Ne è passato di tempo, vero? Mi fa un
sacco piacere tornare a pubblicare, e spero faccia piacere anche a voi sapere
che anche se non produco più come una volta ogni tanto ritorno! ^__°
Sono stato molto impegnato di recente, e
lo sono tuttora, per una cosettina chiamata laurea che arriverà a breve… XD Ma
anche tra mille cose da fare e pensieri su cui concentrarsi, ho sentito la
chiamata dell’ispirazione. Tutto è nato dall’ascolto di una delle colonne
sonore dell’anime “So ist es immer”, che se guardando gli episodi dev’essermi
sfuggita, risentendola e soffermandomici mi ha completamente stregato, col suo
tono dolce ma malinconico, il suo curioso testo un po’ tedesco un po’ inglese,
che parla di persone che trascorrono una notte insieme a cantare e bere: mentre
fuori le stelle non splendono, essi stessi divengono luce. Ho concepito quindi
di getto questa storia, immaginandomi una taverna solitaria, e gli ultimi veterani
sopravvissuti della Legione Esplorativa contemplare i tanti vuoti intorno a
loro…
Spero vi piaccia! Buona lettura!
“So its es immer” (“Così è come sempre”):
https://www.youtube.com/watch?v=_jqSy8E9JLQ
Una
volta erano in tanti, a trascorrere la sera insieme in quella taverna. Così
tanti da occupare l’intero bancone.
Adesso
non c’era più nessuno.
Una
volta si sarebbero riuniti lì, per chiudere tutto il mondo fuori, per qualche
ora di consolo e di bevute, di chiacchiere e libertà.
Adesso
non c’erano più.
C’erano
così tante persone lì, una volta.
Una
volta.
Una volta c’era Mike, alto, altissimo,
come un gigante, e nella sua altezza minaccioso quanto mite e bonario. Aveva
dei gran bei baffi e l’olfatto di un segugio, se non migliore: nessuno come lui
sapeva leggere dall’odore se eri un bastardo di quelli fin nell’anima o di
quelli in fondo buoni che vogliono solo qualche amico fidato per stare a posto,
e se lo volevi, potevi scommettere lui sarebbe stato uno di quelli.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Nanaba, combattente
abilissima, guida coraggiosa, implacabile coi nemici, materna con coloro di cui
desiderava aver cura. Pochi l’avevano vista in abiti femminili eppure più donna
fatta e finita lei di tante svenevoli civette e faine manipolatrici. Per questo
era riuscita a farsi notare dall’uomo della sua vita senza bisogno di far nulla
di particolare.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Gunther, un tipo
silenzioso, ma mai scontroso. Stava sulle sue, ma compiva sempre il proprio
dovere, alla perfezione e senza mai vantarsene, un porto solido e affidabile in
un mondo di persone che vogliono mettersi in mostra per ciò che non sono o con
ciò che non hanno. Sin da ragazzo si era fatto in quattro per dare una vita
dignitosa alla madre vedova e all’amato nonno.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Eld, che sembrava aver
ricevuto dal cielo tutte le fortune: intelligenza, abilità, un bell’aspetto.
Sarebbe potuto finire dovunque meno che a combattere dei mostri in una
interminabile e disperata guerra per la sopravvivenza. Eppure il suo dono più
grande era quel suo animo che gli aveva fatto scegliere di non voltare le
spalle al suo dovere, anche a costo di rinunciare a una vita tranquilla, anche
a costo di far attendere la sua amata prima di salire all’altare con lei.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Petra, dai capelli
chiari come la luce che emetteva con ogni fibra di sé. Tantissimi si lasciavano
piacevolmente abbagliare da tanta gentilezza e dolcezza, anche se forse in
fondo il suo desiderio era brillare unicamente per lui, l’uomo da lei più
ammirato, le cui ombre aveva bramato con tutto il cuore rischiarare.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Oluo, una perla celata
dietro una irritante e smargiassa maschera, e di essa scioccamente vittima. Ma
a casa i suoi fratellini e le sue sorelline sapevano che fratellone meraviglioso
fosse, come i suoi genitori a ogni missione sapevano di attendere con ansia il
ritorno a casa di un figlio di cui non poter essere più fieri. Avrebbe solo
avuto bisogno di mostrare quel suo lato alla sdegnosa ragazza amata, quella per
cui avrebbe combattuto a costo di finire ucciso.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Moblit, l’assistente, il
galoppino, l’inseparabile, umile e fedele Moblit, sempre dietro a rincorrere il
passo del suo inarrestabile capo tra i sorrisi e le risa degli spettatori.
Quanti la pensavano così, ma lei mai e poi mai avrebbe fatto simili pensieri su
di lui. Moblit era di più, molto di più. Un brav’uomo, un buon amico e, a
dispetto di come potesse apparire, l’unico che riusciva davvero a tenere il suo
passo.
E adesso non c’era più.
Una volta c’era Erwin, il loro
comandante, il sognatore di tutti loro che il mondo aveva reso incapaci di
sperare. Era il generale che non si
mostrava mai in pompa magna sull’alto cavallo bianco, ma condivideva qualsiasi
cosa la sorte avesse in serbo per i suoi uomini, con cui era un tutt’uno. Li
aveva guidati, aveva indicato loro la direzione per la vittoria e la tanto
agognata libertà, a qualcuno di loro aveva restituito uno scopo in una vita da
cui pensava di non poter pretendere nulla.
Colui a cui tutti facevano riferimento,
e che molte volte offriva per tutti, adesso non c’era più.
Non c’era più nessuno.
Erano soli.
In quella desolante mattanza, il loro
bere era divenuto di quello più infimo e triste, quello in cui non si leva il
calice, ma ci si tuffa in esso sperando di annegare.
Le loro facce lunghe e pallide si
riflettevano nel vetro dei boccali, in cui il liquore forte si insaporiva di
lacrime.
In quell’ora tarda, nel locale non c’era
più nessuno oltre loro due.
“Ah, Moblit, come si vede che non sei
qui ad impedirmi di bere più del dovuto!” –rideva Hanji, dal cui occhio destro,
unico rimastole dopo l’ultima battaglia, scendeva piano una lacrima sulla guancia
arricciata da quella finta ilarità.
“Era un grande.” –commentò la voce di
Levi, roca per tutto l’alcool ingerito e di un tono con ancor più privo di
emozioni del suo solito. I suoi occhi annebbiati si perdevano stanchi sulle
venature e i nodi del grande bancone di legno della taverna.
“Puoi dirlo forte!” –allargò lei il
sorriso e buttò giù una generosa sorsata che la fece tossire- “Non si trovano
tutti i giorni degli aiutanti così! Per lui sarei stata pronta a farmi
ammazzare, e so che lui avrebbe… fatto… lo stesso…”
Nel pronunciare quelle parole la sua
facciata andò in pezzi e il boccale piovve sul bancone con un tonfo, mollato da
una mano senza forze di un corpo scosso dai singulti del pianto.
Bastava chiudesse gli occhi per
rivederlo nel suo ultimo istante. Quel lampo che stava ingoiando il mondo
intero, e il suo sguardo che la fissava, dopo averla scagliata in quel pozzo
buio. Fino all’ultimo istante aveva pensato prima a lei che a sé.
Levi sospirò e provò, senza successo, a
raddrizzare un po’ la schiena sullo sgabello: “Io non sono Moblit: non ti ho
impedito di bere più del dovuto e non mi metterò certo a consolarti.”
Di colpo si sentì rifilare un colpo
sulla spalla mentre ricominciava a ridere: “Tu? Metterti a paragone con Moblit?
Un nano brontolone come sei tu?” –lo irrise lasciandolo a bocca aperta-
“Figuriamoci! Se non altro però questa era così assurda che mi ha ridato il
buon umore!”
Era anche lei ad essere assurda, per
questo non poté fare a meno di sghignazzare un pochino anche lui.
Poi le risate si calmarono, e, ancora
una volta, si resero conto di essere soli.
Tante avventure, tante battaglie, tante
fatiche e i loro successi, in confronto a quanto avevano perduto lungo la via,
sembravano così esigui.
“Chissà chi di noi sarà il prossimo.”
–si domandò lei guardando il soffitto.
“Hanji…”
“Cosa?”
“Non fare di questi discorsi.” –corrugò la fronte.
“Spero di essere io.” –proseguì lei,
perdendo lo sguardo nell’aria sopra di sé, come volesse sentirsi tanto leggera
da sollevarsi e spiccare il volo, volare via da tutto ciò che la circondava-
“Ho già dato troppi addii, non ne posso più. Sono stanca, voglio essere io
quella che viene salutata una volta tanto.”
“Certo sei proprio una bastarda egoista tu: credi io non ne abbia detti
abbastanza di addii?”
Hanji sorrise mesta, annuendo.
Levi si guardò intorno come se in questo
modo potesse rivederli, lì, tutti, vivi e vegeti. Come se bastasse volerlo.
Idiota, si disse. Sciocco, scosse il
capo. Bambino, si vergognò di sé. Quegli sgabelli erano vuoti e tali sarebbero
rimasti. Di solito non si lasciava andare a simili ingenuità, il che la diceva
lunga sul suo stato in quel momento… Non si era nemmeno accorto che lei,
l’unica rimasta al suo fianco, lo scrutava leggendolo come un libro aperto, con
uno sguardo pesto, tinto di fatica e tenerezza.
“Sono stanca Levi… Dammi pure della
bastarda se vuoi, ma… non voglio dirti addio.”
“Nemmeno io voglio dirti addio, Hanji.”
Si specchiarono qualche attimo negli
occhi lucidi dell’altro, poi lei si chinò lenta fino a poggiare la testa sulla
sua spalla.
Levi avvicinò il bicchiere alle labbra.
Poi cedette ai suoi impulsi, lo poggiò via, e la strinse a sé col braccio.
Sentì il petto alleggerirsi, come quel
gesto così semplice e insignificante da parte sua fosse stato un bisogno
irresistibile atteso tanto a lungo. Cercò con l’altra mano la sua, piccola e
tremante, e la strinse.
A un certo punto Hanji sollevò la testa
dalla sua spalla e prese ad avvicinarsi.
No, si sentì scuotere dentro, non così.
Il loro era un momento orrendo, ma non era certo una scusa.
“No, Hanji…” –si ritrasse, tenendo lo
sguardo basso.
Lei lo guardò stranita.
Non doveva accontentarsi di un piccolo
“nano brontolone”, prima troppo coriaceo per provare a placare il suo dolore, e
poi troppo fragile per non cercare di guarirsi col suo calore quando lei, nella
sua fragilità, glielo aveva offerto. Non si sarebbe dimostrato ancora così debole,
né doveva lei lasciarsi andare così tanto.
“Non devi solo perché sono tutto ciò che
ti è rimasto.”
La mano di lei, che ormai non tremava
più, raggiunse la sua guancia, carezzandogliela, fissandolo col suo occhio
rosso di pianto.
“Perché lo voglio davvero… e perché sei
tutto ciò che mi è rimasto.”
Si avvicinò, e non riuscì a negarle
ancora le sue labbra.
La timida presa di poco prima divenne
una morsa che disperata si chiuse attorno al corpo di lei, mentre con quel
lungo, interminabile bacio riempivano il vuoto attorno a loro.
Allentò l’abbraccio, e le asciugò col
dito una lacrima dalla guancia.
Aveva paura che quelle emozioni, quel
così forte sentimento di quegli attimi, fosse solo dovuto al loro essere
l’ultimo l’uno dell’altra. Ma anche fosse stato così, a lui doveva davvero
importare tanto?
“Non voglio saluti stasera, Levi… Non
stasera…” –pregò stringendolo.
“Sei sicura?”
“Si.”
Perché rifiutare qualcosa che potesse
dare un po’ di serenità ad entrambi?
“Andiamo.”
“Andiamo.”
Erano stati preziosi l’uno per l’altro
prima, lo sarebbero stati ancora di più d’ora in avanti.
Barcollanti, lasciarono la taverna.
Quella notte dormirono nello stesso
letto. Dormirono e null’altro.
Né si sarebbero mai abbandonati da quel
giorno in avanti.