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Autore: bibersell    22/10/2016    0 recensioni
La vita di Eden è perfetta. Ha ottimi voti a scuola e un fidanzato perfetto. É circondata da amorevoli amici, vive in una bellissima casa in un quartiere residenziale e può certamente contare sul sostegno dei suoi genitori. Tutto gira nel verso giusto finché una tiepida notte settembrina tutto cambia. Il suo punto fermo viene a mancare e lei cade con esso seguendolo negli abissi infernali più profondi. Lei, Eden, baciata dalla bellezza e dalla fortuna fin dalla nascita sprofonda in un buco nero senza fine. Ma la mitologia le andrà incontro e sarà proprio una creatura infernale a riportarla in paradiso. O più semplicemente qualcuno che ne porta il nome.
"C’è chi arriva alla vita cadendo dal cielo su morbide coperte di cashmere tra le braccia calde e premurose di una madre affettuosa e chi ci giunge nel pieno di una tempesta travolto dalle onde del mare con l’acqua alla gola, fin da subito in apnea.
Non è possibile appartenere ad entrambi i mondi, sono troppo distanti. Eppure c’è un momento in cui questi collidono, si toccano, e un po’ di sabbia sporca la morbida coperta e tutto va a rotoli. Nulla ha più senso."
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La
bambola
Rotta


C’è una saggezza che è dolore, ma c’è un dolore che è follia.
-Mody Dick


Four.


Febbraio 2014

«No, devi prendere prima del sale» mi ammonì Daniele allontanando il bicchiere di tequila dalle mie labbra.
«Non ho tempo per questi dettagli. Ho bisogno di bere, adesso» mi lamentai con le lacrime agli occhi. Avevo sedici anni e il mio primo amore mi aveva appena lasciata. Avevo sedici anni come Daniele e quel dolore che provavo al petto sembrava il peggiore di sempre. Credevo che il mio cuore si fosse spezzato definitivamente e che non avrei mai trovato un altro amore. Credevo che senza Jamie non sarei più riuscita ad andare avanti. Quanto mi sbagliavo.
L’avevo incontrato al progetto di scienze. Mi era piaciuto fin da subito. Ci eravamo seduti vicino, avevamo parlato della scuola, dei professori, dei nostri compagni di classe, di football e alla fine dell’ora ci eravamo scambiati i numeri di telefono. La sera già avevamo iniziato a messaggiarci.
Jamie Watson è stata la mia prima cotta, il mio primo appuntamento, il primo bacio, il primo toccarsi, il primo battito d’ali nello stomaco, ed era stato il mio primo vero pianto disperato da cuore infranto. Era stato lui a lasciarmi per un’altra. Mi sentivo uno schifo. L’unica cosa che volevo fare era buttarmi sul letto e non alzarmi mai più. Volevo piangere fino a consumarmi. Ma Daniele non me lo permise costringendomi ad uscire.
Non ricordo le parole che usò e di questo mi spiace, mi sarebbe piaciuto annotarle su un taccuino e rileggerle fino ad impararle a memoria. Ma all’epoca non sapevo che tra poco più di un anno sarebbe morto. Quella sera Daniele mi portò in un bar. In un vero bar per soli adulti e non quei localetti per ragazzi pieni di studenti e musica in voga. Ci sedemmo ad un tavolino appartato, un separé in legno ci nascondeva da sguardi estranei.
Un amico di Daniele lavorava al bancone come barrista e non ci creò problemi con l’età, ma ad ogni modo le nostre carte d’identità false erano al sicuro nei nostri portafogli e pronte per essere usate.
«Se non butti giù un po’ di sale prima di bere, ti brucerà lo stomaco» mi ammonì con sguardo serio. Fece per prendere il sale ma io fui più veloce nell’afferrare il bicchiere pieno di tequila e tracannarlo in un’unica sorsata.
Un’espressione di puro disgusto si diffuse sul mio volto. Dire che mi bruciava la gola era poco.
«Che ti avevo detto?» rincarò Daniele. Odiavo quando diceva così. Sapevo che aveva ragione, lui ce l’aveva sempre, e non avevo bisogno che me lo ricordasse.
«Sta zitto e passami il sale» sbraitai esausta e stufa di quel battibecco inutile. Senza aspettare che mi passasse l’oggetto da me nominato, lo sfilai sgarbatamente dalle sue dita affusolate. Buttai giù una manciata di sale sperando di attutire il bruciore. Non fu così.
«Quello va preso prima, non dopo» disse Danny, mio fratello.
Guardandolo dritto negli occhi tracannai un altro bicchiere. «Dicevi?» alzai un sopracciglio mentre rovesciavo in bicchierino di vetro armai vuoto.
Lui rise scuotendo la testa e arrendendosi. Dopo altri tre bicchieri Daniele decise che avevo bevuto abbastanza ed ero fin troppo ubriaca. Biascicando gli risposi che non era vero, che stavo benissimo, ma la mia andatura per nulla equilibrata mi tradiva.
Quella sera mi portò in una discoteca e ballammo tutta la notte. Tornammo a casa all’alba e ci dimenticammo di avvertire. Finimmo in punizione per un mese intero nonostante Daniele si fosse preso tutta la colpa.
Quella mattina mi ero svegliata normalmente, ma durante la giornata il mio cuore si era spezzato e avevo passato il peggior pomeriggio della mia vita per poi trascorrere una delle nottate più belle in assoluto.
Non mi ero mai divertita così tanto.



Oggi.

I giorni passavano e il mio umore non faceva altro che peggiorare. Dopo quel giorno, quello in cui avevo fatto uso di stupefacenti per la prima volta, sembrava che le cose stessero andando un po’ meglio. Mi ero rintanata nelle parole di Daniele, in quelle che la mia mente aveva riprodotto, e avevo provato per la prima volta da quando era morto mio fratello ad andare avanti.
Ci avevo provato sul serio. In quella casa, con Dollar, avevo provato qualcosa, dei sentimenti di cui mi era ancora ignara la natura ma che tuttavia mi avevano fatto dimenticare la parola morte.
In quelle poche ore sembrava che quel grigiore non sorvolasse più su di me e che un po’ di sole fosse tornato a splendere. Così avevo deciso di ricominciare da capo.
Ero andata dal parrucchiere. Sembrava una cosa stupida fa fare e mi sentivo quasi impacciata e fuori luogo in quel salone di bellezza ma ero rimasta ugualmente. Ero rimasta perché volevo rinascere e come prima cosa volevo cambiare il mio aspetto. Quando mi vedevo allo specchio vedevo la vecchia Eden, la gemella dolce e un po’ ribelle di Daniele. La tenera ragazzina dai lunghi capelli castani così diversi da quelli del fratello e gentilmente ereditati dalla nostra –ormai solo mia- madre. Il colore degli occhi –che era lo stesso di Daniele- me lo sarei dovuto tenere. Quel verde scuro mi avrebbe sempre ricordato lui, ma per i capelli potevo fare qualcosa. Decisi di lasciarli lunghi e aggiustare solo la scalatura. Cambiai colore. Mi feci bionda. Un color platino talmente chiaro da sembrare bianco.
Mi ci volle un po’ per abituarmi a quel colore così chiaro. Non ero nemmeno sicura che mi stesse bene. Ero di carnagione molto chiara e quel colore quasi assente non faceva altro che accentuare il mio pallore.
Mia madre a stento se ne accorse. Una sera mi chiese se avessi fatto qualcosa al volto, disse che mi vedeva diversa. Io le risposi che mi ero tinta i capelli e lei aveva solo fatto un cenno con la testa. Non commentò. Un tempo ne avrebbe fatto una questione di stato o, come minimo, sarei stata in punizione a vita, ma adesso era tutto diverso.
Un tempo non avrei mai preso nemmeno in considerazione l’idea di tingermi i capelli.

Mi sforzai e chiamai Rosie, la mia migliore amica. O meglio, quella che lo era stata fino ad un anno prima. Uscimmo insieme, e in classe cominciammo a riprendere a sederci vicine. Ogni tanto sorrisi. Non perché volessi farlo veramente ma perché dovevo farlo, mi dovevo sforzare. Ci provai sul serio. Accettai addirittura di uscire con loro quel sabato.
Rosie mi disse che sarebbe venuto anche Jordan, il mio ex fidanzato. Ero stata io a lasciarlo. Il giorno del funerale di Daniele. A detta della mia migliore amica era ancora preso da me e che non era più stato fidanzato. Io non le credetti e lei se ne accorse. Si corresse e disse che era stato con qualcuna, ma nulla di serio. Io capii quello che voleva dire. Non mi interessava.
Nonostante tutto volevo che quel sabato sera le cose andassero bene, volevo tornare a far parte di un gruppo. Lo desideravo.
E poi arrivò venerdì sera e la notte portò con sé una lettera dell’avvocato che faceva le feci di mio padre.
Era un avvocato divorzista.

Quel sabato sera non uscii. E nemmeno quello successivo. Quella sera sentii mia madre piangere di nuovo. Misi le cuffiette. Sparai la musica preferita di Daniele a tutto volume nelle mie orecchie. Non la sentivo più, ma quel rumore devastante si era insidiato talmente a fondo nel mio cuore che non c’era bisogno di sentirlo veramente, io lo sentivo lo stesso. Quel rumore continuava a rimbombarmi nelle orecchie e nella testa nonostante la musica. Non dormii.
Il giorno dopo, la voce del professore di matematica era coperta da quel suono tanto simile ad uno squarcio. Lo squarcio del cuore di mia madre, del mio.
Lo squarcio della nostra famiglia che cadeva in pezzi e riproduceva lo stesso frastuono di piatti sbattuti a terra con violenza.
Lo squarcio della morte di Daniele che tornava a ripresentarsi nei nostri cuori giorno dopo giorno, sempre con maggior veemenza. Cercai di trattenermi ma non ce la feci. E alla fine cedetti. Tornai al Buco Nero.

Quel sabato sera uscii con le migliori intenzioni. Dovevo trovare un modo per sbollire, dimenticare, sballarmi, perdermi. Con i miei pantaloncini logori di una vecchia tuta grigia e l’immancabile giubbotto di jeans –ormai mio- uscii di casa senza nemmeno avvertire mia madre. Inutile dirlo: era a lavoro e quando sarebbe tornata sarebbe stata talmente stanca e presa del suo dolore da non rendersi conto della mia assenza. E se pure se ne fosse accorta si sarebbe limitata ad un cenno di testa il mattino successivo. Come aveva fatto con i miei capelli, con i brutti voti, con le lamentele dei professori, e con tutto il resto. Che lei ci fosse o meno non faceva molta differenza.
Con la Malboro tra le labbra aspiravo freneticamente. Da quando ero uscita avevo fumato già cinque sigarette. Di seguito. Se non mi fossi data una calmata avrei finito il pacchetto nel giro di poche ore. Ad ogni passo sentivo i soldi tintinnare nelle tasche e quel suono mi istigava e tentava ad andare al Buco Nero. Ma sapevo di non dover andarci. Se ci fossi riandata, quello della settimana prima non sarebbe più stato un caso isolato ma solo il primo di una lunga serie. E io non volevo entrare in quel giro. Sapevo fin troppo bene che una volta entrata a far parte di quel mondo uscirne non sarebbe stato facile. Così mi allontanai da quella zona malfamata della città e mi avviai verso un parco pubblico.
Camminai e fumai nascosta nel buio, sotto un albero. Così rannicchiata nell’oscurità e a contatto con il freddo terreno riuscii a calmarmi e presi a fumare con più calma godendomi il sapore nella nicotina. Cacciai il cellulare e feci quello che facevo tutti i giorni, più volte al giorno. Entrai su facebook e cercai Daniele.
Quel gesto così banale era capace di acquietarmi e donarmi serenità. Normalità. Quando scorrevo la sua bacheca e leggevo quei post ormai triti e ritriti e che sapevo a memoria mi sentivo più giovane di un anno e in fondo, molto in fondo, in una parte del mio essere che avrei faticato ad ammettere, speravo ancora di trovare un nuovo post, un messaggio scherzoso, gioioso e carico di ironia tipica di Daniele. Una frase del tipo: “Sorellina, davvero credevi che ti saresti liberata così facilmente del tuo fratellone tanto adorato?”. E io gli avrei ricordato che aravamo gemellini e non importava chi fosse nato prima e chi dopo, avevamo la stessa età e non poteva chiamarmi sorellina.
Ricordai i nostri battibecchi continui, le nostre scherzose litigate e il nostro modo amorevole di fare pace. Qualche lacrima calda mi bagnò le labbra entrandomi in bocca. Sorrisi a quei teneri ma ormai lontani ricordi. Avevo bisogno di leggere qualche suo post, non importava che fossero datati l’anno precedente.
Necessitavo di leggere il suo ultimo post. Sapevo che l’ultima cosa che aveva postato era un video di noi due. Al concerto della mia band preferita. I Nickelback erano in città quel fine settimana e Daniele si era acciuffato i biglietti sei mesi prima. Fuori l’arena avevamo comprato due magliette uguali. Entrambe nere con il nome della band in bianco. Lui aveva preso anche una fascia per me.
A fine concerto Daniele aveva fatto un video e lo aveva postato descrivendolo come la serata più folle della sua vita. Nel video lui guardava nella telecamera con i suoi profondi occhi verdi che sprizzavano allegria e urlava sopra le altre voci per farsi sentire: “La migliore serata di sempre, ragazzi. Che concerto. Questa si che è vera musica. Dai Ed, cantaci un pezzettino di If today was your last day”.
E io lo feci, cantai per lui come se quello fosse l’ultimo giorno senza sapere che lo sarebbe stato per davvero.

If today was your last day
And tomorrow was too late
Could you say goodbay to yesterday?

Cantai a squarcia gola senza guardare l’obbiettivo, col sorriso sulle labbra convinta che nulla al mondo potesse frapporsi tra me, mio fratello e la nostra felicità. Beh, mi sbagliavo. Almeno in parte, la parte che riguardava me.
Abbandonai i ricordi lasciando che i miei occhi guardassero quel video. Cliccai sul profilo di Daniele aspettando di veder spuntare il suo faccione sorridente, e invece tutto quello che mi si presentò davanti fu un messaggio degli amministratori del social.

Siamo spiacenti, ma la pagina da lei caricata è inesistente.

Avevano cancellato la sua pagina. Annullata.
Adesso era scomparsa anche l’ultima parte che mi era rimasta di lui: quella virtuale.
Persi la testa.
Mi alzai e feci quello che mi ero ripromessa di non fare. Andai al Buco Nero.



My space..
Sono tornata, non so quanti mesi sono passati ma sono ancora qui. Viva e vegeta!
Chiedo venia per il mio tremendo ritarno. Onestamente non so nemmeno se ci sia ancora qualcuno che legge il delirio che è questa storia. Io mi auguro vivamente di si!
Come avrete visto, in questo capitolo non succede molto, più che altro si capisce meglio il legame che c'era tra Eden e suo fratello Daniele.
Spero di pubblicare il prossimo capitolo il prima possimile. E' già pronto sul mio pc, aspetta solo di essere rivisionato e pubblicto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi lasciate una recensione, anche piccola. Mi piacerebbe davvero tanto sapere il vostro pensiero in merito alla storia. 
Anche un piccolo commento fa sempre piacere ed incita per al continnuo della storia.
Come avrete capito, ho bisogno di un umore "adatto", per scrivere la storia di Eden, non è affatto facile immedesimarsi nel suo personaggio. Ma ho intenzione di portare a termine il progetto e condurre a conclusione anche questa storia.
Un bacio,
non vedo l'ora di "leggervi".
Grazie,
-B

 
  
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