Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: IrethTulcakelume    24/10/2016    1 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo autrice:
Mi dispiace tantissimo, davvero. Sono dispiaciutissima per avervi fatto aspettare così tanto, ma l'inizio del terzo anno è stato un qualcosa di traumatico. Ci hanno già sottoposto a troppe verifiche e interrogazioni, e ho rischiato di soffocare, seriamente. Avrei voluto mettere il capitolo già ieri sera, ma ho avuto un contrattempo imprevisto... davvero, spero che potrete perdonarmi. Posso però dirvi che, riguardo alla stesura della storia, ormai mi mancano solo due capitoli e mezzo, quindi tranquilli, la finirò. Perché questa storia è davvero importante per me, è talmente tanto tempo che la scrivo che ormai la sento mia a livello emotivo. Terminato questo sproloquio, vi lascio al capitolo. Ci vediamo tra poco :)







 

I don't need to worry tonight














 
Yoongi rimase ancora un po’ seduto al bancone del bar. Continuava a fissare il bicchiere ancora mezzo pieno, senza decidersi a berne il rivoltante contenuto o alzarsi e lasciarlo lì. Se lo rigirò ancora un po’ tra le mani: ormai aveva tolto tutta la condensa, e le sue dita erano diventate umide. Era talmente concentrato che quando sentì il telefono vibrare nella tasca per poco non si versò il drink sui vestiti. Era il tipetto cinese, il nuovo elemento.
- Pronto?
- Yoongi, sono Lu Han, ho un problema.
No, dai, ti prego. – Che succede? Non usare nomi.
A quella raccomandazione, il ragazzo all’altro capo del telefono si bloccò per qualche secondo, cercando di ricordarsi tutti i vari nomi in codice che avevano coniato insieme il giorno prima nello studio di Namjoon.
- Mh... il gabbiano, sì, ecco, il gabbiano è scappato dalla gabbia.
Fa’ che sia solo uno scherzo di pessimo gusto. – Cosa? Com’è successo? – Yoongi sentiva l’agitazione salire: non poteva permettersi che qualcosa andasse storto, non quella sera.
- Non lo so... stavamo parlando, e gli stavo per dire che dovevo andare un attimo e di aspettarmi lì, ma lui... non so che cosa abbia visto, ma sembrava che si fosse trovato davanti un fantasma, e ha detto “no, fa che non sia lui”, poi ha cercato di guardare meglio, gli è preso un mezzo infarto, è scattato in piedi e si è volatilizzato...
Lu Han continuava a parlare, ma le sue parole si confondevano l’una con l’altra, perdevano di significato mano a mano. Yoongi rimase in silenzio. Come aveva fatto a perderlo? Ma poi, che cosa cazzo aveva visto Jungkook per scappare in quel modo? No, no, no, così non andava affatto bene. Il battito del suo cuore stava aumentando in maniera anomala, e non era mai un buon segno: lui e l’ansia non andavano per niente d’accordo. L’ansia e i blackout ancora meno. Avrebbe voluto essere in grado di trovare una soluzione, di riacciuffare quel dannato ragazzino, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che stava andando tutto a rotoli. Per colpa sua e della sua stupidissima idea.
Farfugliò qualcosa al telefono – non si rese nemmeno conto di cosa avesse detto – e chiuse la chiamata.
Sei inutile, Yoongi.
- No... – disse tra i denti, alzandosi dallo sgabello del piano bar con difficoltà. Barcollò per qualche metro, appoggiandosi alla parete per non cadere per terra. – No cazzo, non stavolta. – Stava arrivando un fottuto blackout, la vista gli si stava annebbiando, ai lati del campo visivo erano già cominciati a comparire i familiari pallini bianchi. Ogni volta lasciava che l’oblio lo avvolgesse, si arrendeva per quei minuti, aspettava che il buio e il dolore si dissolvessero da soli, perché era troppo debole per affrontarli.
Per la prima volta, però, Yoongi decise di combattere. Non voleva più essere così: schiavo di se stesso, costretto a subire delle violenze autoimposte. Avrebbe vinto lui, perché quella doveva essere una grande serata, e i suoi schifosi blackout non avevano il diritto di rovinare tutto.
Per questo, strisciando contro il muro del Dark & Wild, sforzandosi con tutte le sue forze di scacciare le ombre che minacciavano la sua vista, cercò l’unica persona che poteva aiutarlo. Ogni passo gli costava una fatica immane, era come trascinare blocchi di cemento con la sola forza delle gambe, ma quando Yoongi prendeva una decisione, andava fino in fondo.
Tanto non serve a niente, tutto questo, le tue speranze, i tuoi progetti. Non andrai da nessuna parte.
- Non... è... vero... – mormorò in risposta al suo subconscio, e nel frattempo avanzava, cercando di ricordarsi la strada. Non poteva mancare molto... gli sembrava di aver già percorso chilometri, la sua fronte era madida di sudore, il campo visivo sempre più ristretto gli dava un senso di claustrofobia.
Jimin continuerà a stare male, e poi, l’hai visto Hoseok? Non avrà il coraggio di dire una sola parola a quel Taehyung.
Stava piangendo, lo sapeva. Cazzo, faceva male, sentiva come degli uncini graffiargli i polmoni. Però doveva concentrarsi, doveva continuare a resistere, a ignorare il dolore. – Jimin è... forte. - Parlare gli faceva dolere ancora di più la gola, ma sapeva che smettere di rispondere avrebbe significato perdere. Non poteva combattere solo nella sua testa, perché il suo subconscio lì era più forte: fuori, nella vita reale, poteva vincere lui. Quindi doveva farsi forza. E resistere. E parlare. – E Hoseok ce la farà... Taehyung lo... sta aspettando là fuori.
Destra. Sinistra. Destra. Sinistra. E respira, mi raccomando. Ricordati di respirare. E tieni quei cazzo di occhi aperti.
Arrenditi, Yoongi, non puoi fare nulla, né per loro, né per te stesso. Basta combattere.
Yoongi strinse i denti allo spasmo, gli doleva la mandibola per lo sforzo. Alzò lo sguardo, e finalmente la vide: la porta, oltre la quale c’era la saletta in cui si trovava la persona che stava cercando. Però... però era stanco, così stanco. Forse si sarebbe potuto riposare, solo per qualche secondo, riprendere fiato...
- No! – esclamò. – No, non posso... cazzo Yoongi, cammina, cammina...
E camminava, Yoongi camminava, e a ogni passo la presa delle ombre sulla sua testa si indeboliva. Scivolavano piano via dalla sua coscienza, così piano che all’iniziò non se ne rese nemmeno conto. Il campo visivo tornava, millimetro per millimetro, ad allargarsi. I pallini bianchi di diradavano, come granelli di polvere spazzati via dal soffio del sé bambino. Poteva farcela, per il suo amico Jimin, per Hoseok, per Namjoon e Jin, che si aspettavano tanto da lui, e non si poteva permettere di deluderli. Per tutti quelli che gli avevano dato retta, che lo avevano ascoltato quando aveva chiesto il loro aiuto per organizzare tutto quello.
Camminava sempre meglio, e un torpore benigno, di autentica stanchezza, stava iniziando lentamente a invaderlo. A quel punto, la lotta non era più contro le ombre: era contro il suo corpo. Doveva arrivare a quella stanza, e dire alla persona al suo interno cosa era riuscito a fare. Oh, come sarebbe stato orgoglioso di lui. Gli dispiaceva di non riuscire a sorridere.
Finalmente, dopo quelle che gli sembrarono ore, giunse davanti alla porta. Non seppe mai con quale forza fosse riuscito ad aprirla, ma quando l’ebbe fatto, entrò nella stanza a testa alta, con le gambe traballanti, le mani che tremavano.
- Nam... ce l’ho fatta...
Le ginocchia cedettero. I suoi occhi videro che Namjoon stava correndo verso di lui, ma non se ne rese conto pienamente. L’unica cosa importante era restare sveglio, ancora per qualche secondo.
- Li ho sconfitti, non torneranno più.
Sentì a mala pena un paio di braccia che lo sostenevano mentre chiudeva gli occhi. Poteva finalmente riposarsi.
 
***


Jungkook fece giusto in tempo a vedere un ciuffo di capelli lilla prima di andare nel panico più totale.
- No, fa che non sia lui... – mormorò senza neanche accorgersene. Lu Han smise di parlare, ma a Jungkook interessava relativamente poco: si sporse un po’ dalla sua posizione – i due erano ancora accovacciati – e non ebbe più dubbi: non si era sbagliato, era proprio lui.
Nella sua mente cominciarono ad affastellarsi le immagini di poche sere prima, la sua voce che gli intimava di andarsene e di non farsi più vedere, e subito dopo, quasi come se la sua memoria si volesse prendere gioco di lui, gli si presentò davanti l’immagine di quel loro primo bacio, davanti all’università.
Devo andarmene da qui, riuscì solo a pensare prima di scattare in piedi e andare esattamente nella direzione opposta rispetto a quella verso cui aveva visto camminare Taehyung. Sentì in lontananza la voce di Lu Han che lo chiamava, ma in pochi secondi non divenne che un suono indistinto, sovrastato dalla musica. Urtò parecchie persone, ma se ne rese conto a stento. Doveva scappare. Dove? Non lo sapeva nemmeno lui. Continuava semplicemente a correre attraverso il locale, senza chiedersi dove stesse andando.
A un certo punto si trovò davanti a una scala a chiocciola, e la imboccò senza esitazioni. Salì un gradino dopo l’altro, il fiato corto, tenendosi al mancorrente di metallo, fino a quando si ritrovò alla fine della scala, che dava direttamente su una specie di magazzino: era una stanza piena di scatoloni chiusi con abbondante scotch, priva di qualsiasi arredamento.
Jungkook trovò un angolino tra due scatoloni, e vi si sedette in mezzo, rannicchiandosi nella stessa posizione di poco prima. Raccolse le ginocchia e vi strinse le braccia intorno, come se quel gesto avesse il potere di proteggerlo. Si sentì un po’ in colpa per il modo in cui aveva mollato Lu Han: non gli aveva dato la minima spiegazione ed era scappato. Poco male: probabilmente non l’avrebbe mai più rivisto.
Quando ebbe regolarizzato il respiro – operazione che richiese alcuni minuti – iniziò a guardarsi intorno, e vide che l’unica fonte di luce di tutta la stanza proveniva dall’entrata: non c’erano finestre, o porte, e l’ambiente nel complesso era abbastanza buio.
Hai beccato il posto giusto, eh?, si disse ironicamente. Perlomeno lì la musica era meno martellante.
Si appoggiò con la testa a uno scatolone, strizzando gli occhi. Si chiese se avesse fatto qualcosa di male a qualche sacra divinità, perché avere una sfortuna del genere non era umanamente possibile. Perché Taehyung era lì? Con tutti i posti del mondo, doveva essere proprio quella sera in quel locale? In pochissimi giorni la sua vita si era incasinata come mai gli era successo prima. Come aveva fatto a farsi sfuggire le cose di mano in quel modo? Lui non era così: lui era sempre stato un tipo sincero. Non diceva bugie, non era egoista, non faceva stare male i suoi amici. Eppure l’aveva fatto, e adesso si era rintanato nel magazzino di un locale che stava ospitando una festa di compleanno.
In effetti, non aveva mai fatto neanche quello. Lui aveva paura del buio. Nessuno lo sapeva, tranne forse Jimin, anche se non gliel’aveva mai detto apertamente.
Cosa gli stava succedendo? Gli sembrava che la sua vita fosse diventata una zona di guerra, con trappole e mine antiuomo pronte a esplodere a ogni suo passo. Qualsiasi cosa facesse, sbagliava inevitabilmente, o feriva qualcuno a cui teneva – e se stesso.
Jimin.
Jimin.
Jimin, mi dispiace.
Jimin, vienimi a salvare, ti prego.
- Jungkook? Sei qui?
Okay, questo è inquietante. Inizialmente Jungkook pensò che si trattasse di un’allucinazione, di un frutto della sua immaginazione, che voleva così tanto che Jimin arrivasse da lui per consolarlo da fargli sentire la sua voce preoccupata. Poi, però, si rese conto che quella voce continuava a chiamarlo, e che era anche molto realistica. Si spostò un po’ di lato per controllare se era davvero sull’entrata del magazzino, e quando vide il suo viso si decise finalmente a rispondergli.
- Sì, sono qui.
Jimin impiegò qualche secondo a capire dove si trovava Jungkook: la stanza era davvero buia, e certo non si aspettava di trovarlo accovacciato contro degli scatoloni in posizione fetale. Camminò verso di lui cercando di non inciampare: non riusciva a vedere bene, e probabilmente si stava chiedendo perché diamine il suo coinquilino si fosse andato a cacciare in un posto del genere. Però non lo diede a vedere: lui sorrideva sempre, anche con la morte nel cuore, e Jungkook lo sapeva, anche se spesso cercava di ignorarlo. Solo una volta, pochi giorni fa, aveva calato la maschera che portava ogni giorno per rendere felici gli altri – per rendere felice lui -, e forse proprio per quel motivo la cosa l’aveva turbato tanto.
- Ehi, genietto, che ci fai qui dentro tutto solo? – gli chiese dopo essersi seduto a gambe incrociate di fronte a lui. Il tono di Jimin era quello che usava di solito, il tono del suo Jimin. Jungkook sospirò sollevato.
- Niente, troppa confusione... gente che beve... – rispose evasivo, senza guardarlo negli occhi. Non gli piaceva mentire a Jimin, ma tanto avrebbe capito quasi subito che non stava dicendo la verità, quindi non valeva come bugia, vero? Jungkook sperò davvero che fosse così, perché ne aveva abbastanza di farlo stare male. Nel frattempo, pur di evitare il suo sguardo, gli occhi di Jungkook si erano spostati più in basso, ed erano finiti accidentalmente sulla maglietta che Jimin indossava quella sera: era chiara, forse bianca - non avrebbe saputo dirlo con certezza, non c’era abbastanza luce – con sopra un giubbotto di pelle. Gli stava bene. All’improvviso, sentì uno strano calore alle guance. A disagio, smise di guardargli la maglietta, scegliendo come nuovo oggetto di attenzione il pavimento. Non vedeva assolutamente nulla.
- Capito, capito – Okay, ha capito che gli ho raccontato una bugia. Ora cercherà di cambiare discorso per farmi sputare il rospo più tardi.
- Non è che hai bevuto qualcosa e sei venuto a smaltire la tua sbronza colossale qui su? – chiese ironico Jimin, guardandolo con finta malizia.
Bingo. – Certo! Infatti adesso mi metterò a vomitare l’anima davanti a te, anzi, l’ho già fatto e ho nascosto le tracce sotto uno di questi scatoloni.
- Ma che schifo! – Jimin scoppiò a ridere. A Jungkook piaceva quando Jimin rideva così: la sua voce aveva un bel suono, e la sua risata anche. – Dai, davvero, non hai preso nulla?
- Io volevo ordinare... ma il barista mi ha riso in faccia! Che ho fatto di male? Volevo solo qualcosa di analcolico, non ci vedo nulla di strano.
E intanto Jimin continuava a ridere, tenendosi la pancia. A volte sembrava lui il bambino, con quelle fossette e quel sorriso gentile sempre stampato in viso. Però... però c’era qualcosa di strano in lui quella sera. Come se dietro quella risata ci fosse qualcos’altro, qualcosa di non molto allegro. Forse era solo a causa dell’oscurità all’interno di quella stanza, ma Jungkook continuava ad avere una strana sensazione, come ci fosse una qualche ombra su quel suo sorriso. Jimin non stava ancora bene. Anche se avevano fatto pace il giorno prima, anche se in quel momento stava ridendo davanti a lui, Jimin non stava affatto bene. E naturalmente, dato che Jungkook non era capace a non fare domande quando non capiva qualcosa, le parole uscirono dalla sua bocca prima che potesse bloccarle.
- Minnie, c’è qualcosa che non va?
Jimin smise di ridere quasi istantaneamente. Per alcuni secondi rimasero entrambi in silenzio, mentre i rumori provenienti dal piano inferiore, la musica, le voci dei più e dei meno ubriachi, lo scontrarsi dei bicchieri, persistevano, ignari della scena che si stava svolgendo lì. Il ragazzo non sapeva cosa fare: mentire o dire la verità? Essere sincero una volta per tutte o continuare con la sua farsa?
- Sì, sì, sto benissimo, forse ho solo bevuto qualche bicchiere di troppo – rispose infine. E in parte era vero: un paio di birre le aveva bevute, ma era sicuro di non essere ubriaco.
Jungkook non sembrava troppo convinto della sua risposta, ma Jimin lo precedette prima che potesse insistere.
- Tu, piuttosto: mi vuoi dire che ci fai qui? Neanche alla festa di Chansung ti eri andato a nascondere in questo modo.
Ah, sì, Jungkook si ricordava quella festa: una delle rarissime occasioni in cui era stato costretto a bere più di un sorso di alcol. Era stato orribile, stava talmente male che Jimin aveva dovuto riportarlo a casa di corsa. Ridacchiò ripensandoci.
- Già, però quella volta non ci sarei nemmeno potuto arrivare da solo a nascond...
- Ora non cambiare discorso: spiegami cosa sta succedendo.
Jungkook si morse il labbro: non era sicuro che fosse una buona idea dire a Jimin perché era stato costretto a scappare in quel modo. Sentiva una sorta di nausea, di... di senso di colpa nei suoi confronti. Però, in fondo, quello era Jimin: c’era sempre stato quando aveva avuto bisogno di lui. Se non poteva confidarsi con lui, con chi lo avrebbe fatto?
- Ho visto Taehyung in giro per il locale – iniziò lui, ma si bloccò quasi immediatamente: non appena aveva nominato il suo compagno di corso, l’espressione di Jimin era mutata da comprensiva a irritata. Prima che potesse chiedergli se c’era qualche problema, però, l’amico gli rivolse delle parole che lo spiazzarono.
- Be’, allora dovresti essere lì con lui, no? Non state insieme? – Quel tono amaro, intristito, lasciò a bocca aperta Jungkook.
- No! Ma cosa stai dicendo? – disse, ma Jimin continuò senza ascoltarlo, come fosse sordo alle sue parole
- Un paio di sere fa non vi siete anche “divertiti” a casa sua? – La delusione presente nella sua voce ormai era talmente evidente che Jungkook lo riconosceva a stento. E poi, era chiaro che si fosse fatto un’idea totalmente sbagliata di cosa era successo tra lui e Taehyung. Ma dopo tutto, come poteva fargliene una colpa? Non gli aveva detto assolutamente nulla su di loro. Per un attimo lo sfiorò il pensiero che però lui, in fondo, non avesse motivo di reagire così: erano solo migliori amici. Subito dopo, però, gli sembrò così logico che si fosse arrabbiato... Possibile che Jimin...? No, no, non era possibile, altrimenti in due anni avrebbe dovuto accorgersene... Era confuso, e spaventato, e voleva soltanto che Jimin lo ascoltasse. Ne aveva un bisogno fisico, era sicuro che se non l’avesse fatto sarebbe esploso da un momento all’altro. Così, decise di ignorare qualsiasi cosa avrebbe detto, qualsiasi reazione avrebbe avuto, e iniziò a vomitare tutte le parole che gli passavano per la mente, tutte quelle che si era tenuto dentro in quei giorni.
- Jimin, smettila! Ma che ti prende? Non abbiamo fatto proprio niente, basta! Quel giorno gli ho solo spiegato Fisica, poi... poi Tae mi ha chiesto di restare con lui anche per la notte, ma io me ne volevo andare, solo che poi lui mi ha baciato, allora io non ho capito più niente e gli ho dato retta, siamo andati in camera sua e ci siamo messi nel letto, a parlare di cazzate. Basta. Abbiamo solo parlato, davvero. Solo... solo parlato. – Arrivato a quel punto, Jungkook dovette fare una pausa. Quello era niente: adesso veniva la parte difficile. Lui non poteva saperlo, perché si era imposto di non guardare in faccia Jimin fino a quando non avesse finito di parlare, ma la sua espressione era nuovamente cambiata: se prima era palesemente irritato, adesso era solo molto confuso.
- Solo che tra tante cose, non gli ho detto l’unica che avrei dovuto dirgli, ovvero che quella sera sarebbe dovuto essere in quel... in quel ‘posto’, dove lo aspettava quello lì, il suo ex, ma poi alla fine, quando era troppo tardi, io mi sono fatto una gaffe e lui ha scoperto tutto, e mi ha detto di andarmene. Era buio, non mi ricordo che ore fossero, ma sono rimasto in giro per un po’, poi sono tornato a casa, e ti ho visto in quello stato nel letto... ero preoccupatissimo. Però tu sembravi così arrabbiato, anzi, nemmeno, sembrava che non te ne fregasse niente di nessuno, neanche di me.
La voce gli si spezzò. Contrariamente a quello che si era aspettato, parlare di Taehyung non era la cosa che gli creava maggior difficoltà. No, era molto più difficile raccontare di quando era arrivato a casa, e anche Jimin l’aveva trattato con freddezza.
- Io... io volevo solo aiutarti, ma tu non volevi, mi hai... mi hai allontanato come Taehyung.
Prima lacrima.
- Però avevi ragione a trattarmi così, perché io ti avevo lasciato da solo.
Seconda lacrima.
- Era quello che mi meritavo...
Terza, quarta, quinta.
- ...però mi mancavi tanto, non voglio che tu te ne vada più via così, non voglio litigare con te, è troppo brutto.
Se Jungkook non avesse parlato, non si sarebbe capito che stava piangendo. Le lacrime scendevano silenziose, le sue spalle non erano scosse da alcun tremito. Forse solo il petto tremava appena, come quello di un uccellino impaurito, ma si doveva essere davvero vicini per notarlo. Vicini come Jimin, che, ascoltando le parole di Jungkook, si era sentito sempre peggio, sempre più in colpa. Come aveva fatto a non capire che stava così male? Come aveva potuto non accorgersene? Lui, che con uno sguardo era sempre stato in grado di capire di cosa l’altro avesse bisogno, nel momento più buio non era stato in grado di fare luce.
Gli occhi pieni di lacrime di Jungkook si alzarono sull’amico, e in quel momento, vedendolo così fragile, vulnerabile, Jimin avrebbe tanto voluto baciarlo. Avvolgerlo nel suo calore, scacciare tutte le sue paure con un semplice, innocente bacio, perché sapeva che avrebbe potuto trasmettergli cose che non sarebbe mai stato in grado di dire a parole. Forse gli avrebbe potuto far capire che non aveva bisogno di essere spaventato lì, quella sera, con lui, mai.
Però non lo fece. Perché sarebbe stato disonesto, e l’avrebbe solo confuso più di quanto non lo fosse già di suo.
Per questo, ricambiato il suo sguardo, si sporse verso di lui e lo avvolse tra le sue braccia. Non poteva definirsi un vero e proprio abbraccio, la posizione era abbastanza scomoda e forse anche un po’ equivoca, ma nessuno dei due ci fece troppo caso – o meglio, Jungkook non ci fece troppo caso e Jimin si sforzò in ogni modo di non farlo. A forza di piccoli aggiustamenti, riuscirono finalmente a trovare una sistemazione decente: erano entrambi appoggiati con la schiena contro gli scatoloni, Jimin aveva un braccio attorno alle spalle di Jungkook, e quest’ultimo si era rannicchiato contro il suo petto.
Tum, tum, tum.
- Jimin, il tuo cuore batte – disse Jungkook con un candore e un’innocenza insospettabili in un ragazzo di diciotto anni. Jimin cercò di far finta di non aver capito dove voleva andare a parare.
- Be’, se non battesse sarei morto, non credi?
- No, intendo, batte forte forte. Fa tum tum tum. Stai bene?
Jimin si morse il labbro. Stava bene? Forse. In realtà tremava un po’. – Sì, è tutto a posto.
Anche Jungkook tremava, e anche il suo cuore non era esattamente a posto, ma sia lui che Jimin lo attribuirono al fatto che avesse appena smesso di piangere.
- Torniamo a casa?
No, Jimin in fondo sperava che fosse un altro il motivo per cui anche il suo cuore faceva ‘tum tum tum’, ma quello preferì tenerselo per sé. – Sì, adesso torniamo a casa.
- E domani andiamo a prenderci una cioccolata calda? Al Lachata?
- Sì, tutto quello che vuoi, piccolo genio.
Uscirono dal locale insieme, Jungkook tenendosi un po’ al braccio di Jimin. Non stava più tanto male, anzi: ormai il tremore era passato. Solo... gli piaceva stare così vicino all’amico, era rassicurante. Sapeva che insieme a lui non avrebbe dovuto avere paura di nulla. Mentre raggiungevano la macchina del più grande – Yoongi aveva detto di non preoccuparsi per lui, e che avrebbe rimediato un passaggio da Namjoon – però, non si accorsero degli altri due ragazzi che stavano parlando poco lontano, e che avevano palesemente ancora qualche questione da aggiustare. Non che quei due ragazzi avessero notato loro.
Però, anche se Jungkook aveva smesso di tremare ed era al sicuro in macchina insieme a Jimin, il suo cuore non aveva ancora cessato di battere più velocemente del normale.
 
***


I minuti passavano, ma di Seokjin non c’era nessuna traccia. Taehyung iniziò a camminare in tondo, cercando un modo per passare il tempo nell’attesa. Eppure gli era sembrato che il professore fosse una persona precisa, puntuale: insomma, tutto ciò che ci si aspetterebbe da un professore. Niente da fare, quella storia gli puzzava sempre di più, c’era qualcosa di strano: Sehun che scompariva improvvisamente, e subito dopo qualcuno che, quanto meno teoricamente, non avrebbe alcun motivo per trovarsi a una festa di compleanno del genere lo veniva magicamente a salvare. C’era sicuramente qualcosa sotto, sì, e lui avrebbe scoperto cosa.
Consapevole del fatto che continuare a lambiccarsi il cervello non sarebbe stato di alcuna utilità ma deciso a capirci qualcosa di più, Taehyung si diresse verso l’entrata del locale. Il suo piano era cercare Seokjin e Sehun, e una volta trovato l’uno o l’altro, chiedergli spiegazioni su che cosa diamine stava succedendo quella sera.
Ma, come era prevedibile, l’onnipresente nuvola nera sulla sua testa non mancò di mandare tutto in fumo. Non ebbe il tempo di fare nemmeno tre passi, che a pochi metri da lui vide la figura di una delle due persone che stava cercando in ogni modo di evitare. Si irrigidì.
Un milione di pensieri gli passarono per la mente: che cosa ci faceva lui a quella festa? E poi, anche ammesso che fosse un amico del festeggiato, perché era lì fuori dal locale? C’era soltanto lui lì fuori.
Hoseok avanzò incerto verso di lui, forse in cerca delle parole giuste.
A meno che non fosse lì proprio per quella ragione. Ma certo, come aveva fatto a non pensarci immediatamente? Un risolino amaro percorse la sua gola.
- E così, tutto questo è opera tua? Ci sei tu dietro questa farsa?
Hoseok si fece scudo con le mani come per negare, ma Taehyung non gli lasciò il tempo di parlare.
- Avrei dovuto aspettarmelo, da uno come te. Hai organizzato tutto per incastrarmi, vero? La telefonata di Sehun, il prof che mi accompagna qua fuori, e poi dal nulla, puf, magia: sbuchi tu. No, non è un caso, sei tu che hai dato direttive a destra e a manca per farmi arrivare qui e...
- Ti sbagli, io non c’entro niente – disse con una calma innaturale Hoseok. Erano mesi che non era così lucido, così deciso, e, almeno per una volta, voleva essere sincero. – È stato un ragazzo che mi conosce, una specie di amico...
- Ah sì? Una specie di amico? – fece Taehyung, la voce colma di sarcasmo, e continuò: – E scommetto che tu non hai minimamente partecipato ai preparativi, giusto? Il piccolo innocente Hoseok.
- No, io non ho fatto assolutamente nulla.
Taehyung sollevò un sopracciglio. Non gli credeva. Non credeva a una sola delle parole che uscivano dalla sua bocca, e aveva i suoi buoni motivi per non avere fiducia in lui.
- Senti, anche io mi sono ritrovato qui senza volerlo. Quel mio conoscente mi ha telefonato spacciandosi per un mio compagno di corso, e mi ha invitato a questa festa, dicendomi che ci saremmo visti direttamente qui. Sono venuto con mia sorella, ma quando sono arrivato, lui non si è presentato. – Hoseok raccontava, raccontava tutto, stufo di barricarsi dietro quella barriera di bugie e vigliaccheria che era diventata la sua prigione. Taehyung lo ascoltava, chiedendosi se quella storia fosse l’ennesima menzogna. Avrebbe voluto crederlo, sarebbe stato più facile odiarlo, ma sembrava davvero sincero, e più sicuro di quanto era mai stato. E poi, non era poi tanto diverso da quello che era successo a lui. – Poco dopo che sono entrato, sempre quel mio conoscente mi ha tirato in disparte e mi ha detto che eri qui.
Hoseok guardò Taehyung fisso negli occhi, e vi lesse tanta indecisione. Non poteva mollare adesso: gli era stata concessa un’occasione di mettere a posto le cose, e non l’avrebbe sprecata. – Devo parlarti. Senza false scuse, voglio solo spiegare. Spiegarmi. Spiegarti.
Taehyung non spezzò il contatto visivo. Pensò che forse poteva finalmente, dopo mesi di attesa e di silenzio, capire cos’era successo davvero.
Ma io lo voglio davvero? Voglio davvero sapere, capire? Già. Non ne era più tanto sicuro, così come non sapeva cosa avrebbe risposto a Jungkook se gli avesse detto che Hoseok lo aspettava al parco giochi. Aveva paura che la verità non gli piacesse. Guardava gli occhi scuri del ragazzo che forse amava ancora, chiedendosi se in fondo anche lui non provasse lo stesso. Tutte quelle domande, quei se, quei ma, lo logoravano da troppo tempo, gli sfregiavano la pelle e l’anima come pallottole invisibili di un cecchino crudele. Però....
- Io... non lo so – disse, improvvisamente svuotato, senza energia. – È passato tanto tempo, e tu non ti sei mai fatto sentire. Sei totalmente scomparso dalla mia vita, e ora torni qui, pretendi di spiegare, ma... ma io non sono pronto. Mi capisci, vero?
Hoseok sembrava deluso, ma Taehyung non poteva farci niente. Le cose erano andate come erano andate, lui era restato da solo senza niente a cui appigliarsi: Hoseok non poteva pretendere di più.
- Va bene – disse sospirando. – Facciamo così: pensaci. Quando sarai pronto me lo farai sapere, non voglio metterti fretta. Solo... pensaci. – Taehyung gli rivolse uno sguardo incerto. – Per favore.
Per favore. Forse avrebbe potuto farlo. Dargli l’opportunità di essere chiaro, sincero. Magari di tornare da lui. Ma con i suoi tempi.
- Ci penserò. Ora... ora è meglio che vada.
Hoseok guardò Taehyung allontanarsi. Avrebbe atteso, e sperato. Non tutto era perduto, non ancora. Il ragazzo dai capelli lilla si diresse verso casa con la testa piena di pensieri e il cuore pieno di sentimenti contrastanti.
Lo amava? Lo odiava? Entrambi? Certo, era arrabbiato e deluso: nulla avrebbe potuto cancellare il fatto che Hoseok l’aveva lasciato, senza una spiegazione valida. Perché “sei strano, non ne posso più di te” non è una spiegazione valida, ma Taehyung, allora, non era riuscito a reclamare di più. Un cuore spezzato non pensa a fare domande, un cuore spezzato cerca di rimettere insieme i pezzi, il poi è una prospettiva troppo astratta e insignificante rispetto al dolore. Dopo il dolore era giunta la rabbia, poi il tentativo di cancellare ogni ricordo di Hoseok, credendo che in quel modo l’abbandono avrebbe fatto meno male. C’era quasi riuscito, aveva anche trovato qualcuno con cui stava bene, che aveva risollevato il suo umore e le sue giornate. Nel frattempo, aveva un po’ rattoppato il suo cuore, aveva ricucito insieme i frammenti, ma poi Jungkook gli aveva mentito, e adesso, adesso che Hoseok era tornato con delle spiegazioni, non sapeva quando e se sarebbe riuscito ad accoglierle.
Mentre camminava, gli venne in mente un’idea un po’ stupida, forse ingenua. Prese il telefono, e scorse i numeri in rubrica. No, non aveva mai cancellato il suo numero: in tanti lo fanno, ma lui no. In fondo, aveva sempre sperato in una sua chiamata, un messaggio, qualcosa. Non aveva cancellato il numero, ma il nome l’aveva cambiato: un asettico “Jung Hoseok” fece capolino tra “Jinri” e “Jung Soojung”. Cliccò su “modifica”, e cancellò ciò che era scritto sotto la voce “nome”.
Taehyung, sembri proprio una tredicenne. Tentennò un po’, poi scrisse frettolosamente “Hobi” e salvò le modifiche. Dopo essersi congratulato con se stesso per essere riuscito a trattenersi dal mettere delle faccine, riprese a camminare spedito. Arrivato a casa, andò in camera e tirò di nuovo fuori il telefono. Se lo rigirò un po’ tra le mani, poi lo appoggiò sul davanzale della finestra.
Chissà, magari avrebbe portato bene.
 
***


È steso per terra, la sua faccia preme contro il terreno. I suoi arti sono come insensibili: il cervello invia i segnali, ma i muscoli non sembrano recepirli. Ci vuole un po’ – minuti? Ore? – perché riesca ad alzarsi.
Si guarda intorno. Sembra un deserto. Niente nel raggio di chilometri, non una casa, non una costruzione. Il cielo è nuvolo, forse sta per piovere.
Prende una direzione a caso e inizia a camminare. In un remoto angolo della sua mente, sa che probabilmente dovrebbe avere paura. Tuttavia non ne ha. Ascolta i refoli di vento che lo sospingono. Si sente una nave: si abbandona alle correnti.
All’improvviso – di nuovo, quanto tempo è passato? – qualcosa inizia a cambiare. Ci mette un po’ a rendersi conto di cos’è, ma poi lo vede: il cielo. In un punto ben preciso, le nuvole si stanno diradando, come il mare che si ritira durante la bassa marea. Una strana luce proviene da quello squarcio: non è il sole. È una luce bianca, troppo bianca, potente, decisa.
Strano.
Si avvicina. Non è spaventato, non ce n’è bisogno. Va ancora avanti, e quando si trova sotto lo squarcio, la luce lo investe. Eppure continua a vederci. Alza lo sguardo.
Meraviglioso.
Devono essere un esercito. Un esercito di angeli.
Sono tantissimi: migliaia di... persone? Individui? Sagome? Non sa come chiamarli, ma forse non è quello l’importante. L’importante è che, qualunque cosa siano, tutti hanno un paio di splendide ali bianche. Sono loro la fonte della luce. Emanano un’aura serena, benefica.
Tende una mano verso l’alto. Vorrebbe raggiungerli, ma gli basterebbe anche stare lì, fermo, a guardarli. Sono bellissimi.
Due di loro scendono verso di lui, sorridendo. Riconosce i loro volti. Non gli sembra assolutamente strano. Ha sempre creduto che fossero due angeli, da quando li ha visti per la prima volta. Namjoon e Seokjin gli sorridono, gli prendono le mani.
- Devi svegliarti – gli dicono. Ma lui non capisce.
- Svegliarmi?
- Svegliati, per favore, svegliati.

I due continuano a sorridere. Lui invece smette di farlo. Tutto gli sembra improvvisamente sbagliato. Le nuvole si richiudono, le facce degli angeli si distorcono fino a essere irriconoscibili, le loro ali si tingono di nero. Strane gocce di un rosso cupo iniziano a cadere dal cielo. Una lo colpisce in viso.
 
Yoongi sbatté le palpebre. Aveva le ciglia bagnate, eppure era perfettamente consapevole di non aver pianto. Prima ancora di riconoscere chi aveva versato quelle lacrime, però, il suo sguardo si posò su un altro viso, a lui sconosciuto. Un viso sottile, di ragazza, lunghi capelli neri le ricadevano oltre le spalle. Non sapeva come spiegarselo – forse non era ancora completamente emerso da quello strano sogno – ma gli sembrava che quella ragazza emanasse la stessa aura benefica dei suoi angeli bianchi. Così, ancora a metà tra reale e irreale, tra lucidità e confusione, le parole gli uscirono spontanee dalla bocca, prima che Yoongi stesso potesse chiedersi che senso avessero. Sorrideva.
- Sei un angelo anche tu?
 
***


Dopo essersi messo in divisa da notte – maglia slabbrata e pantaloni della tuta che da neri erano da tempo diventati grigi – Jimin si lasciò cadere sul letto, sfinito. Era stata una serata davvero lunga, e aveva iniziato a esserlo già quando stava aspettando che Luhan lo contattasse per dirgli dov’era Jungkook – il piano di Yoongi prevedeva che il cinese trovasse il suo coinquilino, per poi allontanarsi e lasciare loro due da soli.
Ed effettivamente Luhan l’aveva chiamato, ma per dirgli che al situazione gli era sfuggita di mano, e che Yoongi gli aveva farfugliato di avvisarlo comunque. Jungkook era scappato perché aveva visto chissà cosa, e lui non aveva fatto in tempo a fermarlo. Però, se non si sbagliava, l’aveva visto andare verso una scala. Jimin sapeva che c’era una sola scala in quella sala del locale – mentre aspettava si era guardato intorno abbastanza accuratamente. Per fortuna aveva trovato quasi subito Jungkook, e tutto si era risolto per il meglio. Più o meno.
- Jiminnie?
La voce assonnata del suo coinquilino lo distolse dai suoi pensieri.
- Sì? – chiese lui, girandosi verso il letto dell’altro. Jungkook, seduto sul materasso, era intento a strofinarsi gli occhi con il palmo della mano. Si produsse in uno sbadiglio degno di un ippopotamo, poi riprese la parola.
- Posso venire da te?
Jimin lo guardò intenerito. A volte glielo chiedeva, quel bambino troppo cresciuto, di dormire insieme a lui. Forse avrebbe dovuto dirgli di no, almeno per quella sera: erano entrambi troppo spossati. Però... però era così tenero...
- Va bene, dai, vieni – rispose alzando la coperta. Jungkook percorse la distanza tra i due letti con passo esitante, poi si infilò nel letto insieme a Jimin. Le sue braccia esili percorsero con il pilota automatico una strada già conosciuta attorno al busto dell’altro, e appoggiò la testa sul suo petto, gli occhi chiusi. I capelli gli ricadevano un po’ scarmigliati sulla fronte. Jimin sorrise. Quando Jungkook era ormai quasi nel mondo dei sogni, però, la sua voce si diffuse all’interno del letto, e Jimin avrebbe potuto giurare che fosse la più incredibilmente stanca e dolce che avesse mai sentito.
- Ehi, Jimin?
- Che c’è?
- È vero che li cacci tu i mostri fuori dalla porta?
Era decisamente più di là che di qua. Jimin lo guardò intenerito. - Sì, tranquillo.
- Okay, allora buona notte.
- Buona notte.
E si addormentarono così, l’uno tra le braccia dell’altro, pensando un po’ a quanto era bello stare così, un po’ alla mattina dopo, quando Jungkook si sarebbe espanso in tutto il letto, un po’ a quando sarebbero usciti, per andare al Lachata a bere la loro cioccolata calda.

 








Angolo autrice (parte 2):
Allora, mi sono fatta perdonare almeno un minimo? Spero davvero di sì. Vi chiedo ancora scusa... il prossimo capitolo dovrei quasi sicuramente essere in grado di pubblicarlo tra due settimane, ma non vi assicuro niente, perché questa settimana sarà un inferno: domani ho la versione di latino, mercoledì e venerdì interroga di greco, giovedì ho la mia prima verifica di filosofia... aiuto, morirò, auguratemi buona fortuna.
  
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