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Autore: LB Shadow    27/10/2016    3 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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 Long Time No See

 

IV.I

 

Sbagliato, sbagliato. Se Arthur in futuro avesse dovuto decidere il giorno in cui tutto iniziò ad andare storto, avrebbe scelto quello in cui lui e Alfred erano andati a combinare quella specie di ronda. “Controllare la concorrenza”, così l’aveva definito l’idiota. Se non l’avessero fatto, chissà? Magari le cose sarebbero potute andare in modo diverso.
Non il giorno in cui era tornato a casa e la prima cosa che aveva fatto era andato nel suo antro per cercare un incontro con “quello”. Non quando aveva accettato il lavoro in quell’orribile posto, con quell’orribile deficiente. Non quando si era reso conto di voler effettivamente la morte di Francis Bonnefoy. No, nessuno di quei giorni era stato quello decisivo. Sbagliato, sbagliato, era tutto sbagliato, persino l’acqua con cui aveva fatto il tè in quella mattina di settembre doveva essere inquinata, il pane avvelenato, la frutta gonfia di vermi, ma niente di tutto ciò lo era e quindi chi poteva immaginare che quello fosse il giorno della sua caduta?
Era anche una giornata serena, uno di quei giorni di sole che t’illudono sia ancora estate. Le nuvole erano candide e soffici, come batuffoli di cotone nell’azzurro così inconsueto nella capitale inglese. La pioggia del giorno prima evaporava dal cemento, lavando gli odori della città e sollevando un venticello fresco che ti coglieva inaspettato, facendoti rabbrividire improvvisamente. Era un bene che non facesse troppo caldo: la luce che lo accoglieva non appena metteva piede in strada, stordiva la mente già colpita di Arthur. Il calore lo avrebbe intontito al punto da renderlo uno zombie, ma il fresco lo rendeva abbastanza lucido da percepire tutto quello che accadeva. Forse sarebbe stato meglio di no, meglio l’incoscienza a quella sensazione, come se ogni entrata in un nuovo locale gli riempisse sempre più lo stomaco di catrame nero e appiccicoso.
Era invidia, quella sensazione orribile, la riconosceva suo malgrado: in ogni volto estraneo gli pareva di scorgere freddezza, senso di superiorità, addirittura disprezzo. Lui non era che un fallito, dicevano quegli sguardi altezzosi, in compagnia di un altro fallito. Avrebbe voluto urlare, ma non poteva. Buffo che avesse pensato all’indossare un cappello ben calcato in testa, tanto per non farsi riconoscere subito a chi lo aveva già visto in volto. Nascondendogli le sopracciglia, elemento particolare del suo volto, eseguiva un ottimo lavoro e gli dava un’aria molto più anziana dei suoi ventitré anni, come se già non fosse regolarmente scambiato per un signore di mezz’età. Anche Francis lo prendeva spesso in giro per il suo stile “antico”, lui che cercava di farsi notare ad ogni costo seguendo esclusivamente l’ultima moda. Quante volte avevano litigato per simili inezie? Tante. Facevano parte del passato, ormai. Ora non poteva più tornare indietro, perché aveva fatto un patto.
Alla fine non poté fare altro che rifugiarsi in altri pensieri, qualcosa che non coinvolgesse quella sensazione di soffocamento dall’interno. Si mise a pensare alla sera prima.
Alfred dimostrava il suo entusiasmo in maniera fin troppo esuberante come suo solito; anzi, oggi anche di più perché aveva avuto l’occasione di uscire all’aperto, assaporare un po’ di libertà fuori dal suo mondo a parte: sembrava un cane liberato del suo guinzaglio. Arthur era restio nel venire contagiato dalla sua energia: tra le altre cose, era ancora scosso per Toris. Non sapeva nulla di cosa fosse successo al colloquio, ma già si immaginava il peggio.
Ivan poteva aver detto di tutto. Fatto di tutto. Ivan era imprevedibile. Toris si era rifiutato di parlarne, segno che i timori di Arthur fossero fondati, che qualcosa fosse necessariamente accaduto per renderlo così chiuso.
Toris non era il massimo della chiacchiera, certo, era il classico tipo tranquillo, ma non fino a questo punto. E poi c’era quello sguardo nei suoi occhi, come se stesse ancora cercando di metabolizzare un’esperienza penosa. L’unica cosa su cui aveva aperto bocca volentieri (fin troppo) era della sorella del giudice, la giovane Natalya: e quanto è bella, e quanto è dolce, e quanto è sfortunata a vivere sola soletta in un grande palazzo come quello con la sola compagnia del fratello, e il fatto che lo avesse aiutato a uscire.
(un attimo, l’ha aiutato a uscire? O aveva detto “scappare”? Erano entrambi stanchi morti quando erano tornati a casa, o meglio Arthur era stanco e Toris alternava sovreccitazione a mutismo assoluto)
− ...rthur? Arthur? Terra chiama Arthur, rispondi, passo!
Alfred lo stava scuotendo per un braccio. Arthur lo guardò confuso, tornando lentamente alla realtà. – Eh? Che c’è?
Alfred lo guardò incuriosito, come se gli avesse rubato la domanda di bocca.
− Boh, ma sembri preoccupato per qualcosa e volevo sapere cos’hai.
− Non è niente... −
( per non ricordare quanto sono patetico, pensavo a Toris, sai, il ragazzo di cui in teoria dovrei prendermi cura finché è qui a Londra e invece lo mando in pasto agli orsi. Ieri non mi ha voluto raccontare cosa fosse successo a casa di Braginski. Ha solo parlato a vanvera di Natalya, credo si sia preso una cotta per lei, ma in forse ha semplicemente paura di confidarsi con me perché Ivan... può avergli detto qualcosa su di me? Non oso pensarci. Meglio cambiare argomento, tanto questo moccioso non capirebbe comunque)
− Adesso dove andiamo? – domandò, assumendo l’espressione più indifferente che gli fosse possibile. Alfred tirò fuori dalla tasca una lista di indirizzi.
− Siamo già andati al ristorante cinese, vero?
− Sì. E anche a quello specializzato in tacos.
− Uuuh, quello era bello.
− Non ci serve sapere se fosse “bello”, ci serve sapere cos’aveva più del tuo locale, del perché loro hanno clienti e tu no.
Alfred sorrise: − Allora non sono l’unico a dovermici abituare.
− A cosa, scusa?
− Il locale non è più “mio” o “tuo”. Siamo soci ora, è “nostro”.
Sospirò, colto da un’improvvisa vena sentimentale. – Ah, adesso dobbiamo occuparcene in due, come dei bravi genitori! Ѐ una gran scocciatura, però, condividerlo con un rompiscatole antiquato come te.
Arthur ridacchiò, sarcastico: − Lo dici a me, folle yankee? Se potessi me lo riprenderei seduta stante. Non conosci affatto il valore della tradizione: ogni volta che ci entro mi viene un attacco epilettico, tanto è assurdo come il modo in cui l’hai arredato!
Il commento sembrò urtare particolarmente il più giovane: − Ma lo sai di cosa parli? Ignorante, si chiama arte moderna questa. A New York questo stile fa furore.
− Arte?! Ѐ solo un ammasso di cianfrusaglie colorate e loghi attaccati alle pareti!
− Non dire così! Sempre meglio di prima, non sembrava un ristorante, sembrava un pub per senzatetto!
− A proposito di pub – Arthur si leccò le labbra, sbirciando sul foglietto – Ce ne sono quattro soltanto in questa via. Facciamo un salto, ti va?
Alfred lo scacciò rabbiosamente, allontanando la lista a distanza di sicurezza: − Scordatelo. Non voglio portare in giro un ubriacone molesto, c’è troppo da fare oggi e ho bisogno del tuo aiuto da sobrio. Prima ci siamo passati e non ripeterò questo errore. Ci mancava poco che mettessi le radici lì!
− Ma... ma...
− No, non puoi più utilizzare la scusa che t’interessa l’arredamento, non ci casco due volte! E poi, che pretesto è? Ѐ come sposare un’ereditiera e pretendere di esserti innamorato per il suo carattere! Ѐ stupido, cavolo!
Arthur incrociò le braccia, risentito nel venire smascherato in tal modo. Come diavolo facesse quel ragazzino a scovare il punto debole altrui con una tale facilità, era un mistero.
– Smettila di dire che sono vecchio, non lo sono! E poi... – voltò lo sguardo verso un’altra direzione, consapevole di sparare una frottola gigante, – Non mi ubriaco spesso. Cioè, diciamo il 30... o 40% delle volte, non di più, e di sicuro non con un paio di birre medie!
Come doveva aspettarsi, Alfred non cedette. Il ragazzo guardò invece i nomi rimasti sulla lista. Erano ormai agli sgoccioli. Il loro piano consisteva nell’andare nei vari ristoranti, bar, pub o dovunque servissero del cibo e cercare le caratteristiche che contraddistinguevano quelli di successo da quelli meno popolari; il loro sopralluogo, per non risultare sospetto dal momento che non consumavano quasi mai nulla, era accompagnato da banali scuse, incetta di bigliettini da visita e promesse di ritornare in futuro. Inutile dirlo, anche il meno affollato di questi locali aveva comunque più clientela dell’Eagle.
Alfred guardò l’ora e storse la bocca, irritato. – Siamo in ritardo, non credo ce la possiamo fare a finire il giro.
− Ah no?
− Dobbiamo per forza andare, però, dal cuoco ambulante di cui ti ho parlato ieri sera, è la nostra ultima occasione. E mangiamo là!
Arthur aggrottò le sopracciglia, guardandolo male: − Come mai lui sì e tutti questi che abbiamo passato no?
− Te lo dico quando arriviamo. – Alfred lo prese per il polso e lo trascinò per una viuzza laterale: sembrava sicuro di quello che stesse facendo, quando invece era il solito atto impulsivo. Arthur scosse la testa, ormai rassegnato ad avere un moccioso come socio.
Il cuoco in questione aveva la sua postazione vicino alla chiesa di St Dunstain e quel giorno era mercato: c’erano bancarelle di vari tipi e anche diversi venditori di cibo. Arthur ne indicò uno, domandando se magari fosse quello l’uomo che cercavano. Alfred dissentì. Il tipo vendeva rosticceria: prodotti buoni, sì, ma il “loro” cuoco era a un livello più alto, disse.
− Ѐ il migliore in circolazione nel suo genere, una stella nascente! Te l’ho detto, ha un suo ristorante vero e proprio, ma viene qui in settimana a farsi pubblicità al mercato. Dal momento che ho sentito che si trasferisce e che quindi non verrà più quaggiù, non voglio perdermelo assolutamente.
Arthur sentì una stretta allo stomaco. Il migliore, eh? Chissà se lui sarebbe mai arrivato a un risultato quantomeno simile. Tempo prima era sicuro di essere, se non il migliore, almeno bravo nella sua professione. Adesso constatava con i suoi occhi quanto si fosse illuso. Era difficile da accettare. Un calore infuocato gli riempì il cuore e le guance, avvolgendoli come una carezza infernale.
(Come sarebbe bello schiacciare tutti i concorrenti sotto un grande masso, su cui lui, come un Dio crudele, avrebbe posto la mano e spinto, spinto, finché non fossero scomparsi tutti. Anzi no: sarebbe stato più gratificante tagliare loro la gola, sgozzarli come maiali da macello, tanto, tanto, taaanto sangue che inondava tutto... e alla fine, chi sarebbe stato il migliore? CHI?)
( LUI SAREBBE STATO! Per sempre e per sempre...)
Arthur si bloccò in mezzo alla strada con gli occhi sbarrati, il respiro azzerato. Oh, che pensiero orribile, gratificante nella sua brutalità gli era apparso davanti! E agghiacciante, soprattutto. Il calore era scomparso improvvisamente assieme al ritorno alla realtà, lasciandolo raggelato e confuso. Quei pensieri eludevano il suo controllo, apparendo come fulmini in una tempesta. Lo facevano stare ancora peggio, trafiggendo la sua mente come lame di rasoio uscite dal nulla, ad opera di un entità nascosta nel buio che si tornava a nascondersi dopo averlo colpito. Una fatina luccicante svolazzò davanti al suo naso, con l’aria preoccupata. – Stai bene? – domandò, − Ancora quelle brutte cose che ti tormentano?
Arthur annuì senza farsi notare. Alfred a quanto pare era troppo impegnato a cercare tra gli ambulanti il loro obiettivo per badare a lei e ai suoi amici invisibili.
− Non puoi parlare? Mi dispiace così tanto... sappiamo cosa provi e vogliamo solo aiutarti, ricordatelo. − e la fata se ne andò, più affranta di prima. Arthur avrebbe voluto salutarla, almeno, ma, come non aveva avuto il coraggio di sfogarsi con l’esserino, nello stesso modo era meglio astenersi anche nel dirgli ciao. Brutta cosa avere amici magici che puoi vedere solo tu. Ovvio che non potesse dire queste cose a voce alta, già si era fatto una brutta reputazione, rischiava di essere preso per malato di mente oltre che violento. Forse Alfred si sarebbe messo a ridere, ma solo lui. Ormai aveva paura anche della reazione di Toris, per questo non l’aveva avvisato che per quel giorno l’ “Eagle” sarebbe rimasto chiuso in favore a quell’attività che sapeva di spionaggio. Aveva lasciato il ragazzo solo a casa, sommerso dai libri che gli sarebbero serviti all’università e dai curriculum da inviare, nella speranza di trovare un dannato lavoro in cui non fossero coinvolti giudici pazzoidi. O perlomeno, non Braginski.
Pazzoide o meno, il lato peggiore di Ivan era che sapesse troppe cose su Arthur.
Arrivati quasi al termine di quel lato di mercato, Alfred indicò un casotto bianco su cui era stato dipinto a mano un paesaggio, decorato qua e là con varie bandierine e con il nome ben posizionato sopra la finestra che comunicava al pubblico. Davanti a sé era circondato a destra e sinistra da tavoli lunghi plasticati e panchine pieghevoli, come un qualsiasi stand da fiera. – Eccolo lì! Alta cucina in cinque metri quadrati! Adesso andiamo e impariamo tutto sul come fare clienti, ma soprattutto mangiamo perché ho fame.
− Caspita. Rustico questo grande chef, specie nelle decorazioni. Ora so perché ti piace.
Alfred si strinse nelle spalle, insofferente. – Non ti va mai bene niente, eh?
Si avvicinarono. I posti erano quasi tutti occupati e la maggior parte della gente prendeva il proprio pranzo d’asporto da una finestrella a lato del baracchino. Vicino ad esso c’era un cartello posizionato per terra, con attaccato il foglio del menù e una foto pubblicitaria ritraente quello che si supponeva essere il cuoco. Arthur la osservò alzando un sopracciglio, indeciso se mettersi a ridere o domandarsi per l’ennesima volta in quella giornata cos’avessero gli altri in più di lui. Di sicuro, in questo caso non era la dignità.
La foto in questione era la figura di un ragazzetto super sorridente, di massimo vent’anni: era vestito di una maglia a righe bianche e blu, una fascia rossa aderente in vita e un cappellino di paglia contornato di un nastro, anch’esso rosso. Capelli castani spuntavano ribelli al di sotto di esso, in particolar modo un lungo ciuffo riccioluto che si allungava alla sinistra del capo. La mano destra faceva il segno dell’ “OK”, mentre la mano sinistra reggeva un piatto fumante di spaghetti al sugo di pomodoro. Per completare il tutto, il ragazzo aveva sotto il naso dei grossi baffi neri a manubrio. Lo sfondo era formato da tre strisce di uguale larghezza, verde bianco e rosso.
Arthur commentò: − Ho come la vaga impressione che sia italiano.
Alfred annuì. – Indovinato, Sherlock.
− E cos’avrebbe di tanto speciale, questo mangia-spaghetti?
− Non saprei. Ѐ un punto di riferimento per i suoi connazionali e se lo dicono loro che cucini bene, c’è da fidarsi, non trovi?
Arthur guardò il nome posto sulla facciata della casupola e sul cartello: “Vargas Macaroni Brothers”.
“Qui di Vargas ne vedo solo uno. In quanti saranno?” pensò, quando un pallone, compiendo una mirabolante movimento ascendente, decise di terminare anticipatamente il suo tragitto tentando di sfondargli il cranio.
– Ahiaaa, porca miseriaaa! – urlò. Il cappello era volato via per il colpo, e ora Arthur stava tenendosi la testa pulsante di dolore con entrambe le mani, come se gliel’avessero effettivamente spaccata e ora rischiasse di andare in mille pezzi. Alfred si era piegato in tempo e aveva schivato la traiettoria. La palla rimbalzò a pochi metri dai loro piedi e fu subito recuperata dall’infortunato, deciso a trovare un qualsiasi oggetto contundente e bucarla. Con un gesto stizzito raccolse anche il cappello e se lo calcò per bene, sopprimendo un gemito quando la stoffa dura sfiorò il bernoccolo. Ah, ma si sarebbe vendicato!
− Scusi, signore! – trillò una vocetta acuta. Un bambino stava correndo verso di loro, affannato. Era un quasi teen-ager, di quelli alle soglie dell’adolescenza ma ancora ben ancorati nel mondo dell’infanzia: aveva i capelli biondi, sbarazzini, e gli occhi azzurri. Indossava una maglietta blu da calciatore, riportante una piccola bandiera italiana, ormai sudata: chissà da quante ore stava giocando.
Arthur lo fulminò con lo sguardo. Il bambino non ne rimase minimamente turbato.
− Signore, deve ridarmi il pallone. – disse, esibendo un’esemplare espressione da ragazzino viziato. Non si poteva dire fosse pentito del suo atto. Alfred, dal canto suo, se la stava ridendo e il bambino guardò entrambi confuso. Si rivolse al tizio di prima.
– Oh, ma parla inglese, almeno? Ѐ un turista? Tu parla italiano?
− Certo che parlo inglese, moccioso! – ringhiò Arthur, mentre controllava delicatamente il bernoccolo semi-nascosto tastandolo con una mano e teneva ben stretta la palla con l’altra.
− Meno male – disse sollevato il bambino – Conosco quattro parole in croce di italiano.
− Davvero? Pensavo il contrario, visto la maglietta – Alfred indicò la bandierina cucita sul tessuto. L’altro scosse la testa.
− Questa? Bella, vero? Ѐ un regalo. Feliciano... il signor Vargas me l’ha data per quando giochiamo insieme a calcio. Ora lui però è occupato a servire i clienti. Un attimo! – i suoi occhi lampeggiarono nel panico, − Anche voi siete clienti?
Arthur anticipò Alfred e gli rispose acidamente: − No, stavamo prendendo il sole davanti al cartello del menù. Ѐ ovvio, accidenti! Non so chi sia questo Vargas, ma dubito sia contento che un moccioso cerchi di ammazzare i suoi avventori.
Le guance del bambino avvamparono per l’offesa. − Non sono un moccioso! Io lavoro qui!
− Ma fammi il piacere. Lavorare? Tu? Quanti anni hai, piccoletto?
Il bambino mise il broncio, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo mentre ammetteva: − Ho dodici anni, compiuti all’inizio del mese! E con questo?
Arthur ridacchiò. – Non puoi lavorare a dodici anni, sei troppo giovane. Come minimo devi averne tredici, e non potresti comunque fare tempo pieno. Ѐ la legge.
Il broncio del bambino si accentuò: − Aaah, la legge, la legge... è quello che cerca di dirmi anche Feliciano, ma suo fratello dice che se voglio sono libero di farlo, anzi è meglio. La mamma vuole che non disturbi loro due, ma se posso dare una mano è ok. Che male c’è nel voler aiutare?
Alfred interruppe il battibecco tra i due. Si rivolse al bambino.
− Senti un po’, se proprio vuoi aiutare, cosa ci consigli da mettere sotto ai denti?
Il bambino gonfiò il petto e indicò l’intero menù con un gesto della mano, orgoglioso.
− Ѐ tutto buonissimo! Parola mia!
− Ho chiesto cosa ordinare, non la tua parola.
− Beh... il pesce è fresco ed è un mio zio che glielo procura, quindi ne sono stra-sicuro. Ci sono alcune cose un po’ strane, tipo le sarde con l’uva passa, ma vi assicuro io che è tutto squisito. Può bastare?
− Ahaha! Cavoli, come agente pubblicitario lasci a desiderare, però ci fidiamo. Vero, Arthur?
− Certo, certo. – Arthur stava ancora esaminando il menù. Come diavolo facevano a essere famosi in tutto il mondo per la cucina e mangiare quella roba? Sperò che la traduzione di certi ingredienti fosse semplicemente errata, perché non era possibile. Al super aveva spesso visto cibo italiano in scatola, ma molto diverso da come lo vedeva descritto. Gli venne il dubbio che una delle due parti non producesse roba autentica. Lì era tutto così... semplice. Niente di troppo elaborato, tranne appunto alcuni piatti che però dal nome stesso non sembravano italiani. Dov’erano, ad esempio, le “fettuccine Alfredo”? C’erano nomi dal suono straniero, forse di qualche Paese limitrofo. No, una volta aveva sentito questa storia che l’Italia era piena di piatti tipici di singole regioni, doveva trattarsi di questo. In ogni caso, il profumo che aleggiava lì intorno gli stava facendo venire l’acquolina in bocca e contemporaneamente gli torceva lo stomaco dalla rabbia.
(Immagina il baracchino esplodere con l’italiano all’interno, lui e tutti i suoi commensali, una gigantesca esplosione da film d’azione che spazzi via tutto e tutti, anche Alfred e il moccioso)
Il cuore batté più veloce. Le mani si serrarono in due pugni. Dovette stringere i denti per non mettersi a urlare. No, non era ira questa volta, però: era terrore. Di colpo aveva davanti agli occhi la certezza di non riuscire a farcela, di fallire nuovamente se solo ci avesse riprovato. Arrenditi, Arthur. Ci sono persone dotate, tu non lo sei e invece questo tizio sbucato dal nulla lo è. Tu sei fuggito, lui è venuto alla luce. Inchinati davanti al nuovo Re.
− Che problemi ha? – bisbigliò il bambino, guardando le guance di Arthur diventare via via più scure, gli occhi accendersi. Alfred scosse la testa, puntando un dito alla tempia.
− Lascialo perdere. Ha un po’ di problemi riguardo il mondo della cucina in generale.
− Mi stai dando per pazzoide, forse?
Alfred si girò: Arthur era tornato in sé, scocciato da morire ma lucido.
− Muoviamoci a trovare un posto a sedere, piuttosto che parlare a vanvera. E tu – disse, rivolto al piccoletto porgendogli il pallone sequestrato – Portaci un paio di menù. Ho fame.
 
A quanto pare il travestimento da gondoliere del cuoco nella foto non era scelto a caso: oltre a piatti comuni, come la pasta al pomodoro, ce n’erano alcuni che avrebbero potuto mangiare in un ristorante sulla laguna veneziana o almeno così credevano i due.
− Voglio mangiare le sarde con l’uva passa – annunciò Alfred.
− Se poi fanno schifo non te le finisco io, sia chiaro. – replicò Arthur, scettico.
− Secondo me sono buone. Solo che... dove sono?
− Idiota, guarda gli ingredienti. – Arthur indicò un nome scritto in rosso sul menù. – Ecco qua, vedi? Si chiamano “Sarde in saòr”. Oltre all’uva passa ci sono cipolla, pinoli, aceto e... zucchero?! Bah. 9 sterline piene per un piatto simile, spero per te li valga.
− Che nomi strani, però, non trovi? Avrebbero dovuto tradurli in inglese. – commentò Alfred, senza staccare gli occhi dal menù. Arthur si trattenne dallo schiaffeggiarsi da solo, davanti a tanto egocentrismo americano: − Idiota, come potrebbero? Ti sfido a tradurre “pizza” in inglese.
Alfred si arrabbiò. – Cosa c’entra? – strillò − Guarda che la pizza c’è anche nel mio Paese e si dice allo stesso modo! E la nostra è anche più buona!
Un commensale da un altro tavolo, si girò per tre quarti e lanciò loro un’occhiataccia. “Non so se sia italiano anche lui o sia semplicemente sconvolto dalla sua stupidità” pensò Arthur, nascondendo il volto tra le pagine del menù, che erano solo un paio. Fu Arthur a ordinare per entrambi: per lui chiese un paio di piatti, per Alfred quattro; da bere, una birra per uno e una Coca-cola per l’altro. Una cinquantina di sterline nel conto totale.
− Non ti sembra di esagerare? – commentò acido Arthur, quando tornò al tavolo.
− Scherzi? Con tutta la roba buona che c’è, questo mi sembra il minimo.
− Però la paghi tu.
Alfred lo guardò sconvolto, come un bambino che avesse appena sentito che il viaggio a Disneyland programmato da mesi fosse stato annullato all’ultimo minuto.
− Co...come? Non siamo soci? Non si fa “fifty-fifty”?
Arthur gli mollò un calcio da sotto il tavolo. – Scordatelo, mi hai già fregato abbastanza in soli due giorni. D’accordo lo spirito imprenditoriale, ma tu esageri!
Alfred rise ma non risparmiò di dare anche lui un calcio in risposta. – D’accordo, ho perso il mio pollo da spennare. Certo però che anche tu, cascarci ogni volta così...
− Non dare la colpa a me, adesso! Tu e la tua mania di sfruttare il prossimo, deve essere intrinseco alla tua cultura.
Invece di offendersi, Alfred scoppiò a ridere. – Lo dici come se fosse un difetto! – esclamò.
 Arthur digrignò i denti, irritato. − E poi, Al, dovresti stare attento: sei già sovrappeso, contieniti! Con tutti quegli hamburgers e schifezze che ingurgiti rischi di diventare una botte! –, gli diede un altro calcio. Stavolta Alfred non rise.
− Non chiamarmi sovrappeso! Non l’accetto, non da te! Se tu sei magro è perché cucini solo spazzatura spacciandola per cibo tradizionale! Io ho le ossa grosse, ecco tutto. – Ennesimo calcio, stavolta più forte. Se il tono della loro voce era tutto sommato contenuto, per non dare nell’occhio, sotto il tavolo si stava scatenando la vera guerra.
− Spazzatura?! Ma senti questo! – sibilò tra i denti Arthur, sentendo la temperatura corporea alzarsi pericolosamente. Lo stinco doleva dopo l’ultimo colpo ricevuto.
– Se non fossi un gentleman non ti starei neppure aiutando, in questo momento! E mi ripaghi così?
− E se io non fossi un “eroe” che aiuta i deboli, adesso non staresti neppure lavorando! Dovresti essere tu quello in debito!
Avrebbero volentieri continuato per mezz’ora quando una vocina familiare li interruppe.
− Ehm-ehm! – fece il bambino di prima, tutto bello ripulito, con un grembiulino bianco e i piatti richiesti posti su un vassoio, un sorriso ampio quanto falso sul volto – I signori hanno ordinato? – domandò gentilmente, come se pochi minuti prima non avesse tirato una pallonata in testa a uno dei due.
− Sei il moccioso di prima? – domandò Arthur, squadrandolo – Come mai ci servi tu? Gli altri tavoli hanno cameriere graziose, a noi ci tocca lo scarto. Tipico.
Il sorriso del bambino vacillò, ma a quanto pareva era determinato a fare buona impressione. Se non su loro due, almeno sul suo pseudo-datore di lavoro.
− Il mio nome è Peter – ringhiò, sempre con gli angoli delle labbra rivolti innaturalmente all’insù – E spero vivamente che ti vada di traverso il pranzo, imbecille.
Alfred per poco non cadde dalla panchina dalla sorpresa. – Wohooo, piccoletto! – esclamò – hai la lingua tagliente per essere uno studente delle medie! Ti ha insegnato tuo padre a parlare così?
− Mio padre non parla – rispose Peter, prelevando il vassoio – E comunque non mi pare di aver detto chissà che. − Se ne andò a passi corti e strascinati, arresosi nel tentativo di dimostrarsi cordiale nel giro di un minuto e diciotto secondi. Oh, ma a chi importava? Feliciano avrebbe capito, lo avrebbe perdonato e avrebbe anche apprezzato il suo sforzo di dimostrarsi amabile a quei due coglioni. Un giorno avrebbe lavorato per lui in piena regola, non appena sarebbe stato un adulto riconosciuto dalla società. In cuor suo sperò che quel giorno arrivasse il prima possibile.
Alfred esaminò i piatti arrivati: c’era un pasticcio di carne e besciamella, spaghetti con sugo di carne che però erano più grossi di quelli che vedeva in America e senza “meatballs”, risotto ai funghi... oltre alle posate erano state portate un paio di pagnotte. Tra i presenti, un piatto in particolare lo incuriosì.
− Che roba è? – lo indicò. Lo aveva ordinato Arthur: era un piccolo ammasso biancastro dall’odore di pesce, con accanto una crema granulosa e gialla. Arthur sbuffò, come se fosse stato ovvio. Inclinò il piatto in modo che Alfred lo vedesse per bene.
− “Pregiato stoccafisso artico mantecato attraverso cinque ore di lenta cottura nell’olio d’oliva rigorosamente extravergine spremuto a mano da vecchie signore toscane. Il merluzzo in questione è apparso ne ‘Lo Squalo 8’ e nel nuovo film d’animazione ‘Alla ricerca di Dory’ nel ruolo di co-protagonista. Come accompagnamento una crema di mais biologico accuratamente selezionato tra migliaia di pannocchie, scelte personalmente da un talent scout dei cereali per soddisfare i requisiti richiesti”. C’era scritto sul menù. – spiegò all’altro. Alfred inarcò entrambe le sopracciglia, ammirato: − Accipicchia! Perché io non l’ho visto?
− Perché in realtà c’era scritto “Polenta e baccalà”,  ma mi sembrava più allettante come l’ho esposto io.
− Ah. Ok. – La delusione s’impadronì della voce di Alfred. − Beh, ora come ora non sembra allettante neppure con la tua descrizione – commentò, storcendo la bocca. Aveva qualche perplessità a riguardo al cibo italiano. A Manhattan c’erano molti italo-americani, ma non ricordava di aver visto piatti simili... o sì? Ricordava della pasta con uova, bacon e panna che un giorno aveva provato a cucinarsi, ma i suoi tentativi di addentrarsi nella cucina straniera erano stati velocemente sostituiti nel frequentare qualche locale. Oh, e c’erano anche i tutorial su come riprodurre perfettamente specialità, ma nuovamente non ricordava di aver visto piatti simili tra di essi. Ora aveva sotto il naso le famose sarde che lo avevano incuriosito e pensò di aver fatto comunque una scelta migliore dell’amico.
− Buon appetito! – esultò. Addentò un pescetto, sentì la lisca scricchiolare e spezzarsi sotto i denti. Era dolce ma non come le caramelle, leggermente salato e anche acidulo, poteva sentire la cipolla tagliata fina fina e pressoché invisibile  scivolare sul palato. Un’esplosione di sapori, insomma. Alfred non era mai stato un buongustaio, per lui il McDonald era pari alla Nouvelle cuisine, se non superiore (perlomeno lo saziava di più), eppure sentiva che c’era qualcosa di speciale in quello che stava mangiando. Una volta tanto cercò di trattenersi e assaporare almeno per pochi attimi quello che aveva in bocca, invece di trangugiare tutto come suo solito. Arthur cincischiava con un piatto di gnocchi al pomodoro e basilico.
− Se non ti sbrighi mangio anche le tue porzioni. – lo minacciò, ma l’inglese era perso nel suo mondo. – Ohi, mi senti? Sul serio, adesso che hai?
− Niente. Cioè...
Arthur fece uno sforzo. Doveva liberarsi almeno di una parte del peso che sentiva dentro.
− Secondo te, cos’è successo ieri a Toris? Ho passato la serata cercando di sapere qualcosa ma niente, non si cava un ragno dal buco. Ho paura per lui, sai Braginski...
Alfred lo guardò stupito, ingoiando l’ultimo boccone prima di parlare.
− Come, non si è confidato con te?
− No, niente. Muto come le tue stupidissime sarde.
− Allora vuol dire che non c’è niente di cui preoccuparsi, no?
Arthur batté i pugni sul tavolo, facendolo sobbalzare. – Lo hai visto anche tu in che condizioni è arrivato al locale! Come puoi dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi?
Alfred si pulì la bocca con il tovagliolo di carta. Assunse un’aria seria così poco usuale che dava spavento: − Senti, Art. Lo so che tieni a quel ragazzo, lo hai preso sotto la tua ala protettiva e posso capirti, perché è questo il compito dei buoni. Noi due siamo buoni. Solo che mi spieghi come facciamo a combattere il cattivo, se non sappiamo chi è?
− Ma noi lo sappiamo! Ѐ Ivan...
Alfred scosse la testa. Alzò il dito indice e lo puntò verso Arthur. – Tu sei sicuro che il cattivo sia Ivan. E se non fosse così? Se incolpassimo un innocente? E di cosa, poi? Lo sappiamo entrambi che Ivan non è il massimo della sanità mentale, anzi, se lo vedessi in una camera imbottita con una di quelle “camicie abbracciose”, starei molto più tranquillo. Però in questo caso non c’è alcuna sicurezza e quindi non possiamo fare niente.
Arthur era sul punto di rispondere, quando cambiò idea: Alfred aveva ragione. Non aveva prove che Ivan avesse fatto del male a Toris. D’altro canto, Ivan aveva prove del suo passato, informazioni importanti che lo macchiavano come inchiostro, e se fossero uscite alla luce allora sarebbe diventato lui il cattivo della situazione! E non solo per la questione di Francis.
Come se richiamato dal suo pensiero, notò una figura maschile alta e snella in fondo al mucchio di panchine e tavoli che si stava dirigendo verso il baracchino. Aveva un passo sicuro ed elegante. Da quella distanza non riusciva a distinguerne bene i tratti, ma era sicuro si trattasse di un uomo attraente perché più di una ragazza presente si voltò a guardarlo e lui stesso s’intratteneva e flirtava con loro durante il percorso, nessuna fretta.
Arthur tornò al suo piatto di gnocchi, mugugnando tra sé e sé che ormai aveva perso l’appetito. Ne mise in bocca un paio: erano deliziosi, fatti in casa con vere patate e non quelli industriali comprati al supermercato, ma non riusciva ad assaporarli appieno, la bocca guastata dal sapore amaro della bile.
Quando rialzò lo sguardo l’uomo era più vicino e notò di sfuggita che effettivamente aveva un bell’aspetto: i capelli biondi e mossi gli danzavano nell’aria, come fili d’oro. Avrebbe dovuto tagliarli, pensò di sfuggita, se non voleva che lo prendessero per effeminato. Con la coda nell’occhio lo guardò per un attimo e notò che, anche volendo, non lo si sarebbe potuto scambiare per una donna: oltre a un’aura indiscutibilmente virile, aveva una leggera barba che gli ricopriva il mento.
− Tsk, il solito belloccio – mormorò tra sé.
− Uh? Hai detto qualcosa?
− Là vicino al baracchino, c’è un tizio che ha fatto strage di cuori soltanto con un paio di occhiolini. Che boriosa esposizione di sé. – rispose Arthur, tornato a mangiare ciò che gli rimaneva, lo sguardo basso sulle pareti del piatto bianco sporche di salsa. Sembrava che fosse avvenuto un omicidio in miniatura, lì dentro. Le ripulì con uno dei gnocchi rimasti.
− Ahahahaha, hai ragione, lo vedo, adesso sta chiacchierando con delle cameriere, ahah...
La risata morì di colpo. Arthur rialzò gli occhi: Alfred era come congelato, lo sguardo fisso sull’uomo appena arrivato. Doveva aver notato che l’amico lo stesse osservando stranito, perché si voltò di colpo.
− Non. Guardare. Quel tizio. Mi hai capito? – bisbigliò, gli occhi ingigantiti dietro le lenti. Tremava e se proprio c’è una cosa che stimola la mente umana, questa è la reazione degli altri a fenomeni estranei: Alfred aveva visto qualcosa di davvero eccezionale e Arthur era intenzionato a sapere cosa fosse, nonostante l’altro insistesse nel non volerglielo permettere. Si girò immediatamente verso il baracchino, fissando più accuratamente l’uomo misterioso.
E capì perché Alfred avesse fatto quella faccia.
Il cuore saltò un battito, quindi si mise a battere più velocemente, il respiro accelerò e il suo petto diventò come un mantice che si alzava e scendeva ritmicamente. Le labbra gli si erano ridotte a linee che lasciavano passare appena il fiato, sibilando come se l’aria non facesse neppure in tempo ad arrivare ai polmoni che bisognasse richiederne altra. Il volto aveva perso il suo colore, tranne due grosse chiazze rosse sulle guance.
Alfred ci mise una frazione di secondo per analizzare la situazione.
− Arthur – disse – se tu ora ti alzi, se soltanto ci provi, sappi che ti spezzo le gambe come due grissini. Quindi sta’ buono e non fare scherzi.
Alfreeeeed – mormorò Arthur, un filo di voce roca venuta dall’oltretomba – Quello è Franciiiiis.
− Sì, è lui. – gli pose la mano, forte e decisa, sul polso – Ma non ci ha visti. Ѐ lì per i cavoli suoi, noi non lo disturberemo, chiaro? Continuiamo a mangiare come se niente fosse.
Ma Arthur era ancora lì, imbambolato a fissare l’uomo che gli aveva pressoché stravolto la vita. Sentì ogni energia scivolare fuori dal suo corpo, come risucchiata, lasciando al suo posto non qualcosa di vivo ma una carcassa. Francis era lì. Non se lo era aspettato, non così presto dal suo ritorno a Londra, perlomeno. Avrebbe dovuto? Cosa doveva fare?
− Al, aiutami. – bisbigliò con le ultime forze.
Alfred non se lo fece ripetere: era o no un eroe? E gli eroi salvano le persone... anche con metodi inusuali. Si allungò oltre il tavolo, avvicinandosi al volto di Arthur: questo era ancora rivolto alla sua destra. Lo riportò con delicatezza alla posizione frontale, in modo che quegli occhi spenti incontrassero i suoi e un minuscolo luccichio li illuminasse. Aveva un che di toccante, che scioglieva il cuore. Alfred l’osservò per un secondo, lasciandosi sfuggire una espressione intenerita nel sentirlo così vulnerabile. Per un attimo era libero della sua scorza coriacea di uomo adulto, delicato come un bambino sotto le sue dita. Era abbastanza vicino da notare quanto lunghe fossero le sue ciglia, di un verde straordinario le sue iridi. Prese un piccolo respiro per farsi coraggio, mentre le guance si coloravano di rosa per l’emozione. Era più o meno da quando l’aveva visto per la prima volta che desiderava farlo.
Gli mollò uno schiaffo in pieno volto.
Ora, mettiamo in chiaro alcune cose: il corpo umano ci mette meno di un secondo per tradurre i messaggi non verbali e per recepire il dolore. Questo processo è caratterizzato dalla funzione dell’amigdala, il piccolo organo la cui funzione originale è preservare l’organismo dal pericolo. Quando percepiamo uno stimolo con i sensi, tale stimolo per prima cosa passa attraverso il talamo, una sorta di smistamento dei messaggi; lì, a seconda del tipo di segnale sensoriale, il messaggio viene dirottato alla regione competente. Ma per prima cosa il talamo sottopone il messaggio all’amigdala, attraverso un  circuito monosinaptico, una specie di filo diretto. Se l’amigdala, nel suo processo sommario, trova che lo stimolo abbia “qualcosa a che fare” con un evento o un oggetto minaccioso, scatena immediatamente una reazione che coinvolge altre strutture cerebrali e ghiandolari, oltre muscoli, cuore, intestino e così via. In un secondo momento, attraverso un circuito polisinaptico, il talamo rinvia lo stesso messaggio alla corteccia prefrontale e, se quest’ultima giudica che la reazione sia adeguata, dà il permesso di rispondere.
E dopo questo excursus così forbito di neuroscienze non ci si riesce a spiegare, però, perché Arthur ci mise cinque secondi abbondanti a fissare Alfred, con la guancia sinistra in fiamme e senza reagire, prima di esplodere in un urlo: − MA SEI SCEMO?!
Alfred, tanto per cambiare, si mise a ridere.
− Andiamo! – esclamò – Ho, come dire, usato “tatto”.
− Te lo do io il tatto! – gridò l’altro, tentando di pugnalarlo con la forchetta di plastica. Alfred si difese parandosi il volto con le mani, senza smettere di ridere.
− Almeno sei tornato quello di prima, fai paura quando ti prendono queste... trance.
− I-idiota. – mormorò Arthur – Non farlo più. Ero solo sorpreso di rivedere lui.
Alfred allungò la forchetta e gli rubò uno gnocco. – Mmmh. Lascialo perdere.
− Pensi forse che sarei andato da lui e gli avrei fatto una scenata, così dal nulla?
− Esatto.
− Ti sbagli – Arthur lanciò di nuovo un’occhiata di sfuggita al baracchino, dove Francis si era fermato a parlare con qualcuno al suo interno, forse uno dei fratelli Vargas, − Non avrei mai osato. A dire il vero, non ho nessuna voglia di avere nuovamente un confronto diretto con lui, non in questo momento almeno. La sua repentina apparizione mi ha lasciato basito.
− Mmmmmmmmmmmhhhhhh. – Alfred rispose con la bocca piena, quindi non si riuscì bene a capire cosa avesse detto, ma sembrava d’accordo. Aveva rubato gli ultimi gnocchi rimasti nel piatto, lasciando il piatto coperto di pomodoro; Arthur lo allontanò, sbuffando sul fatto che fosse un mangione.
− Ohi, non avrai mica intenzione di buttar via tutto quel sughetto rimasto? – domandò Alfred. – Ѐ un insulto per gli italiani, sai? Conosci il detto “o mangi la minestra o salti dalla finestra”?
− Primo, dubito che il detto si possa attribuire a queste situazioni. Secondo, cosa dovrei farci? Ho finito gli gnocchi.
Alfred prese una delle due pagnotte, ne staccò un pezzo e con quello ripulì il piatto. Poi se lo mangiò, sotto lo sguardo contrariato del gentleman.
− Che diavolo fai? – bisbigliò Arthur.
− In Italia la chiamano “fare scarpetta”, è un usanza comune a quanto ne so.
− D’accordo, ma primo, ti ricordo che qui non siamo in Italia; secondo, non dovrebbe essere un po’ più raffinata la cucina? Geez, per fortuna che hanno anche un ristorante!
Alfred fece girare lo sguardo sugli altri commensali, che erano tutto meno che raffinati: uomini, donne, gente del posto e stranieri che erano venuti lì per mangiare genuina cucina italiana, non per prendere il tè con la regina, obiettò.
Arthur digrignò i denti, senza farsi notare. “Davvero io sarei meno bravo di gentaglia che non sa neanche le basi del decoro?”, pensò. Alta cucina, aveva detto Alfred, e ora si trovavano a mangiare in piatti di plastica, su tovaglie cerate e fogli di carta a fare da ulteriore copertura, seduti su panchine in plastica senza schienale. E tutto questo era apprezzato maggiormente dei suoi sforzi di creare un ambiente di classe, fatica inutile dal momento che era andato tutto perduto, ma tanto non sarebbe interessato a nessuno.
Di nuovo quella sensazione, la voglia di distruggere tutto. Doveva calmarsi. Senza rendersene neppure conto, elaborò un piano.
− Pfff. – soffiò, derisorio – Ho capito. Senti, mangiati pure tu il resto del pranzo.
− Non hai più fame? – chiese Alfred, afferrando il piatto di merluzzo mantecato con una velocità sorprendente, prima che l’altro cambiasse idea. Ma ad Arthur non interessava più mangiare: sul suo volto era apparso un sorriso terribile, folle.
− Non è questo il punto. Ѐ che sono sicuro di poter fare di meglio di questi Vargas, e voglio dimostrarlo. E lo farò ora.
 

* * *

 
− Allora, come va il mio piccolo Feli? – domandò l’uomo, spalmandosi sul bancone che collegava al cucinino. Il cuoco all’interno, indaffaratissimo tra una decina di piatti diversi, rispose allegro: − Alla grandissima! Mi trovo bene qua, si lavora a pieno ritmo come vedi e in più vengono spesso un sacco di ragazze carine! Ma questo è l’ultimo giorno. Ho intenzione di fare una pausa e tornare in Italia per un po’, quindi non potrò più starci dietro. Sarà un periodo di ferie per me e Lovi, che bello!
− Oh, très bien! Sono contento per te! Avevo appunto sentito che questo baracchino ha le ore contate, quindi volevo venirti a trovare prima che lo chiudessi. Certo non credevo saresti davvero riuscito a metterti in proprio, in così poco tempo poi...
− Ѐ stato anche grazie a te se ci siamo decisi a farlo, ti ringrazio vivamente per questo.
Francis agitò la mano davanti al viso, modesto: − Figurati, è un piacere aiutare gli amici. E tuo fratello? Si trova nella postazione principale, immagino –, sbirciò all’interno della cucina: nessuna traccia del maggiore. Chissà perché non ne era sorpreso?
− Lovino non vuole mai venire a lavorare quaggiù, dice che stare così a contatto diretto con gli inglesi gli dà fastidio.
L’uomo inarcò un sopracciglio. – Conoscendolo avrà usato dei termini un po’ più triviali, giusto?
− Esatto, Francis. Che ci vuoi fare... piuttosto, hai assaggiato i miei piatti? Che te ne pare? Sono buoni?
Francis annuì, lanciando uno sguardo intorno a sé. − Certo che sì. Non preoccuparti per quello, pensa piuttosto a questa location. Ѐ un pugno in faccia al buon gusto! Non c’è la minima classe, il minimo charme neppure nei piatti così sempliciotti... – si portò il dorso della mano, fingendo di svenire, − Oh sacré bleu, il mio povero senso estetico! Poi, quando ho visto la tua foto sul volantino, così acconciato da gondoliere! Credevo di morire!
Feliciano scoppiò a ridere: − Dai, Francis! Parli proprio tu, che di travestimenti assurdi sei esperto? Almeno io nella foto sono vestito.
Francis finse di offendersi: − Pffft, sei troppo giovane per conoscere i costumi dell’amore, Feli, ma un giorno capirai e ti ricorderai di me come un tuo valido maestro. La nudità è bellezza, arte, poesia!
− Spero solo che per allora non mi abbiano già arrestato per atti osceni in luogo pubblico.
− Questa gentaglia non capisce nulla dell’arte della seduzione, è per questo che mi hanno chiamato in caserma!
Feliciano rise ancora, una risata cristallina. Francis sorrise, deliziato: quel ragazzo era così carino, persino adesso che gli dava le spalle lo trovava adorabile! Così giovane e ingenuo, fresco come una rosa in procinto di sbocciare... non poteva negare di averci fatto un pensierino.
Si ravvivò la massa dorata che gli cadeva sulle spalle, tornando parzialmente serio.
− Però, tornando al tuo lavoro dietro ai fornelli, devo dire che hai talento. Non mi stupisce che anche a quest’ora tu sia pieno di gente, pur lavorando al mercato. Spero vivamente che il ristorante sia più raffinato, sì? Perché davvero, anche il menù è turistico, quaggiù, non solo per i prezzi, ma per la varietà. So che puoi fare di meglio.
 Feliciano, nonostante tutto, apprezzò quel giudizio: − Grazie mille, conoscendoti lo prendo come un complimento! Lovino sarà così contento! Tu invece? Trovato qualcuno di valido?
Francis si accarezzò la barba. – Qua i ristoranti saltano fuori come conigli, diventa difficile starci dietro. Sì, non mancano le stelle in questo firmamento, ma in un certo senso è anche rischioso delle volte, sai, se i ristoratori non gradiscono la presenza di qualcuno che giudichi il loro operato...
Feliciano interruppe per mezzo secondo la mescolatura della zuppa di pesce e verdure dentro la pentola. Fu un solo istante, quindi Francis non se ne accorse.
− Ma tu sei una voce tra tante, Fratellone Francis. Perché dovrebbero offendersi per te e non per un qualsiasi altro cliente che esprime il suo parere?
L’uomo biondo si staccò dal bancone, visibilmente scandalizzato. – Ohi, Feli! – esclamò – Io non sono il primo tizio venuto direttamente dalla strada che non sa la differenza tra un brodo e un consommé! Se do un giudizio, seppure negativo, è perché so quello che faccio!
Feliciano si voltò, la faccia preoccupata, stanca e sudata per il vapore, il sorriso tremante. Era da ore in piedi, non aveva le forze per discutere e neppure la voglia. – D’accordo, n-non ti arrabbiare. Non volevo mettere in dubbio la tua... ehm, alta cultura culinaria. In caso di bisogno, però, puoi adottare il mio metodo infallibile per non entrare in contrasto con gli altri!
− Oh? E sarebbe?
Feliciano prese da un angolo della credenza uno stecchino lungo una trentina di centimetri, a cui era stato legato con lo scotch la metà di un tovagliolo di carta. Lo sventolò soddisfatto.
− Ta-daaah! Bandiera bianca pronta all’uso, così se qualcuno la vede sa già che non voglio rogne! Fantastico, no? – e lo rimise a posto – Ne ho fatti una ventina uguali a questi, te ne regalo volentieri uno! −.
Francis ridacchiò, spostandosi una ciocca dorata da davanti agli occhi.
− Sei sempre il solito, Feli, non ti piace combattere. Forse è meglio così... l’amore, di cui la mia patria è la fiera testimone, è una risposta più che valida all’odio e cos’è la pace se non il frutto dell’amore? A volte però, arrendersi subito è segno di codardia. – il suo tono si fece più amaro – Non trovi? Cosa fai se un cliente si lamenta? Non gli rispondi per le rime? Preferisci sempre cento giorni da pecora piuttosto che un giorno da leone?
− Cento giorni? Ahaha! Cento anni! – Feliciano servì la zuppa in un piatto fondo con un mestolo, stando attento a mettere sia pezzi di pesce che verdura nella dose adatta. – Prima di tutto, nessuno è mai venuto a lamentarsi, sono sempre tutti entusiasti di ciò che cucino, ma penso che in ogni caso ingoierei il rospo. Le sfide comportano conseguenze che non posso permettermi. E poi Lovino mi ha detto di tenermi alla larga dei guai.
− Oooh, fa la parte del fratello protettivo, adesso?
Feliciano si posò sul piano di lavoro, tenendo la schiena china come dopo una corsa sfiancante. – Più che altro non si fida di me. Essere il più piccolo è una gran scocciatura – mormorò a denti stretti. Francis sorrise, appoggiandosi il mento su una mano.
− Ti vuole bene, lo sai. Non vuole che ti faccia del male.
− Sono sicuro che sia così. Oh, Louise! Aspetta, porta questo al tavolo quattro, quello con la signora anziana. Hai capito quale? Brava tosa, vai.
Una giovane cameriera lì vicino annuì e portò via la zuppa, mentre Francis si scansava per lasciarle lo spazio per passare comodamente. Feliciano allargò la bocca in un sorriso soddisfatto. – Sono contento, davvero. Ѐ da un anno e mezzo che lavoro... lavoriamo autonomamente. Certo è stancante, ma ci sono anche i lati positivi.
− Come avere al proprio servizio delle cameriere carine che ti guardano come se fossi un esemplare esotico mentre dai loro una scodella di bouillabaisse, spacciandola per veneziana?
Feliciano ridacchiò, arrossendo sia per il leggero imbarazzo, sia per l’insinuazione di aver copiato un piatto francese. – Non è bouillabaisse, è una ricetta che ho fatto io. E non è colpa mia se piaccio alle ragazze, sarà per il mio indiscutibile fascino italiano, chissà?
− Ehi, rubacuori, c’è qualcuno che sta venendo qui e credo sia interessato a te, ma dubito sia per il tuo fascino, dato che è incredibilmente giovane e soprattutto maschio.
Francis indicò il ragazzino biondo che stava correndo verso di loro. Peter era incredibilmente agitato, come se non stesse nella pelle di annunciare qualcosa. Feliciano sentì un minuscolo brivido attraversargli la spina dorsale, ma non ci fece caso.
Continuò a lavorare sui suoi piatti, gli ultimi rimasti, dopodiché avrebbe potuto pulire tutto, smontare il baracchino e dire addio a quel piccolo subalterno del ristorante. Erano ormai le tre, l’ora della siesta. Avrebbe dormito, poi avrebbe fatto una partita di calcio con Peter e Lovino, se il fratello fosse stato d’accordo. Avrebbe finito le valigie e il giorno dopo sarebbe partito per l’Italia, diretto a Venezia. Prima, però, doveva sentire cos’aveva da dire il ragazzino.
− Felic... Signor Vargas! Messaggio importantissimo super mega urgente! – strillò Peter. Sembrava avesse le formiche nei pantaloni, tanto si muoveva. Si accorse a malapena della terza persona presente. – Un tizio là, no, due tizi, ma soprattutto uno, hanno detto cose orribili su quello che hai cucinato per loro! Li ho sentiti perché parlavano a voce alta, anche gli altri li avranno sentiti! Ho provato a zittirli, niente! Vogliono assolutamente parlare con te.
Feliciano interruppe immediatamente le sue attività, i suoi pensieri riguardo la siesta, tutto. Fissò Peter, quindi Francis, di nuovo Peter. – Come hai detto? – domandò, togliendosi i guanti e asciugandosi le mani sudate in uno strofinaccio. Francis ghignò: − Ti avevo avvisato che ci sarebbe stato qualcuno che si lamenta, prima o poi. C’è sempre.
− Shhh, Francis. Dimmi, chi sarebbero questi due? E cos’hanno detto, di preciso?
Peter alzò le spalle. – Sono due nuovi, mai visti prima. Non sono italiani, se è questo che t’interessa.
Ve, strano, di solito sono loro che rompono per ogni cosa, ma qua vengono solo turisti.
− Uno è inglese, dall’accento, l’altro non saprei. Hanno detto che potrebbero cucinare cento volte meglio simili schifezze, cito testualmente, e che avrebbero dovuto andare al McDonald qui all’angolo, almeno avrebbero mangiato di più. E queste sono le cose meno offensive! Ti prego, fai qualcosa!
Feli aveva affermato che avrebbe ingoiato il rospo nel caso, che battersi in scontri non era consigliato nel manuale del buon cittadino, tante belle promesse che ora riemergevano mentre sentiva lo stomaco contrarsi per il disagio. Avrebbe dovuto ignorare quei due strani tipi? Sarebbe stata la scelta migliore, ma a quanto pareva le loro parole potevano essere sentite anche dagli altri. Se solo Lovino fosse stato lì! Sarebbe andato da loro e li avrebbe cacciati a calci nel sedere, condendo il tutto con un meraviglioso mix di parolacce. Feliciano non ne era capace. Una decisione doveva essere presa alla svelta, altrimenti la situazione sarebbe precipitata... oh, ma perché doveva accadere tutto adesso, pochi minuti prima della fine del turno? Che palle!
Francis lo osservava intrigato, domandandosi quale sarebbe stata la prossima mossa del giovane.
− Al diavolo. – Feliciano spense gli ultimi fornelli. – Qua la roba è pronta, ci penserà Louise o Cassie o una di loro a distribuirla al posto mio, per dieci minuti si può anche fare, tanto le ordinazioni sono terminate. Non ridere, Francis! Voglio solo sapere come adeguare il mio servizio anche ai clienti più reticenti, non fare a botte. Faremo quattro chiacchiere.
Si armò del suo sorriso più convincente e seguì Peter.
 
* * *
 
Se Alfred fosse stata una persona matura avrebbe fermato Arthur, ma non lo era e quindi il più vecchio attuò senza resistenze quello che sembrava un piano “geniale”.
− Cavoli, questa roba sarebbe commestibile? Scherziamo? – disse ad alta voce, in modo che lo sentissero in più persone. – Sembra di mangiare chewing-gum! E questa pasta? Ѐ talmente dura che potrei slogarmi la mascella! Il pesce, poi! Che poltiglia insapore!
Alfred lo fissò come se fosse impazzito, per poi bisbigliare, notando che in parecchi si erano voltati verso di loro: – Dico, che ti prende? Non ne so granché ma non mi sembra tanto male. Sì, la pasta forse potevano cucinarla un po’ di più, però insomma...
Arthur gli rifilò un calcio. – Zitto idiota, e reggimi il gioco. – sibilò. Poi ricominciò.
− Oh, spero di non svegliarmi con il mal di pancia domani! Siamo sicuri sia roba fresca? Mah! –. Il suo tono era drammatico ma realistico, e più persone cominciarono a guardare sospettosamente i loro piatti, come se d’improvviso dovessero uscirne fuori scarafaggi. Centro!, pensò Arthur. In lontananza avvistò il moccioso di prima, che li stava occhieggiando minaccioso. Un piccolo sforzo, dai.
− Ha davvero senso spendere venti sterline a testa per così poco? A questo punto preferisco mangiarmi un hamburger, almeno sono pieno a poco prezzo! −. Adesso anche Alfred si era unito alla lagna fasulla. Arthur lo guardò riconoscente, sussurrando – Grazie, amico.
− Di niente, sono o no l’eroe? E gli eroi aiutano. – sussurrò in risposta l’altro, prima di esplodere a volume altissimo – Se l’Italia è la Patria del buon cibo? Ahahaha! Forse, ma il vino deve aver dato alla testa al cuoco, perché non è possibile considerare questo buon cibo!
Continuarono così per qualche minuto, inventandosi di sana pianta le lamentele più irritanti pur di attirare l’attenzione delle persone attorno; Alfred ci aveva preso gusto e ne tirava fuori di diverse, sbalordendo l’amico per la sua particolare capacità. Non ci volle molto che l’obiettivo fosse raggiunto.
− Ok, ok, adesso calmati. Hai fatto un buon lavoro – bisbigliò Arthur, sbirciando alle sue spalle le mosse del “nemico”. Il piccolo Peter era a pochi passi diretto da loro, arrabbiatissimo. – Avete qualche problema? – domandò, i pugnetti chiusi sui fianchi e gli occhi azzurri che mandavano lampi.
− Perché lo domandi? – fece Arthur, facendo finta di nulla. Peter batté i piedi stizzito.
− Perché continuate a urlare cose inammissibili! Come vi permettete? –, era diventato paonazzo, − Nessuno si è mai lamentato, cosa avete al posto della lingua, una lastra di marmo?
Alfred dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Arthur mantenne il sangue freddo.
− Prima di tutto, quello che non si deve permettere sei tu. Non lavori neanche qua, quindi non potrebbero licenziarti, ma in ogni caso resta al tuo posto, ragazzino. –
Peter ammutolì tremante di rabbia, folgorandolo con la peggiore occhiataccia che gli fosse possibile, ma restò zitto. Arthur sospirò, socchiudendo le palpebre e guardandolo di traforo.
− Secondo, vogliamo parlare con il proprietario della baracca. Il cuoco, insomma. Ci faresti la grazia di condurci al suo cospetto?
Peter restò li a guardarli per qualche attimo, mordendosi l’interno delle guance. Aveva paura della reazione di Feliciano, se avesse scoperto che non era neppure riuscito a tener testa a due idioti simili. Poi si decise.
− Vado a parlargli, vedremo cosa vuole fare. Voi non vi muovete. – disse e si girò per tornare quasi di corsa al baracchino.
− Complimenti, genio del male. Era questo il tuo progetto? Fare incazzare l’italiano? Penso che tu ci sia riuscito. – fece Alfred quando il ragazzino fu abbastanza lontano. Arthur scosse la testa, ghignando subdolamente.
− No, tonto, questa non è che la prima parte del piano. Ora viene il bello e, ah! Non serve più il tuo aiuto, non necessariamente. D’ora in poi posso arrangiarmi da solo.
− Che hai intenzione di fare? – domandò Alfred, ma l’altro non poté rispondergli perché stava ritornando Peter, con Feliciano a seguito. Con sua sorpresa, era lo stesso tizio nella foto, anche se privo di baffoni e divisa da gondoliere: solo un grembiule sporco di farina e salsa e grumi di impasto sopra degli ordinari maglietta e jeans. Ne fu un po’ deluso.
Il sorriso del giovane non era esagerato come nell’immagine, anche se era comunque presente, e gli occhi erano pressoché chiusi in confronto. Mentre camminava salutava i vari commensali, prendendosi il suo tempo. Arrivò al tavolo dei due dopo Peter, che tremava di rabbia repressa. – Sono loro – sibilò. Finalmente avrebbero avuto ciò che si meritavano!
Buongiorno signori – disse in italiano il ragazzo, il sorriso che non lasciò le sue labbra neanche a pagare – Il mio nome è Feliciano Vargas, sono il cuoco e proprietario di questo umile stand. Ho sentito che il pranzo non è stato di vostro gradimento. Ora, per evitare futuri incidenti di questo genere, potrei sapere esattamente cos’è che non andava?
Alfred lasciò la parola ad Arthur, che la prese immediatamente. Si portò un dito alle labbra, portando gli occhi verso il soffitto: − Cosa non andava? Uhm. Varie cose, diciamo... tutto. Il mio stomaco si rifiutava di ingerire simili intrugli.
Feliciano gettò un’occhiata significativa ai vari piatti ripuliti per benino presenti sul tavolo.
− Lascia perdere quelli, ha mangiato tutto lui. Ѐ un bidone della spazzatura vivente. – Arthur indicò Alfred, che tentò di difendersi con un – Ehi, non è vero!
− Almeno c’è qualcuno qui che ama la buona cucina. – disse Feliciano con un sorriso più ampio. Alfred scosse il capo. – A dire il vero, era troppo... semplice. A me piacciono i sapori forti – dichiarò – Tipo, a questa cosa qua, come si chiamava... ah, il “baccalà”, avrei aggiunto un po’ di “parmesan”! Sarebbe stato mooolto più buono!
Feliciano impallidì, per poco non svenne, mormorò un flebile “Il pesce con il formajo, nooo!” ma si riprese quasi subito, replicando pazientemente: − Questi sono perlopiù piatti tipici veneziani e del Nord Italia in genere. Permettetemi di dire che le vostre lamentele sono infondate... per non dire che sono enormi cazzate.
Arthur arricciò il naso, nascondendo la soddisfazione di come la conversazione stesse proseguendo. Ancora uno sforzo, dai. Diede la stoccata finale: – In ogni caso, piatti tipici o meno, io sono uno chef di professione, e sono sicuro che cucinerei uno qualunque di questi piatti molto meglio di qualsiasi... – guardò Feliciano dritto negli occhi −  ... ciarlatano da marciapiede.
Feliciano non rispose subito all’insulto. Ingoiò un bolo di saliva, si torturò le mani sfregandosele con forza, sempre zitto e con il respiro divenuto affannoso. Non si riusciva a capire se fosse arrabbiato, sul punto di piangere o cos’altro, sicuro era che il suo volto non appariva più così affabile.
−  Non credo proprio, sa signore? – disse dopo una pausa, la voce stridente. Non era mai stato insultato in questo modo e faceva male, male davvero.
− Mr Vargas, che ne dice di una sfida? – riprese Arthur, ignorando deliberatamente lo sguardo sempre più terrorizzato di Alfred, che ormai aveva mangiato la foglia e prevedeva un disastro totale. – Può decidere lei chi farà da giudice, ma ho notato la presenza di un noto estimatore del buon cibo proprio qui, se non sbaglio stava parlando con lei poco fa. −
Ok, Alfred non l’avrebbe dovuto bloccare, prima, se magari l’avesse lasciato andare ora non starebbe proponendo uno scontro ai fornelli con un italiano migliore a prescindere di lui.
− Vuole sfidarmi? Qui? Ora? – domandò stupefatto Feliciano.
− Esatto.
“Ti prego, fa che dica che è una cazzata, che non si può fare, che le norme igieniche lo sconsigliano, qualsiasi cosa ma NON FAR CUCINARE ARTHUR”.
− Per me va bene. Avviso subito Francis... il signor Bonnefoy. Peter, potresti dirgli che ho bisogno di lui? Spiegagli la situazione.
“Merda”.
I due concorrenti si allontanarono verso il baracchino, Peter che li precedette con il suo passo svelto. Alfred si prese la testa tra le mani, mormorando varie bestemmie all’indirizzo del suo socio, maledicendo il momento in cui aveva deciso di aiutarlo. Lo aspettava la figuraccia del secolo, poco ma sicuro.
 
Al baracchino Francis non c’era, comunque; Peter scattò subito nella ricerca, ansioso di mostrarsi utile e soprattutto volendo allontanarsi da quell’essere odioso con cui aveva litigato prima.
– Sarà andato a sedersi? – si chiese Feliciano. Forse si sarebbe potuto risparmiare la seccatura di quella stupida sfida, se lui non ci fosse stato. Però la briciola di orgoglio che nascondeva nel profondo non gli permise di lasciare andare la questione così facilmente, facendogli scegliere un’alternativa inusuale alla sua attitudine: – Non importa, mi segua dentro – e invitò Arthur all’interno della postazione. L’uomo lasciò andare un respiro che non ricordava di aver trattenuto, pieno di sollievo. Era vergognosamente felice di non dover guardare di nuovo negli occhi Francis, tutto il coraggio avventato che lo aveva colto era sfumato nelle sue vene come un’ubriacatura. Quando ispirò nuovamente, riconobbe nell’aria un profumo che non era di cibo: una fragranza maschile, famigliare, la stessa che emanava da anni lui... aveva lasciato la sua impronta, nonostante fosse assente. Il cuore di Arthur si strinse, facendogli domandare il perché fosse lì, il motivo di tutta quella messinscena. E tutto a causa di uno stupido errore, della sua rabbia e di un patto che ora doveva rispettare ma della cui importanza ancora non si rendeva conto. Dov’era il tasto reset nella vita reale?
Feliciano porse un grembiule all’altro, il sorriso ricomparso sul suo viso come se non fosse mai svanito. − Non mi ha ancora detto il suo nome! Ѐ uno chef anche lei, però. Dove lavora? Immagino in un ristorante, magari uno di quelli di nicchia, piacciono tanto anche a Francis! –. Era velocissimo a dimenticare i rancori, a quanto pare. L’insulto di pochi secondi fa già era scomparso dai suoi ricordi.
− Kirkland, mi chiami così. Lavoro in Fleet Street, non lontano da qui e, no, purtroppo non lavoro in un ristorante... diciamo che è un locale, “The Eagle”. Ma è solo questione di tempo, prima che torni a lavorare in un posto serio.
− Fleet Street? Oh, conosco, sì sì. − Feliciano annuì vigorosamente, mentre l’altro controllava l’attrezzatura disponibile. – Che bel nome per un locale, però! L’ha scelto lei?
− NO. Parliamo d’altro, per favore, le dispiace?
Feliciano si voltò verso l’uomo, confuso per il suo tono irritato. Aveva detto qualcosa che non andava? Doveva tirare fuori le bandierine bianche? No, non ce n’era bisogno. Notò, però, qualcosa che lo fece sorridere sul viso dell’altro.
– Ok! Mi dica... – indicò con un ghigno la guancia di Arthur, sulla quale spiccava ancora lo stampo rosso di una mano. – Quella è frutto di un qualche “piccolo incidente”? Non si preoccupi, sono italiano, cose simili sono normali dalle mie parti, sa?
Arthur si toccò istintivamente il volto, avvampando per l’imbarazzo: − N-no. – rispose, girandosi dall’altra parte – Cioè, diciamo che è stato un malinteso. Credeva stessi male e per farmi rinsavire mi ha mollato una sberla in piena faccia. L’avesse fatto in modo normale, almeno! No, prima mi guarda negli occhi, sorride, e poi mi colpisce!
− Aaah, queste ragazze! Sembrano fiorellini, ma sono piuttosto manesche, uh?
− Veramente è stato un uomo.
Feliciano sgranò gli occhi. – Eh?
− Ma sì, il signore con cui stavo mangiando poco fa...
Gli occhi del ragazzo si allargarono ancora di più: − Ah. Caaapisco.
Arthur annuì, borbottando “Stupido idiota di un Alfred”, quando intuì l’equivoco in cui era incappato.
− U-un attimo! Non è come sembra... cioè, Alfred è il mio socio... siamo venuti qui per una specie di, ehm, pranzo di lavoro.
Feliciano annuì, soffocando un risolino. – Non si preoccupi. Sono soltanto sorpreso che una persona come lei abbia un amico simile.
− A-amico...? In che senso, scusi?!
Feliciano agitò una mano davanti al volto, consapevole del doppio senso in cui era incappato e deciso a spiegarsi: − Vede, anch’io molto spesso mi ritrovo in situazioni critiche e allora ho questo mio amico che mi salva sempre non appena chiedo aiuto. Ѐ tanto gentile! Solo che mi ci sono ritrovato tante volte in momenti come quelli che è diventato quasi prevenuto sul mio comportamento, come se sapesse già che mi trovo in qualche guaio non appena lo chiamo! Ahaha! Ma lei mi pare un signore tanto coscienzioso, non sapevo che persone come lei avessero bisogno di amici del genere.
− Veramente – mormorò Arthur, accendendo il fornello e ponendovi sopra una pentola – Non avevo neppure idea di aver bisogno di un amico fino a pochi giorni fa.
− Signor Kirkland?
− Ah?
− Cos’ha intenzione di cucinare? – Feliciano batté le mani, entusiasta. – Sono curioso di vedere cosa sa fare! E ovviamente avremo anche il giudizio di Francis, no volevo dire il signor Bonnefoy! Mi dispiace non sia qui a vederci, a lei dispiace?
− Un po’. Era per la sua presenza, più che altro, che volevo sfidarla.
− Oh? Allora ha detto tutte quelle brutte cose sul mio cibo solo per questo? Voleva che lo notassi?
Dannazione, l’aveva scoperto. Era così facile da decifrare?
− Ecco... alcune critiche ammetto di averle esagerate...
Feliciano spalancò la bocca per la sorpresa, poi corrucciò le sopracciglia in quello che doveva essere uno sguardo di rimprovero e lo rimbrottò, portandosi la mano destra sul cuore: − Signore, mi ha fatto venire un infarto! Pensavo di aver combinato chissà cosa! Beh, meglio così, basta che non lo ripeta mai più: sa, gli altri clienti sono suscettibili a queste cose, potrebbero condizionarli!
“Tranquillo, io ne so qualcosa di pareri di persone ignoranti influenzati da giudici altrettanto ignoranti” pensò Arthur, stringendo piano la mascella.
− Mi perdoni, sono stato un essere ignobile a esprimermi in una maniera così sgarbata senza motivo apparente. Spero lei mi possa comprendere.
Feliciano alzò un sopracciglio. Il tipo sapeva il fatto suo in merito alle buone maniere, almeno paragonandolo alle poche persone che conosceva personalmente lì a Londra. Decise di lasciar correre per il momento.
− D’accordo, signore... beh, quello che rimane del cibo fresco è lì nel frigo, mi fido e le lascio per un po’ il mio posto. Tanto lei è uno chef, no? Come Gordon Ramsay!
Arthur sogghignò, estraendo gli ingredienti che gli erano necessari da un piccolo frigorifero nell’angolo. – Tranquillo, si fidi di me. Si leccherà i baffi.
Bastò un quarto d’ora.
Le urla disperate di Feliciano, mentre le fiamme venivano spente prima che distruggessero l’intero baracchino, si sentirono sotto il rumore dell’estintore in azione.
− Cosa cazzo ho combinato... – sussurrò Arthur, mentre il getto si estingueva pian piano. Le pareti erano annerite così come il frigo e buona parte dei fornelli. Feliciano osservava il tutto con le mani immerse tra i capelli, mormorando qualcosa in italiano, gli occhi nocciola spalancati diretti sul disastro mancato. I passanti che cercavano di sbirciare e capire cosa fosse successo, anche le cameriere, venivano puntualmente mandati via da quest’ultimo, minimizzando il tutto come un “piccolo incidente” detto a fil di voce.
Mamma mia – esclamò, appena si fu ripreso. – Ci è mancato un pelo! Lovino mi farà la pelle appena lo scoprirà... Oh, signore? Sta bene? Abbiamo rischiato grosso! Per fortuna avevo l’estintore sul retro, altrimenti sarebbe stato un macello!
− Direi di sì... sono terribilmente spiacente.
Arthur arrossì: aveva pressoché incendiato il piccolo stand, dimostrando quanto fosse inetto e il ragazzo si chiedeva come stesse. Era un filo commosso.
− Spero solo che l’assicurazione paghi i danni. Lovino non voleva farla l’assicurazione, diceva che era un ennesimo spreco di denaro, ma io l’ho fatta lo stesso. Oh, se non mi risarciscono loro, vengo a pretendere i danni da lei, sia chiaro.
Commosso un piffero. L’italiano bastardo non era tanto diverso da Alfred.
− Sono sicuro che troveremo un modo per conciliare le due parti – promise Arthur, mentre l’altro lo guardava storto. Feliciano sospirò. Arthur si allontanò di un passo, raddrizzando la schiena e assumendo una posa dignitosa, arrivando togliere il cappello bruciacchiato sui bordi pur di apparire meritevole. Era sicuro di aver cucinato bene, stavolta, e se non fosse stato per il piccolo incendio, avrebbe fatto un figurone anche con Francis. Non sarebbe accaduto come il giorno prima con Alfred, assolutamente. Arthur avvertì una presenza sulla spalla: una fatina stava osservando come lui la situazione; le fece l’occhiolino, consigliandole in un bisbiglio di stare a vedere.
− E va bene. Quello finisce nella spazzatura, però mi dispiace tanto! – decise Feliciano, sconsolato: era sempre curioso di assaggiare sapori nuovi e aveva perso quell’occasione. – Senta signore, questo incidente è stato incredibilmente stupido da parte di un professionista, ma... – i suoi occhi si aprirono luccicanti – Ho capito. Lei aveva difficoltà a cucinare in uno spazio così angusto, giusto?
Arthur rialzò lo sguardo, improvvisamente speranzoso. Il ragazzo aveva ragione: non era lui incapace, era l’ambiente che non gli permetteva di esprimersi!
− Ehm... sì, certo. – Cazzate, lo sapeva anche lui che erano cazzate, ma aveva una dignità da difendere, anche a costo di mentire.
− Peccato, allora. La nostra sfida termina qui, mi dispiace solo che Francis non abbia potuto dire la sua. Ѐ raro che non dica la sua su praticamente tutto, proprio stavolta... eh, peccato.
Arthur sentì il petto riempirsi di calore, nel sentire della possibilità di rincontrare Francis. Non gli interessava più della sua opinione, voleva solo rivederlo in faccia, non era neppure importante se avessero litigato di nuovo. Sentiva in cuor suo che se gli avesse di nuovo rivolto la parola sarebbe stato sufficiente per lenire quell’orribile peso che portava da un anno nel cuore. Impossibile. Occasione persa. − Già –.
Feliciano lo stava scrutando, facendolo sentire un po’ a disagio. Si schiarì la gola.
− Allora, come si fa? Devo intervenire anch’io per l’assicurazione, dal momento che ho fatto io il danno? Spero di non aver causato troppo disagio, insomma, è stato un incidente, lo ha detto anche lei...
Feliciano scosse la testa, sorridente: − Non si preoccupi, mi arrangio io. Adesso, se non le dispiace, potrebbe lasciarmi pulire questo disastro? Sono già passate le tre e io vorrei fare la mia siesta, ma non prima di aver messo a posto –. Rise.
− Faccia pure. E buona fortuna per il suo lavoro di cuoco, è un mondo difficile questo.
− Che il Signore vi sorrida! – lo salutò quando Arthur uscì. – Finché non ci rivedremo. – aggiunse, lasciando andare un sospiro. Guardò nuovamente verso il cucinino annerito dal fumo e per poco non si lasciò scappare un urletto. – Ehi! Signor Kirkland... – ma l’altro se n’era già andato. Feliciano alzò le spalle e tornò ai fornelli, precisamente alla pentola in cui stava cucinando l’altro prima del disastro. Un sorriso estasiato gli si aprì in faccia.
− Non ho idea di cosa stesse cucinando prima quel tizio, ma credo che qualcosa si sia salvato. Almeno spero. – mormorò tra sé.
Avvicinò il volto all’ impasto. Effettivamente il piatto era tre quarti carbonizzato, ma un quarto era perfettamente integro. Un boccone sufficiente per assaggiare come fosse venuto fuori. − Mi sa che Francis non vorrebbe mangiare questa cosa e mi dispiace, sapendo quanto ci teneva quel tizio −. Una lampadina gli si accese in testa. – E se lo assaggio e gli dico la mia opinione? – esclamò il ragazzo – Non sono un critico, anzi, sono una “bocca buona” ma lui è stato quello che ha disapprovato i miei piatti come se fossero mer... ehm, schifezze, voglio proprio assaggiare un piatto da chef. Non è stato neppure intaccato dall’estintore!
Feliciano prese una forchetta, separò il cibo commestibile da quello andato in fumo, domandandosi che diavolo avesse cucinato l’altro: aveva preparato gli ingredienti cercando di nascondere le proprie azioni, neanche avesse paura che gli copiassero la ricetta, ma l’altro era riuscito a sbirciare le sue mosse. Ciononostante, il preparato finale era tutto meno che riconoscibile. “Sarà una qualche ricetta inglese” pensò. E ne mise in bocca un boccone.
L’urlo che seguì fece sembrare la reazione di prima un sussurro nel vento. Feliciano stava addirittura piangendo da quanto quello che aveva in bocca gli faceva schifo.
− Che è sta robaaa?! Ѐ la cosa più disgustosa che abbia mai mangiato, sa d’immondizia, mi viene voglia di morireee! – e giù singhiozzi. S’interruppe solo perché delle ragazze si erano voltate verso di lui, la lagna stava minacciando la sua fama di latin lover.
“Seriamente, che è ‘sta schifezza?” sputò il bolo in un pezzo di carta asciuga tutto. “E sarebbe uno chef, questo qua? In quale universo lo si potrebbe definire tale?”. Il suo volto raggelò per un secondo. Si voltò verso i tavoli, dove l’altro si era diretto. Una strana luce nei suoi occhi: non era l’espressione esageratamente gioiosa della foto nella pubblicità, neppure quella più quieta e gentile di prima, era una luce diversa da qualsiasi altra fosse passata sul volto del giovane da un bel po’ di tempo a questa parte e per questo era indecifrabile. Non c’erano fatine a fare la spia, questa volta, però.
 
Alfred tamburellò nervoso il tavolo. Non era abituato a essere lasciato così, da solo, e trovava la sensazione alquanto scocciante. Bevve l’ultimo sorso della Coca, pregando qualsiasi divinità che il vecchio bastardo non combinasse pasticci. Prima la cosa non aveva funzionato, ma la speranza era l’ultima a morire, no? Arthur aveva un piano. Non si sa cosa girasse per la sua testa bacata, ma cazzo, avere un piano è sinonimo di successo assicurato, giusto? Alfred maledì la sua decisione di non averlo colpito più forte, magari lo avrebbe fatto svenire e quindi portare al pronto soccorso, e invece no. Ora stava cucinando. La cosa lo rendeva a ragione in preda al panico.
Si lasciò andare sulla panchina, rischiando di fare un capitombolo dal momento che si era dimenticato che mancassero gli schienali.
− Dannazione, voglio tornare a casa. Da quando Art si è accorto che c’è anche il francese quaggiù, è diventato più strambo del solito – mugugnò. Guardò la gente attorno a sé, famigliole allegre in maggioranza, e decise che era stufo di rimanere lì da solo come un idiota. Si alzò dal suo posto e andò sul confine dell’area governata dallo stand, sgranchendosi le gambe addormentate. Le lenti dei suoi occhiali riflessero la luce del sole, costringendolo a toglierseli per un attimo.
− Che scocciatura gli occhiali, eh? Certe volte ti rendono più cieco di quanto tu non sia senza. – constatò una voce dietro di lui. Si girò e, anche con la vista annebbiata, riuscì a riconoscere la persona che gli stava rivolgendo la parola. “Ma non era andato a giudicare i piatti dello scorbutico?”
− Mr Bonnefoy! – esclamò, in un tono che cercava di apparire sorpreso – Anche lei qui?
L’altro lo squadrò intrigato, togliendosi un ciuffo ribelle da davanti il viso: − Bonjour. Ci siamo già presentati?
Alfred si sistemò gli occhiali: − Sono Alfred F. Jones, il proprietario dell’Eagle. Sa, quello che ha preso il posto dell’ Arthur’s Kitchen, in Fleet Street.
Il volto di Francis s’illuminò: − Oh, Alfred, già! Ora rammento, il giovane americano dalle grandi speranze! −. Ridacchiò al ricordo della sua visita. − Il tuo locale è riuscito ad affermarsi? Era una specie di fast-food, giusto?
− Beh, non è ancora decollato, ma ci sto lavorando sodo. Ho addirittura assunto un nuovo socio!
Francis alzò un sopracciglio, perplesso: − Davvero? E avete i clienti per riuscire a pagarvi entrambi lo stipendio? Non che dubiti le capacità di un giovane ambizioso come te, sia chiaro.
− Il mio socio è molto, molto motivato e non certo dal denaro. Potremmo dire che... si tratta di una persona speciale.
Francis annuì, muovendo la testa e agitando i capelli biondi davanti al viso. Aveva assunto un’espressione malinconica. – Speciale, ah?
− Esatto. Non si ferma davanti a niente e nessuno.
− Mi ricorda tanto una persona che conoscevo. – Francis sospirò. – Mi piacerebbe conoscerlo, questo socio speciale.
− Il mio fast-food non si è mosso dall’ultima volta in cui sei entrato, è sempre là. – Alfred avrebbe dovuto avere un linguaggio più garbato, probabilmente, ma la sua totale noncuranza a riguardo fece ridere il noto critico.
− Dovrei prenderlo come un invito a mangiare da te? – domandò, un sorriso malizioso gli increspò le labbra. Alfred si sentì a disagio sotto quegli occhi penetranti, ma non durò a lungo.
−  Sono tutti i benvenuti nel mio splendido locale! Basta che non siano inglesi, quelli mi stanno antipatici. Troppo snob.
Francis scoppiò a ridere: − Cher, tu non eri al banco poco fa e non sai cos’è successo!
− Cosa, cosa, dai, sono curioso!
Francis ne approfittò per avvicinarsi al volto di Alfred,  parandosi la bocca con la mano come se si trattasse dell’ultimo gossip: − A quanto pare due clienti si sono messi a sparare sentenze contro quello che stavano mangiando, lagne assolutamente patetiche tra l’altro. Ora, la cucina francese è nettamente superiore a quella italiana, non so se capisci tu che vieni dall’altra parte dell’oceano, ma comunque erano esagerati... insomma, la cosa divertente di tutto ciò è che non si sapeva chi fossero i due, ma era sicuro che uno fosse inglese. Chi è che rompe le scatole? Un inglese. Tipico, no? Deve essere nel loro DNA. Ah ah ah!
Alfred non sapeva se ridere o offendersi per la cosa. Dal momento che mostrarsi infuriato avrebbe significato essere scoperti all’istante, decise di sorvolare.
− E l’altro? Non era della stessa nazionalità? – chiese, facendo finta di non sapere.
− No, a quanto pare, però sai, l’accento varia nelle varie parti dell’Inghilterra. Magari uno era londinese e l’altro di Birmingham.
− Ah, questi inglesi. – sentenziò Alfred, scuotendo la testa – Sempre a criticare. Sapessero almeno di cosa parlano!
− Suvvia, Jones! Non essere così duro con loro. Magari un giorno, chissà? Ti troverai una bella fidanzata quaggiù, una british girl che ti farà cambiare idea.
No way! – Alfred incrociò le braccia. – Mi tocca già lavorare con un ingl... volevo dire, non ho bisogno di una ragazza, ho troppo lavoro da fare! L’amore può aspettare.
Francis sorrise, come se sapesse qualcosa che lui non sapeva.
− Se lo dici tu. Comunque adesso mi hai incuriosito con la storia del nuovo socio. Ѐ un bel tipo?
Ci volle un po’ perché Alfred capisse che Francis intendeva l’aspetto fisico, più che il carattere. Alzò le spalle. – Ѐ un tipo. Non saprei spiegarti.
− Alto, basso, biondo, moro...?
Alfred mosse gli occhi da destra a sinistra, sbuffando. Gli dava un certo fastidio parlare di Arthur, dal momento che il rischio di far saltare la copertura incombeva come una spada di Damocle.
− Perché dovrei dirtelo io? Vieni al mio locale, così lo vedi con i tuoi occhi! – disse, quasi senza pensarci (come la maggior parte delle cose che diceva, d’altronde),  rendendosi conto delle sue parole sono quando l’altro rispose: − Uhm, perché no? Sono curioso di vedere i tuoi progressi... e conoscere questo misterioso signore. Penso di riuscire a venire entro la fine della settimana, ti va bene?
Alfred spalancò la bocca tentando di ribattere qualcosa, ma Francis lo interruppe con un buffetto sulla guancia.
− Devo andare, perdonami: mi sono intrattenuto anche troppo con te. Ci vediamo, allora!
E se ne andò, senza dargli neppure il tempo di salutarlo.
 
La prima cosa da fare era avvisare Arthur, e fu quello che Alfred fece. La reazione del primo fu molto contenuta. – Ah sì? Va bene. – fu tutto quello che disse.
− Potresti anche mostrarti un po’ più entusiasta! O incazzato, che ne so! Che risposta è questa? – sbottò Alfred, rimasto frustratissimo da tale freddezza. Stavano tornando verso l’ Eagle, attorno a loro sfilavano i negozi luccicanti della via principale. Il rumore del traffico copriva i loro discorsi.
− Ѐ la mia risposta: va bene così.
− Sarà che non riesco a recepire bene i messaggi subliminali, ma non mi pare che tu mi abbia detto tutto. Insomma...
− Stai tranquillo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. – lo rassicurò Arthur, posandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo si calmò un poco, senza però togliergli quello sguardo sospettoso di dosso. “Fai bene a preoccuparti, invece” pensò Arthur, “Non ho idea di cosa succederà. Già ero sollevato del fatto che Francis se ne fosse andato quando sono arrivato al baracchino, ora è sicuro che lo rincontrerò e... non ho la più pallida idea di come reagire. Di cosa gli dirò quando lo vedrò o di cosa dirà lui vedendomi, perché non ha idea che sia io quello che lavora con te. Ho paura, sai? Ho paura di dimostrarmi per l’ennesima volta imbranato ai suoi occhi. Non posso permetterlo. Ho paura di perdere nuovamente il controllo”.
Non riuscì a sopportare a lungo quegli occhi azzurri addosso e voltò la testa, insofferente: − Devi ancora chiedermi come sia andata la mia sfida culinaria contro il cuoco italiano.
− Non sono in vena di storie dell’orrore.
Arthur minacciò con il linguaggio non verbale di buttarlo sotto un bus.
− In realtà, brutto rompiscatole, sono andato abbastanza bene – alzò il mento, fiero. – C’è stato un minuscolo incendio, ma nulla di più. Credo di aver superato me stesso oggi.
− C...COSA? Un incendio? Avevi intenzione di distruggergli la postazione, era questo il tuo piano meraviglioso? – Alfred lo prese per le spalle, urlandogli in faccia: – E se ci chiedono i danni, dove li troviamo i soldi? Imbecille!
Arthur se lo scrollò di dosso, risistemandosi la giacca (che solo in quel momento Alfred notò aver tracce di bruciato sulla stoffa) sdegnato.
− Posseggono un’assicurazione contro gli infortuni, me l’ha detto lui stesso! Non ci faranno causa... spero.
− Se però viene fuori il contrario, stai certo che non ti farò pagare nulla: ti spezzo tutte le ossa, ma non ti faccio pagare nulla.
− Che gentile che sei, proprio il comportamento adatto a un eroe! Quanto vorrei fossi tu a ricevere il prossimo premio Nobel per la Pace: dopo Vladimir Putin mi sembri il candidato più adatto.
Alfred sogghignò al pensiero: − Se lo vincessi io al posto suo, sarebbe l’ennesima prova della superiorità americana sulla Russia.
Arthur sorrise, ma non rispose. Quelle punzecchiature erano riuscite per un po’ a fargli dimenticare i pensieri ossessivi che lo tormentavano e gliene era grato, ma ora l’ombra scura che lo perseguitava stava riguadagnando terreno. Le labbra si strinsero, gli angoli scesero verso il basso. La tregua non sarebbe durata a lungo.
Arrivarono al locale che Alfred stava ancora chiacchierando allegro, mentre Arthur alzava un muro fatto di pensieri sempre più difficili da controllare, ognuno in un mondo a sé in cui l’altro non era che un interlocutore, quindi non notarono a prima vista la figura che li stava aspettando davanti all’entrata.
− Mr Kirkland! Mr Jones! Salve! Ho visto la scritta “chiuso”, ma non sapevo foste effettivamente usciti... sono arrivato giusto in tempo!
− Perdonaci Toris. Ѐ da tanto che aspetti? – lo salutò Arthur riemergendo dal suo silenzio, mentre l’altro sventolava la mano come se non lo vedesse da secoli
− No... anzi, devo proprio dirvi cosa è successo poco fa, devo fare presto perché un amico mi aspetta! – Toris sembrava non stare più nella sua stessa pelle. Alfred gli rivolse un sorriso smagliante, estraendo dalla tasca la chiave per aprire il locale..
− Ora ci racconti tutto, ma preferisco farlo davanti a un hamburger. Ho una fame da lupi, ahahaha!
 

Long Time No See
 
IV.I


 
 
Sbagliato, sbagliato. Se Arthur in futuro avesse dovuto decidere il giorno in cui tutto iniziò ad andare storto, avrebbe scelto quello in cui lui e Alfred erano andati a combinare quella specie di ronda. “Controllare la concorrenza”, così l’aveva definita l’idiota. Se non l’avessero fatto, chissà? Magari le cose sarebbero potute andare in modo diverso.
Non il giorno in cui era tornato a casa e per prima cosa si era introdotto nel suo antro per ricercare un incontro con “quello”. Non quando aveva accettato il lavoro in quell’orribile posto, con quell’orribile deficiente. Non quando si era reso conto di voler effettivamente la morte di Francis Bonnefoy. No, nessuno di quei giorni era stato quello decisivo.
Sbagliato, sbagliato, era tutto sbagliato, persino l’acqua con cui aveva fatto il tè in quella mattina di settembre doveva essere inquinata, il pane avvelenato, la frutta gonfia di vermi, ma niente di tutto ciò s’era manifestato ai suoi occhi e quindi chi poteva immaginare che quello fosse il giorno della sua caduta?
Era anche una giornata serena, uno di quei giorni di sole che t’illudono sia ancora estate. Le nuvole erano candide e soffici, come batuffoli di cotone nell’azzurro così inconsueto nella capitale inglese. La pioggia del giorno prima evaporava dal cemento, lavando gli odori della città e sollevando un venticello fresco che ti coglieva inaspettato, facendoti rabbrividire improvvisamente. Era un bene che non facesse troppo caldo: la luce che lo accoglieva non appena metteva piede in strada, stordiva la mente già colpita di Arthur. Il calore lo avrebbe intontito al punto da renderlo uno zombie, ma il fresco lo rendeva abbastanza lucido da percepire tutto quello che accadeva. Forse sarebbe stato meglio di no. Meglio l’incoscienza a quella sensazione, come se ogni entrata in un nuovo locale gli riempisse sempre più lo stomaco di catrame nero e appiccicoso.
Era invidia, quella sensazione orribile, la riconosceva suo malgrado: in ogni volto estraneo gli pareva di scorgere freddezza, senso di superiorità, addirittura disprezzo.
Lui non era che un fallito, dicevano quegli sguardi altezzosi, in compagnia di un altro fallito. Avrebbe voluto urlare, ma non poteva. Labbra serrate per non fare uscire il mostro, respiri difficili, una maschera di carne ed ossa per simulare la normalità. Finzione.
Per completare la farsa indossava un cappello ben calcato in testa, tanto per non farsi riconoscere subito da chi lo aveva già visto in volto. Nascondendogli le sopracciglia, elemento particolare del suo volto, eseguiva di suo un ottimo lavoro e gli infondeva un’aria molto più anziana dei suoi ventitré anni, come se già non fosse regolarmente scambiato per un signore di mezz’età. Ironico come persino dettagli così idioti riesumassero la memoria.
Anche Francis lo prendeva spesso in giro per il suo stile “antico”, lui che cercava di farsi notare ad ogni costo seguendo esclusivamente l’ultima moda. Quante volte avevano litigato per simili inezie? Tante. Facevano parte del passato, ormai. Ora non poteva più tornare indietro, perché aveva fatto un patto.
Alla fine non poté fare altro che rifugiarsi in altri pensieri, qualcosa che non coinvolgesse quella sensazione di soffocamento dall’interno. Si mise a pensare alla sera prima.
Alfred, intanto, manifestava il suo entusiasmo in maniera fin troppo animata. Oggi si dimostrava ancora più eccitato del solito poiché aveva avuto l’occasione di uscire all’aperto, assaporare un po’ di libertà fuori dal suo mondo a parte: sembrava un cane liberato del suo guinzaglio, avvolto da nuovi profumi e colori. Arthur era restio nel venire contagiato dalla sua energia; tra le altre cose, era ancora scosso per Toris. Non sapeva nulla di cosa fosse successo al colloquio, ma già s’immaginava il peggio.
Ivan poteva aver detto di tutto. Fatto di tutto. Ivan era imprevedibile. Toris si era rifiutato di parlarne, segno che i timori di Arthur fossero fondati, che qualcosa fosse necessariamente accaduto per renderlo così chiuso.
Toris non era il massimo della chiacchiera, certo, era il classico tipo tranquillo, ma non fino a questo punto. E poi c’era quello sguardo nei suoi occhi, come se stesse ancora cercando di metabolizzare un’esperienza penosa. L’unica cosa su cui aveva aperto bocca volentieri (fin troppo) riguardava la sorella del giudice, la giovane Natalia: e quanto è bella, e quanto è dolce, e quanto è sfortunata a vivere sola soletta in un grande palazzo come quello con la sola compagnia del fratello, e il fatto che lo avesse aiutato ad uscire.
(un attimo, aiutato ad uscire? Oppure aveva detto “scappare”?)
Erano entrambi stanchi morti quando erano tornati a casa, o meglio Arthur era stanco e Toris alternava sovreccitazione a mutismo assoluto
(scappare, scappare via dalla casa infestata, l’orco gli ha preso la parola e la bella gli ha rubato il cuore)
per cui non s’era riuscito a scoprire molto riguardo e Arthur aveva avuto paura ad indagare più a fondo
(fuggire prima che l’ombra nascosta nel buco spezzi il filo e gli divori l’anima)
− ...rthur? Arthur? Terra chiama Arthur, rispondi, passo!
Alfred lo stava scuotendo per un braccio. Arthur alzò confuso gli occhi, tornando lentamente alla realtà. – Eh? Che c’è?
Alfred lo guardò incuriosito, come se gli avesse tolto la domanda di bocca.
− Boh, ma sembri preoccupato per qualcosa e volevo sapere cos’hai.
− Non è niente...
“Per non ricordare quanto sono patetico pensavo a Toris, sai, il ragazzo di cui in teoria dovrei prendermi cura finché è qui a Londra e invece mando in pasto agli orsi. Ieri non mi ha voluto raccontare cosa fosse successo a casa di Braginski. Ha solo parlato a vanvera di Natalia, credo si sia preso una cotta per lei, ma forse aveva semplicemente paura di confidarsi con me perché Ivan... può avergli svelato qualcosa sul mio conto? Non oso pensarci. Meglio cambiare argomento, tanto non capirebbe comunque”
− Adesso dove andiamo? – domandò, assumendo l’espressione più indifferente che gli fosse possibile. Alfred tirò fuori dalla tasca una lista di indirizzi.
− Siamo già andati al ristorante cinese, vero?
− Sì. E anche a quello specializzato in tacos.
− Uuuh, quello era bello.
− Non ci serve sapere se fosse “bello”, ci serve sapere cos’aveva più del tuo locale, del perché loro hanno clienti e tu no.
Alfred sorrise: − Allora non sono l’unico a dovermi abituare.
− A cosa, scusa?
− Il locale non è più “mio” o “tuo”. Siamo soci ora, è “nostro”.
Oh giusto, era il “loro” locale adesso, come il bimbo conteso tra le due madri davanti a Re Salomone. Invece di tagliarlo a metà avevano deciso di occuparsene congiuntamente, anche se entrambi erano ancora sicuri, in fondo al cuore, che l’altro non fosse che un intruso provvisorio. Astio ben mascherato, comunque, da pungolamenti innocui.
Alfred sospirò, colto da un’improvvisa vena sentimentale. – Ah, adesso dobbiamo occuparcene in due, come dei bravi genitori! Ѐ una gran scocciatura, però, condividerlo con un rompiscatole antiquato come te.
Arthur ridacchiò sarcastico: − Lo dici a me, folle yankee? Se potessi me lo riprenderei seduta stante. Non conosci affatto il valore della tradizione, hai ammassato delle cianfrusaglie in giro e pretendi di vendere panini alti quanto il Big Ben, scordandoti che qua non abbiamo il culto del cibo spazzatura come nel tuo Paese!
Il commento sembrò urtare particolarmente il più giovane: − Ma lo sai di cosa parli? Ignorante, si chiama arte moderna questa. A New York questo stile fa furore! E poi buona parte dei miei panini sono sani, c’è anche la verdura dentro.
− Arte?! Chiami arte robaccia in plastica colorata e logo attaccati alle pareti?
− Taci, sempre meglio di prima! Non sembrava un ristorante, sembrava un pub per senzatetto!
− A proposito di pub – Arthur si leccò le labbra, allungando il collo e sbirciando sul foglietto, – Ce ne sono quattro soltanto in questa via. Facciamo un salto, ti va?
Alfred lo scacciò rabbiosamente, allontanando la lista a distanza di sicurezza: − Scordatelo. Non ho voglia di portare in giro un ubriacone molesto, c’è troppo da fare oggi e c’è bisogno del tuo aiuto da sobrio. Non ripeterò l’errore di prima. Ci mancava poco che mettessi le radici lì!
− Ma... ma...
− No, non puoi più utilizzare la scusa che ti piace la loro mobilia, non ci casco due volte! E poi, che pretesto è? Sarebbe come sposare un’ereditiera e pretendere di essertene innamorato per il carattere! Non sono così stupido!
Arthur incrociò le braccia, risentito nel venire smascherato in tal modo. Come diavolo facesse quel ragazzino a scovare il punto debole altrui con una tale facilità, era un mistero.
– Smettila di dire che sono vecchio, non lo sono! E poi... – voltò lo sguardo verso un’altra direzione, consapevole di sparare una frottola gigante, – Non mi ubriaco spesso. Cioè, diciamo il 30... o 40% delle volte, non di più, e di sicuro non con due birre medie!
Peccato che solo una decina di minuti prima l’americano avesse dovuto prenderlo di peso, davanti ad altri clienti col ghigno sotto i baffi, per portarlo fuori da uno splendido pub con un’ancor più splendida scelta di birre artigianali. Altro che un paio di pinte, se le sarebbe scolate tutte quelle delizie. Almeno avrebbero zittito quell’orribile voce che risuonava nella testa in un turbinio al sapore di malto.
Come doveva aspettarsi, Alfred non cedette. Il ragazzo guardò invece i nomi rimasti sulla lista. Erano ormai agli sgoccioli.
Il loro piano consisteva nell’andare nei vari ristoranti, bar, pub o dovunque servissero del cibo e cercare le caratteristiche che contraddistinguevano quelli di successo da quelli meno popolari; il loro sopralluogo, per non risultare sospetto dal momento che non consumavano quasi mai nulla, era accompagnato da banali scuse, incetta di bigliettini da visita e promesse di ritornare in futuro. Inutile dirlo, anche il meno affollato di questi locali aveva comunque più clientela dell’Eagle.
Alfred guardò l’ora e storse la bocca, irritato. – Siamo in ritardo, non credo ce la possiamo fare a finire il giro.
− Ah no?
− Dobbiamo per forza andare, però, dal cuoco ambulante di cui ti ho parlato ieri sera, è la nostra ultima occasione. E mangiamo là!
Arthur aggrottò le sopracciglia, guardandolo male: − Come mai lui sì e tutti questi che abbiamo passato no?
− Te lo dico quando arriviamo. – Alfred lo prese per il polso e lo trascinò per una viuzza laterale: sembrava sicuro di quello che stesse facendo, quando invece era il solito atto impulsivo. Arthur scosse la testa, ormai rassegnato ad avere un bambino troppo cresciuto come socio.
Il cuoco in questione aveva la sua postazione vicino alla chiesa di St Dunstain e quel giorno c’era mercato: vi erano appostate bancarelle di diversi tipi e anche svariati venditori di cibo. Arthur ne indicò uno, domandando se magari fosse quello l’uomo che cercavano. Alfred dissentì. Quel tipo vendeva rosticceria: prodotti buoni, sì, ma il “loro” cuoco era a un livello più alto, disse.
− Ѐ il migliore in circolazione nel suo genere, una stella nascente! Te l’ho detto, ha un suo ristorante vero e proprio, ma viene qui due volte al mese per farsi pubblicità al mercato. Dal momento che ho sentito che si trasferisce e che quindi non verrà più quaggiù, non voglio perdermelo assolutamente.
Arthur sentì una stretta allo stomaco. Il migliore, eh? Chissà se lui sarebbe mai arrivato a un risultato quantomeno simile. Tempo prima era sicuro di essere, se non il migliore, almeno bravo nella sua professione. Adesso constatava con i suoi occhi quanto si fosse illuso. Era difficile da accettare. Un calore infuocato gli riempì il cuore e le guance, avvolgendoli come una carezza infernale.
(Come sarebbe bello schiacciare tutti i concorrenti sotto un grande masso, su cui lui, come un Dio crudele, avrebbe posto la mano e spinto, spinto, finché non fossero scomparsi tutti. Anzi no: sarebbe stato più gratificante tagliare loro la gola, sgozzarli come maiali da macello, tanto, tanto, taaanto sangue che inondava tutto... e alla fine, chi sarebbe stato il migliore? CHI?)
( LUI SAREBBE STATO! Per sempre e per sempre...)
Arthur si bloccò in mezzo alla strada con gli occhi sbarrati, il respiro azzerato. Oh, che pensiero orribile, gratificante nella sua brutalità gli era apparso davanti! E agghiacciante, soprattutto. Il calore era scomparso improvvisamente assieme al ritorno alla realtà, lasciandolo raggelato e confuso. Quei pensieri eludevano il suo controllo, apparendo come fulmini in una tempesta. Lo facevano stare ancora peggio, trafiggendo la sua mente come lame di rasoio uscite dal nulla, ad opera di un entità nascosta nel buio che si tornava a nascondersi dopo averlo colpito.
Una fatina luccicante svolazzò davanti al suo naso, con l’aria preoccupata. – Stai bene? – domandò, − Ancora quelle brutte cose che ti tormentano?
Arthur annuì senza farsi notare. Alfred a quanto pare era troppo impegnato a cercare tra gli ambulanti il loro obiettivo per badare a lei e ai suoi amici invisibili.
− Non puoi parlare? Mi dispiace così tanto... sappiamo cosa provi e vogliamo solo aiutarti, ricordatelo. Non ti abbandoneremo.
La fata se ne andò, più affranta di prima. Arthur avrebbe voluto salutarla, almeno, ma, come non aveva avuto il coraggio di sfogarsi con l’esserino, nello stesso modo era meglio astenersi anche nel dirle ciao.
Brutta cosa avere amici magici che puoi vedere solo tu. Ovvio che non potesse dire queste cose a voce alta, già si era fatto una brutta reputazione, rischiava di essere preso per malato di mente oltre che violento. Forse Alfred si sarebbe messo a ridere, ma solo lui. Ormai aveva paura anche della reazione di Toris, per questo non l’aveva avvisato che per quel giorno l’ “Eagle” sarebbe rimasto chiuso in favore a quell’attività che sapeva di spionaggio. Aveva lasciato il ragazzo da solo a casa, sommerso dai libri che gli sarebbero serviti all’università e dai curriculum da inviare, nella speranza di trovare un dannato lavoro in cui non fossero coinvolti giudici pazzoidi. O perlomeno, non Braginski.
Pazzoide o meno, il lato peggiore di Ivan era che sapesse troppe cose su Arthur.
 
La gente, fantocci senza volto, passeggiava vociante per la strada godendosi i preziosi raggi del sole, come irrequiete lucertole bipedi, incrociando talvolta il percorso dei due. Erano grigi, senza anima, senza scopo, mere comparse uguali gli uni agli altri, non godevano più dello status di esseri umani. Tutti così inutili, tutti così sacrificabili. I loro sorrisi erano falsi. I loro dolori insignificanti. La sola vita che aveva valore in quel momento era quella di Arthur, e lui l’aveva venduta per pochi spiccioli.
Arrivati quasi al termine di quel lato di mercato, Alfred indicò un casotto bianco su cui era stato dipinto a mano un paesaggio, decorato qua e là con varie bandierine e con il nome ben posizionato sopra la finestra che comunicava al pubblico. Davanti a sé era circondato a destra e sinistra da tavoli lunghi e panchine pieghevoli, come un qualsiasi stand da fiera. Non c’erano tovagliette se non rettangoli di carta posti su rivestimenti in plastica a scacchi rossi e bianchi.
– Eccolo lì! – esclamò − Alta cucina in cinque metri quadrati! Adesso andiamo e impariamo tutto sul come fare clienti, ma soprattutto si mangia perché ho fame.
− Caspita. Rustico questo grande chef, specie nelle decorazioni. Ora so perché ti piace.
Alfred si strinse nelle spalle, insofferente. – Non ti va mai bene niente, eh?
Si avvicinarono. I posti erano quasi tutti occupati e la maggior parte delle persone prendeva il proprio pranzo d’asporto da una finestrella a lato del baracchino. Vicino ad esso c’era un cartello posizionato per terra, con attaccato il foglio del menù e una foto pubblicitaria ritraente quello che si supponeva essere il cuoco. Arthur la osservò alzando un sopracciglio, indeciso se mettersi a ridere o domandarsi per l’ennesima volta in quella giornata cos’avessero gli altri in più di lui. Di sicuro, in questo caso non era la dignità.
La foto in questione era la figura di un ragazzetto super sorridente, di massimo vent’anni: era vestito di una maglia a righe bianche e blu, una fascia rossa aderente in vita e un cappellino di paglia contornato di un nastro, anch’esso rosso. Capelli castani spuntavano ribelli al di sotto di esso, in particolar modo un lungo ciuffo riccioluto che si allungava alla sinistra del capo. La mano destra faceva il segno dell’ “OK”, mentre la mano sinistra reggeva un piatto fumante di pasta al sugo di pomodoro. Per completare l’immagine già abbastanza caricaturale di per sé, il ragazzo aveva sotto il naso dei grossi baffi neri a manubrio. Lo sfondo era formato da tre strisce di uguale larghezza: verde, bianco e rosso.
Arthur commentò: − Ho come la vaga impressione che sia italiano.
Alfred annuì. – Indovinato, Sherlock.
− E cos’avrebbe di tanto speciale, questo mangia-spaghetti?
− Non saprei. Ѐ un punto di riferimento per i suoi simili e se lo dicono loro che cucini bene, c’è da fidarsi, non trovi?
Arthur guardò il nome posto sulla facciata della casupola e sul cartello: “Vargas Macaroni Brothers”.
“Qui di Vargas ne vedo solo uno. In quanti saranno?” pensò, quando un pallone, compiendo una mirabolante movimento discendente, decise di terminare anticipatamente il suo tragitto tentando di sfondargli il cranio.
– Ahiaaa, porca miseriaaa! – urlò. Il cappello era volato via per il colpo, e ora Arthur stava tenendosi la testa pulsante di dolore con entrambe le mani, come se gliel’avessero effettivamente spaccata e ora rischiasse di andare in mille pezzi. Alfred si era abbassato in tempo e aveva schivato la traiettoria. La palla rimbalzò a pochi metri dai loro piedi e fu subito recuperata dall’infortunato, deciso a trovare un qualsiasi oggetto contundente e bucarla. Con un gesto stizzito raccolse anche il cappello e se lo calcò per bene, sopprimendo un gemito quando la stoffa dura sfiorò il bernoccolo. Ah, ma si sarebbe vendicato!
− Scusi, signore! – trillò una vocetta acuta. Un bambino stava correndo verso di loro, affannato, proveniente da uno spiazzo verde distante una ventina di metri da loro. Era un quasi teen-ager, di quelli alle soglie dell’adolescenza ma ancora ben ancorati nel mondo dell’infanzia: aveva i capelli biondi, sbarazzini, e vivaci occhi azzurri. Indossava una maglietta blu da calciatore, riportante una piccola bandiera italiana, ormai sudata: chissà da quante ore stava giocando.
Arthur lo fulminò con lo sguardo. Il bambino non ne rimase minimamente turbato.
− Signore, deve ridarmi il pallone. – disse, esibendo un’esemplare espressione da ragazzino viziato. Non si poteva dire fosse pentito del suo atto. Alfred, dal canto suo, se la stava ridendo e il bambino guardò entrambi confuso. Si rivolse al tizio di prima.
– Oh, ma parla inglese, almeno? Ѐ un turista? Tu parla italiano?
− Certo che parlo inglese, moccioso! – ringhiò Arthur, mentre controllava delicatamente il bernoccolo semi-nascosto tastandolo con una mano e teneva ben stretta la palla con l’altra.
− Meno male – disse sollevato il bambino – Conosco quattro parole in croce di italiano.
− Davvero? Pensavo il contrario, visto la maglietta – Alfred indicò la bandierina cucita sul tessuto. L’altro scosse la testa, tendendosi i lembi della maglia per esporla maggiormente.
− Questa? Bella, vero? Ѐ un regalo! Feliciano... il signor Vargas me l’ha data per quando giochiamo insieme a calcio. Ora lui però è occupato a servire i clienti. Un attimo! – i suoi occhi lampeggiarono nel panico − Anche voi siete clienti?
Arthur anticipò Alfred e gli rispose acidamente: − No, stavamo prendendo il sole davanti al cartello del menù. Che idiozie, è ovvio, accidenti!
Incrociò le braccia, solo vagamente conscio che si stesse comportando in modo ugualmente insopportabile al cliente maleducato del giorno prima. L’amaro che aveva in bocca e il dolore alla testa urlavano più forte.
− Non conosco questo Vargas, − continuò, il labbro storto in una smorfia sprezzante − ma dubito sia contento che un moccioso cerchi di ammazzare i suoi avventori.
Le guance del bambino avvamparono per l’offesa. − Non sono un moccioso! Io lavoro qui!
− Ma fammi il piacere. Lavorare? Tu? Quanti anni hai, piccoletto?
Il bambino mise il broncio, ma non riuscì a sostenere il suo sguardo mentre ammetteva: − Ho dodici anni, compiuti all’inizio del mese! E con questo? Solo perché ho fatto una piccola pausa non vuol dire che non m’impegno!
Arthur ridacchiò aspro. – Guarda qui che marmocchio impertinente... a dodici anni sei troppo giovane per lavorare. Come minimo dovresti averne tredici, e ti sarebbe comunque negato fare tempo pieno. Ѐ la legge che lo dice. Vuoi forse che il tuo capo finisca in galera?
La stizza del bambino si accentuò, riflettendosi come lampi nelle iridi cerulee: − Aaah, la legge, la legge... è quello che cerca di dirmi anche Feliciano, ma suo fratello dice che se voglio sono libero di farlo, anzi è meglio. Mamma non vuole che li disturbi, ma se posso dar loro una mano è ok. Che male c’è nel voler aiutare?
Per fortuna l’intervento di Alfred interruppe il battibecco tra i due, altrimenti avrebbero continuato fino a sera. Si rivolse al bambino. − Senti un po’, se proprio vuoi aiutare, che ci consiglieresti da mettere sotto ai denti? – chiese posizionandosi proprio davanti ad Arthur, il quale schiumava già dalla collera.
Il bambino gonfiò il petto e indicò l’intero menù con un gesto della mano, orgoglioso come se l’avesse scritto lui.
− Ѐ tutto buonissimo! Parola mia!
− Ehi, campione, ho chiesto cosa ordinare, mica la tua parola.
Il bambino controllò con la coda dell’occhio la lista dei piatti, fronte aggrottata, un indice posato sulle labbra mentre si concentrava. − Beh... il pesce è fresco ed è un mio zio che glielo procura, quindi ne sono stra-sicuro. Ci sono alcune cose un po’ strane, tipo le sarde con l’uva passa, ma vi assicuro io che è tutto squisito. Può bastare?
Alfred scoppiò a ridere, intenerito − Ahahaha! Cavoli, come agente pubblicitario lasci a desiderare, però ci fidiamo. Vero, Arthur?
− Certo, certo. – Arthur si era messo ad esaminare il menù. Come diavolo facevano a essere famosi in tutto il mondo per la cucina e mangiare quella roba? Sperò che la traduzione di certi ingredienti fosse semplicemente errata, perché non era possibile. Al super aveva spesso visto cibo italiano in scatola, ma molto diverso da come lo vedeva descritto. Gli venne il dubbio che una delle due parti non producesse roba autentica. Lì era tutto così... semplice. Niente di troppo elaborato, tranne appunto alcuni piatti che però dal nome stesso non sembravano italiani. Dov’erano, ad esempio, le “fettuccine Alfredo”? C’erano nomi dal suono straniero, forse di qualche Paese limitrofo. No, una volta aveva sentito questa storia che l’Italia era piena di piatti tipici di singole regioni, doveva trattarsi di questo. In ogni caso, il profumo che aleggiava lì intorno gli stava facendo venire l’acquolina in bocca e contemporaneamente gli torceva lo stomaco dalla rabbia.
(Immagina il baracchino esplodere con l’italiano all’interno, lui e tutti i suoi commensali, una gigantesca esplosione da film d’azione che spazzi via tutto e tutti, anche Alfred e il moccioso, lascia che domini la Morte e tu il solo Signore delle Tenebre...)
Il cuore batté più veloce. Le mani si serrarono in due pugni. Dovette stringere i denti per non mettersi a urlare. No, non era ira questa volta, però: era terrore. Di colpo aveva davanti agli occhi la certezza di non riuscire a farcela, di fallire nuovamente se solo ci avesse riprovato. Arrenditi, Arthur. Ci sono persone dotate, tu non lo sei e invece questo tizio sbucato dal nulla lo è. Tu sei fuggito, lui è venuto alla luce. Inchinati davanti al nuovo Re.
− Che problemi ha? – bisbigliò il bambino, guardando le guance di Arthur diventare via via più scure, gli occhi accendersi. Alfred scosse la testa, puntando un dito alla tempia.
− Lascialo perdere. Ha un po’ di problemi riguardo il mondo della cucina in generale, gli fa venire in mente roba stramba.
− Mi stai dando per pazzoide, forse?
Alfred si girò: Arthur era tornato in sé, scocciato da morire ma lucido.
− Muoviamoci a trovare un posto a sedere, piuttosto che parlare a vanvera. E tu – disse, rivolto al piccoletto porgendogli il pallone sequestrato – Portaci un paio di menù. Ho fame.
 
A quanto pare il travestimento da gondoliere del cuoco nella foto non era scelto a caso: oltre a piatti comuni, come la pasta al pomodoro, ce n’erano alcuni che avrebbero potuto mangiare in un ristorante sulla laguna veneziana o almeno così credevano i due.
− Voglio mangiare le sarde con l’uva passa – annunciò Alfred.
− Se poi fanno schifo non te le finisco io, sia chiaro. – replicò Arthur, scettico.
− Secondo me sono buone. Solo che... dove sono?
− Idiota, guarda gli ingredienti. – Arthur indicò un nome scritto in rosso sul menù. – Ecco qua, vedi? “Sardines in saor”. Oltre all’uva passa ci sono cipolla, pinoli, aceto e... zucchero?! Bah. 9 sterline piene per un piatto simile, spero per te li valga.
− Che nomi strani, però, non trovi? Avrebbero dovuto tradurli in inglese. – commentò Alfred, senza staccare gli occhi dal menù. Arthur si trattenne dallo schiaffeggiarsi da solo, davanti a tanto egocentrismo: − Idiota, come potrebbero? Ti sfido a tradurre “pizza”. Il cibo fa parte dell’identità di un popolo, non puoi sempre violentare la cultura altrui con il suprematismo americano.
Alfred si arrabbiò, come punto sul vivo. – Cosa c’entra? – strillò − Guarda che la pizza c’è anche nel mio Paese e si dice allo stesso modo! E la nostra è anche più buona!
Un commensale da un altro tavolo, si girò per tre quarti e lanciò loro un’occhiataccia. “Non so se sia italiano anche lui o sia semplicemente sconvolto dalla sua stupidità” pensò l’inglese, nascondendo il volto tra le pagine del menù, che erano solo un paio.
Fu Arthur a ordinare per entrambi: per lui chiese un paio di piatti, per Alfred quattro; da bere, una Guinness per uno e una Coca-cola per l’altro. Una cinquantina di sterline nel conto totale.
− Non ti sembra di esagerare? – commentò acido, quando tornò al tavolo.
− Scherzi? Con tutta la roba buona che c’è, questo mi sembra il minimo.
− Però la paghi tu.
Alfred lo guardò sconvolto, come un bambino che avesse appena sentito che il viaggio a Disneyland programmato da mesi fosse stato annullato all’ultimo minuto.
− Co...come? Non siamo soci? Non si fa “fifty-fifty”?
Arthur gli mollò un calcio da sotto il tavolo. – Scordatelo, mi hai già fregato abbastanza soldi in soli due giorni. D’accordo lo spirito imprenditoriale, ma tu mi sembri Scrooge McDuck!
Alfred rise ma non risparmiò di dare anche lui un calcio in risposta. – D’accordo, ho perso il mio pollo da spennare. Certo però che anche tu, cascarci ogni volta così...
− Non dare la colpa a me, adesso! Tu e la tua mania di sfruttare il prossimo, proprio intrinseco alla tua cultura.
Invece di offendersi, Alfred scoppiò a ridere. – Lo dici come se fosse un difetto! – esclamò.
Arthur digrignò i denti, irritato. Decise di colpire basso. − E poi, Jones, dovresti stare attento: sei già sovrappeso, contieniti! Con tutti quegli hamburgers e schifezze che ingurgiti diventerai una botte di lardo! – gli rifilò un altro calcio. Stavolta Alfred non rise.
− Non chiamarmi sovrappeso! Non l’accetto, non da te! Se tu sei magro è perché cucini solo spazzatura spacciandola per cibo tradizionale! Io ho le ossa grosse, ecco tutto.
Ennesimo calcio, stavolta più forte. Se il tono della loro voce era tutto sommato contenuto, per non dare nell’occhio, sotto il tavolo si stava scatenando la vera guerra.
− Spazzatura?! Ma senti questo! – sibilò tra i denti Arthur, sentendo la temperatura corporea alzarsi pericolosamente. Lo stinco doleva dopo l’ultimo colpo ricevuto.
– Se non fossi un gentleman non ti starei neppure aiutando, in questo momento! E mi ripaghi così?
− E se io non fossi un “eroe” che aiuta i deboli, adesso non staresti neppure lavorando! Dovresti essere tu quello in debito!
Avrebbero volentieri continuato per mezz’ora quando una vocina familiare li interruppe.
− Ehm-ehm! – fece il bambino di prima, tutto bello ripulito, con un grembiulino bianco e i piatti richiesti posti su un vassoio, un sorriso ampio quanto finto sul volto. – I signori hanno ordinato? – domandò gentilmente, come se pochi minuti prima non avesse tirato una pallonata in testa a uno dei due.
− Sei il moccioso di prima? – domandò Arthur, squadrandolo – Come mai ci servi tu? Gli altri tavoli hanno cameriere graziose, a noi ci tocca lo scarto. Tipico.
Il sorriso del bambino vacillò, ma a quanto pareva era determinato a fare buona impressione. Se non su loro due, almeno sul suo pseudo-datore di lavoro.
− Il mio nome è Peter – ringhiò, sempre con gli angoli delle labbra rivolti innaturalmente all’insù. – E spero vivamente che ti vada di traverso il pranzo, imbecille.
Alfred per poco non cadde dalla panchina dalla sorpresa. – Wohooo, piccoletto! – esclamò – Hai la lingua tagliente per essere uno studente delle medie! Ti ha insegnato tuo padre a parlare così?
− Mio padre non parla – rispose Peter, prelevando il vassoio – E comunque non mi pare di aver detto chissà che.
Se ne andò a passi corti e strascinati, arresosi nel tentativo di dimostrarsi cordiale nel giro di un minuto e diciotto secondi. Oh, ma a chi importava? Feliciano avrebbe capito, lo avrebbe perdonato e avrebbe anche apprezzato il suo sforzo di dimostrarsi amabile a quei due coglioni. Un giorno avrebbe lavorato per lui in piena regola, non appena sarebbe stato un adulto riconosciuto dalla società. In cuor suo sperò che quel giorno arrivasse il prima possibile.
Alfred esaminò i piatti arrivati: c’erano tagliolini ai gamberi e zucchine, degli spaghetti con sugo di carne che però erano più grossi di quelli che vedeva in America e senza “meatballs”, del fritto misto... oltre alle posate erano state portate un paio di pagnotte. Tra i presenti, un piatto in particolare lo incuriosì.
− Che roba è? – lo indicò. Lo aveva ordinato Arthur: era un piccolo ammasso biancastro dall’odore di pesce, con accanto una crema granulosa e gialla. Arthur sbuffò, come se fosse stato ovvio. Inclinò il piatto in modo che Alfred lo vedesse per bene.
− “Pregiato stoccafisso artico mantecato attraverso cinque ore di lenta cottura nell’olio d’oliva rigorosamente extravergine spremuto a mano da vecchie signore toscane. Il merluzzo in questione è apparso ne ‘Lo Squalo 8’ e nel nuovo film d’animazione ‘Alla ricerca di Dory’ nel ruolo di co-protagonista. Come accompagnamento, una crema di mais biologico accuratamente selezionato tra migliaia di pannocchie, scelte personalmente da un talent scout dei cereali per soddisfare i requisiti richiesti”. C’era scritto sul menù. – spiegò all’altro. Alfred inarcò entrambe le sopracciglia, ammirato: − Accipicchia! Perché io non l’ho visto?
− Perché in realtà c’era scritto “Salt codfish creamed and polenta”, baccalà mantecato e polenta, ma mi sembrava più allettante come l’ho esposto io.
− Ah. Ok. – La delusione s’impadronì della voce di Alfred. − Beh, ora come ora non sembra allettante neppure con la tua descrizione – commentò, storcendo la bocca.
Aveva qualche perplessità a riguardo al cibo italiano. A Manhattan c’erano molti italo-americani, ma non ricordava di aver visto piatti simili... o sì? Ricordava della pasta con uova, bacon e panna che un giorno aveva provato a cucinarsi, ma i suoi tentativi di addentrarsi nella cucina straniera erano stati velocemente sostituiti nel frequentare qualche locale. Oh, e c’erano anche i tutorial su come riprodurre perfettamente specialità, ma nuovamente non ricordava di aver visto piatti simili tra di essi. Ora aveva sotto il naso le famose sarde che lo avevano incuriosito e pensò di aver fatto comunque una scelta migliore dell’amico.
− Buon appetito! – esultò. Addentò un pescetto, sentì la lisca scricchiolare e spezzarsi sotto i denti. Era dolce ma non come le caramelle, leggermente salato e anche acidulo, poteva sentire la cipolla tagliata fina fina e pressoché invisibile  scivolare sul palato. Un’esplosione di sapori, insomma. Alfred non era mai stato un buongustaio, per lui il McDonald era pari alla Nouvelle cuisine, se non superiore (perlomeno lo saziava di più), eppure sentiva che c’era qualcosa di speciale in quello che stava mangiando. Una volta tanto cercò di trattenersi e assaporare almeno per pochi attimi quello che aveva in bocca, invece di trangugiare tutto come suo solito. Arthur cincischiava con un piatto di gnocchi al pomodoro e basilico.
− Se non ti sbrighi mangio anche le tue porzioni. – lo minacciò, ma l’inglese era perso nel suo mondo. – Ohi, mi senti? Sul serio, adesso che hai?
− Niente. Cioè...
Arthur fece uno sforzo. Doveva liberarsi almeno di una parte del peso che sentiva dentro.
− Secondo te, cos’è successo ieri a Toris? Ho passato la serata cercando di sapere qualcosa ma niente, non si cava un ragno dal buco. Ho paura per lui, sai Braginski...
Alfred lo guardò stupito, ingoiando l’ultimo boccone prima di parlare.
− Come, non si è confidato con te?
− No, niente. Muto come le tue stupidissime sarde.
− Allora vuol dire che non c’è niente di cui preoccuparsi, no?
Arthur batté i pugni sul tavolo, facendolo sobbalzare. – Lo hai visto anche tu in che condizioni è arrivato al locale! Come puoi dire che non c’è nulla di cui preoccuparsi?
Alfred si pulì la bocca con il tovagliolo di carta. Assunse un’aria seria così poco usuale che dava spavento: − Senti, Artie. Lo so che tieni a quel ragazzo, lo hai preso sotto la tua ala protettiva e posso capirti, perché è questo il compito dei buoni. Noi due siamo buoni. Solo che mi spieghi come facciamo a combattere il cattivo, se non sappiamo chi è?
− Ma noi lo sappiamo! Ѐ Ivan...
Alfred scosse la testa. Alzò il dito indice e lo puntò verso Arthur. – Tu sei sicuro che il cattivo sia Ivan. E se non fosse così? Se incolpassimo un innocente? E di cosa, poi? Lo sappiamo entrambi che Ivan non è il massimo della sanità mentale, anzi, se lo vedessi in una camera imbottita con una di quelle “camicie abbracciose”, starei molto più tranquillo. Però in questo caso non c’è alcuna sicurezza e quindi non possiamo fare niente.
Era una sincera vena altruistica a indurlo a pensarla così, o cercava di cambiare argomento solo per non perdere un’importante fonte di denaro alla bisogna? Il suo tono di voce era piatto, privo dello squillo acuto che lo caratterizzava. Orribilmente adulto. Cinico. La voce di chi venderebbe l’amico più fidato pur di liquidare i propri debiti, la voce di chi non crede più in nessun valore che non sia materiale. Non più Superman ma Lex Luthor.
Arthur era sul punto di rispondergli, quando cambiò idea: Alfred aveva ragione. Non aveva alcuna prova che Ivan avesse fatto del male a Toris. D’altro canto, Ivan aveva invece prove del suo passato, informazioni importanti che lo macchiavano come inchiostro, e se fossero uscite alla luce allora sarebbe diventato lui il cattivo della situazione! E non solo per la questione di Francis.
Come richiamato dal suo pensiero, Arthur notò una figura maschile alta e snella in fondo al mucchio di panchine e tavoli che si stava dirigendo verso il baracchino. Aveva un passo sicuro ed elegante. Da quella distanza non si riusciva a distinguerne bene i tratti, ma era sicuro si trattasse di un uomo attraente perché più di una ragazza presente si voltò a guardarlo e lui stesso s’intratteneva e flirtava con loro durante il percorso, nessuna fretta.
Arthur tornò al suo piatto di gnocchi, mugugnando tra sé e sé che ormai aveva perso l’appetito. Ne mise in bocca un paio: erano deliziosi, fatti in casa con vere patate e non quelli industriali comprati al supermercato, ma non riusciva ad assaporarli appieno, la bocca guastata dal sapore amaro della bile.
Quando rialzò lo sguardo l’uomo era più vicino e notò di sfuggita che effettivamente aveva un bell’aspetto: i capelli biondi e mossi gli danzavano nell’aria, come fili d’oro. Avrebbe dovuto tagliarli, pensò di sfuggita, se non voleva che lo prendessero per effeminato. Con la coda nell’occhio lo guardò per un attimo e notò che, anche volendo, non lo si sarebbe potuto scambiare per una donna: oltre a un’aura indiscutibilmente virile, aveva una leggera barba che gli ricopriva il mento.
− Tsk, il solito belloccio – mormorò tra sé.
− Uh? Hai detto qualcosa?
− Là vicino al baracchino, c’è un tizio che ha fatto strage di cuori soltanto con un paio di occhiolini. Che boriosa esposizione di sé. – rispose Arthur, tornato a mangiare ciò che gli rimaneva, lo sguardo basso sulle pareti del piatto bianco sporche di salsa. Sembrava che fosse avvenuto un omicidio in miniatura, lì dentro. Le ripulì con uno dei gnocchi rimasti.
− Ahahahaha, hai ragione, lo vedo, adesso sta chiacchierando con delle cameriere, ahah...
La risata morì di colpo. Arthur rialzò gli occhi: Alfred era come congelato, lo sguardo fisso sull’uomo appena arrivato. Doveva aver notato che l’amico lo stesse osservando stranito, perché si voltò di colpo.
− Non. Guardare. Quel tizio. Mi hai capito? – bisbigliò, gli occhi ingigantiti dietro le lenti. Tremava e se proprio c’è una cosa che stimola la mente umana, questa è la reazione degli altri a fenomeni estranei: Alfred aveva visto qualcosa di davvero eccezionale e Arthur era intenzionato a sapere cosa fosse, nonostante l’altro insistesse nel non volerglielo permettere. Si girò immediatamente verso il baracchino, fissando più accuratamente l’uomo misterioso.
E capì perché Alfred avesse fatto quella faccia.
Il cuore saltò un battito, quindi si mise a battere più velocemente, il respiro accelerò e il suo petto diventò come un mantice che si alzava e scendeva ritmicamente. Le labbra gli si erano ridotte a linee che lasciavano passare appena il fiato, sibilando come se l’aria non facesse neppure in tempo ad arrivare ai polmoni che bisognasse richiederne altra. Il volto aveva perso il suo colore, tranne per due grosse chiazze rosse sulle guance.
Alfred ci mise una frazione di secondo per analizzare la situazione.
− Arthur – disse – se tu ora ti alzi, se soltanto ci provi, sappi che ti spezzo le gambe come due grissini. Quindi sta’ buono e non fare scherzi.
Alfreeeeed – mormorò Arthur, un filo di voce roca venuta dall’oltretomba – Quello è Franciiiiis.
− Sì, è lui. – gli pose la mano, forte e decisa, sul polso – Ma non ci ha visti. Ѐ lì per i cavoli suoi, noi non lo disturberemo, chiaro? Continuiamo a mangiare come se niente fosse.
Ma Arthur era ancora lì, imbambolato a fissare l’uomo che gli aveva pressoché stravolto la vita. Sentì ogni energia scivolare fuori dal suo corpo, come risucchiata, lasciando al suo posto non qualcosa di vivo, ma una carcassa.
Francis era lì. Non se lo era aspettato, non così presto dal suo ritorno a Londra, perlomeno. Avrebbe dovuto? Cosa doveva fare?
− Al, aiutami. – bisbigliò con le ultime forze rimastegli.
Alfred non se lo fece ripetere: era o no un eroe? E gli eroi salvano le persone... anche con metodi inusuali.
Si allungò oltre il tavolo, avvicinandosi al volto di Arthur: questo era ancora rivolto alla sua destra. Lo riportò con delicatezza alla posizione frontale, in modo che quegli occhi spenti incontrassero i suoi e un minuscolo luccichio li illuminasse. Aveva un che di toccante, che scioglieva il cuore. Alfred l’osservò per un secondo, lasciandosi sfuggire una espressione intenerita nel sentirlo così vulnerabile sotto le sue dita: per un attimo lo scopriva libero della sua scorza coriacea di uomo adulto, delicato come un bimbo. Alfred era abbastanza vicino da notare quanto lunghe fossero le sue ciglia, di un verde straordinario le sue iridi. Prese un piccolo respiro per farsi coraggio, mentre le guance si coloravano di rosa per l’emozione. Era più o meno da quando l’aveva visto per la prima volta che desiderava farlo.
Gli mollò uno schiaffo in pieno volto.
Ora, mettiamo in chiaro alcune cose: il corpo umano ci mette meno di un secondo per tradurre i messaggi non verbali e per recepire il dolore. Questo processo è caratterizzato dalla funzione dell’amigdala, il piccolo organo la cui funzione originale è preservare l’organismo dal pericolo. Quando percepiamo uno stimolo con i sensi, tale stimolo per prima cosa passa attraverso il talamo, una sorta di smistamento dei messaggi; lì, a seconda del tipo di segnale sensoriale, il messaggio viene dirottato alla regione competente. Ma per prima cosa il talamo sottopone il messaggio all’amigdala, attraverso un  circuito monosinaptico, una specie di filo diretto. Se l’amigdala, nel suo processo sommario, trova che lo stimolo abbia “qualcosa a che fare” con un evento o un oggetto minaccioso, scatena immediatamente una reazione che coinvolge altre strutture cerebrali e ghiandolari, oltre muscoli, cuore, intestino e così via. In un secondo momento, attraverso un circuito polisinaptico, il talamo rinvia lo stesso messaggio alla corteccia prefrontale e, se quest’ultima giudica che la reazione sia adeguata, dà il permesso di rispondere.
E dopo questo excursus così forbito di neuroscienze non ci si riesce però a spiegare perché Arthur ci mise cinque secondi abbondanti a fissare Alfred, con la guancia sinistra in fiamme e senza reagire, prima di esplodere in un urlo: − MA SEI SCEMO?!
Alfred, tanto per cambiare, si mise a ridere.
− Andiamo! – esclamò – Ho, come dire, usato “tatto”.
− Te lo do io il tatto! – gridò l’altro, tentando di pugnalarlo con la forchetta di plastica. Alfred si difese parandosi il volto con le mani, senza smettere di ridere.
− Almeno sei tornato quello di prima, fai paura quando ti prendono queste... trance.
− I-idiota. – mormorò Arthur – Non farlo più. Ero solo sorpreso di rivedere lui.
Alfred allungò la forchetta e gli rubò uno gnocco. – Mmmh. Lascialo perdere.
− Pensi forse che sarei andato da lui e gli avrei fatto una scenata, così dal nulla?
− Esatto.
− Ti sbagli – Arthur lanciò di nuovo un’occhiata di sfuggita al baracchino, dove Francis si era fermato a parlare con qualcuno al suo interno, forse uno dei fratelli Vargas, − Non avrei mai osato. A dire il vero, non ho nessuna voglia di avere nuovamente un confronto diretto con lui, non in questo momento almeno. La sua repentina apparizione mi ha lasciato basito.
− Mmmmmmmmmmhhhhh. – Alfred rispose con la bocca piena, quindi non si riuscì bene a capire cosa avesse detto, ma sembrava d’accordo. Aveva rubato gli ultimi gnocchi rimasti nel piatto, lasciando il piatto coperto di salsa di pomodoro; Arthur lo allontanò, sbuffando sul fatto che fosse un mangione.
− Ohi, non avrai mica intenzione di buttar via tutto quel sughetto rimasto? – domandò Alfred. – Ѐ un insulto per gli italiani, sai? Lo conosci il detto “o mangi la minestra o salti dalla finestra”?
− Primo, dubito che il detto si possa attribuire a queste situazioni. Secondo, cosa dovrei farci? Ho finito gli gnocchi.
Alfred prese una delle due pagnotte, ne staccò un pezzo e con quello ripulì il piatto. Poi se lo mangiò, sotto lo sguardo contrariato del gentleman.
− Che diavolo fai? – bisbigliò Arthur.
− In Italia la chiamano “fare scarpetta”, è un usanza comune a quanto ne so.
− D’accordo, ma primo, ti ricordo che qui non siamo in Italia; secondo, non dovrebbe essere un po’ più raffinata la cucina? Geez, per fortuna che possiedono anche un ristorante!
Alfred fece girare lo sguardo sugli altri commensali, che erano tutto meno che raffinati: uomini, donne, gente del posto e stranieri che erano venuti lì per mangiare genuina cucina italiana, non per prendere il tè con la regina, obiettò.
Arthur digrignò i denti, senza farsi notare. “Davvero io sarei meno bravo di gentaglia che non sa neanche le basi del decoro?”, pensò.
Alta cucina, aveva detto Alfred, e ora si trovavano a mangiare in piatti di plastica, su tovaglie cerate e fogli di carta a fare da ulteriore copertura, seduti su panchine in plastica senza schienale. E tutto questo era apprezzato maggiormente dei suoi sforzi di creare un ambiente di classe, fatica inutile dal momento che era andato tutto perduto, ma tanto non sarebbe interessato a nessuno.
Di nuovo quella sensazione, la voglia di distruggere tutto. Doveva calmarsi. Senza rendersene neppure conto, elaborò un piano.
− Pfff. – soffiò, derisorio – Ho capito. Senti, mangiati pure tu il resto del pranzo.
− Non hai più fame? – chiese Alfred, afferrando il piatto di stoccafisso mantecato con una velocità sorprendente, prima che l’altro cambiasse idea. Ma ad Arthur non interessava più mangiare: sul suo volto era apparso un sorriso terribile, folle.
− Non è questo il punto. Ѐ che sono sicuro di poter fare di meglio di questi Vargas, e voglio dimostrarlo. E lo farò ora.
 
*  *  *

− Allora, come va il mio piccolo Feli? – domandò l’uomo, spalmandosi sul bancone che collegava al cucinino. Il cuoco all’interno, indaffaratissimo tra una decina di piatti diversi, rispose allegro: − Alla grandissima! Mi trovo bene qua, si lavora a pieno ritmo come vedi e in più vengono spesso un sacco di ragazze carine! Questo è l’ultimo giorno, però. Ho intenzione di fare una pausa e tornare in Italia per un po’, quindi non potrò più starci dietro. Sarà un periodo di ferie sia per me che Lovi, sono tanto felice!
L’uomo batté un paio di volte le mani, mostrando una fila di denti candidi nel suo sorriso sincero. Era realmente affezionato al ragazzo, anche se certi maldicenti potevano insinuare che tale sentimento non fosse propriamente “platonico”.
− Oh, très bien! Sono contento per te! Avevo appunto sentito che questo baracchino avesse le ore contate, quindi volevo venirti a trovare prima che lo chiudessi. Certo non credevo saresti davvero riuscito a metterti in proprio, in così poco tempo poi...
− Ѐ stato anche grazie a te se ci siamo decisi a farlo, ti ringrazio vivamente per questo.
Francis agitò la mano davanti al viso, modesto: − Figurati, è un piacere aiutare gli amici. E tuo fratello? Si trova nella postazione principale, immagino –. Sbirciò all’interno del cucinotto: nessuna traccia del maggiore. Chissà perché non ne era sorpreso?
− Lovino non vuole mai venire a lavorare quaggiù, dice che stare così a contatto diretto con gli inglesi gli dà fastidio.
Francis inarcò un sopracciglio. – Conoscendolo avrà usato dei termini un po’ più triviali, giusto?
− Esatto, ha detto cose che preferisco non ripetere. Che ci vuoi fare, è fatto così, bisogna portare pazienza... sono anni che porto pazienza... Piuttosto, hai assaggiato i miei piatti? Che te ne pare? Sono buoni?
Aveva cambiato completamente discorso. Francis annuì, lanciando uno sguardo intorno a sé. − Certo che sì. Non preoccuparti per quello, pensa piuttosto a questa casupola in cui lavori. Ѐ un pugno in faccia al buon gusto! Non c’è la minima classe, il minimo charme neppure nei piatti, così sempliciotti... – si portò il dorso della mano sulla fronte, fingendo di svenire come un’attrice consumata, − Oh sacré bleu, il mio povero senso estetico! Cosa dire, poi, della tua foto sul volantino, così acconciato da gondoliere? Credevo di morire quando l’ho vista!
Feliciano scoppiò a ridere davanti a tanta esagerazione: − Dai, Francis! Parli proprio tu, che di travestimenti assurdi sei un esperto? Almeno io nella foto sono vestito.
Francis finse di offendersi: − Pffft, sei troppo giovane per conoscere i costumi dell’amore, mon petit Feli, ma un giorno capirai e ti ricorderai di me come un tuo valido maestro. La nudità è bellezza, arte, poesia!
− Spero solo che per allora non mi abbiano già arrestato per atti osceni in luogo pubblico.
− Questi barbari non capiscono nulla dell’arte della seduzione, è per questo che mi hanno chiamato in caserma!
Feliciano rise ancora, una risata cristallina. Francis sorrise, deliziato: quel ragazzo era così carino, persino adesso che gli dava le spalle lo trovava adorabile! Così giovane e ingenuo, fresco come una rosa in procinto di sbocciare... non poteva negare di averci fatto un pensierino.
Si ravvivò la massa dorata che gli cadeva sulle spalle, tornando parzialmente serio.
− Però, tornando al tuo lavoro dietro ai fornelli, devo ammettere che hai talento, e non lo dico proprio a tutti, sai? Non mi stupisce che anche a quest’ora tu sia pieno di gente, pur lavorando al mercato. Spero vivamente che il ristorante sia più raffinato, sì? Perché davvero, anche il menù è turistico, quaggiù, non solo per i prezzi, ma per la varietà. So che puoi fare di meglio.
Feliciano, nonostante tutto, apprezzò quel giudizio: − Grazie mille, conoscendoti lo prendo come un complimento! Ricorda che ti aspetto anche nella sede principale, là ti potrò fare dei super manicaretti. Tu, invece? Trovato qualcun altro di valido in giro per la città?
Francis si accarezzò la barbetta. – Qua i ristoranti saltano fuori come conigli, diventa difficile starci dietro. Sì, non mancano le stelle in questo firmamento, ma in un certo senso è anche rischioso delle volte, sai, se i ristoratori non gradiscono la presenza di qualcuno che giudichi il loro operato...
Feliciano interruppe per mezzo secondo la mescolatura della zuppa di pesce e verdure dentro la pentola. Fu un solo istante, quindi Francis non se ne accorse.
− Ma tu sei una voce tra tante, Fratellone Francis. Perché dovrebbero offendersi per te e non per un qualsiasi altro cliente che esprime il suo parere?
L’uomo biondo si staccò dal bancone, visibilmente scandalizzato. – Ohi, Feli! – esclamò – Io non sono il primo tizio venuto direttamente dalla strada che non sa la differenza tra un brodo e un consommé! Se do un giudizio, seppure negativo, è perché so quello che faccio!
Feliciano si voltò, la faccia preoccupata, stanca e sudata per il vapore, il sorriso tremante. Era da ore in piedi, non aveva le forze per discutere e neppure la voglia. – D’accordo, n-non ti arrabbiare. Non volevo mettere in dubbio la tua... ehm, alta cultura culinaria. In caso di bisogno, però, puoi adottare il mio metodo infallibile per non entrare in contrasto con gli altri!
− Oh? E sarebbe?
Feliciano prese da un angolo della credenza uno stecchino lungo una trentina di centimetri, a cui era stato legato con lo scotch la metà di un tovagliolo di carta. Lo sventolò soddisfatto.
− Ta-daaah! Bandiera bianca pronta all’uso, così se qualcuno la vede sa già che non voglio rogne! Fantastico, no? – e lo rimise a posto – Ne ho fatti una ventina uguali a questi, te ne regalo volentieri uno! – abbassò sensibilmente la voce, divenendo quasi inudibile − In situazioni critiche puoi sempre infilare lo stecchino nell’occhio del tuo nemico, così da accecarlo. Non vincerai ma almeno guadagnerai tempo.
Francis ridacchiò, spostandosi una ciocca dorata da davanti agli occhi.
− Sei sempre il solito, Feli, non ti piace combattere. Forse è meglio così... l’amore, di cui la mia patria è la fiera testimone, è una risposta più che valida all’odio, e cos’è la pace se non frutto dell’amore? A volte però, arrendersi subito è segno di codardia. – il suo tono si fece più amaro – Non trovi? Cosa fai se un cliente si lamenta? Non gli rispondi per le rime? Preferiresti cento giorni da pecora piuttosto che un giorno da leone?
− Cento giorni? Ahaha! Cento anni! – Feliciano servì la zuppa in un piatto fondo con un mestolo, stando attento a mettere sia pezzi di pesce che verdura nella dose adatta. – Prima di tutto, nessuno è mai venuto a lamentarsi, sono sempre tutti entusiasti di ciò che cucino, ma penso che in ogni caso ingoierei il rospo. Le sfide comportano conseguenze che non posso permettermi. E poi Lovino mi ha detto di tenermi alla larga dei guai.
− Oooh, fa la parte del fratello protettivo, adesso?
Feliciano si posò sul piano di lavoro, tenendo la schiena china come dopo una corsa sfiancante. – Più che altro non si fida di me. Essere il più piccolo è una gran scocciatura – mormorò a denti stretti. Francis sorrise, appoggiandosi il mento su una mano.
− Ti vuole bene, lo sai. Non vuole che ti faccia del male.
− Sono sicuro che sia così. – tagliò corto, quindi si rivolse a qualcuno vicino che in quel momento stava trotterellando dietro a Francis. − Oh, Louise! Aspetta, porta questo al tavolo quattro, quello con la signora anziana. Hai capito quale? Brava tosa, vai.
La giovane cameriera lì vicino annuì e portò via la zuppa su di un vassoio che teneva in mano, mentre Francis si scansava per lasciarle lo spazio per passare comodamente. Feliciano allargò la bocca in un sorriso soddisfatto. – Sono contento, davvero. Ѐ da un anno e mezzo che lavoro... lavoriamo autonomamente. Certo è stancante, ma ci sono anche i lati positivi.
− Come avere al proprio servizio delle cameriere carine che ti guardano come se fossi un esemplare esotico mentre porgi loro una scodella di bouillabaisse, spacciandola per veneziana?
Feliciano ridacchiò, arrossendo sia per il leggero imbarazzo, sia per l’insinuazione di aver copiato un piatto straniero. – Non è bouillabaisse, è una ricetta che ho fatto io, la mia versione del caciucco. Mi dispiace, Italia batte Francia uno a zero. E non è colpa mia se piaccio alle ragazze, sarà per il mio indiscutibile fascino latino, chissà?
− Ehi, rubacuori, c’è qualcuno che sta venendo qui e credo sia interessato a te, ma dubito sia per il tuo fascino, dato che è incredibilmente giovane e soprattutto maschio.
Francis indicò il ragazzino biondo che stava correndo verso di loro. Peter era incredibilmente agitato, come se non stesse nella pelle di annunciare qualcosa. Feliciano sentì un minuscolo brivido attraversargli la spina dorsale, ma non ci fece caso.
Continuò a lavorare sui suoi piatti, gli ultimi rimasti, dopodiché avrebbe potuto pulire tutto, smontare il baracchino e dire addio a quel piccolo subalterno del ristorante. Erano ormai le tre, l’ora della siesta. Avrebbe dormito, poi avrebbe fatto una partita di calcio con Peter e Lovino, se il fratello fosse stato d’accordo. Avrebbe finito le valigie e il giorno dopo sarebbe partito per l’Italia, diretto a Venezia. Prima, però, doveva sentire cos’aveva da dire il ragazzino.
− Felic... Signor Vargas! Messaggio importantissimo super mega urgente! – strillò Peter. Sembrava avesse granchi nei pantaloni, tanto si muoveva. Si accorse a malapena della terza persona presente. – Un tizio là, no, due tizi, ma soprattutto uno, hanno detto cose orribili su quello che hai cucinato per loro! Li ho sentiti perché parlavano a voce alta, anche gli altri li avranno sentiti! Ho provato a zittirli, niente! Vogliono assolutamente parlare con te.
Feliciano interruppe immediatamente le sue attività, i suoi pensieri riguardo la siesta, tutto. Fissò Peter, quindi Francis, di nuovo Peter.
– Come hai detto? – domandò, togliendosi i guanti e asciugandosi le mani sudate in uno strofinaccio. Francis ghignò: − Ti avevo avvisato che ci sarebbe stato qualcuno che si lamenta, prima o poi. C’è sempre.
− Shhh, Francis. Dimmi, chi sarebbero questi due? E cos’hanno detto, di preciso?
Peter alzò le spalle. – Sono due nuovi, mai visti prima. Non sono italiani, se è questo che t’interessa.
Veee, strano, di solito sono loro che rompono per ogni cosa, ma qua vengono solo turisti. Adesso sono i forestieri che vogliono insegnarmi come fare il mio lavoro? Che pazzo mondo!
Ma Peter non lo stava ascoltando, preda di una strana foga.
− Uno è inglese, dall’accento, l’altro non saprei. Hanno detto che potrebbero cucinare cento volte meglio simili schifezze, cito testualmente, e che avrebbero dovuto andare al McDonald qui all’angolo, almeno avrebbero mangiato di più. E queste sono le cose meno offensive! Ti prego, fai qualcosa!
Feli aveva affermato che avrebbe ingoiato il rospo nel caso, che battersi in scontri non era consigliato nel manuale del buon cittadino, tante belle promesse che ora riemergevano mentre sentiva lo stomaco contrarsi per il disagio.
Avrebbe dovuto ignorare quei due strani tipi? Sarebbe stata la scelta migliore, ma a quanto pareva le loro parole potevano essere sentite anche dagli altri. Se solo Lovino fosse stato lì! Sarebbe andato da loro e li avrebbe cacciati a calci nel sedere, condendo il tutto con un meraviglioso mix di parolacce in dialetto terrone. Feliciano non ne era capace.
Una decisione doveva essere presa alla svelta, altrimenti la situazione sarebbe precipitata... oh, ma perché doveva accadere tutto adesso, pochi minuti prima della fine del turno? Che palle!
Francis lo osservava intrigato, domandandosi quale sarebbe stata la prossima mossa del giovane.
− Al diavolo. – Feliciano spense gli ultimi fornelli. – Qua la roba è pronta, ci penserà Louise o Cassie o una di loro a distribuirla al posto mio, per dieci minuti si può anche fare, tanto le ordinazioni sono terminate. Non ridere, Francis! Voglio solo sapere come adeguare il mio servizio anche ai clienti più reticenti, non fare a botte. Faremo quattro chiacchiere.
Si armò del suo sorriso più convincente e seguì Peter.
 
*  *  *
 
Se Alfred fosse stata una persona matura avrebbe fermato Arthur in tempo, ma non lo era e quindi il più vecchio attuò senza resistenze quello che sembrava un piano “geniale”.
− Cavoli, questa roba sarebbe commestibile? Scherziamo? – disse ad alta voce, in modo che lo sentissero in più persone. – Sembra di mangiare chewing-gum! E questa pasta? Ѐ talmente dura che potrei slogarmi la mascella! Il pesce, poi! Che poltiglia insapore!
Alfred lo fissò come se fosse impazzito, per poi bisbigliare, notando che in parecchi si erano voltati verso di loro: – Dico, che ti prende? Non ne so granché, ma non mi sembra tanto male. Sì, la pasta forse potevano cucinarla un po’ di più, però insomma...
Arthur gli rifilò un calcio. – Zitto, idiota, e reggimi il gioco. – sibilò. Poi ricominciò.
− Oh, spero di non svegliarmi con il mal di pancia domani! Siamo sicuri sia roba fresca? Mah!
Il suo tono era drammatico ma realistico, e più persone cominciarono a guardare sospettosamente i loro piatti, come se d’improvviso dovessero uscirne fuori scarafaggi. Centro!, pensò Arthur. In lontananza avvistò il moccioso di prima, che li stava occhieggiando minaccioso. Un piccolo sforzo, dai.
− Ha davvero senso spendere venti sterline a testa per così poco? A questo punto preferisco mangiarmi un hamburger, almeno sono pieno a poco prezzo!
Adesso anche Alfred si era unito alla lagna fasulla. Arthur lo guardò riconoscente, sussurrando – Grazie, amico.
− Di niente, sono o no l’eroe? E gli eroi aiutano. – sussurrò in risposta l’altro, prima di esplodere a volume altissimo – Se l’Italia è la Patria del buon cibo? Ahahaha! Forse, ma il vino deve aver dato alla testa al cuoco, perché non è possibile considerare questo buon cibo!
Continuarono così per qualche minuto, inventandosi di sana pianta le lamentele più irritanti pur di attirare l’attenzione delle persone attorno; Alfred ci aveva preso gusto e ne tirava fuori di diverse, sbalordendo l’amico per la sua particolare capacità. Non ci volle molto che l’obiettivo fosse raggiunto.
− Ok, ok, adesso calmati. Hai fatto un buon lavoro – bisbigliò Arthur, sbirciando alle sue spalle le mosse del “nemico”. Il piccolo Peter era a pochi passi diretto da loro, arrabbiatissimo.
– Avete qualche problema? – domandò, i pugnetti chiusi sui fianchi e gli occhi azzurri che mandavano lampi.
− Perché lo domandi? – fece Arthur, facendo finta di nulla. Peter batté i piedi stizzito.
− Perché continuate a urlare cose inammissibili! Come vi permettete? –, era diventato paonazzo, − Nessuno si è mai lamentato, cosa avete al posto della lingua, una lastra di marmo?
Alfred dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Arthur mantenne il sangue freddo.
− Prima di tutto, quello che non si deve permettere sei tu. Non lavori neanche qua, quindi non potrebbero licenziarti, ma in ogni caso resta al tuo posto, ragazzino.
Peter ammutolì tremante di rabbia, folgorandolo con la peggiore occhiataccia che gli fosse possibile, ma restò zitto. Arthur sospirò, socchiudendo le palpebre e guardandolo di traforo.
− Secondo, vogliamo parlare con il proprietario della baracca. Il cuoco, insomma. Ci faresti la grazia di condurci al suo cospetto?
Peter restò li a guardarli per qualche attimo, mordendosi l’interno delle guance. Aveva paura della reazione di Feliciano, se avesse scoperto che non era neppure riuscito a tener testa a due idioti simili. Poi si decise.
− Vado a parlargli, vedremo cosa vuole fare. Voi non vi muovete. – disse e si girò per tornare quasi di corsa al baracchino.
− Complimenti, genio del male. Era questo il tuo progetto? Fare incazzare l’italiano? Penso che tu ci sia riuscito. – fece Alfred quando il ragazzino fu abbastanza lontano. Arthur scosse la testa, ghignando subdolamente.
− No, tonto, questa non è che la prima parte del piano. Ora viene il bello e, ah! Non serve più il tuo aiuto, non necessariamente. D’ora in poi posso arrangiarmi da solo.
− Che hai intenzione di fare? – domandò Alfred, ma l’altro non poté rispondergli perché stava ritornando Peter, con Feliciano a seguito. Con sua sorpresa, era lo stesso tizio nella foto, anche se privo di baffoni e divisa da gondoliere: solo un grembiule sporco di farina e salsa e grumi di impasto sopra degli ordinari maglietta e jeans. Ne rimase un po’ deluso.
Il sorriso del giovane non era esagerato come nell’immagine, anche se era comunque presente, e gli occhi erano pressoché chiusi in confronto. Mentre camminava salutava i vari commensali, prendendosi il suo tempo. Arrivò al tavolo dei due dopo Peter, che tremava di rabbia repressa.
– Sono loro – sibilò il bambino. Finalmente avrebbero avuto ciò che si meritavano!
Buongiorno signori – disse in italiano il ragazzo, il sorriso che non lasciò le sue labbra neanche a pagare – Il mio nome è Feliciano Vargas, sono il cuoco e proprietario di questo umile stand. Ho sentito che il pranzo non è stato di vostro gradimento. Ora, per evitare futuri incidenti di questo genere, potrei sapere esattamente cos’è che non andava?
Alfred lasciò la parola ad Arthur, che la prese immediatamente. Si portò un dito alle labbra, portando gli occhi verso il soffitto: − Cosa non andava? Uhm. Varie cose, diciamo... tutto. Il mio stomaco si rifiutava di ingerire simili intrugli.
Feliciano gettò un’occhiata significativa ai vari piatti ripuliti per benino presenti sul tavolo.
− Lascia perdere quelli, ha mangiato tutto lui. Ѐ un bidone della spazzatura vivente. – Arthur indicò Alfred, che tentò di difendersi con un – Ehi, non è vero!
− Almeno c’è qualcuno qui che ama la buona cucina. – commentò Feliciano con un sorriso più ampio.
Alfred scosse il capo. – A dire il vero, era troppo... semplice. A me piacciono i sapori forti – dichiarò – Tipo, a questa cosa qua, come si chiamava... ah, il “baccalà”, avrei aggiunto un po’ di parmesan! Sarebbe stato mooolto più buono!
Feliciano impallidì, per poco non svenne, mormorò un flebile “Il pesce con il formajo, nooo!” ma si riprese quasi subito, replicando pazientemente: − Questi sono perlopiù piatti tipici veneziani e del Nord Italia in genere. Permettetemi di dire che le vostre lamentele sono infondate... per non dire che sono enormi cazzate.
Arthur arricciò il naso, nascondendo la soddisfazione di come la conversazione stesse proseguendo. Ancora uno sforzo, dai. Diede la stoccata finale: – In ogni caso, piatti tipici o meno, io sono uno chef di professione, e sono sicuro che cucinerei uno qualunque di questi piatti molto meglio di qualsiasi... – guardò Feliciano dritto negli occhi −  ... ciarlatano da marciapiede.
Feliciano non rispose subito all’insulto. Ingoiò un bolo di saliva, si torturò le mani sfregandosele con forza, sempre zitto e con il respiro divenuto affannoso. Non si riusciva a capire se fosse arrabbiato, sul punto di piangere o cos’altro, sicuro era che il suo volto non appariva più così affabile.
−  Non credo proprio, sa signore? – disse dopo una pausa, la voce stridente. Non era mai stato insultato in questo modo e faceva male, male davvero.
− Mr Vargas, che ne dice di una sfida? – riprese Arthur, ignorando deliberatamente lo sguardo sempre più terrorizzato di Alfred, che ormai aveva mangiato la foglia e prevedeva un disastro totale. – Può decidere lei chi farà da giudice, ma ho notato la presenza di un noto estimatore del buon cibo proprio qui, se non sbaglio stava parlando con lei poco fa.
Ok, Alfred non l’avrebbe dovuto bloccare, prima, se magari l’avesse lasciato andare ora non starebbe proponendo uno scontro ai fornelli con un italiano migliore a prescindere di lui.
− Vuole sfidarmi? Qui? Ora? – domandò stupefatto Feliciano.
− Esatto.
“Ti prego, fa che dica che è una cazzata, che non si può fare, che le norme igieniche lo sconsigliano, qualsiasi cosa ma NON FAR CUCINARE ARTHUR” pensò Alfred, il sudore freddo che colava lungo la schiena.
− Per me va bene. Avviso subito Francis... il signor Bonnefoy. Peter, potresti dirgli che ho bisogno di lui? Spiegagli la situazione.
“Merda”.
I due concorrenti si allontanarono verso il baracchino, Peter che li precedette con il suo passo svelto. Alfred si prese la testa tra le mani, mormorando varie bestemmie all’indirizzo del suo socio, maledicendo il momento in cui aveva deciso di aiutarlo. Lo aspettava la figuraccia del secolo, poco ma sicuro.
 
Al baracchino Francis non c’era, comunque; Peter scattò subito nella ricerca, ansioso di mostrarsi utile e soprattutto volendo allontanarsi da quell’essere odioso con cui aveva litigato prima.
– Sarà andato a sedersi? – si chiese Feliciano. Forse si sarebbe potuto risparmiare la seccatura di quella stupida sfida, se lui non ci fosse stato. Però la briciola di orgoglio che nascondeva nel profondo non gli permise di lasciare andare la questione così facilmente, facendogli scegliere un’alternativa inusuale alla sua attitudine: – Non importa, mi segua dentro – e invitò Arthur all’interno della postazione. L’uomo lasciò andare un respiro che non ricordava di aver trattenuto, pieno di sollievo.
Era vergognosamente felice di non dover guardare di nuovo negli occhi Francis, tutto il coraggio avventato che lo aveva colto era sfumato nelle sue vene come un’ubriacatura. Quando ispirò nuovamente, riconobbe nell’aria un profumo che non era di cibo: una fragranza maschile, familiare, la stessa che emanava da anni lui... aveva lasciato la sua impronta, nonostante fosse assente. Il cuore di Arthur si strinse, facendogli domandare il perché fosse lì, il motivo di tutta quella messinscena. E tutto a causa di un errore mostruoso, della sua rabbia e di un patto che ora doveva rispettare ma della cui importanza ancora non si rendeva conto. Dov’era il tasto “reset” nella vita reale?
Feliciano porse un grembiule all’altro, il sorriso ricomparso sul suo viso come se non fosse mai svanito. − Non mi ha ancora detto il suo nome! Ѐ uno chef anche lei, però. Dove lavora? Immagino in un ristorante, magari uno di quelli di nicchia, piacciono tanto anche a Francis!
Era velocissimo a dimenticare i rancori, a quanto pare. L’insulto di pochi secondi fa già era scomparso dai suoi ricordi.
− Kirkland, mi chiami così. Lavoro in Fleet Street, non lontano da qui e, no, purtroppo non lavoro in un ristorante... diciamo che è un locale, “The Eagle”. Ma è solo questione di tempo, prima che torni a lavorare in un posto serio.
− Fleet Street? Oh, conosco, sì sì. − Feliciano annuì vigorosamente, mentre l’altro controllava l’attrezzatura disponibile. – Che bel nome per un locale, però! L’ha scelto lei?
− NO. Parliamo d’altro, per favore, le dispiace?
Feliciano si voltò verso l’uomo, confuso per il suo tono irritato. Aveva detto qualcosa che non andava? Doveva tirare fuori le bandierine bianche? No, non ce n’era bisogno. Notò, però, qualcosa che lo fece sorridere sul viso dell’altro.
– Ok! Mi dica... – indicò con un ghigno la guancia di Arthur, sulla quale spiccava ancora lo stampo rosso di una mano. – Quella è frutto di un qualche “piccolo incidente”? Non si preoccupi, sono italiano, cose simili sono normali dalle mie parti, sa?
Arthur si toccò istintivamente il volto, avvampando per l’imbarazzo: − N-no. – rispose, girandosi dall’altra parte – Cioè, diciamo che è stato un malinteso. Credeva stessi male e per farmi rinsavire mi ha mollato una sberla in piena faccia. L’avesse fatto in modo normale, almeno! No, prima mi guarda negli occhi, sorride, e poi mi colpisce!
− Aaah, queste ragazze! Sembrano fiorellini, ma sono piuttosto manesche, sì?
− Veramente è stato un uomo.
Feliciano si girò verso l’altro, sgranando gli occhi nocciola. – Eh?
− Ma sì, il signore con cui stavo mangiando poco fa...
Gli occhi del ragazzo si allargarono ancora di più: − Ah. Caaapisco.
Arthur annuì, borbottando “Stupido idiota di un Alfred”, quando intuì l’equivoco in cui era incappato.
− U-un attimo! Non è come sembra... cioè, Alfred è il mio socio... siamo venuti qui per una specie di, ehm, pranzo di lavoro. – balbettò, il viso che assumeva un colorito porporino.
Feliciano annuì, soffocando un risolino. – Non si preoccupi. Sono soltanto sorpreso che una persona come lei abbia un amico simile.
− A-amico...? In che senso, scusi?!
Feliciano agitò una mano davanti al volto, consapevole a sua volta dell’involontario doppio senso e deciso a spiegarsi: − Vede, anch’io molto spesso mi ritrovo in situazioni critiche e allora ho questo mio amico che mi salva sempre non appena chiedo aiuto. Ѐ tanto gentile! Solo che mi ci sono ritrovato tante volte in momenti come quelli che è diventato quasi prevenuto sul mio comportamento, come se sapesse già che mi trovo in qualche guaio non appena lo chiamo! Ahaha! Ma lei mi pare un signore tanto coscienzioso, non sapevo che persone come lei avessero bisogno di amici del genere.
− Veramente – mormorò Arthur, accendendo il fornello e ponendovi sopra una pentola – Non avevo neppure idea di aver bisogno di un amico fino a pochi giorni fa.
− Signor Kirkland?
− Ah?
− Cos’ha intenzione di cucinare? – Feliciano batté le mani, entusiasta. – Sono curioso di vedere cosa sa fare! Sarà una specie di “Prova del cuoco” e ovviamente avremo anche il giudizio di Francis, no, volevo dire il signor Bonnefoy! Basta che arrivi, però... mi dispiace non sia qui a vederci, a lei dispiace?
− Un po’. Era per la sua presenza, più che altro, che volevo sfidarla.
− Oh? Ma allora ha detto tutte quelle brutte cose sul mio cibo solo per questo? Perché voleva che lo notassi?
Dannazione, l’aveva scoperto! Era così facile da decifrare? O forse era stato lui ad atteggiarsi nel modo errato. Beh, oramai negare era inutile.
− Ecco... alcune critiche ammetto di averle esagerate...
Feliciano spalancò la bocca per la sorpresa, poi corrucciò le sopracciglia in quello che doveva essere uno sguardo di rimprovero e lo rimbrottò, portandosi la mano destra sul cuore: − Signore, mi ha fatto venire un infarto! Pensavo di aver combinato chissà cosa! Beh, meglio così, basta che non lo ripeta mai più: sa, gli altri clienti sono suscettibili a queste cose, potrebbero condizionarli!
“Tranquillo, io ne so qualcosa di pareri di persone ignoranti influenzati da giudici altrettanto ignoranti” pensò Arthur, stringendo piano la mascella, i denti scricchiolarono.
− Mi perdoni, sono stato un essere ignobile a esprimermi in una maniera così sgarbata senza motivo apparente. Spero lei mi possa comprendere, non ho scusanti. – dichiarò, capo leggermente chino e dimesso.
Feliciano alzò un sopracciglio. Il tipo sapeva il fatto suo in merito alle buone maniere, almeno paragonandolo alle poche persone che conosceva personalmente lì a Londra. Decise di lasciar correre per il momento.
− D’accordo, signore... beh, quello che rimane del cibo fresco è lì nel frigo, mi fido e le lascio per un po’ il mio posto. Tanto lei è uno chef, no? Come Gordon Ramsay!
Arthur sogghignò, estraendo gli ingredienti che gli erano necessari da un piccolo frigorifero nell’angolo. – Tranquillo, si fidi di me. Si leccherà i baffi.
Bastò un quarto d’ora.
Le urla disperate di Feliciano, mentre le fiamme venivano spente prima che distruggessero l’intero baracchino, si sentirono sotto il rumore dell’estintore in azione.
− Cosa cazzo ho combinato... – sussurrò Arthur, mentre il getto si estingueva pian piano. La parete di fondo era annerita così come buona parte dei fornelli e un pezzetto di frigo. Feliciano osservava il tutto con le mani immerse tra i capelli, mormorando qualcosa in italiano, gli occhi nocciola spalancati diretti sul disastro mancato. I passanti che cercavano di sbirciare e capire cosa fosse successo, anche le cameriere, venivano puntualmente mandati via da quest’ultimo, minimizzando il tutto come un “piccolo incidente” detto a fil di voce.
Mamma mia – esclamò, appena si fu ripreso. – Ci è mancato un pelo! Lovino mi farà la pelle appena lo scoprirà... Oh, signore? Sta bene? Abbiamo rischiato grosso! Per fortuna avevo l’estintore sul retro, altrimenti sarebbe stato un macello!
− Direi di sì... sono terribilmente spiacente.
Arthur arrossì: aveva pressoché incendiato il piccolo stand, dimostrando quanto fosse inetto e il ragazzo si chiedeva come stesse. Era un filo commosso.
− Spero solo che l’assicurazione paghi i danni. Lovino non voleva farla l’assicurazione, diceva che era un ennesimo spreco di denaro, ma io l’ho fatta lo stesso. Oh, se non mi risarciscono loro, vengo a pretendere i danni da lei, sia chiaro.
Commosso un piffero. L’italiano bastardo non era tanto diverso da Alfred.
− Sono sicuro che troveremo un modo per conciliare le due parti – promise Arthur, mentre l’altro lo guardava storto. Feliciano sospirò. Arthur si allontanò di un passo, raddrizzando la schiena e assumendo una posa dignitosa, arrivando togliere il cappello bruciacchiato sui bordi pur di apparire meritevole. Era sicuro di aver cucinato bene, stavolta, e se non fosse stato per il piccolo incendio, avrebbe fatto un figurone anche con Francis. Non sarebbe accaduto come il giorno prima con Alfred, assolutamente. Arthur avvertì una presenza sulla spalla: una fatina stava osservando come lui la situazione; le fece l’occhiolino, consigliandole in un bisbiglio di stare a vedere.
− E va bene. Quello finisce nella spazzatura, però mi dispiace tanto! – decise Feliciano, sconsolato: era sempre curioso di assaggiare sapori nuovi e aveva perso quell’occasione. – Senta signore, questo incidente è stato incredibilmente maldestro da parte di un professionista, ma... – i suoi occhi si aprirono luccicanti – Ho capito. Lei aveva difficoltà a cucinare in uno spazio così angusto, giusto?
Arthur rialzò lo sguardo, improvvisamente speranzoso. Il ragazzo aveva ragione: non era lui incapace, era l’ambiente che non gli permetteva di esprimersi!
− Ehm... sì, certo. – Cazzate, lo sapeva anche lui che erano cazzate, ma aveva una dignità da difendere, anche a costo di mentire.
− Peccato, allora. La nostra sfida termina qui, mi dispiace solo che Francis non abbia potuto dire la sua. Ѐ raro che non s’intrometta su praticamente ogni cosa, proprio stavolta... eh, peccato.
Arthur sentì il petto riempirsi di calore, nel sentire della possibilità di rincontrare Francis. Non gli interessava più della sua opinione, voleva solo rivederlo in faccia, non era neppure importante se avessero litigato di nuovo. Sentiva in cuor suo che se gli avesse di nuovo rivolto la parola sarebbe stato sufficiente per lenire quell’orribile peso che portava da un anno nel cuore. Impossibile. Occasione persa. – Già.
Feliciano lo stava scrutando, facendolo sentire un po’ a disagio. Si schiarì la gola.
− Allora, come si fa? Devo intervenire anch’io per l’assicurazione, dal momento che ho fatto io il danno? Spero di non aver causato troppo disagio, insomma, è stato un incidente, lo ha detto anche lei...
Feliciano scosse la testa, sorridente: − Non si preoccupi, mi arrangio io. Adesso, se non le dispiace, potrebbe lasciarmi pulire questo disastro? Sono già passate le tre e io vorrei fare la mia siesta, ma non prima di aver messo a posto.
Rise, un suono argentino anche se fievole, colmo di luce. Arthur ne rimase piacevolmente colpito.
− Faccia pure. E buona fortuna per il suo lavoro di cuoco, è un mondo difficile questo.
− Che il Signore vi sorrida! – lo salutò quando Arthur uscì. – Finché non ci rivedremo... – aggiunse, lasciando andare un sospiro.
Guardò nuovamente verso il cucinino annerito dal fumo e per poco non si lasciò scappare un urletto. – Ehi! Signor Kirkland? – ma l’altro se n’era già andato. Feliciano alzò le spalle e tornò ai fornelli, precisamente alla pentola in cui stava cucinando l’altro prima del disastro. Un sorriso estasiato gli si aprì in faccia.
− Non ho idea di cosa stesse cucinando prima quel tizio, ma credo che qualcosa si sia salvato. Almeno spero. – mormorò tra sé.
Avvicinò il volto all’ impasto. Effettivamente il piatto era tre quarti carbonizzato, ma un quarto era perfettamente integro. Un boccone sufficiente per assaggiare come fosse venuto fuori. − Mi sa che Francis non vorrebbe mangiare questa cosa e mi dispiace, sapendo quanto ci teneva quel tizio – mormorò.
Una lampadina gli si accese in testa. – E se lo assaggio e gli dico la mia opinione? – esclamò ad alta voce, tra sé e sé. – Non sono un critico, anzi, sono una “bocca buona” ma lui è stato quello che ha disapprovato i miei piatti come se fossero mer... ehm, schifezze, voglio proprio assaggiare un piatto da chef. Non è stato neppure intaccato dall’estintore!
Feliciano prese una forchetta, separò il cibo commestibile da quello andato in fumo, domandandosi che diavolo avesse cucinato l’altro: aveva preparato gli ingredienti cercando di nascondere le proprie azioni, neanche avesse paura che gli copiassero la ricetta, ma l’altro era riuscito a sbirciare le sue mosse. Ciononostante, il preparato finale era tutto meno che riconoscibile. “Sarà una qualche ricetta inglese” pensò.
Ne mise in bocca un boccone.
L’urlo che seguì fece sembrare la reazione di prima un sussurro nel vento. Feliciano stava addirittura piangendo da quanto quello che aveva in bocca gli faceva schifo.
− Che è sta robaaa?! Ѐ la cosa più disgustosa che abbia mai mangiato, sa d’immondizia, mi viene voglia di morireee! – e giù singhiozzi. S’interruppe solo perché delle ragazze si erano voltate verso di lui, la lagna stava minacciando la sua fama di latin lover.
“Seriamente, che è ‘sta schifezza?” sputò il bolo in un pezzo di carta asciuga tutto. “E sarebbe uno chef, questo qua? In quale universo lo si potrebbe definire tale?”
Il suo volto raggelò per un secondo. Si voltò verso i tavoli, dove l’altro si era diretto.
Una strana luce nei suoi occhi: non era l’espressione esageratamente gioiosa della foto nella pubblicità, neppure quella più quieta e gentile di prima, era una luce diversa da qualsiasi altra fosse passata sul volto del giovane da un bel po’ di tempo a questa parte e per tale motivo era indecifrabile. Questa volta non c’erano fatine a fare la spia, però.

Alfred tamburellò nervoso il tavolo. Non era abituato a essere lasciato così, da solo, e trovava la sensazione alquanto scocciante. Bevve l’ultimo sorso della Coca, pregando qualsiasi divinità esistente che il vecchio bastardo non combinasse pasticci. Prima la cosa non aveva funzionato, ma la speranza era l’ultima a morire, no? Arthur aveva un piano. Non si sa cosa girasse per la sua testa bacata, ma cazzo, avere un piano è sinonimo di successo assicurato, giusto?
Alfred maledì la sua decisione di non averlo colpito più forte, magari lo avrebbe fatto svenire e quindi portare al pronto soccorso, e invece no. Ora stava cucinando. La cosa lo rendeva a ragione in preda al panico.
Si lasciò andare sulla panchina, rischiando di fare un capitombolo dal momento che si era dimenticato che mancassero gli schienali.
− Dannazione, voglio tornare a casa. Da quando Kirkland si è accorto che c’è anche il francese quaggiù, è diventato più strambo del solito – mugugnò. Guardò la gente attorno a sé, famigliole allegre in maggioranza, e decise che era stufo di rimanere lì da solo come un idiota. Si alzò dal suo posto e andò sul confine dell’area governata dallo stand, sgranchendosi le gambe addormentate. Le lenti dei suoi occhiali riflessero la luce del sole, costringendolo a toglierseli per un attimo.
− Povera creatura, accecato dall’astro guidato da Apollo. Giornate così non si vedono spesso quaggiù, siamo poco abituati a tale splendore. – constatò una voce maschile dietro di lui. Si girò e, anche con la vista annebbiata, riuscì a riconoscere la persona che gli stava rivolgendo la parola.
“Ma non era andato a giudicare i piatti dello scorbutico?”
− Mr Bonnefoy! – esclamò Alfred, in un tono che cercava di apparire sorpreso. Si sistemò gli occhiali: sì, era proprio lui. – Anche tu qui?
L’altro lo squadrò intrigato, togliendosi un ciuffo ribelle da davanti il viso: − Bonjour. Ci siamo già presentati?
− Sono Alfred F. Jones, il proprietario dell’Eagle. Sai, quello che ha preso il posto dell’ Arthur’s Kitchen, in Fleet Street.
Il volto di Francis s’illuminò: − Oh, Alfred, già! Ora rammento, il giovane americano dalle grandi speranze! –. Ridacchiò al ricordo della sua visita. – Ѐ un piacere rivederti in giro. Come va? Il tuo locale è riuscito ad affermarsi? Era una specie di fast-food, giusto?
− Esattamente. Beh, non è ancora decollato, ma ci sto lavorando sodo! Ho addirittura assunto un nuovo socio che mi aiuti!
Francis alzò un sopracciglio, perplesso: − Davvero? E avete i clienti per riuscire a pagarvi entrambi lo stipendio? Non che dubiti le capacità di un giovane ambizioso come te, sia chiaro, ma sai bene che spesso i soldi logorano anche i rapporti più stabili.
Alfred si grattò il gomito, senza sapere bene cosa rispondere, il labbro inferiore morso dagli incisivi: − Il mio socio è molto, molto motivato... e non certo dal denaro. Potremmo dire che, come dire? Si tratta di una persona speciale.
Francis annuì, muovendo la testa e agitando i capelli biondi davanti al viso. Aveva assunto un’espressione malinconica. – Speciale, ah?
− Esatto. Una testa dura come il cemento, tenace al massimo, non si ferma davanti a niente e nessuno.
− Una testa dura... mi ricorda tanto una persona che conoscevo. – Francis sospirò. – Mi piacerebbe conoscerlo, questo socio speciale.
Il nervosismo del ragazzo era scomparso, sostituito dalla sua proverbiale fierezza. Si mise le mani sui fianchi, schiena dritta e sguardo altero. – Puoi venire quando vuoi! Il mio fast-food non si è mosso dall’ultima volta in cui sei entrato, è sempre là.
Alfred avrebbe dovuto avere un linguaggio più garbato, probabilmente, ma la sua totale noncuranza a riguardo fece ridere il noto critico.
− Dovrei prenderlo come un invito a mangiare da te? – domandò, un sorriso malizioso gli increspò le labbra. Alfred si sentì a disagio sotto quegli occhi penetranti, ma non durò a lungo.
−  Sono tutti i benvenuti nel mio splendido locale! Basta che non siano inglesi, quelli mi stanno antipatici. Troppo snob.
Francis scoppiò a ridere: − Mon cher, tu non eri al banco poco fa e non sai cos’è successo!
− Cosa, cosa, dai, sono curioso!
Francis ne approfittò per avvicinarsi al volto di Alfred,  parandosi la bocca con la mano come se si trattasse dell’ultimo gossip: − A quanto pare due clienti si sono messi a sparare sentenze contro quello che stavano mangiando, lagne assolutamente patetiche tra l’altro. Ora, la cucina francese è nettamente superiore a quella italiana, non so se capisci tu che vieni dall’altra parte dell’oceano, ma comunque erano esagerati... insomma, la cosa divertente di tutto ciò è che non si sapeva chi fossero i due, ma era sicuro che uno fosse inglese. Chi è che rompe le scatole? Un inglese. Tipico, no? Deve essere nel loro DNA. Ah ah ah!
Alfred non sapeva se ridere od offendersi per la cosa. Dal momento che mostrarsi infuriato avrebbe significato essere scoperti all’istante, decise di sorvolare.
− E l’altro? Non era della stessa nazionalità? – chiese, facendo finta di non sapere.
− No, a quanto pare, però sai, l’accento varia nelle varie parti dell’Inghilterra. Magari uno era londinese e l’altro di Birmingham.
− Ah, questi inglesi. – sentenziò Alfred, scuotendo la testa – Sempre a criticare. Sapessero almeno di cosa parlano!
− Suvvia, Jones! Non essere così duro con loro. Magari un giorno, chissà? Ti troverai una bella fidanzata quaggiù, una british girl che ti farà cambiare idea.
No way! – Alfred incrociò le braccia davanti al petto a mo’ di scudo. – Mi tocca già lavorare con un ingl... volevo dire, non ho bisogno di una ragazza, ho troppo lavoro da fare! L’amore può aspettare.
Francis sorrise, come se sapesse qualcosa che lui non sapeva.
− Che brutta cosa, sacrificare i sentimenti per la carriera... Comunque adesso mi hai incuriosito con la storia del nuovo socio. Ѐ un bel tipo?
Ci volle un po’ perché Alfred afferrasse ciò che Francis intendeva dire. Alzò le spalle. – Ecco... Beh, diciamo che è un tipo. Non ti saprei spiegare.
− Alto, basso, biondo, moro...?
Alfred mosse gli occhi da destra a sinistra, sbuffando. Gli dava un certo fastidio parlare di Arthur, dal momento che il rischio di far saltare la copertura incombeva come una spada di Damocle.
− Perché dovrei dirtelo io? Vieni nel mio fast-food, così lo vedrai con i tuoi occhi! – esclamò, quasi senza pensarci (come la maggior parte delle cose che diceva, d’altronde), rendendosi conto delle sue parole sono quando l’altro rispose: − Uhm, perché no? Sono curioso di vedere i tuoi progressi... e conoscere questo misterioso signore. Anche se non servi proprio il tipo di piatti che preferisco, farò uno sforzo. Penso di riuscire a venire entro la fine della settimana, ti va bene?
Alfred spalancò la bocca tentando di ribattere qualcosa, ma Francis lo interruppe con un buffetto sulla guancia.
Cher Alfred, devo andare, perdonami: mi sono intrattenuto anche troppo con te. Ci vediamo, allora!
E se ne andò, senza dargli neppure il tempo di salutarlo.
 
La prima cosa da fare era avvisare Arthur, e fu quello che Alfred fece. La reazione del primo fu molto contenuta. – Ah sì? Va bene. – fu tutto quello che disse.
− Potresti anche mostrarti un po’ più entusiasta! O incazzato, che ne so! Che risposta è questa? – sbottò Alfred, rimasto delusissimo da tale freddezza. Stavano tornando verso l’ Eagle, attorno a loro sfilavano i negozi luccicanti della via principale. Il rumore del traffico copriva i loro discorsi.
− Ѐ la mia risposta: va bene così.
− Sarà che non riesco a recepire bene i messaggi subliminali, ma non mi pare che tu mi abbia detto tutto. Insomma...
− Stai tranquillo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. – lo rassicurò Arthur, posandogli una mano sulla spalla. Il ragazzo si calmò un poco, senza però togliergli quello sguardo sospettoso di dosso.
“Fai bene a preoccuparti, invece” pensò Arthur, “Non ho idea di cosa succederà. Già ero sollevato del fatto che Francis se ne fosse andato quando sono arrivato al baracchino, ora è sicuro che lo rincontrerò e... non ho la più pallida idea di come reagire. Di cosa gli dirò quando lo vedrò o di cosa dirà lui vedendomi, perché non ha idea che sia io quello che lavora con te. Ho paura, sai? Ho paura di mostrarmi per l’ennesima volta imbranato ai suoi occhi. Non posso permetterlo. Ho paura di perdere nuovamente il controllo”.
Non riuscì a sopportare a lungo quegli occhi azzurri addosso e voltò la testa, insofferente: − Devi ancora chiedermi come sia andata la mia sfida culinaria contro il cuoco italiano.
− Non sono in vena di storie dell’orrore.
Arthur minacciò con il linguaggio non verbale di buttarlo sotto un bus.
− In realtà, brutto diffidente, sono andato abbastanza bene – alzò il mento, fiero. – C’è stato un minuscolo incendio, ma nulla di più. Credo di aver superato me stesso oggi.
Alfred si bloccò in mezzo al marciapiede, gli occhi e la bocca spalancati per lo shock.
− C...COSA? Un incendio? Avevi intenzione di distruggergli la postazione, era questo il tuo piano meraviglioso? – Alfred lo raggiunse con due falcate, lo prese per le spalle urlandogli in faccia: – E se ci chiedono i danni, dove li troviamo i soldi? Imbecille!
Arthur se lo scrollò di dosso, risistemandosi la giacca (che solo in quel momento Alfred notò aver tracce di bruciato sulla stoffa) sdegnato.
− Posseggono un’assicurazione contro gli infortuni, me l’ha detto lui stesso! Non ci faranno causa... spero.
− Se però viene fuori il contrario, stai certo che non ti farò pagare nulla: ti spezzo tutte le ossa, ma non ti faccio pagare nulla. – la minaccia fu accompagnata da un terribile movimento dell’indice verso la sua direzione e un’occhiata che avrebbe incenerito molto più del fuoco divampatosi dai fornelli.
− Che gentile che sei, proprio il comportamento adatto a un eroe! – sputò Arthur, deridendolo con un sorrisetto cinico. − Quanto vorrei fossi tu a ricevere il prossimo premio Nobel per la Pace: dopo Vladimir Putin mi sembri il candidato più adatto.
Alfred sogghignò al pensiero: − Magari! Se lo vincessi io al posto suo, sarebbe l’ennesima prova della superiorità americana sulla Russia.
Arthur sorrise, ma non rispose. Quelle punzecchiature erano riuscite per un po’ a fargli dimenticare i pensieri ossessivi che lo tormentavano e gliene era grato, ma ora l’ombra scura che lo perseguitava stava riguadagnando terreno. Le labbra si strinsero, gli angoli scesero verso il basso. La tregua non sarebbe durata a lungo.
Arrivarono al locale che Alfred stava ancora chiacchierando allegro, dimentico dell’incidente, mentre Arthur alzava un muro fatto di pensieri sempre più difficili da controllare, ognuno in un mondo a sé in cui l’altro non era che un interlocutore.
Non notarono a prima vista la figura che li stava aspettando davanti all’entrata.
− Mr Kirkland! Mr Jones! Salve! Ho visto la scritta “chiuso”, ma non sapevo foste effettivamente usciti... sono arrivato giusto in tempo!
− Perdonaci Toris. Ѐ da tanto che aspetti? – lo salutò Arthur riemergendo dal suo silenzio, mentre l’altro sventolava la mano come se non lo vedesse da secoli
− No... anzi, devo proprio dirvi cosa è successo poco fa, devo fare presto perché un amico mi aspetta! – Toris sembrava non stare più nella sua stessa pelle. Alfred gli rivolse un sorriso smagliante, estraendo dalla tasca la chiave per aprire il locale..
− Ora ci racconti tutto, ma preferisco farlo davanti a un hamburger. Ho una fame da lupi, ahahaha!


 

* * *

Guess who’s back.
Prima che mi venisse un esaurimento nervoso e spaccassi il pc, ho deciso di spezzare il capitolo in due parti e offrirlo ai miei discepol-, wait no. Dicevo.
Questa è la prima parte del capitolo, poiché è DAVVERO lungo stavolta *trattiene gli spoiler*
Domanda alle veterane, scrivere la prima fic è sempre così, ovvero un misto tra tormento e delizia? In questo caso molto tormento. Taglio corto.
GRAZIE MILLE A CHI LEGGE E/O RECENSISCE *spedisce tonnellate di ringraziamenti ciascuno/a*, spero di non deludervi. Nel caso, informatemi.
Grazie anche all’admin Ita-chan che mi ha permesso di pubblicare nella sua pagina un mio disegno di Feliciano qui cuoco-gondoliere improbabile. Forse è meglio se mi rimetto a scrivere.
A presto!
L.B. Shadow

   
 
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