Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: TonyCocchi    19/10/2016    7 recensioni
SPOILER! (Capitolo 84)
È dura per chi rimane, non per chi se ne è andato. Il passato dei volti amici e dei bei momenti andati non offre alcun consolo quando il presente è così diverso, così silenzioso, e il ricordo non è che un coltello girato nella piaga, adesso che loro due sono gli ultimi. Le ultime tristi foglie in attesa di essere spazzate via dalla tempesta, in cerca di ultimo scampolo di calore con cui riempire i giorni rimasti.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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snk - so ist es immer

Ne è passato di tempo, vero? Mi fa un sacco piacere tornare a pubblicare, e spero faccia piacere anche a voi sapere che anche se non produco più come una volta ogni tanto ritorno! ^__°

Sono stato molto impegnato di recente, e lo sono tuttora, per una cosettina chiamata laurea che arriverà a breve… XD Ma anche tra mille cose da fare e pensieri su cui concentrarsi, ho sentito la chiamata dell’ispirazione. Tutto è nato dall’ascolto di una delle colonne sonore dell’anime “So ist es immer”, che se guardando gli episodi dev’essermi sfuggita, risentendola e soffermandomici mi ha completamente stregato, col suo tono dolce ma malinconico, il suo curioso testo un po’ tedesco un po’ inglese, che parla di persone che trascorrono una notte insieme a cantare e bere: mentre fuori le stelle non splendono, essi stessi divengono luce. Ho concepito quindi di getto questa storia, immaginandomi una taverna solitaria, e gli ultimi veterani sopravvissuti della Legione Esplorativa contemplare i tanti vuoti intorno a loro…

Spero vi piaccia! Buona lettura!

 

 

 

 

“So its es immer” (“Così è come sempre”):
https://www.youtube.com/watch?v=_jqSy8E9JLQ

 

 

Una volta erano in tanti, a trascorrere la sera insieme in quella taverna. Così tanti da occupare l’intero bancone.

Adesso non c’era più nessuno.

Una volta si sarebbero riuniti lì, per chiudere tutto il mondo fuori, per qualche ora di consolo e di bevute, di chiacchiere e libertà.

Adesso non c’erano più.

C’erano così tante persone lì, una volta.

Una volta.

 

Una volta c’era Mike, alto, altissimo, come un gigante, e nella sua altezza minaccioso quanto mite e bonario. Aveva dei gran bei baffi e l’olfatto di un segugio, se non migliore: nessuno come lui sapeva leggere dall’odore se eri un bastardo di quelli fin nell’anima o di quelli in fondo buoni che vogliono solo qualche amico fidato per stare a posto, e se lo volevi, potevi scommettere lui sarebbe stato uno di quelli.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Nanaba, combattente abilissima, guida coraggiosa, implacabile coi nemici, materna con coloro di cui desiderava aver cura. Pochi l’avevano vista in abiti femminili eppure più donna fatta e finita lei di tante svenevoli civette e faine manipolatrici. Per questo era riuscita a farsi notare dall’uomo della sua vita senza bisogno di far nulla di particolare.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Gunther, un tipo silenzioso, ma mai scontroso. Stava sulle sue, ma compiva sempre il proprio dovere, alla perfezione e senza mai vantarsene, un porto solido e affidabile in un mondo di persone che vogliono mettersi in mostra per ciò che non sono o con ciò che non hanno. Sin da ragazzo si era fatto in quattro per dare una vita dignitosa alla madre vedova e all’amato nonno.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Eld, che sembrava aver ricevuto dal cielo tutte le fortune: intelligenza, abilità, un bell’aspetto. Sarebbe potuto finire dovunque meno che a combattere dei mostri in una interminabile e disperata guerra per la sopravvivenza. Eppure il suo dono più grande era quel suo animo che gli aveva fatto scegliere di non voltare le spalle al suo dovere, anche a costo di rinunciare a una vita tranquilla, anche a costo di far attendere la sua amata prima di salire all’altare con lei.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Petra, dai capelli chiari come la luce che emetteva con ogni fibra di sé. Tantissimi si lasciavano piacevolmente abbagliare da tanta gentilezza e dolcezza, anche se forse in fondo il suo desiderio era brillare unicamente per lui, l’uomo da lei più ammirato, le cui ombre aveva bramato con tutto il cuore rischiarare.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Oluo, una perla celata dietro una irritante e smargiassa maschera, e di essa scioccamente vittima. Ma a casa i suoi fratellini e le sue sorelline sapevano che fratellone meraviglioso fosse, come i suoi genitori a ogni missione sapevano di attendere con ansia il ritorno a casa di un figlio di cui non poter essere più fieri. Avrebbe solo avuto bisogno di mostrare quel suo lato alla sdegnosa ragazza amata, quella per cui avrebbe combattuto a costo di finire ucciso.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Moblit, l’assistente, il galoppino, l’inseparabile, umile e fedele Moblit, sempre dietro a rincorrere il passo del suo inarrestabile capo tra i sorrisi e le risa degli spettatori. Quanti la pensavano così, ma lei mai e poi mai avrebbe fatto simili pensieri su di lui. Moblit era di più, molto di più. Un brav’uomo, un buon amico e, a dispetto di come potesse apparire, l’unico che riusciva davvero a tenere il suo passo.

E adesso non c’era più.

 

Una volta c’era Erwin, il loro comandante, il sognatore di tutti loro che il mondo aveva reso incapaci di sperare.  Era il generale che non si mostrava mai in pompa magna sull’alto cavallo bianco, ma condivideva qualsiasi cosa la sorte avesse in serbo per i suoi uomini, con cui era un tutt’uno. Li aveva guidati, aveva indicato loro la direzione per la vittoria e la tanto agognata libertà, a qualcuno di loro aveva restituito uno scopo in una vita da cui pensava di non poter pretendere nulla.

Colui a cui tutti facevano riferimento, e che molte volte offriva per tutti, adesso non c’era più.

 

Non c’era più nessuno.

Erano soli.

 

In quella desolante mattanza, il loro bere era divenuto di quello più infimo e triste, quello in cui non si leva il calice, ma ci si tuffa in esso sperando di annegare.

Le loro facce lunghe e pallide si riflettevano nel vetro dei boccali, in cui il liquore forte si insaporiva di lacrime.

In quell’ora tarda, nel locale non c’era più nessuno oltre loro due.

 

“Ah, Moblit, come si vede che non sei qui ad impedirmi di bere più del dovuto!” –rideva Hanji, dal cui occhio destro, unico rimastole dopo l’ultima battaglia, scendeva piano una lacrima sulla guancia arricciata da quella finta ilarità.

“Era un grande.” –commentò la voce di Levi, roca per tutto l’alcool ingerito e di un tono con ancor più privo di emozioni del suo solito. I suoi occhi annebbiati si perdevano stanchi sulle venature e i nodi del grande bancone di legno della taverna.

“Puoi dirlo forte!” –allargò lei il sorriso e buttò giù una generosa sorsata che la fece tossire- “Non si trovano tutti i giorni degli aiutanti così! Per lui sarei stata pronta a farmi ammazzare, e so che lui avrebbe… fatto… lo stesso…”

Nel pronunciare quelle parole la sua facciata andò in pezzi e il boccale piovve sul bancone con un tonfo, mollato da una mano senza forze di un corpo scosso dai singulti del pianto.

Bastava chiudesse gli occhi per rivederlo nel suo ultimo istante. Quel lampo che stava ingoiando il mondo intero, e il suo sguardo che la fissava, dopo averla scagliata in quel pozzo buio. Fino all’ultimo istante aveva pensato prima a lei che a sé.

Levi sospirò e provò, senza successo, a raddrizzare un po’ la schiena sullo sgabello: “Io non sono Moblit: non ti ho impedito di bere più del dovuto e non mi metterò certo a consolarti.”

Di colpo si sentì rifilare un colpo sulla spalla mentre ricominciava a ridere: “Tu? Metterti a paragone con Moblit? Un nano brontolone come sei tu?” –lo irrise lasciandolo a bocca aperta- “Figuriamoci! Se non altro però questa era così assurda che mi ha ridato il buon umore!”

Era anche lei ad essere assurda, per questo non poté fare a meno di sghignazzare un pochino anche lui.

Poi le risate si calmarono, e, ancora una volta, si resero conto di essere soli.

Tante avventure, tante battaglie, tante fatiche e i loro successi, in confronto a quanto avevano perduto lungo la via, sembravano così esigui.

“Chissà chi di noi sarà il prossimo.” –si domandò lei guardando il soffitto.

“Hanji…”

“Cosa?”
“Non fare di questi discorsi.” –corrugò la fronte.

“Spero di essere io.” –proseguì lei, perdendo lo sguardo nell’aria sopra di sé, come volesse sentirsi tanto leggera da sollevarsi e spiccare il volo, volare via da tutto ciò che la circondava- “Ho già dato troppi addii, non ne posso più. Sono stanca, voglio essere io quella che viene salutata una volta tanto.”
“Certo sei proprio una bastarda egoista tu: credi io non ne abbia detti abbastanza di addii?”

Hanji sorrise mesta, annuendo.

Levi si guardò intorno come se in questo modo potesse rivederli, lì, tutti, vivi e vegeti. Come se bastasse volerlo.

Idiota, si disse. Sciocco, scosse il capo. Bambino, si vergognò di sé. Quegli sgabelli erano vuoti e tali sarebbero rimasti. Di solito non si lasciava andare a simili ingenuità, il che la diceva lunga sul suo stato in quel momento… Non si era nemmeno accorto che lei, l’unica rimasta al suo fianco, lo scrutava leggendolo come un libro aperto, con uno sguardo pesto, tinto di fatica e tenerezza.

“Sono stanca Levi… Dammi pure della bastarda se vuoi, ma… non voglio dirti addio.”

“Nemmeno io voglio dirti addio, Hanji.”

Si specchiarono qualche attimo negli occhi lucidi dell’altro, poi lei si chinò lenta fino a poggiare la testa sulla sua spalla.

Levi avvicinò il bicchiere alle labbra. Poi cedette ai suoi impulsi, lo poggiò via, e la strinse a sé col braccio.

Sentì il petto alleggerirsi, come quel gesto così semplice e insignificante da parte sua fosse stato un bisogno irresistibile atteso tanto a lungo. Cercò con l’altra mano la sua, piccola e tremante, e la strinse.

A un certo punto Hanji sollevò la testa dalla sua spalla e prese ad avvicinarsi.

No, si sentì scuotere dentro, non così. Il loro era un momento orrendo, ma non era certo una scusa.

“No, Hanji…” –si ritrasse, tenendo lo sguardo basso.

Lei lo guardò stranita.

Non doveva accontentarsi di un piccolo “nano brontolone”, prima troppo coriaceo per provare a placare il suo dolore, e poi troppo fragile per non cercare di guarirsi col suo calore quando lei, nella sua fragilità, glielo aveva offerto. Non si sarebbe dimostrato ancora così debole, né doveva lei lasciarsi andare così tanto.

“Non devi solo perché sono tutto ciò che ti è rimasto.”

La mano di lei, che ormai non tremava più, raggiunse la sua guancia, carezzandogliela, fissandolo col suo occhio rosso di pianto.

“Perché lo voglio davvero… e perché sei tutto ciò che mi è rimasto.”

Si avvicinò, e non riuscì a negarle ancora le sue labbra.

La timida presa di poco prima divenne una morsa che disperata si chiuse attorno al corpo di lei, mentre con quel lungo, interminabile bacio riempivano il vuoto attorno a loro.

Allentò l’abbraccio, e le asciugò col dito una lacrima dalla guancia.

Aveva paura che quelle emozioni, quel così forte sentimento di quegli attimi, fosse solo dovuto al loro essere l’ultimo l’uno dell’altra. Ma anche fosse stato così, a lui doveva davvero importare tanto?

“Non voglio saluti stasera, Levi… Non stasera…” –pregò stringendolo.

“Sei sicura?”

“Si.”

Perché rifiutare qualcosa che potesse dare un po’ di serenità ad entrambi?

“Andiamo.”

“Andiamo.”

Erano stati preziosi l’uno per l’altro prima, lo sarebbero stati ancora di più d’ora in avanti.

Barcollanti, lasciarono la taverna.

Quella notte dormirono nello stesso letto. Dormirono e null’altro.

Né si sarebbero mai abbandonati da quel giorno in avanti.

  
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