il contegno in ogni situazione. Lui non ci sarebbe riuscito e forse era per questo che non aspirava al titolo di pretore, gli bastava rendersi utile e avere una baracca da poter chiamare casa e dalla quale poter tornare a fine giornata, non era un tipo ambizioso.
Si chiese per un attimo come stessero andando le cose al Campo Mezzosangue, se vi fosse un via vai di semidei curiosi e pieni di tormenti o vivessero le loro attività con calma e ferrea disciplina.
Non poté non trattenere un sorrisetto. Da quanto gli era stato raccontato, Greci e disciplina non andavano di pari passo. Aveva sentito che vi fosse più libertà in quel Campo, che la gente fosse più insolente, meno servile e decisamente poco addestrata. Lì al Campo Giove vigeva molta più severità, più regole e i pretori non erano così flessibili e accondiscendenti con chi osava disobbedire ai comandi. I figli di Mercurio erano quelli più difficili da emendare alla legione, troppo spericolati e ribelli per poter essere relegati a una vita di restrizioni. Alcuni di loro avevano causato gravi danni anche dopo anni di addestramento e conservavano ancora quel loro essere vivaci, curiosi e spesso maldestri. Jackson li trovava simpatici dopotutto, non sarebbe stato in grado di conversare con loro senza venir derubato dei sesterzi che aveva in tasca, ma li trovava comunque dei tipi allegri e piacevoli da ascoltare.
C’era un ragazzo però che talvolta gli tornava ancora in mente. Non era un figlio di Mercurio né di qualche altra vispa divinità, un reietto che non aveva superato nemmeno il primo anno da probatio. Se ci pensava bene, poteva rivedere i suoi mossi capelli castani e quelle iridi fredde e marine, da squalo. Ricordava ancora il suo sorriso largo e folle, quel non so ché di cattivo e sadico che gli balenava negli occhi ogni volta che qualcuno si faceva male. Era stato al Campo forse per un paio di mesi, ma Jackson poteva sentire la sua risata ogni notte.
Aveva partecipato una sola volta ai ludi di guerra e aveva pugnalato  quattro avversari e due compagni come un bambino inforchetta la carne che ha nel piatto, con forza, senza rimorso.
Karim lo aveva bandito subito con disonore e per la prima volta da che era al Campo, Jackson aveva visto ardere la rabbia negli occhi del suo pretore.
Non aveva idea di che fine avesse fatto quel ragazzo, da solo in balia dei mostri che abitavano il mondo. Forse era morto. Da una parte gli dispiaceva, anche se ben poco propenso al gioco di squadra, quel giovane era pur sempre un semidio, una sorta di fratello per Jackson. Si chiese per un attimo se non avrebbero potuto fare di più per lui, essere più pazienti, cercare di capire quale fosse il problema e tentare di risolverlo.
Sospirò, odiava il passato. Era come un enorme calderone di schifezze che si versava addosso ogni volta che si fermava a pensare. Non era proprio in grado di liberare la mente da ogni dubbio o pena, e questo era il motivo principale per cui le sue notti erano tanto scompigliate.
Aveva la testa che gli martellava nelle tempie e un principio di sonno che l’avrebbe accompagnato nel mondo dei sogni quanto prima possibile. Non aveva voglia di dormire, di catapultarsi di nuovo in un altro incubo, ma le brevi onde della vasca lo cullavano come un infante e ben presto Jackson sappe che si sarebbe addormentato.
Provò a muovere i muscoli per mantenersi sveglio e pimpante, le ultime giornate al Campo Giove erano state piuttosto noiose. I loro pretori avevano deciso di comune accordo di non spifferare nulla ai legionari, perciò tra le Coorti avevano cominciato a vociferare storie assurde su non morti, aquile e qualche semidio greco che li avrebbe coinvolti nell’ennesima guerra contro divinità immortali.
Ovviamente non credeva quasi a nulla di queste dicerie, era palese che fossero frutto di una fervida immaginazione, anche se a volte Jax si domandava se non ci fosse un pizzico di verità in tutti quei racconti.
Fissò per un attimo la schiena di Matt mentre, come al solito, cominciava a fare l’idiota in mezzo alla piscina.
Che fossero segnali onirici? Non riusciva a credere nemmeno per un istante che tutti quei sogni fossero finti, semplici fantasie della stanchezza. No, c’era qualcosa di pericoloso nel modo in avevano scombussolato le menti dei suoi compagni. Ormai era certo che fossero degli avvertimenti, che Somnus stesse tentando di metterli in allerta in qualche modo, con qualche indizio sparso nella notte. Non gli piaceva il comportamento di Karim, era diventato evasivo, quasi monosillabico nelle risposte. Ormai l’atmosfera aveva cominciato a farsi tesa, i più piccoli faticavano ad addormentarsi e i più grandi vivevano le notti con grande affanno. Gli ultimi ludi di guerra erano stati quasi uno stratagemma per distrarre la legione dalla questione più importante: la profezia era cominciata.
Jackson ne era sicuro.


*** ***

Galem osservava la piccola piastrina che portava ancora al collo, rigirandosela tra le dita. Era passato più di un anno da quando era stato bandito dal Campo, ma d’allora non se l’era mai tolta.
“Non ti facevo un tipo nostalgico.” proruppe una voce pungente da dietro le sue spalle. Sentì Heather muoversi con passo svogliato nella piccola classe in cui si erano rifugiati. Era una ragazza piuttosto impressionante, doveva ammettere, erano mesi che viaggiavano assieme e Galem non aveva mai visto nemmeno un accenno di paura nei suoi occhi. Ovviamente sapeva che nessuno era immune al terrore, però quel carattere disinibito e provocante non poteva essere una maschera. Era sicuro che oltre quel desiderio di vana pazzia vi fosse una ragazza che, come tutte le altre, era in grado di urlare e piangere d’orrore. Tuttavia non aveva mai avuto particolare interesse a metterla alla prova, anzi trovava alquanto allettante l’idea di avere accanto una persona così tenace.
Sbuffò con un falso sorrisetto. Non gli mancava la legione e non sarebbe di certo tornato indietro se ne avesse avuto la possibilità, tutte quelle regole non facevano per lui. Galem era un ragazzo che amava fare ciò che gli dava piacere e vedersi confinato in una cupola di bontà e rispetto gli dava il voltastomaco.
“Dove sono gli altri?” domandò invece, alzando gli occhi prima su Heather e poi su Lilith, che come loro aveva deciso di rimanere in quell’aula silenziosa, forse per sfuggire alle continue liti che animavano Hawley e Gabriel.
“In corridoio, magari qualcuno di loro cadrà finalmente dalle scale” sollevò le spalle la figlia di Melinoe con un piccolo sorrisetto. Galem l’aveva sempre trovata una ragazza splendida con quei capelli di miele e quell’aria piccante e sempre pronta alla sfida. Sarebbe stata la sua compagna ideale, forse, se solo fosse stato in cerca di un’anima gemella.
Fece schioccare la lingua sul palato mentre nella testa si ripetevano le immagini di quella breve avventura. Non avrebbe mai immaginato di trarre tanta soddisfazione dal servire un bimbetto avido di vendetta, però così era stato e continuava ad esserlo. Stare in quella comitiva gli permetteva di immergersi sino al collo in ciò che gli andava di fare, non aveva limiti, nessun capo che gli dicesse di no o gli vietasse un qualche tipo di giocattolo nuovo. E a proposito di giocattoli, l’ultimo che aveva avuto si trovava ancora in quella vecchia aula, nel sotterraneo e probabilmente ci sarebbe rimasto per un altro po’, dato che nessuno di loro sembrava intenzionato a prendersi la briga di spostarlo.
Cercò di non ridere a quel pensiero, si era già divertito abbastanza per quel giorno. Ilioneo sarebbe stato via ancora per un po’, lontano da quella scuola sperduta nel Michigan. L’ultima volta che si erano incrociati era diretto verso Hollywood, ma Galem era sicuro che ormai fosse arrivato a Long Island o quantomeno nei pressi del Campo Mezzosangue.
Oh, non  vedeva l’ora che quella partita avesse inizio. Era stufo di stare nell’ombra ad aspettare, arruolare ragazzini indisciplinati –da che pulpito- e rimanere in quella stupida aula senza nulla da fare. Certo, Ilioneo aveva detto loro che avrebbero potuto spassarsela nelle città adiacenti nel frattempo, ma le settimane erano passate e il figlio di Mania cominciava ad essere stufo.
Provò a concentrarsi sul monotono ticchettare dell’orologio che Lilith aveva al polso, ma rinunciò dopo qualche secondo. La sua iperattività non aiutava in quei momenti, si sentiva annoiato e voglioso di rimettersi in gioco, straziato dai lunghi pomeriggi di attesa e impaziente di ributtarsi in un duello letale all’ultimo sangue.
Saltò giù dal banco su cui era seduto e raggiunse i vetri sporchi delle finestre. Le tapparelle erano vecchie e consumate, le tende lerce di polvere e acari, e dovette passare lo straccio della lavagna sopra il vetro per poter intravedere qualcosa all’esterno. Una coltre di alberi si estendeva per almeno un kilometro in direzione sud ovest, oltre la cui distanza Galem poteva intravedere i fili dell’elettricità tagliare l’aria e ingabbiare il piccolo agglomerato urbano che costituiva la città di Unforspeed, uno dei centri abitati meno in vista d’America. Era rimasto abbastanza indietro in fatto di informatica e tecnologia, per le strade erano ancora parcheggiate vecchie auto sverniciate e la maggior parte degli adolescenti non aveva mai visto un airboard. Nelle metropoli più avanzate come New York, Los Angeles o San Francisco, la maggior parte dei bambini nati dopo il 2020 non aveva nemmeno idea di cosa fosse uno skateboard o un paio di roller, gli unici residui di quei vecchi mezzi di trasporto erano tramandati da film di vecchia data o da nostalgici trentenni che passavano le loro giornate sulle piste.
Galem era un semidio, la tecnologia era spesso nemica dei mezzosangue, ma quand’era piccolo ricordava bene i ragazzetti di quartiere che si rincorrevano con i loro airboards o tentavono di catturare mostriciattoli colorati con i loro nuovi iPhone Shadow 13c. Una volta c’era Pokémon Go, o almeno era quello che suo zio John gli aveva detto.
Insomma, Unforspeed –come si evinceva dal nome- era una cittadina poco sviluppata, cocciutamente legata al passato e con un numero limitato di abitanti. Bastava pensare che i bambini frequentavano ancora le scuole pubbliche.

Fece scricchiolare il collo e si grattò la punta del naso, era così annoiato che sentiva il sangue ribollire pericolosamente nelle sue vene. Succedevano brutte cose quando percepiva quella sensazione magmatica nello stomaco, come se la sua discendenza divina si mettesse finalmente in mostra e manovrasse un po’ le menti dei mortali, rendendole folli. C’era sempre qualcuno pronto a perdere la testa per qualche breve istante quando il figlio di Mania era in vena di sollazzi, era come una processione. Quando Galem sentiva dentro di sé quel senso di angustia, sapeva che qualcuno stava per farsi male.
E questo lo faceva maledettamente sorridere.

Un rumore sordo richiamò i suoi pensieri al presente, facendogli voltare lo sguardo verso la porta dell’aula chiusa. Per un attimo rimase a fissare la maniglia con aria assente, poi si staccò dalla finestra e superò a grandi passi le piastrelle a scacchiera che rivestivano la stanza. Heather e Lilith erano già al suo fianco, sui loro volti spiccavano espressioni di perplessità e stizza.
“Quei due idioti se le stanno dando di santa ragione” borbottò la bionda con fare laconico, non sembrava particolarmente preoccupata della faccenda.
Dal canto suo, Heather non riusciva a comprenderla. Trovava quelle liti molto eccitanti, belle da vedere persino. Non condivideva l’irritazione della figlia di Melinoe, anzi, a volte si domandava se Lilith fosse in grado di godersi un buon spettacolo senza lamentarsi.
Tornò a rivolgere la sua attenzione verso il figlio di Mania, che sostava davanti all’entrata con occhi pallidi e glaciali. Ancora prima che aprisse la porta, Galem sapeva benissimo cosa avrebbe trovato aldilà della soglia.
Appoggiò le mani ambrate sulla maniglia in ottone, spingendola verso il basso e facendo una breve pressione per aprire la porta. Emise un cigolio spettrale rivelando il lungo corridoio rivestito di armadietti scassati e ragnatele, sembrava il set ideale per girare un documentario lungo e articolato. L’odore di chiuso permeava ancora l’aria e dietro gli armadi il ragazzo poteva quasi udire quei piccoli insetti zampettare sul muro. Quel posto era uno schifo: vecchio, lurido, abbandonato, una scuola lasciata a sé stessa da chissà quanto tempo. Avevano staccato l’elettricità decenni prima e le lampade a led erano incrostate di una marea di polvere che non sarebbe mai venuta via del tutto.
Galem si mosse nel buio tenue del corridoio, verso i rumori sordi che provenivano da dietro l’angolo. Ad ogni passo, la sensazione che aveva artigliato il suo stomaco diveniva più persistente e il suo cuore cominciava a pulsare più ritmicamente.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
Strinse gli occhi quando un’ombra sul muro gridò agli altri di placarsi, agitava le braccia lunghe e nere come rami di un albero spoglio spostandosi sul pavimento freddo. Rimaneva a debita distanza, di questo Galem era sicuro, e scrutava la lite con occhi pigri e lontani. I suoi sforzi per fermarli erano flebili, lamenti che si prosciugavano prima ancora di aver lasciato la sua bocca.
Raggiunse a grandi falcate, quasi correndo, la fine del corridoio e voltò la testa. A prima vista non colse nulla, solo due sagome intente a scontrarsi, poi i suoi occhi riuscirono a riconoscerle: Oz si teneva da una parte dello stretto corridoio, poco dritto e con gli occhi affilati puntati sul ragazzo che aveva di fronte. Hawlay, da parte sua, rimaneva ben fermo dov’era, cocciuto e tronfio nella sua smorfia di impertinenza.
Lilith sopraggiunse al suo fianco in pochi secondi, estenuata “Ma che cosa …?”
Galem alzò un dito davanti alle sue labbra, mentre i suoi occhi pallidi rimanevano ancorati ai due ragazzi. C’era un che di estremamente eccitante nel modo in cui gli occhi di Oz balenavano sul figlio di Persefone, come aquile in cerca di una preda da dilaniare. Il suo volto chiaro in quel momento era gelido come il gesso e i suoi occhi parevano di pietra.
“Di’ al tuo cagnolino di stare a cuccia” sbottò Hawley con un che di canzonatorio, parlando con Galem, che continuò a fissarli con uno strano bagliore.
Oz era pericoloso, lo sapevano tutti. Era irascibile, iracondo, vendicativo e non sapeva darsi un freno. Quando era andato, era andato. Non c’era la possibilità che tornasse sui suoi passi, che la sua coscienza gli dicesse di fermarsi.
Ed era questo il motivo per cui anche Lilith, conoscendolo, poteva percepire la tensione che irradiava stando semplicemente in piedi, rigido come un boia.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma l’avvertimento di Galem era stato chiaro: stai zitta. Il figlio di Mania voleva quello che stava per succedere e sarebbe rimasto a guardare senza muovere un dito. Lilith ne era sicura.
Lanciò uno sguardo ai due ragazzi e rilassò un poco le spalle, i capelli biondi che si appiattivano sotto l’aria stantia del corridoio. Ormai il danno era fatto.
“Hawley?” lo richiamò il Romano con affabilità, aspettando che il figlio di Persefone gli rivolgesse la sua attenzione “Lo sai che a Oz non piacciono i bambini cattivi.”
Il ragazzo sbuffò, per nulla intimorito e rispose con lo stesso tono sprezzante “E che cosa vuole fare, mettermi in castigo?”
Ma non ebbe nemmeno il tempo di voltare il capo verso Oz perché il figlio di Tagete sia era già buttato contro di lui e dal collo del giovane sgorgava una scia di sangue scarlatto che usciva a fiotti dalla sua gola. Gli occhi di Oz balenarono sul volto di Hawley con ferreo odio, le mani strette attorno al suo volto ai suoi occhi sgranati e pallidi. Dalla sua bocca non uscì un fiato.
Estrasse il coltello come se avesse pugnalato un manichino di pezza e Hawley franò sul pavimento come un masso, la ferita che continuava a sanguinare e pulsare nella sua testa fino a farlo impazzire. Non riusciva a mettere insieme una parola di senso compiuto o a emettere alcun suono, ogni minimo movimento gli provocava delle lunghe scariche elettriche che gli accecavano la vista per istanti quasi eterni. Doveva aver beccato la carotide quel bastardo perché sentiva il suo stesso sangue defluire fuori dal suo corpo e macchiare il marmo sotto di lui, mentre le forze scemavano a poco a poco.
Figlio di puttana. Avrebbe dovuto saperlo che non l’avrebbe affrontato apertamente.
“Scusa, Hawley” sentì una voce pronunciare mellifluamente.
Bastardo.
Dei passi lo raggiunsero i breve tempo, felpati e gravidi di sdegnante ipocrisia. Il volto di Galem si delineò davanti al suo; la sua pelle ambrata, gli occhi da squalo, i capelli mossi e ombrosi. Non c’era niente di lui che avrebbe fatto pensare a un bravo ragazzo, figuriamo a un uomo d’onore.
Le sue labbra erano increspate in una smorfia, ma poteva quasi percepire un tenue divertimento che balenava appena dietro di esse.
Si piegò sulle ginocchia per scrutare meglio il suo volto, ora erano faccia a faccia.
“Niente di personale, amico mio” proruppe il castano estraendo un piccolo pugnale dalla tasca“ma questa giornata stava cominciando a diventare noiosa.”
Inghiottì a vuoto mentre la lama lo trapassava, sembrava un filo d’acciaio rovente che si insinuava nella carne e gli infilzava il cuore. Non aveva idea di che colore avesse la morte, pensava che fosse una luce fredda in un mare di sangue, ma quando il figlio di Mania lo uccise, l’unica cosa che Hawley vide fu il suo sorriso sadico e spietato.



 

*** ***


Devo uccidere qualcun altro? Perché ho già la lista pronta.
Io sono un po’ come Oz. Se dico una cosa, la gente deve fare quella cosa, altrimenti non va bene. Mi fa impazzire >.<

Comunque, è passato un po’ di tempo dall’ultimo aggiornamento. La scuola è iniziata, i compiti hanno cominciato a sbocciare come rose nere e appassite, le verifiche incombono con i loro artigli dietro ogni angolo e la vita ha finalmente un significato … no, non è vero. È gravida d’odio e vendetta come sempre -.-‘’
Ma sono tornata c: e come vi ho già detto ho già stilato la mia Death Note *sorrisosadico*
Potete salvarvi? Con un po’ di buona volontà da parte vostra e grande magnanimità da parte mia sì. E visto che io non perdono mai nessuno (sorrybutnotsosorry) la cosa è abbastanza difficile.

Detto ciò, torniamo a noi.
Qui finiscono tutte le menate mentali da Chi è chi? Cosa è cosa? Perché dal prossimo capitolo comincerà la vera storia ^-^
E visto che sono passate diverse settimane vi lascio con un pezzo del prossimo capitolo ù.ù





[…] Tirava un vento secco quel pomeriggio, sentiva l’aria riempirsi di sole e strangolarle la gola con fastidio mentre, seduta sull’erba verde e graffiante del prato, sfiorava con le dita le piccole margherite che si disperdevano sotto i suoi occhi. Era strano, aveva sempre immaginato che l’arrivo di una profezia avrebbe portato con sé un clima rigido e ostile, ben lontano dal calore che ustionava la sua pelle.
Sapeva che qualcosa era cambiato, che fosse la sua percezione di vedere le cose o la consapevolezza che qualcosa di più grande stesse per incombere su di loro, eppure era come se la natura non l’avesse capito, come se vivesse il suo corso con indifferenza, quasi insofferente agli dei e ai loro poteri. O magari se ne era accorta anche lei e voleva fingere di non avere paura del destino, o forse voleva solo illudere gli uomini e far credere loro che fosse tutto apposto.
Spostò lo sguardo sul foglio che aveva abbandonato nell’erba, sui colori che macchiavano la carta e le ricordavano le parole che lo Spirito di Delfi aveva espresso. Si era sempre chiesta cosa provasse la gente normale, che sinfonie udisse nei profumi, che emozioni vedesse nei colori, che fragranze percepisse nelle scritte che imbrattavano i muri. Il suo dottore da piccola le aveva detto di essere speciale, che solo a pochi era concesso di percepire la vita in quel modo e che la sinestesia era un dono. Crescendo, Bloom non aveva potuto che domandarsi se quel fenomeno sensoriale non fosse in qualche modo collegato allo spirito di Delfi. Forse il suo destino era già stato deciso alla sua nascita. […]





   
 
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