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Autore: Made of Snow and Dreams    23/10/2016    1 recensioni
Strani eventi cominciano a disturbare la vita dei nostri killer: macabre scoperte, gente spaventata per un pericolo sconosciuto, corpi ammassati nella foresta. Cosa sta succedendo? Chi sta minacciando il territorio dei nostri assassini? Chi è il nemico?
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Un paio di avvertimenti è sempre meglio farli:
Il linguaggio, con la venuta di Jeff e l'alternarsi delle vicende, non sarà proprio pulitissimo.
Dato che il mio progetto include la presenza dei miei Oc (quindi ho detto tutto), saranno presenti scene di violenza varia con un po' di sangue (un po'? Credeteci pure...).
Spero vi piaccia.
P.S. Fate felice una scrittrice solitaria con una recensione, si sentirà apprezzata!
Genere: Dark, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Il ritorno del Mondo Vero
 
 
 
 
 
 


La luce divenne aggressiva, tagliente come dei minuscoli frammenti di vetro; avrebbe lacerato le palpebre raggrinzite e penetrato in quei veli di pelle per distruggere le cornee delicate, ma l’elegante pizzo nero che copriva le fessure per gli occhi della maschera impedì la sua avanzata, proteggendo quel viso stanco e dormiente, custodendolo nella penombra tanta bramata da Jane.
Ma i raggi del sole non si arresero, crudeli. Il pagliaio, che la ragazza aveva scelto come alcova, fu presto invaso dalla luce del mattino, da quel riflesso pallido che si limita ad accarezzare le membra e a destare dolcemente i viventi per avvertirli che la notte è terminata.
Il corpo di Jane era dunque ben visibile in quella distesa gialla e pungente di paglia, più simile a una macchiolina nera che a una persona addormentata, sebbene le gambe fossero sprofondate nel foraggio, trovando conforto in quel tiepido calore: ciò che non lasciava presagire alcun dubbio, però, sulla natura di quel corpo, era quel riverbero rossastro che aveva colorato buona parte dei culmi su cui il corpo era adagiato.





Era una casa larga, arieggiata, spaziosa. I pilastri che sorreggevano i muri erano quasi impossibili da individuare rispetto al resto della costruzione, tanto erano logorati e sudici; solo un occhio piuttosto esperto avrebbe saputo indovinare il colore originario - un accecante bianco che, a detta di Carly Repsen, ravvivava il grigio perla dell’abitazione -, ma sarebbe risultata ugualmente un’impresa piuttosto ardua. Non che risultasse più semplice, per un estraneo abituato allo sfarzo e alle tappezzerie floreali e ai vestiti profumati e lindi e freschi di bucato, la semplice azione di superare l’ostacolo fatto di cactus e orchidee, che nel corso degli anni avevano avuto tutto il tempo necessario per aggrovigliarsi lungo il cancello.
Di certo sarebbe stato ancora più difficile non storcere il naso di fronte alle condizioni precarie in cui la casa navigava, e ancor più complicato sarebbe stato trattenere un conato entrando direttamente in casa; il puzzo stagnante sembrava aver piantato le sue radici direttamente nelle fondamenta, per poi espandersi in tutte le stanze come una pianta velenosa.

La casa era larga, arieggiata e spaziosa. Forse fin troppo per Argot, la cui unica occupazione al momento era contare le piccole crepe che puntellavano quello che, un tempo, era stato il tavolinetto per il caffè. Era un bambino mite, amante del silenzio e della quiete, e poco incline a lamentarsi per l’odore di muffa e umido che gli impregnava la salopette. Sospirò annoiato, e lanciò uno sguardo alla finestra per controllare l’ora. Il cielo si era rischiarato nel giro di due ore scarse, e, con sua grande delizia, le nuvole avevano mantenuto quella tonalità grigio perla che lui tanto apprezzava.

Accavallò la gamba sinistra sulla destra, adagiata su un cuscino del divano, quando un raggio di sole penetrò nelle tende rosso scuro, riscaldandogli fastidiosamente un lembo di pelle nuda. Non gli piaceva il sole, in special modo quello pungente e asfissiante che imperversava nelle ore di punta, e gonfiò le guance quando realizzò che l’ora di prendere il bus scolastico si stava pericolosamente avvicinando.

Argot Kelley non era un bambino come tutti gli altri. Il suo pallore malaticcio e i suoi occhi grigi erano oggetto di occhiatine preoccupate da parte delle maestre, e i suoi capelli neri risaltavano in un mondo fatto di gioiose testoline bionde. Che poi la sua filosofia di vita – per quanto un bambino di nove anni potesse averne elaborata una personale – andasse a braccetto con i precetti religiosi, quella era un’altra storia.

Aveva perso la madre in un passato imprecisato, lontano ma vicino nella sua memoria. Il cancro aveva deciso di divorarle il cervello proprio nel periodo più felice dei suoi primi quattro anni di vita, ed Argot era sufficientemente cresciuto da essersi impresso a fuoco i minimi dettagli di quel lutto. La pelle infossata, le labbra violacee e i capelli radi non lo avevano impressionato più di quanto facesse l’ago annegato nel braccio di Carly Repsen, per quanto l’insieme incutesse un senso di oppressione notevole. L’odore dolciastro e nauseabondo dei medicinali era impercettibile per lui, e neanche il chiarore inespressivo e distante delle pareti lo poteva distrarre dall’intento di tenere i suoi occhi inchiodati in quelli della madre morente. Erano grigi, grigi come i suoi, ma incolori: non sofferenti, non impauriti, non disperati – e sua madre non era il tipo di donna che piangeva nelle avversità. Erano limpidi ma vuoti, vi era riflesso tutto e niente. Era lo sguardo di un condannato a morte a cui non importa niente né della morte né della vita. Era lo sguardo di un morente abbastanza abile da aver battuto sul tempo la morte stessa, che ha scelto di auto sopprimersi dopo una lunga e distaccata riflessione sul proprio destino.
Argot aveva scelto proprio quel momento per abbandonarsi alle lacrime, confortato dalla dolcezza ruvida delle mani del padre e da quella estranea delle infermiere. Tutti avevano puntato la chioma corvina con comprensione e tenerezza, sussurrando parole di pietà verso il bambinello che, di lacrime, ne avrebbe certamente versate ancora. Tuttavia, contro le previsioni generali, durante il funerale le guance di Argot erano rimaste asciutte. Non aveva più lacrime da versare per un cadavere sotterrato, quando aveva implorato Dio in quell’ospedale tra i singhiozzi, osservando la vera morte della sua mamma. Quegli occhi irrorati da cellule impazzite e tenuti in vita da fiumi di medicinali, ma già morti di loro.

Piuttosto, tutto ciò che rammentava di quella cerimonia triste era stata l’indifferenza con cui aveva affrontato le parole di conforto che i parenti, gli amici e l’intera famiglia della morta andavano a dispensare.

Il sospiro di sollievo che aveva rilasciato quando si era sbottonato la camicia inamidata gli aveva fatto guadagnare un sospiro irritato da parte del padre, che, con gli occhi arrossati e gonfi, si guardava intorno in preda a uno stato di totale e confusa disperazione.
Il silenzio che era calato sulla casa era stato una benedizione per il primo e una maledizione per il secondo, ma Argot era troppo impegnato a cambiare l’oggetto delle sue letture che i passi di suo padre non venivano neppure registrati dalle sue orecchie; croci dorate, piccoli crocifissi fatti di perline rosse e conchiglie erano diventati il nuovo paesaggio per i suoi occhi, e al posto dei lunghi elenchi di malattie bovine erano subentrati i sermoni latini e le preghiere elementari. Quando la religione diventò parte integrante della sua routine, le cose andarono anche peggio.

Argot era nato con la fortuna di essere il figlio del proprietario di quella che, una volta, era stata una fattoria ben avviata. A tre anni aveva esultato di una gioia incontenibile quando i suoi genitori gli avevano comunicato, con un pizzico di soddisfazione, che i soldi racimulati nel corso del tempo erano abbastanza da potersi permettere l’acquisto di alcuni capi di bestiame – lo stesso Argot ricordava piuttosto vagamente quando suo padre gli aveva raccontato, tra le tante vicende familiari, di quando suo padre aveva abbandonato l’attività e venduto gli animali. Volendo seguire quelle orme, suo figlio aveva deciso di addentrarsi in quel nuovo universo che era l’allevamento, e Argot non poteva essere più che d’accordo.

Avevano deciso di modificare drasticamente la struttura della casa originaria, che, nonostante fosse già grande a sufficienza anche per la loro famiglia -  che si era allargata con la nascita del loro primogenito -, conteneva alcune stanze completamente vuote, e, nel loro specifico caso, un intero piano disabitato: quello inferiore, scelto per il giaciglio degli animali venturi.
Il fatto che suo padre fosse un veterinario instillò ad Argot l’idea di poter seguire la medesima carriera, ma quando, due settimane dopo, decine e decine di agnelli e mucche popolarono gli scompartimenti a loro destinati, quell’idea mutò in una vera e propria ispirazione.

Erano stati gli anni d’oro per lui e la sua famiglia; Argot, per non farsi trovare impreparato, aveva anche comprato al mercato un libro illustrato per bambini in cui venivano elencate le malattie principali che affliggevano i ruminanti, ma suo padre glielo aveva sottratto affettuosamente per sostituirlo con un libro specialistico. Inutile dire che il bambino ne era rimasto incantato, ma tutti quei paroloni così tremendamente complessi da pronunciare – solo qualche settimana dopo scoprì che si trattava del famigerato latino – gli fecero perdere ogni voglia di leggere le pagine.

Quando Carly morì, gli animali iniziarono a deperire. Quel libro sulla medicina veterinaria trovò la sua morte in un polveroso scaffale della biblioteca, consumato dalle tarme. Le mucche e gli agnelli si ammalarono di uno strano morbo, qualcosa che suo padre nominò ‘Paratubercolosi bovina’, ma l’uomo era così impegnato a lasciare fiori e lettere sulla tomba della moglie da aver perso l’interesse nel curare le bestie.

Argot assistette a tutto: i muggiti di dolore erano i suoni che infestavano la stalla, l’odore della diarrea e del vomito erano così pungenti che ben presto Argot dovette accertarsi di avere in mano una boccetta di profumo per poter entrare. Il dimagrimento generale non gli faceva molta impressione: non era niente in confronto al manichino che era diventata la sua mamma in quell’ultimo giorno. I corpi che si accasciavano a terra, sulla paglia, erano flebili immagini contorte, a cui lui non prestava più attenzione. La morte non lo inquietava più, sua madre aveva passata di peggio. I libri di religione gli stavano insegnando tante cose, tra cui il non temere il decadimento fisico, visto la salvezza dell’anima immortale. Quindi perché preoccuparsi?
Tutti sarebbero andati in Paradiso.

Sospirò quando gli ingranaggi dell’orologio a cucù – o meglio, quello che un tempo era stato un orologio a cucù – scricchiolarono, troppo arrugginiti per poter compiere il loro dovere. Argot si alzò stancamente, traballando per il sonno, e, adocchiando subito lo zaino precedentemente preparato, si avviò verso la scalinata che conduceva al pian terreno.




La bambina grugnò, arricciando le labbra e stuzzicando le unghie dai bordi frastagliati con i denti. Si annoiava, come in tutti i pomeriggi in cui la maestra assegnava pochi compiti e lei si ritrovava libera da qualsiasi impegno prima dell’amatissima ora di cena. Di certo non aiutava il fatto che suo padre paresse un bambolotto di gigantesche dimensioni, una presenza buffa e bizzarra mentre leggeva attentamente il giornale, sprofondato sulla poltrona. Doveva essere davvero assorto nella lettura, poiché ignorava l’irritante voce della conduttrice di un programma di televendite che lei, però, udiva eccome.

La bambina non aveva voglia di giocare con le Barbie o di vedere le cassette in una delle rare volte che suo padre era presente a casa, visto i suoi sfiancanti turni di lavoro; quindi si alzò, fingendo di guardare con interesse una delle tante calamite che adornavano il frigorifero – una calamita a forma di sedia a sdraio, che i suoi genitori avevano acquistato in una dei loro viaggio a Virgin Island. Ah, quanto si erano divertiti tutti e tre! – mentre squadrava, invece, il profilo paterno per qualche secondo. Quando si riempì sufficientemente gli occhi e la mente di quei tratti aquilini, si avventò verso di lui urlando: ‘Caricaaa! ‘ a pieni polmoni. L’uomo non ebbe il tempo materiale per voltarsi per contrastare quell’impeto, poiché lei gli saltò in grembo e gli strappò dalle mani il giornale, gettandolo per terra.

‘Cos… miseriaccia, figlia mia, stai un po’ attenta! ‘ esclamò suo padre, colto alla sprovvista, mentre cercava di riacciuffare la pagina ultima che aveva attirato la sua attenzione.

‘Alla buon’ora! ‘ cinguettò invece la bambina, battendo i palmi delle mani sulle ginocchia. ‘Papà, possiamo uscire oggi? Mi annoio, mi porti al parco? ‘

‘Ehhh, ma lo sai anche tu che non possiamo andare al parco che ti piace tanto stasera. La strada è tanta, e poi… vieni, guarda tu stessa: il cielo si è fatto buio, ormai. ’ mugugnò l’uomo, indicando con un gesto stanco la finestra.

‘Ma papà! Me lo avevi promesso, mi avevi detto che ci sarei potuta andare! Uff… sei cattivo. Sei un cattivo papà, lo sai? ‘ concluse la bambina, sporgendo il labbro inferiore mentre sceglieva quale poltrona fosse la più comoda per poter spiare il genitore da sotto la frangetta castana.

‘Eh, sì… ‘ sorrise l’uomo, chiudendo il giornale. ‘Talmente cattivo che ora ti mangio! Arrivo, sta arrivando l’orco cattivo! ‘

E poi fu tutto uno scosciare di risate e risate, che attirò Charlotte, la madre della piccola. Suo marito che inseguiva la figlia con le braccia slanciate in avanti come una mummia era uno spettacolo di grande gioia per lei; vedere quel demonietto di una peste sgattaiolare a destra e a manca, saltare sui cuscini che aveva accuratamente deposto sul divano per poi rifugiarsi tra le gambe del tavolo con gli occhi brillanti di adrenalina e i capelli scomposti, era il premio più soddisfacente per ripagare il suo corpo, affaticato dalle ore lavorative.
Eppure, nonostante la confusione fosse la padrona che regnava nella loro casa, in quei momenti non si arrabbiava mai. Si limitava a godersi la scena dalla cucina, appoggiando la schiena al piano cottura e squittendo, quando un Lego finiva per rovesciarsi e rotolare sul pavimento, un poco convinto: ’ Piano, voi due! A distruggere la casa siete proprio bravi, eh? Jane, guarda che poi devi rimettere a posto la scatola dei-‘

‘Sì, sì. Mamma, proteggimi da lui, mi insegue! ‘ fu l’inevitabile risposta che giungeva da sotto una sedia.

‘Oh sì, mia bella signora. Ma prego, protegga pure sua figlia, ma tanto l’orco arriva sempre! ‘ disse poi l’uomo affannosamente, allargando le braccia e inclinando la schiena per imitare l’inchino di un cameriere.

La donna ridacchiò, schiaffeggiandogli l’avambraccio destro. ‘Che scemo…’

Un ciuffetto di capelli fece capolino da sotto la tovaglia. ‘Ma la volete finire, voi due? Bleah! Mi sta salendo la glicemia! ‘

Charlotte ridacchiò.  ‘Okay, okay. Abbiamo finito. A proposito di glicemia, sai con cosa potresti fartela venire? ‘

La bambina si sporse, dimenticandosi del suo rifugio improvvisato, scuotendo la testa e fissando con occhi sgranati la madre con la stessa intensità di chi si aspetta di venire a conoscenza di un importante segreto. ‘No. Con cosa? ‘

‘Fossi in te, correrei subito in camera tua. Forse, e dico forse, troverai qualcosa da qualche parte. Qualcosa che ti piacerà. ‘

Gli occhietti vispi si illuminarono in un grande sorriso. ‘Cosa mi hai portato? Una bambola? Un vestito nuovo? O forse è un cagnolino? ‘

‘Vai e lo scoprirai. Ti dico solo che è qualcosa di molto dolce. E ora fila via, mostriciattola! ‘ disse l’uomo, rivolgendo alla moglie uno sguardo gioioso e furbo, tipico di chi la sa lunga.

La bambina obbedì. Avendo riconosciuto nell’aria il frizzante odore delle sorprese gradite, corse verso la sua camera, ignorano il frastuono che i suoi talloni producevano sbattendo sul pavimento freddo. Aveva le guance rosate per la corsa e l’affanno, e quando la voce stanca ma divertita della madre l’accompagnò per il corridoio per indurla a un rallentamento, l’adrenalina che palpitava in tutte le sue membra conobbe un picco. La porta della stanza venne aperta con ben poca delicatezza e sbatté contro la parete opposta quando la bambina entrò con la stessa irruenza di un terremoto.

Affannata e con il petto che tamburellava, ispezionò la stanzetta minuscola e colorata come se fosse la prima volta. Il letto con le federe azzurro cielo era liscio e ordinato come sempre; il piccolo mobiletto utilizzato come porta - videocassette era stato pulito e sgrassata da poco – l’odore fresco del detergente impestava l’aria e aveva invaso le narici della bambina, e di questo non poteva che esserne più lieta; i fumetti era stati riposti nella cesta dei giocattoli di plastica, sommersi da dinosauri variopinti e volumi scolastici; le tende erano semi- trasparenti, e non celavano nulla allo sguardo.

‘Ma dove sono questi dolci? Ho fame! ‘ borbottò lei, stringendo le dita delle mani in due pugnetti. Si voltò, e stava per tornare nel soggiorno quando un sacchetto color verde smeraldo intercettò i suoi occhi delusi, ravvivandoli di emozione. Era pieno di caramelle e cioccolatini di tanti gusti diversi, e solo a vedere le cartine che li coprivano veniva voglia di assaggiarli. Quando la bambina addentò il primo cioccolato l’idea di dividerli con i genitori le piacque, e camminò lentamente nel corridoio.

‘Mamma, papà! Li ho trovati, dovete mangiarli anche voi! ‘ mugugnò non appena si trovò vicina alla cucina. Il fatto che un silenzio innaturale echeggiasse in tutta la casa non la preoccupò, ma, quando si affacciò per rimproverar loro di non averle risposto, spalancò la bocca per urlare.

Il soggiorno era cosparso di sangue, come se qualcuno avesse giocato con le fragole e le avesse spiaccicate contro le pareti e il pavimento. Riverse al suolo, le carcasse orribilmente tumefatte dei suoi genitori.

Lo shock si mescolò al disgusto, ma la bambina continuò a fissare, incredula, i due cadaveri familiari. La mano si schiuse quasi dolcemente senza che lei se ne rendesse conto, e lasciò cadere il sacchetto con i dolci. Quando cadde sulle mattonelle produsse un allegro tintinnio che scivolò nelle orecchie della bimba, per poi dissolversi. Gli occhi le si sgranarono fino a diventare enormi, come quelli di un bambolotto. La bocca si aprì per urlare, ma uscì solo un suono strozzato. I piedi si mossero da soli.

La bambina indietreggiò quando i suoi occhi appannati misero a fuoco la sagoma di una donna sbucar fuori da dietro il divano come un mostro per distruggerla, e il suo istinto strillò di fuggire via per chiamare aiuto, ma tutto il suo corpo non voleva più rispondere ai comandi del suo cervello. Non appena le sue scapole sporgenti sbatterono contro la superficie liscia dello schermo della televisione, sussultò, tenendo ancora lo sguardo fisso sulla donna. Questa si fece strada tra la pelle del divano e i cuscini come se non avesse una consistenza e fosse fatta di aria, e il modo in cui camminava, facendo strusciare le ginocchia tra loro, provocò repulsione nella bambina.

‘Come sei carina, bimba. ‘ disse la donna. La sua voce rancida colpì la bambina come una coltellata. ‘Sono proprio felice di vedere che sei sveglia. ‘
A mano a mano che la distanza tra lei e la donna diminuiva, la bambina ebbe modo di notarne i tratti: un velo di capelli neri le ricadeva sulle spalle magre come una ragnatela, e l’intero corpo era coperto da un lungo abito nero che le ricordava quello di una macabra sposa. Il viso era solo una maschera bianca sorridente e felice. In una delle sue mani guantate, un coltello.

La lucidità della lama da macellaio la riscosse dal suo torpore, e la bambina si strinse nelle spalle e tastò la televisione dietro di lei, pensando di spingerla verso la donna. Il peso di quel grande blocco solido l’avrebbe sicuramente schiacciata come un ragno.

Ma qualcosa doveva per forza essere stato trapelato dal viso della bimba, perché una risatina divertita sgorgò fuori da una fessura incastonata nella maschera della donna. Quel suono strano, arrugginito, spaventò ancora di più la bambina. ‘Vuoi schiacciarmi con la televisione? Pessima idea, bimba mia. ‘ disse la donna, compiendo un altro passo in avanti. ‘Un pensiero davvero brutto. Molto, molto brutto. E, se posso darti un consiglio, ‘ continuò, e la mano che non reggeva il coltello si sollevò per indicare la televisione, ‘fossi in te mi allontanerei da lì. Se ti cade addosso moriresti sul colpo, forse. O forse rimarresti schiacciata sul pavimento come un insetto, e avresti tutti gli organi spappolati. E le ossa frantumate. E gemeresti come un maiale in agonia. ‘

La bambina staccò le mani dalla televisione bruscamente, come se si fosse scottata. Gli occhi iniziarono a bruciare, e divennero anche più grandi. Sembrava che il suo viso fosse diventato tutt’uno con quegli occhi. La donna rise, ancora, ma senza malizia né cattiveria. ‘Come sono grandi i tuoi occhi, bimba. Grandi e scuri. Ma smetti di piangere, non mi piacciono i bambini che piangono. Non vorrai ritrovarti con uno dei tuoi bellissimi occhi che cola sulla tua guancia, vero? ‘

La bambina annuì, e puntò le sue pupille sul viso della donna come se volesse farle cosa gradita, donandole una visione completa delle sue iridi. Arricciò il naso e deglutì rumorosamente per ricacciare indietro il pianto che voleva dedicare ai suoi genitori e al suo dolore. La donna annuì, come se avesse capito. ‘Brava la mia bimba. Ora sì che mi piaci. I tuoi occhi lucidi, le tue guance rosate… le tua manine… ‘ disse, ma la sua voce sfumò come una sottile nebbia. La bambina ebbe l’impressione che, da dietro quella maschera, un paio di occhi affamati la stessero fissando, scrutando il suo corpo per divorarlo. Si sentì immediatamente a disagio, confusa, ed ebbe voglia di stringere le braccia al petto per fermare l’avanzata di quello sguardo nero, ma ebbe paura. Si limitò a irrigidire i muscoli della schiena e a incassarsi nel petto in una blanda difesa. La donna notò quel cambio di stato, e si avvicinò ancora. ‘Ora che ti guardo bene, assomigli a tua madre. Sì. Un gran bel corpo, bei capelli. Pelle morbida. ‘

Si voltò di scatto, e chinò la testa verso quel grumo rosato che era stata la testa di sua madre. La sua schiena era posizionata di fronte allo scempio, quindi impedì la visuale alla bambina, che non seppe se esserne sollevata o rattristata. La testa era semplicemente vuota, non c’erano pensieri né paure. Tutto il suo corpo non esisteva più, si era dissolto, e il battito distante del suo cuore era l’unica cosa che le faceva capire di essere ancora viva.
Ma quando la donna allungò il braccio sinistro per cogliere qualcosa dal corpo di sua madre – il vestito era così aderente alla sua schiena che lasciò intravedere la colonna vertebrale che si piegava come un fuscello - la bambina ebbe un sussulto di rabbia, e quando il suono della carta che si straccia le riempì le orecchie, ingoiò un groppo di lacrime. Voleva urlare a quel mostro di smetterla, di andarsene dalla sua casa e di lasciare stare i suoi genitori, che sicuramente erano ancora vivi, ma quando il mostro si voltò per lanciarle, trionfante, la testa della mamma come se fosse un pallone da football, strillò.

 ‘Forse era troppo morbida. Avresti dovuto vedere con quanta facilità le ho tranciato le vene e le arterie! Sai, parevano fatte di burro… ti confesso che ho avuto voglia di assaggiarle. ‘

Una matassa di capelli castani colpì le caviglie della bambina, che balzò all’indietro per l’orrore mentre la sua bocca era spalancata e intenta a liberare le urla che avrebbe voluto lasciar scappare già da molto tempo. ‘Non ti piace? Oh, suvvia, non essere scortese. Stai insultando tua madre e tuo padre quando non guardi le loro graziose faccine. ‘ disse il mostro in tono annoiato e infastidito quando la bambina urtò il vaso di fiori posto dietro di lei, che cadde sul pavimento con un tonfo, rompendosi in tanti frammenti.

Una piccola scheggia precipitò ai piedi della donna, che la osservò immobile per qualche secondo come se fosse materia da ricerca universitaria. Quando rialzò il viso verso la bambina, il volto che era nascosto dietro la maschera era contratto in una smorfia di rabbia. Se l’avesse tolta, la bambina avrebbe visto qualcosa più simile al muso di un cane pronto ad attaccare che a dei lineamenti umani.

‘Troia, troia schifosa! Non è educato gridare agli amici, lo sai! ‘ ringhiò lei. Scattò con la stessa velocità di un mastino in avanti, rischiando di graffiarsi i talloni e le gambe con i cocci taglienti del vaso, ma riuscì ad afferrare il suo obbiettivo sconvolto e disperato. Strinse la presa sulle braccia della bambina, che scalciava e si dimenava come un’anguilla, e la percosse, facendole sbattere la testa sui bordi dei frammenti in ceramica per punirla. ‘Schifosa, schifosa! Cattiva, cattiva Jane che mi disobbedisci! ‘ urlò la donna, volendo sommergere i singhiozzi e le grida di dolore della sua preda con i toni più alti che riusciva a raggiungere. ‘ Ti ho detto di non piangere, lurida put- Ah! ‘

E si interruppe boccheggiando, quando realizzò di essere stata trafitta da una scheggia sul ventre. Jane, quella lurida, l’aveva ferita a tradimento!
Il dolore esplose in mille scintille prima che il suo braccio potesse restituirle il colpo, magari squarciandole il cranio con quella stessa scheggia colorata fino a farle uscire il cervello. L’avrebbe pestato più e più volte, spargendolo su tutto il corpo della piccola bastarda, e poi avrebbe distrutto direttamente il cadavere, magari infilando il suo stesso coltello nella cavità vaginale per aprire il tutto in due. L’avrebbe lavorato come fa un macellaio con un pollo o un maiale, e poi avrebbe dato fuoco all’intera casa.

Ma ora niente di tutto quello che aveva progettato si sarebbe potuto attuare con il più sublime dei piaceri, perché la bastarda le aveva precluso quella possibilità. Gemette di dolore, sibilano un insulto che Jane non poté captare, troppo intenta a guardare il suo corpo che si trasformava in una decina di secondi, allungandosi verso l’alto come un palo della luce. Acquistava centimetri su centimetri in frazioni di secondo, ascoltava lo scricchiolio delle sue ossa che si affusolavano come filamenti per poter seguire quel ritmo, e quando il suo corpo fu solo quello di Jane the Killer e non quello di Jane Arkensaw, tutto si disintegrò.
 


Le palpebre scattarono così velocemente che chiunque, da fuori, avrebbe paragonato quel movimento a quello del meccanismo interno inserito nei bambolotti, i cui occhi si rivoltano all’indietro se messi in posizione supina. Il cinguettio degli uccelli e il suono rassicurante della brezza vennero spezzati da un fievole singhiozzo, che, nonostante si disperdesse all’esterno, rimbombò come un tamburo nella testa e nell’orgoglio di Jane. Quando ne seguì un secondo dopo pochi secondi, e poi un altro e un altro ancora, si coprì la bocca umida con entrambe le mani. Ma le lacrime non arrestarono la loro avanzata, e ben presto l’interò edificio fu saturo di quel pianto disperato che implorava solo di farla finita.










Non era difficile. L’ultima volta che aveva avuto l’occasione di notare suo padre che sceglieva minuziosamente quale chiave scegliere risaliva a due giorni fa. Aveva detto ad Argot, con voce stanca e atona, che doveva partire per un piccolo viaggio di lavoro che sarebbe durato sicuramente meno di tre giorni, e che la gestione della casa passava per quell’intervallo di tempo a lui. Argot aveva annuito, sforzandosi di non volgere lo sguardo sulle tubature incrostate e sugli scarafaggi che puntualmente costruivano il nido dentro di esse, e gli aveva promesso che si sarebbe comportato bene. Inoltre aveva già imparato a memoria la strada che conduceva alla città, e come arrivare alla fermata dell’autobus.
Sarebbero stati giorni uguali agli altri.

Il mazzo comprendeva una grande varietà di chiavi: almeno due per il cancello, cinque per ogni stanza del piano superiore, tre per quello inferiore, una sola per la scalinata che collegava i due ambienti. Argot non ricordava quale spazio aprisse ciascuna chiave, ma sapeva riconoscere quella che sbloccava il catenaccio che manteneva serrata la porta per le scale: era più piccola delle altre, più sottile, con un filo di ruggine a macchiarne i bordi.
L’immagine di un certo bambino che scende le scale ripidissime, di pietra e sdrucciolevoli, non gli piacque. Aveva paura del buio, specie negli spazi ristretti, ed era riluttante a scendere verso il casolare-stalla, anche se doveva per forza passare per quella via se doveva andare a scuola.

Certo, potrei anche non andarci per oggi… pensò Argot con un sorriso lieve. Ma la consapevolezza che una scelta così avventata avrebbe apportata delle gravi conseguenze, tra cui un asprissimo rimprovero da parte di suo padre per un’assenza compiuta per un banale motivo – E poi, cosa potrei dirgli in mia difesa? Cosa? Che non ho voluto scendere perché avevo paura? – gli fece scuotere la testa. Il piccolo barlume di spensieratezza che aveva brillato negli occhi grigi svanì, e il suo viso tornò ad essere quello grave e serioso di sempre.

Afferrò lo zaino con ben poca delicatezza, portandoselo alle spalle; attraversò la cucina, le camere da letto -  badò bene di fissare la porta davanti a sé come se ne andasse della sua vita quando oltrepassò la camera da letto di sua madre, rigorosamente chiusa a chiave come una reliquia – e la serra. Quando la porta che lo separava dalle scale e dal piano inferiore gli parò il cammino, sospirò, e quando la chiave compì l’ultimo giro nella serratura, ignorò un brivido freddo che gli aveva attraversato la schiena per addentrarsi nell’oscurità.

Rischiò varie volte di inciampare e scivolare. La brina mattutina aveva reso le pietre viscide, e più volte fu costretto ad artigliare il muro per scongiurare una brutta caduta. Ed erano strani i suoni dei suoi passi, dovette ammettere presto: non era la classica vibrazione sorda prodotta da un passo compiuto sul cemento, e non era neanche il sibilo languido che produceva un piede sull’erba bagnata. Era come se ci fosse un altro rumore a coprirlo, qualcosa di indefinibile. Curioso, Argot si fermò, e sporse il collo per ascoltare meglio.

Poi udì finalmente quel qualcosa: era un inconfondibile singhiozzo femminile, disperato e soffuso di dolcezza.

Un singhiozzo? Un momento, questo vuol dire che non sono solo! pensò confusamente Argot, e un’ondata di ulteriore paura lo fece retrocedere di un passo.

Aspetta, aspetta. Non fare niente di stupido. Se scivolo posso anche morire, anche papà me l’ha detto. Mi potrei spezzare il collo. Però… se qualcuno sta male… quanti passi sono?

Quattro scalini. La luce del sole a invaderli.

Intanto fila via dal buio.







Si rizzò con il busto, piantando i palmi delle mani sul pavimento polveroso. Non ebbe il tempo di passarsi il pollice sulla guancia per asciugare quella lacrima, né di voltare la testa a destra e a sinistra per controllare di essere realmente sola: i suoi occhi inquadrarono subito la figura di un bambino gracile e immobile di fronte a lei, che la fissava con un misto di disappunto e autentico stupore.

Jane ebbe solo il tempo di imprecare nella sua mente un solo: ‘Dannazione! ‘, prima che il suo braccio sinistro scattasse in avanti per afferrare la sua maschera e schiaffarla sul viso repentinamente. L’unica cosa che intendeva fare era fuggire via da quel posto e da quel bambino, sperando che tutto sarebbe stato interpretato come un sogno dal piccolo, il sogno di un fugace incontro. Ma, quando diede un colpetto di reni per tirarsi su, una fitta di dolore la fece gemere, costringendola a sdraiarsi sulla paglia; le sue gambe avevano perso gran parte della sensibilità, come se fossero state anestetizzate, e le sue braccia erano indolenzite. Mandò giù un groppo alla gola per la frustrazione di essere incapace di muoversi.

Le sembrò che le labbra di quel bambino fin troppo magro si torcessero a formare una ‘o’ di sorpresa, e che sussurrassero senza emettere suono un: ‘Cosa? ‘. Ma quando sbatté le palpebre e scosse il capo per accertarsi di quell’effettivo battere sul suo cranio, si rese conto che il bambino aveva mantenuto la bocca impietrita, a delineare una rigida e sottile linea. Jane deglutì.

Fu Argot che decise di scrollarsi di dosso lo sbigottimento iniziale, ma i suoi buoni propositi di dimostrarsi fermo e forte nel difendere la sua casa fallirono miseramente quando cercò di parlare. ‘Chi sei tu? ‘ provò a formulare, ma nessun suono gli uscì dalle labbra. Jane rimase immobile mentre lo fissava annichilita, con il cuore che batteva impazzito e la testa che le pulsava. Il sangue che veniva pompato alla velocità della luce le riscaldava le membra, e sarebbe pure stato pure rilassante se non fosse affluito alle guance, stimolandone la sudorazione. Jane indurì le mascella, immaginando con un leggero sbuffo il fastidio che avrebbe provato e il tempo che avrebbe impiegato a staccare la superficie liscia delle piaghe del viso, su cui la pelle era aderita, mentre i suoi occhi non lasciavano la presa sul bambino di fronte a lei.

‘Io… ‘ si sforzò di pronunciare in una tonalità che non lasciasse trapelare la sua confusione, ‘Io… Io posso spiegare! ‘ concluse, farfugliando. Una fitta più acuta delle altre le gravò la testa, e istintivamente serrò con i denti la punta della lingua in una morsa per non spaventare ulteriormente il bambino, di cui poteva percepire lo sguardo pungente trapassarle il corpo da parte a parte, con un mugolio di dolore. Tuttavia il nervosismo era tanto e troppo da tollerare, e Jane non si accorse di aver tamburellano i polpastrelli della mano destra in un tic convulsivo.

Gli occhi luminosi e criptici di Argot focalizzarono subito quel continuo movimento della mano di Jane, e il bambino parve innervosirsi. Non aveva mai visto una reazione simile dovuta all’ansia, ma per non aggravare ulteriormente le cose si limitò a indietreggiare di un piccolo passo e a pigolare: ‘Chi sei tu? Che ci fai qui? ’

La voce di Jane tremolò. Lei stessa temette di essere sul punto di scoppiare in lacrime un’altra volta. ‘Nessuno, giuro. Nessuno. Ascolta, ora me ne vado e tu non i vedrai mai più. Va bene? Nessuno. Nessuno! ‘ disse.

Argot era spaventato, e per ragioni comprensibili. D’altronde, sarebbe stato impossibile non notare l’inquietante maschera che celava il viso della giovane donna, e la sua fronte si increspò quando gli sorse naturale paragonarla a una di quelle creature che comparivano nei film horror che sceglieva di gustare nelle noiose serate estive.

 ‘Sai che questa è casa mia, vero? ‘ chiese, dopo un attimo di esitazione. Sbirciò la matassa di lucidi capelli neri che strisciavano sulle mattonelle, e per una frazione di secondo si soffermò sulla loro innaturale lucentezza, studiando poi il sorriso nero che s’inarcava sul biancore della maschera. C’era tanto, tanto nero a nascondere il corpo di quella donna, troppo. Il nero dei capelli a macchiare il pavimento come una grande pozzanghera d’inchiostro. La macabra espressione fissata dal sorriso e dalle lunette a creare degli occhi felici, per celare chissà quale sanguinosa tragedia. Il nero dell’abito a fasciare la pelle come un velo mortuario. Argot rabbrividì.

‘Sì… certo. ‘ mormorò stentatamente Jane, inghiottendo ogni gemito di frustrazione e rabbia. ‘Scusa, è che non sapevo… ‘ disse interrompendosi, prendendo fiato con la bocca e chiudendo gli occhi per calmarsi, ‘Non sapevo fosse abitata. Ho… avevo visto una casa da lontano, e quindi sono entrata per un riparo. ‘ concluse. E Jane scoprì di aver trattenuto altre lacrime mentre cercava di spiegare pateticamente il motivo di quell’intrusione. Il pensiero la fece gemere d’orrore.

Argot si sforzò di non assecondare il desiderio di scappare dallo stanzone per rifugiarsi nella sua camera, dopo essersi accertato d’aver bloccato la porta con un lucchetto e chiamare la polizia. Non conosceva la ragione di quell’istinto che gli sussurrava di andarsene il prima possibile, lui che aveva sempre cercato di essere disponibile con tutti, eppure ogni singola fibra del suo essere tremava per la paura. E non era un timore passeggero, di quelli che provava nello scorgere un cane randagio in prossimità della strada principale o una vipera a intralciargli il passaggio: era un’emozione molto più densa e intrinseca, più simile al rigetto irrazionale o al rifiuto di qualcosa. ‘Ma ora è mattina… ‘ disse piano, e scandì le parole più del dovuto, facendo silenziosamente innervosire Jane. ‘Scusa se te lo dico, ma penso che dovresti andartene. ‘

La vista di Jane si offuscò a quell’ultima affermazione, e un fiotto di lacrime bagnò la sua pelle compressa dalla maschera. Come poteva spiegare al bambino che non aveva la forza per alzarsi in piedi? Come spiegargli che era ferita e aveva bisogno di riposarsi in un luogo sicuro, e, per la prima volta dopo lunghi mesi, su un letto morbido di paglia calda per riprendersi? Come raccontargli dell’aggressione subìta? Come svelargli la sua vera identità? Come evitare un eventuale arrivo della polizia?  ‘Non riesco nemmeno ad alzarmi. Sto male. ‘ si limitò poi a soffiare con un fil di voce. Vedendo poi la smorfia curiosa e insieme diffidente del bambino, si affrettò ad aggiungere: ‘Un cane mi ha attaccata, e mi ha ferita alla schiena. ‘

A quella notizia, Argot incrinò il sopracciglio destro e addolcì la tensione dei muscoli facciali, assumendo un’espressione neutrale. ‘Davvero? ‘ disse, allungando leggermente il collo per scorgere la ferita nominata dalla sconosciuta. Fece un passo in avanti, calibrandone la lunghezza per non avvicinarsi troppo. ‘Dov’è la tua ferita? Fammela vedere. ‘ 

Quel timido approccio scosse Jane più di quanto sperasse. ‘No! ‘ urlò con voce stridula, e, colta dall’ansia crescente, con l’ausilio dei palmi delle mani e dei muscoli delle braccia, strisciò bruscamente all’indietro.

Quella mossa improvvisa pietrificò Argot sul posto, che la fissò con occhi sgranati per lo stupore; trattenne un conato di disgusto: quella solida massa nera, strusciando contro il pavimento, aveva prodotto un suono simile a un sibilo, ed essendosi mossa con una destrezza notevole gli era parsa più simile ad un serpente che ad una figura umana sofferente. Quando si accorse del paragone, provò vergogna per se stesso, ma l’immagine del corpo filiforme di una biscia agonizzante persistette nella sua mente.

Vedendo il disagio che la sua reazione aveva provocato nel bambino, Jane disse frettolosamente: ‘ No. Non ti avvicinare, ho perso molto sangue e continuo a perderne. E poi è alquanto impressionante, specie per un bambino come te. ‘ La preoccupazione e l’ansia erano palpabili nell’aria ed erano diventati parti integranti degli animi dei due, ma paradossalmente era Jane che temeva di più. Trattenne il respiro mentre aspettava la risposta dell’altro, pregando affinché quell’incontro potesse terminare velocemente e senza danno per nessuno, e intanto si sforzava di acquietare quel groviglio di emozioni che sfuriavano nel suo cuore: tra il rinnovato dolore delle ferite e quello antico che tergiversava nel suo animo, tra la rabbia opprimente per la sua condizione e il desiderio di vendetta, tra la vergogna d’essersi fatta scoprire in una casa già abitata - e per di più da un bambino - e la paura delle conseguenze di quella sua mancanza d’attenzione, c’era un’altra sensazione: l’improvvisa realizzazione – e la conseguente disperazione – di aver appena incontrato non un bambino, bensì quel mondo sano e innocente che lei aveva sempre cercato di evitare.
Quando la sua mente elaborò quel lampo di orrore e i suoi occhi videro il bambino di fronte a lei con occhi diversi, a malapena Jane non rise istericamente e non perse le ultime scintille di lucidità.

Un altro, piccolo raggio di luce fendette il viso di Argot e i suoi occhi divennero più brillanti – permisero a Jane di notarne il colore: le iridi erano plumbee, grigie come i cieli in tempesta, lucide di sogni concreti e limpidi di un’innocenza intatta. Sebbene quel grigiore fosse morbido di dolcezza e di pietà e non duro e metallico come la freddezza crudele, distante e metallica di un coltello, Jane desiderò sprofondare. Si sentiva minuscola, schiacciata e colpevole da quello sguardo estraneo, appartenente ad una dimensione che non era più la sua, accusata. Sporca. Con dolore, percepì quel peso di accuse gravarle addosso come un macigno, e lo accettò come giusto. La sua condanna personale, meritata.

Pianse, per la vergogna. Ma non era un pianto del tutto amaro; vi era mescolato il sollievo di potersi abbandonare finalmente all’accettazione delle sue colpe, come se per anni la sua mente non avesse desiderato altro, e alla stanchezza.

Argot non poté vedere le lacrime fluire né poté scorgere gli occhi arrossati della ragazza, nascosti sotto i veli di pizzo nero. Tuttavia, le sue orecchie captarono un debole singhiozzo levarsi da sotto la maschera e i suoi occhi fotografarono il sussultare del petto di lei. E poi un altro singhiozzo, e un altro, e un altro ancora, e quei lamenti sinceri rimbombarono nelle pareti del casolare come una campana d’argento e nel cuore di Argot, che si ritrovò impotente di fronte a quella situazione per lui difficile da affrontare. Il pianto della sconosciuta doveva per forza simboleggiare sofferenza, e per quanto ne sapeva, di fronte alla sofferenza – lui lo sapeva bene – bisognava affiancare la pietà e la comprensione per dissipare ogni dolore. Desiderando davvero prestare aiuto, si impegnò per scacciare la diffidenza e la paura e si avvicinò di alcuni passi verso la donna, scuotendo la testa.

‘Ehi, non piangere. So che… ‘ provò a formulare, chinandosi di fronte a lei con timore, esaminando le braccia e il viso con un misto di curiosità e sollievo nel poter soddisfare le sue domande. Le sue dita ignorarono i singhiozzi che scuotevano violentemente quel corpo, e sfiorarono con calcolata lentezza la stoffa serica del vestito e la corposità dei capelli finti. I suoi tocchi erano lenti, cauti e rassicuratori, gli stessi che un bambino avrebbe adottato per carezzare la pelliccia di un gatto di cui ha faticosamente conquistato la fiducia, giorno dopo giorno. ‘Se stai così male non ti caccerò via da qui, eh! Anzi, ora chiamo l’ospedale e… ‘

In mezzo ai singhiozzi, una voce si precipitò a frenare la pericolosa intenzione. ‘No. Non… non chiamare nessuno. ‘

Argot sgranò gli occhi, volendo esprimere il suo disappunto. I suoi tocchi si arrestarono per un attimo, poi ripresero, più soffici e delicati di prima. Le sue dita affettuose ma curiose scivolarono sull’incavo del gomito, si intrufolarono tra i capelli per districare dei nodi – Sono così anormale che i miei capelli non possono nemmeno formare dei comunissimi nodi. E io… no, io ho i capelli non li ho più. Quelli non sono nemmeno miei. pensò amaramente Jane, gustando il sapore salato delle calde lacrime – e percorsero il loro cammino lungo la nuca. Quando sentirono la stoffa non più serica ma terribilmente – disgustosamente – umida, si ritrassero, offrendo agli occhi esterrefatti di Argot la vista del sangue.

‘Oddio! ‘ esclamò, e Jane alzò il viso interrogativamente per quel repentino cambio di tono. Quando si accorse del sangue che imperlava le dita del bambino, una serenità che mai avrebbe sognato di provare appiattì ogni volontà di dire o fare qualcosa che avrebbe rassicurato Argot. Non le importava della viscosità che le si era attaccata alla pelle come un secondo rivestimento, e nessun’altra emozione fece capolino nel suo animo mentre assisteva alla maschera grottesca che il viso del bambino aveva impersonato, mentre boccheggiava per riprendersi dallo shock.
Riusciva solo a sentire un piacevole calore propagarsi dal suo cuore alle sue membra, risanare ogni ferita e scacciare via quella cappa di acuto isterismo che aveva minacciato il suo equilibrio da quando quegli occhi plumbei l’avevano focalizzata. Era l’unico calore che sentiva e che il suo corpo voleva sentire da tempo immemore, e Jane intendeva gustarlo fino all’ultima scintilla: era la più soave delle sinfonie, era il più glorioso dei colori, era il più dolce dei balsami per il suo cuore affranto.
Dopo anni, sentiva di potersi riappacificare con se stessa e il mondo che non poteva - e non doveva – accettarla; era come un naufrago che, dopo un eterno viaggio per mari e tempeste senza fine, salpava sulla sua terra per una nuova vita di gioia e affetti mai dimenticati. Non le importava più nulla, si sentì completa e in pace. Si sentì a casa, anche se non aveva più una casa.

‘Oddio! ‘ ripeté Argot sgomento, indietreggiando. ‘Oddio, oddio! ‘ ripeté ancora, e Jane dovette soffocare una risata per l’assurdità della situazione e l’espressione attonita del bambino. ‘Oddio, oddio! ‘ seguitava ad asserire, conscio della profondità dello squarcio che la schiena di Jane presentava.
La consapevolezza della quantità di sangue che era stato perso - e che doveva sicuramente aver scurito la stoffa dell’abito- e di quanto fosse stremato l’organismo della ragazza lo colpì come un fulmine a ciel sereno, riscuotendolo per costringerlo a riflettere su cosa fare. Quando si voltò, dirigendosi verso la scalinata che conduceva al piano superiore, farfugliò: ‘ Resisti, vado a prendere l’acqua, delle garze e dello spirito! Resisti! ‘

Jane annuì distrattamente, immersa in quel benessere dal sapore dorato, e sorrise tra le lacrime.
 
 
 
 
 







P.S. Alcune parole che Jane dice alla piccola Jane sono riferimenti a ciò che dice Jeff nella storia di Jane the Killer: le origini.
Made of Snow and Dreams.

 
  
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