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Autore: vause91    22/10/2016    1 recensioni
Questa fanfiction ha come personaggi Taylor Schilling e Laura Prepon, e in maniera minore anche Natasha Lyonne ed altri attori legati alla serie. E' più che altro una fantasia ormai diffusa quella di vedere nelle Laylor un rapporto che vada oltre alla semplice relazione professionale.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Alex Vause
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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7. November Rain
 
 
I giorni passavano lenti, lenti, lentissimi. Fuori era primavera inoltrata, ma dentro di me ogni organo si preparava all’inverno. Tutte le mie foglie stavano cadendo, forse cercando di coprire il terreno arido su cui poggiavo i miei piedi. I primi giorni dopo la partenza di Laura erano stati positivi, godevo della bellezza che avevamo avuto insieme, dell’autenticità dei suoi occhi, del chiarore che la sua pelle di luna aveva emanato nella mia stanza. Poi i segni della sua presenza hanno iniziato a sfumare, piano, quasi impercettibilmente. Dopo un mese Tash ha persino cambiato le lenzuola in cui avevamo dormito insieme, lasciandomi un foglietto strappato dall’agenda 2012 con scritto “puzzi, sottona”. Si, lo ammetto, ci stavo sotto come a un treno. Ogni tanto trovavo dei post-it in giro per la casa con scritte le frasi più disparate, come: “I lombrichi vedono più luce di te”, oppure “s-talpati” o ancora “Taaaaylooor, mi senti da laggiùùù?”. Insomma, la mia amica non perdeva occasione di prendermi per il culo. Io stavo al gioco, non è che avessi molta scelta con Tash. Ma dentro sentivo sentimenti davvero profondi, un’eco di perdita, di abbandono, di solitudine. Anche riderci su non mi faceva star meglio. Se n’era andata, portandosi via un pezzo della mia “me” più vera. Glielo dissi, quella mattina, mentre riordinava le cose nella sua borsetta. Mi rispose che qualsiasi cosa fosse, lo avrebbe custodito con cura. “Sei al sicuro con me”, mi disse.

Decidemmo di non sentirci, per il tempo in cui sarebbe stata via. Sarebbe stato troppo doloroso, troppo lontano rispetto a noi. Sul mio comodino c’era un plico alto come me di lettere che le avevo scritto, ma che non sapevo dove inviare. “E per fortuna”, commentava Tash. Già. Forse l’avrei terrorizzata, forse non mi avrebbe mai più voluta. Che poi, mi aveva veramente voluta? In fondo avevamo solo dormito insieme. Ci eravamo sfiorate le labbra per un istante appena. Forse questo non significava niente per lei, forse era solo triste quella sera e aveva bisogno di compagnia. Forse tutto questo amore incontenibile era solo frutto della mia fervida immaginazione.

Fatto sta che le riprese, come a loro accade, ripresero. Le prime scene che girai quasi mi valsero il licenziamento. Le riguardo ogni tanto ora, manco la peggio soap-opera. Una recitazione priva, vuota, inconsistente. Jenji non faceva che interrompere tutto e convocarmi nel suo ufficio. Mi ripeteva che così non andava, che non potevamo continuare in questo modo, che ero fortunata di essere ormai insostituibile perché altrimenti non ci avrebbe pensato due volte a cacciarmi dal set.

Poi un giorno, arrivata prima a lavoro come sempre, per le scale incontrai Uzo.
“Ehi fiore! Come stai oggi? I miei occhi non possono più sopportare di vederti così triste. Ti va di parlare un po’? Cosa ti succede?”
Non mi andava di parlare. Non riuscivo a farlo nemmeno con Tash. Rimasi a guardarla, indecisa se andarmene senza risponderle oppure dire un semplice “no grazie”, finchè mi prese sotto braccio e mi portò nel mio camerino.
“Adesso tu ti siedi qui” mi disse.
Prese il copione in mano e iniziò a recitare tutte le battute con le diverse intonazioni dei personaggi. Non lo leggeva veramente, voleva solo nascondere di saperlo tutto a memoria dall’inizio alla fine. Aveva la forza di un leone nel suo massimo splendore di età e vigore. Risi di gusto al suo show.
“Puoi aiutarmi?” le chiesi infine.
“Ma certo bambolina, dimmi, cosa vuoi che faccia? Ci facciamo una serata film e ci ingozziamo di gelato?” disse sorridendo.
“No… No Uzo. Nulla di tutto questo. Io… vorrei che tu mi aiutassi col copione. Vorrei che lo leggessimo insieme, vorrei…” scoppiai in singhiozzi. Non era solo Laura a mancarmi, ero proprio io che mi stavo mancando da sotto i piedi, se non ero nemmeno più in grado di fare l’unica cosa che avevo sempre saputo fare.
“Io??? Ma Taylor Swift, tu sei la più brava attrice che io conosca, ma come potrei io aiutare te?”
“Tu… Tu Uzo sei la più bella persona che esista. E la più brava in questa stanza, lo sai, non sono certo io. Puoi aiutarmi, allora?”
Mi sorrise.
Passammo la mattinata insieme. Lei faceva le mie battute, e io le ripetevo con la medesima intonazione. Alle 14,00 iniziammo le riprese, feci le mie tre scene e la sera Jenji mi richiamò nel suo ufficio.
Mi accolse con un abbraccio e mi disse: “Finalmente la mia Taylor è tornata!”
Sorrisi, imbarazzata, un po’ consapevole di non meritarmi quelle parole. Avevo solo copiato Uzo. Non c’era cuore. O almeno, c’era il suo, non il mio. Dopo aver ringraziato Uzo per non avermi fatto perdere il posto, la invitai fuori per una birra, per sdebitarmi. Lei accettò di buon grado, mi chiese dieci minuti per prepararsi. Io decisi di scendere e la aspettai appoggiata alla mia macchina. Mi sembrò un tempo interminabile, i pensieri andavano veloci come schegge impazzite nel turbine della mia mente. Laura, il lavoro, il suo benedetto film. Chissà se sta conoscendo qualcuno, chissà quante persone la baceranno ora su quel set, chissà con chi vive, cosa fa.

*BIP BIP*

Un messaggio. Numero sconosciuto. Prefisso francese.

Mi manchi.”

 
Avete mai visto, ai giochi olimpici, quelli che fanno quei tuffi ultra mega tripli quadrupli carpiati con giravolte sopra e sotto e poi con un silenzio imabarazzante sprofondano nell’acqua? Ecco, credo che al mio cuore successe una cosa del genere. Un boato dentro. Un vortice di roba confusa, rabbia, stupore, gioia, tristezza infinita. Col sorriso sulle labbra, iniziai a sentire le lacrime scorrermi sul viso.

Arrivò Uzo. Mi guardò un po’, senza chiedere nulla mi strinse forte a sé. Piansi. Piansi tutto fuori. Quei pianti che fanno rumore, che non hanno paura di farsi sentire. Lei non si mosse di un millimetro. Rimase lì in quella stretta. Solida, presente, statuaria. Finimmo in un silenzio.
“Scusa… Scusa Uzo. Andiamo dai.”
“Solo se ritiri queste scuse.”
“…le ritiro…”
“Benissimo. Non ti porto a casa se non sei ubriaca.”
“Ma la macchina è mia!”

“Appunto, al ritorno non guidi, hai capito? Andiamo, forza!”
 
Mi lasciai trasportare dal suo carisma. Volevo portarla nel mio bar preferito, ma invece era chiuso. Così finì per decidere lei dove andare. Finimmo in un posto stile “peggiori bar di Caracas”. Ballammo fino allo sfinimento. Ricordo poco. Ricordo le risate. Ricordo il vomito nel bagno del locale, in macchina, a casa. Ricordo Uzo che balla con un omone sud americano che la fa volteggiare come una farfalla nella pista da ballo. Ricordo di essermi svegliata nel letto di Tash, tra lei e Yael.
“Finalmente ti sei levata le ragnatele dal fegato!”
“Vaffanculo” fu l’unica cosa che riuscii a bofonchiare, prima di andare in bagno di corsa.
 
 
La mattina seguente risposi al messaggio.
 

Mi manchi.”
 

La parte dopo recitava: “Vorrei vederti. Dove sei? Ci vediamo domani?”
La riscrissi cento volte, poi la cancellai, e inviai quelle due parole banali, quelle due strane e cacofoniche parole di vuoto.
   
 
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