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Autore: Lost In Donbass    28/10/2016    1 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO QUINDICI: 1000 OCEANS
We have to go 1000 oceans wide,
1000 dark years when time has died
1000 stars are passing by
We have to go 1000 oceans wide
1000 times against the endless tide
We’ll be free to live our lives
 
 
 
Tom aveva sempre pensato che in fondo le sceneggiate sulla separazione fossero roba da donne. Che lui non avrebbe mai pianto per cazzate simili, che non avrebbe mai minimamente sofferto per una stupida partenza imprevista. Beh, in quel momento era pronto a riscrivere completamente tutto il suo credo, a ribaltare le sue posizioni e le sue credenze, era pronto a convertirsi al culto delle lacrime e diventarne un fervente missionario da spedire a Chatman per la conversione, come facevano i cristiani nell’800. Era pronto a separare il suo vecchio Io che giurava di non piangere, di non spezzarsi, di non essere sentimentale. Perché in quel momento se ne stava sul divano immacolato di casa Kaulitz, con Bill tra le braccia che singhiozzava ininterrottamente da ore, un brutto magone che spingeva per uscire, gli occhi doloranti per trattenere le lacrime che avrebbero voluto scorrere e il labbro martoriato. Aveva perso ogni traccia di contegno e di sanità mentale dopo che aveva ricevuto quella tragica telefonata, proprio quando era convinto che ora tutto sarebbe andato per il meglio nelle loro vite sul limite del rasoio. In realtà, non avrebbe potuto assolutamente dire che cosa aveva fatto dopo che aveva messo giù: non ricordava nulla di non preciso che non fosse lo skateboard riafferrato di colpo, sua mamma che lo chiamava ma la cui voce si perdeva nei meandri del suo shock, la strada che conosceva a memoria percorsa a velocità folle, rischiando di venire investito più volte, gli occhi accecati dalla disperazione e l’inquietante villa di Bill immersa nel silenzio più totale, spezzato solo dai singhiozzi strozzati del moro che, raggomitolato sul divano, non la smetteva di piangere grosse lacrime di trucco che rotolavano giù sulle sue guance pallidissime. Erano soli in casa, aggrappati al divano come fosse l’unica scialuppa dopo il naufragio del Titanic, uno appeso all’altro a sostenersi a vicenda come due angeli caduti dal Paradiso e due demoni cacciati dall’Inferno, muti, senza che si fossero detti nulla. Gli era bastato suonare per vedere la porta aprirsi scricchiolando e vedersi di fronte Bill in tutta la sua bellezza eterea e sfuggente, oscura e dannata che gli collassava tra le braccia piangendo disperato, per trovarsi così sul divano ad accarezzargli ossessivamente i capelli e a trattenere il pianto, sentendo il corpicino freddo e anoressico dell’altro scosso dai tremori strozzati, incapace di fare altro che non fosse stringerlo a sé per fargli sentire che lui c’era, che era lì, non era un miraggio ma era proprio Tom, il solito rasta che gli aveva giurato che sarebbe rimasto e che lo aveva accettato per quello che era davvero, sotto le mille maschere.
-Ehi, Bill … - lo sussurrò a voce talmente bassa e soffocata che non fu nemmeno del tutto sicuro di aver parlato, se non quando Bill alzò lo sguardo stravolto dal pianto e dall’orrore sul suo viso, grosse gocce che gli ornavano le guance. – Piccolo mio, sono qui con te … ok? Sono qui, non avere paura.
Gli accarezzò una guancia col pollice, sentendo i battiti impazziti del cuore rimbombare con quelli di Bill, creando un’armonia dissonante e fastidiosa, fatta di brutti tamburi che sbattevano uno contro l’altro senza un filo logico. Sentì le lunghe mani dell’altro avvolgersi ai suoi dread, il viso da bambola rifugiarsi nel suo collo, il suo corpo aderire ancora di più al suo, come volesse fonderli
-Tom … Tom … non … Tom, ti prego aiutami, salvami, portami via da qui, per favore, Tom io non ce la faccio più … - la voce spezzata di Bill faceva più male che miliardi di coltellacci piantati nel fegato, distrutta come uno specchio caduto per terra, così disperata da far venire la pelle d’oca. Per me Bill, forse, la speranza era sempre stata la prima a morire. Ma non l’amore, l’amore no.
-Shh, calmati adesso.- Tom tirò su col naso, facendogli alzare la testa e posandogli un bacino delicato in mezzo agli occhi, sentendo l’ansimare stremato di Bill infrangersi come onde in tempesta sul suo viso. – Prendi un bel respiro adesso, e raccontami tutto con calma. Ce la faremo, Bill, ce la faremo sempre io e te, lo sai.
Bill si asciugò gli occhi con la mano, il corpo magro ancora scosso da tremiti, accucciandosi ancora più stretto a Tom e al suo fisico stabile e bollente, che irradiava quel calore di cui avevo tanto bisogno
-Mia madre e mia sorella … mi vogliono sbattere in una clinica per malati terminali a Berlino. Dicono che è per me ma io lo so che vogliono solo liberarsi di me … Tom, cosa faccio adesso?
Tom cercò di trattenersi dal saltare in piedi con un fiero pugno chiuso e un “Fuoco ai borghesi, Bill, falce e martello, rivolta!”, e si limitò a prendergli il viso tra le dita, fissandolo in quegli enormi occhi accecati dal pianto.
-Bill, non ti devi abbattere, va bene? Ci sono io qui con te, e lo sai. Non ci posso credere che la tua famiglia ti voglia condannare a una cosa simile, non ci voglio credere.
-Ma pasticcino, questo come lo chiami?
Quel tirare su col naso in modo quasi infantile che faceva a pugni con il trucco pesante e i piercing, la vocina pigolante che sembrava assolutamente fuori dal contesto di abbandonarsi sul divano tra le sue braccia, il labbro tremante che non poteva appartenere alla stessa bocca ricoperta di rossetto che aveva sentito troppe volte dovunque sul suo corpo, le mani che afferravano impacciate un depliant bianco candido quando solitamente erano saettanti e sicure di loro, con le loro dita ricoperte di anelli gotici e le unghie smaltate accuratamente, i singhiozzi da cucciolo impaurito che davvero stentava a ricondurre alla voce sprezzante e altezzosa, tutto quello non fece che far rabbrividire Tom di una paura ancestrale che aveva cominciato ad attecchire fastidiosamente al suo cuore. Bill era un ragazzo incredibilmente solo e incredibilmente debole, che cercava di riemergere in un oceano in tempesta che tentava di affogarlo in tutti i modi, trovandosi appeso a un pezzo di legno levigato dal mare che andava alla deriva tra i flutti: e quel pezzo di legno portava inciso sopra, come fosse il nome di una vecchia barchetta, la scritta, forse un po’ cancellata e corrosa dal sale di “Tom”. Sì, il rasta era un pezzo di legno bianco che veniva sballottato qua e la nell’oceano artico più selvaggio e inospitale, costretto a vagare senza mai trovare una meta, una spiaggia su cui lasciare riposare le stanche ossa, un lido dove potersi abbandonare a scaldarsi al sole del meriggio. E se lui era il pezzo di legno reietto e solitario, il pellegrino che non trovava casa, il soldato perso al fronte, l’eroe senza nome di una guerra senza combattenti, il rivoltoso lasciato a marcire in carcere, allora Bill non era altro che una vela strappata del peschereccio affondato, il pony del pellegrino che lo seguiva fedele per mare e per monti, il disperato amante che cercherà fino alla morte la tomba del suo milite ignoto, l’estimatore segreto dell’eroe innominato, le lettere bruciate della ragazza che aspetta invano. Se Tom rappresentava tutto quello che si ribellava a un sistema opprimente e bigotto, che lottava con i denti e con le unghie per far valere i diritti del popolo comune, che si imponeva come eroe di una classe sociale proletaria e oppressa, Bill non era altro che la costante vittima del bigottismo della classe dirigente, troppo debole per andare contro i diritti che gli sarebbero stati concessi se non fosse stato così schifosamente outsider dentro per poter incastrarsi nella sua classe sociale, incapace di imporsi ma in grado di adorare fino alla fine il dissidente popolano contro tutti i precetti con cui era stato cresciuto. Tom amava il modo in cui Bill fosse così chiuso nella sua gabbia dorata e che lo chiamasse per salvarlo, esattamente come Bill amava il coraggio di Tom nel cercare di scassinare la sua prigione di diamante. C’era una storia taciuta e segreta, che coesisteva tra i due ragazzi sin dal primo momento in cui si videro in faccia e che era durata imperitura fino ad allora. Era un racconto nero, di quelli che solitamente la gente perbene non legge, quelli che si raccontano gli adolescenti in campeggio, quando sono attorno al fuoco, o che i fratelli più grandi dicono ai più piccolini per spaventarli, era uno di quei racconti sporchi che alle nonne non piacciono, troppo politicizzato per essere apprezzato e troppo volgare per non essere di cattivo gusto. Era la storia di una scuola di provincia, quei luoghi brutti, che i borghesi vogliono ignorare; c’erano due sole linee di pensiero possibili, là dentro, e questo non è bene per la democrazia centrista che le persone vogliono per teneri tutti calmi, linee che facevano a capo a due figure che farebbero inorridire: un ragazzo rasta che studiava la vita della strada scorrazzando sullo skateboard e suonando la chitarra per strada e un ragazzo che sfiorava la transessualità che viveva in una gabbia dorata da cui voleva scappare; c’era l’amore perverso, spinto, punk rocker che li legava e che li separava, c’era il sesso sboccato nei posti più assurdi, c’erano dei “ti amo” gridati insieme a delle bestemmie, c’erano litigate così furibonde da fare paura, c’era la droga e c’era una malattia mostruosa che lottava per vederli morti entrambi; c’era il cambiamento, la maturazione di due personalità troppo violente e troppo appassionate, c’era un nuovo modo di vedere l’un l’altro, c’erano anche dei baci e delle lacrime. C’era una storia su Tom e Bill, scritta nelle stelle, quella sera. Una storia che, Tom lo sapeva bene, non sarebbe finita lì ma si sarebbe protratta fino alla fine dei tempi, con i suoi fuochi artificiali inestinguibili. Loro erano fatti per bruciare e risorgere. Non per rimanere stupida cenere da spazzacamino.
-Perché non ti opponi? Cioè, non sei mica obbligato ad andarci.- Tom si grattò una guancia, guardando Bill con la sua aria da bamboccio.
-Sì che sono obbligato.- Bill soffocò un singhiozzo nella felpa del rasta – Oh, Tom, non puoi capire. Io devo andare. Se non lo faccio … non oso immaginare le conseguenze! Sarei … cacciato via per sempre …
-E spiegami che ti cambia!- Tom gli strinse il visino tra le dita, facendoselo sedere a cavalcioni addosso – Su, tesoro, ragiona. Non ti caccerebbero mai via.
-Tu non conosci questa gente! Loro mi odiano a morte! Mi odiano perché sono gay, perché sembro una ragazza, perché mi vesto in modo diverso, perché sono nato malato, perché mi ribello sempre, perché ho fatto separare i miei genitori, perché me ne frego del loro impero economico, perché sto con te! Mi vogliono tutti male.
Bill scattò in piedi, barcollando pericolosamente sulle lunghe gambe da gazzella che non lo avevano mai retto davvero in piedi, le mani premute sul viso violato dal pianto e dal trucco sciolto e colante come quello di una maschera. Chiuse gli occhi, cercando di reprimere un altro carico di singhiozzi che lo scossero come colpi di pistola, rimbombando per tutto il salotto come i colpi di un gong suonato da un monaco sull’Annapurna che voleva segnare la loro morte civile.
-E tu sbattitene, cazzo!- Tom lo afferrò per la vita, stringendolo forse con troppa forza e veemenza, visto che Bill squittì di dolore e gli fece scattare via le mani come se si fosse ustionato. Si limitò a riposargli le mani sui fianchi con più calma, senza schiacciare le carni, accarezzandogli coi pollici i lembi di pelle pallida e soda lasciati nudi dalla maglia slabbrata. – Non te ne deve fregare nulla di quello che pensano questi figli di puttana, va bene? Hai me, adesso. Non hai più bisogno di nessuno.
Il moro cercò di sopprimere le lacrime che gli incendiavano gli enormi occhi, guardando quelli scuri di Tom dove non vi si leggeva altro che tanta voglia di rivolta, di eroismo da fumetti Marvel e di amore confezionato da anni di televisione. Lo vedeva col suo occhio vivo e brillante, mentre gli leggeva dentro l’anima incendiata dalla furia proletaria di salvezza con quello cieco e opacizzato. Tirò su col naso, poggiandogli le mani sulle spalle larghe, cercando di concentrarsi solamente sul profumo di fumo, sudore, menta e musica rock che il rasta emanava e di cui si sarebbe volentieri ubriacato, focalizzando le sue attenzioni sulle mani grandi e larghe che gli avvolgevano la vita come una capsula protettiva.
-Io … lo so che ho te, pasticcino alla vaniglia, non metterò mai in dubbio il fatto che sei l’unica cosa che amo e che amerò finché vivrò ma … non mi puoi capire. Non puoi capire questo. Sono comunque la mia famiglia, se io me ne andassi …
-Se tu te ne andassi sarebbe meglio per chiunque!- sbottò Tom, lasciandosi prendere da quella furia distruttiva e violenta che lo animava da quando aveva deciso che Bill sarebbe stata la sua rock opera, la sua seconda stella a destra, la sua Tortuga e la sua pietra filosofale. Non era disposto a cedere la sua ricchezza a nessuno, perché ormai quel ragazzo era suo e niente avrebbe più potuto separarli. Si sarebbe battuto fino alla fine, perché Bill era la sua lotta per i diritti civili degli anni ’70 che non avrebbe potuto supportare, era la sua Resistenza che non aveva potuto organizzare, era il suo Jolie May nel quale non aveva potuto militare. E nei suoi mondi, quelle guerre avrebbero avuto un peso. – Bill, se ti cacciassero via di casa sai che potresti venire da noi; mia mamma ti adora, io ti amo, saremmo la tua nuova famiglia, vivresti con noi finché non avremmo finito la scuola. E lo so che forse casa mia è un buco, e tu sei abituato a una villa immensa, e che saresti costretto a dormire con me in un letto quando tu da solo dormi in un letto matrimoniale, e che mamma cucina sempre per un esercito e tu mangi pochissimo, ma … almeno ti vorremmo bene.
Tom forse non se ne rese conto, ma in quel momento qualcosa nel cuore di Bill si era spezzato. Non sentì il sordo crack che rimbombò nel silenzio distrutto che era calato nel salotto inamidato. Non si capacitò minimamente di aver azionato il deflagrare di una tempesta di dimensioni apocalittiche.
Bill lo fissò con un buffo sconcerto stampato nelle pupille, le mani che cominciarono a scivolare giù dalle spalle dell’altro, il labbro fremente. Barcollò all’indietro per un attimo, i piedini nudi che si accartocciavano incerti, l’improvvisa voglia di mettersi a urlare come un pazzo tutta la sua depressione e di buttarsi giù dal tetto di casa. No, non andava bene. Non andava bene, era tutto morto ormai, Tom non poteva fargli un’offerta simile, perché non ce l’avrebbe mai fatta ad accettarla. E se ne rimproverava da solo, perché in fondo forse non avevano tutti i torti quando gli dicevano che era debole, che non aveva carattere. Bill non aveva il carattere per reggere tutto ciò, quello era vero, si appoggiava sempre a qualcuno che fosse abbastanza forte da reggere la sua depressione nascosta dietro a un sorriso da copertina e un trucco perfetto. Non era forte, anche se faceva di tutto per sembrarlo. Non era forte, e a quel punto non era nemmeno coraggioso: era solo tanto, tanto, tanto stanco. Così stanco che avrebbe voluto mettersi a dormire per giorni, forse mesi interi, nella speranza che quando si sarebbe svegliato, avrebbe scoperto che era tutto un bruttissimo sogno.
-Tom … io non posso. È … assurdo.- sussurrò con aria ebete.
-Non è assurdo! È una via di fuga.- ribatté il rasta, riafferrandolo per le mani – Perché lo trovi assurdo? Sei maggiorenne, Bill, hai libera scelta su dove andare a stare. O forse … hai paura che ti diseredino? Credi che non sia abbastanza? Forse passare dall’essere miliardari a sbarcare letteralmente il lunario è troppo per te? Se fosse così, dimmelo, io non mi offendo, oramai non mi offendo più di nulla, posso capirti se …
-Non è per i soldi. Ho dei conti in banca miei che si sono aperti quando ho compiuto diciott’anni ma non è questo.- Bill lo guardava, ma al posto del viso infantile di Tom, che adorava a amava con tutto se stesso, vide stagliarsi il calvo cranio lucido di un teschio ghignante. Vedeva la morte. Letteralmente ovunque. Era ossessionato dalla morte e non poteva più farne a meno. – Tom … io ho paura. Ho tanta paura.
-Ma paura di cosa, Bill? Di cosa?- il rasta sbuffò esasperato, girando nervosamente attorno al divano immacolato, mettendosi le mani tra i dread biondicci – Porca puttana, mi vuoi spiegare che cazzo di problemi hai?!
Tom si stava arrabbiando, anche se non sapeva nemmeno lui con chi. Se con se stesso per non essere in grado di salvare Bill. Se con Bill stesso per essere così fottutamente enigmatico e per averlo fatto innamorare così perdutamente. Se con quella famiglia che aveva sconvolto le loro vite. Se con il mondo, per essere loro avverso. Oppure si sentiva semplicemente impotente di fronte a un qualcosa di così forte da non poter essere annientato da un round di botte o di minacce. Erano loro due, abbandonati contro un nemico che non potevano distruggere, costretti a combattere per sopravvivere alla stessa vita.
-Perché dovresti avere paura? Hai me, adesso! Ti ho promesso che ti avrei protetto, salvato, amato per tutta la vita che cosa vuoi ancora? Perché non ti va più bene?- diede un pugno sul muro, guardando il moro, raggomitolato nell’altro angolo del salotto, tremante e piangente, inginocchiato per terra con le mani premute sullo stomaco e un’aria terrorizzata da qualcosa che nessuno poteva vedere – Non riesco a capirti: cosa ti sta succedendo? Il Bill che conoscevo io si sarebbe ribellato a questa cosa, perché non lo fai più? Perché non vuoi dirmelo? Non mi vuoi più, cos’è, hai cambiato idea? Dio, parla almeno! Di cosa dovresti avere paura, ora che hai qualcuno su cui contare?
-Io non voglio morire, Tom, non voglio!- lo strillo acutissimo di Bill rimbombò nel silenzio della casa enorme, infrangendosi contro i muri bianchi e le orecchie del rasta come un’esplosione di bombe atomiche. – Mi puoi salvare dalla morte? Sai come curare la mia malattia? Sai come farmi vivere almeno ancora una decina d’anni? No! Non lo sai perché nessuno lo sa!
I due ragazzi si guardarono, occhi feriti e occhi orgogliosi che lottavano per la vittoria e la gloria di qualcosa che esisteva ancora, nel loro subconscio, spezzati da una forza che nessuno avrebbe mai potuto vincere.
-Pasticcino, io ho paura di morire.- continuò Bill con più calma, stringendo le ginocchia aguzze al petto. – E tu non puoi fare nulla.
Tom lo guardò, sospirando, la bocca stretta in una linea sottile.
-Perché tu dai per scontato che morirai, ma non lo sai se è vero o no. Me l’hai detto tu: avresti dovuto essere nella tomba già da anni, e invece sei qui. Quindi piantala di piangerti addosso, cazzo, Bill reagisci! Non sei da solo, ci sono io! Credi che sia tanto bello pensare che il mio ragazzo morirà e che sarò costretto a passare tutta la mia vita pensando a te, a quanto sei fottutamente bello, intelligente, perfetto, e maledicendo il giorno in cui ti ho incontrato? Non è una gran prospettiva di vita, ma almeno se siamo insieme possiamo reagire. Non puoi mollare ora!
-Pasticcino.- Bill si alzò barcollando, la voce bassa e distante anni luce, lo sguardo perso nel vuoto, il viso smunto e spento di qualcuno che non aveva più di suo se non l’amore e il senso di inadeguatezza che lo riempivano come un otre – Pasticcino, vai via.
Tom strabuzzò gli occhi, boccheggiando, sentendo per un secondo mille mani invisibili afferrarlo e strangolarlo, ridendo come miliardi di Petrushka e maschere pirandelliane che gli ruotavano furiosamente attorno, soffocandolo con le loro morse impalpabili ma letali. Per un attimo, gli girò la testa e gli occhi gli si annebbiarono, la gola fattasi improvvisamente secca come il Gobi.
-Cosa hai detto, Bill?- riuscì a esalare a stento, reggendosi al divano, spalancando gli occhi di fronte a quella diabolica ninfa che lo fissava come fosse il cavaliere arrivato troppo tardi. Come se la loro motocicletta avesse preso fuoco e li avesse fatti precipitare in un oceano di latte lunare e luci newyorchesi, come se avessero smesso di amarsi del loro amore bastardo e violento, smettendo di fare l’amore tra la gente, di uccidere il sole e di cavalcare la luna, come se tutta la strada infernale che avevano percorso fosse collassata su se stessa, lasciando i suoi demoni soli e spenti dalle vecchie fiamme, in due loschi appartamenti di una brutta Germania che viene nascosta agli occhi del mondo per la sua bruttezza piatta e solitaria.
-Ti amo tanto, lo sai, Tom?- Bill lo guardò con gli occhi velati, mentre cadeva seduto sul divano e gli indicava la porta con il suo dito lungo e grigiastro, decorato dai pesanti anelli. Eppure non stava piangendo. E nemmeno tremando. – Però … adesso … ti prego, vattene via. Lasciami da solo.
-Ma che cazzo stai dicendo adesso?! Cosa …
Tom non fece in tempo a finire di parlare che Bill si voltò verso di lui, grosse lacrime silenti che gli rigavano le guance e si trascinavano dietro gli ultimi residui di trucco, tramutandolo in un’orrida maschera sciolta, i capelli arruffatissimi, gli occhi animati da una furia cieca e selvaggia, la voce stridula e alterata
-Ti ho detto di andartene! Vai via!
Un cuscino tirato con poca forza sottolineò le sue parole e le sue urla scoordinate, insieme a tutto quello che trovava e che lanciava alla cieca nel tentativo di beccare il rasta, immobile sull’uscio del salotto, le lacrime trattenute fino a quel momento che cominciavano a rigargli le guance arrossate dalla rabbia.
Non fece nient’altro che lanciare un’ultima occhiata smarrita a quel ragazzo che piangeva da solo, tirando a caso cuscini e piagnucolando con il viso nascosto dalla cortina di capelli corvini, prima di precipitarsi di nuovo all’aria aperta, saltare sullo skate e scivolare via da quella casa da incubo, cominciando finalmente a piangere tutte le lacrime che aveva trattenuto ormai da mesi.
 
-Tom, tesoro mio, come mai ci sono il tuo zaino e il tuo skateboard in salotto? Avete vacanza a scuola, vero? Non ti servono mica.
Tom guardò a lungo sua mamma prima di risponderle. Guardò il viso stanco ma illuminato dal sorriso di una donna che aveva cresciuto eroicamente un figlio da sola e che cercava di vedere il mondo solo in positivo, i suoi capelli biondi legati in una coda scomposta, il suo grembiule a cuoricini che lui le aveva comprato qualche Natale prima, e sospirò rumorosamente. Non voleva lasciare sua mamma nelle vacanze di Natale. Non voleva lanciarsi in una missione simile e lasciarla a casa. Non voleva nemmeno essere ingrato visto come le era stato appiccicato negli ultimi due giorni, dopo che a cena, la tragica sera in cui era successo tutto quel casino, era scoppiato a piangere sul suo piatto di wurstel e crauti e le aveva raccontato tutto per filo e per segno. Non dopo che lei lo aveva abbracciato, e consolato e che lo aveva fatto dormire con lei dopo quasi una decina d’anni che non lo faceva più. Non dopo che lo aveva ascoltato e gli aveva detto che erano una coppia che si meritava a vicenda, che Bill doveva essere capito, che per quanto si sarebbe sforzato Tom non avrebbe mai potuto capire cosa si prova a essere un malato terminale di soli diciotto anni. Ma non poteva non farlo e lasciarsi morire così.
Si grattò una guancia, calcandosi il berretto da skater in testa
-Ma’… ci sarebbe una cosa che dovrei fare. Urgentemente. Tipo, oggi.
-E che cosa? È il compleanno di un tuo amico?- la signora Kaulitz sorrise, asciugandosi le mani sul grembiulino bianco e rosso – Perché hai quella faccia triste, tesoro della mamma?
-No, vedi … ma’, riguarda Bill.- il rasta si ingolfò nella felpa, caricandosi lo zaino su una spalla e afferrando lo skate.
-Oh. Ti ha invitato a dormire da lui? Perché non mi hai detto che avete fatto pace, Thomas?!- forse avrebbe dovuto dirle prima della clinica, ma oramai sua mamma era partita per le sue tangenti imbarazzanti – Guarda che ora io la prendo come cosa quasi ufficiale, eh? E poi, ti sembra il modo di andare vestito a una cosa romantica?! Ti avevo cresciuto bene, io, Tom. Uh, e se … beh, mi hai capito da solo, guarda di …
-Mamma!- sbottò esasperato il ragazzo, interrompendo la parlantina della donna – Non vado da Bill, ok?! O meglio, ci vado ma non è come credi. Senti, ma’- mise le mani sulle spalle della signora, scostandole una ciocca bionda dal viso – E’ una storia molto complessa e molto poco simpatica, quindi scusami se non te ne ho mai parlato prima, ma credo che sia stato meglio così. Devo andarmene per due o tre giorni, non tanto, con quei soldi che avevo guadagnato quest’estate, ti ricordi?, non posso non farlo, ne va della mia sanità mentale.
-Andare? Ma dove? Tom, che cosa stai dicendo?- la signora Kaulitz si sfregò le mani sugli occhi, incredula, guardando suo figlio che apriva la porta di casa.
-Senti, ma’, non lo farei se non fosse una cosa seria, ok? Ti fidi di me?
-Ma certo che mi fido di te, tesoro, ma non riesco a capire cosa …
-E’ meglio se cerchi di non capire. Ma entro venerdì sarò di nuovo qui con te, felice una volta per tutte.- Tom soffocò un certo magone che cominciava a farsi largo nella sua gola alla vista dello sguardo perso di sua madre, aprendo la porta e uscendo a ritroso. – Davvero, mamma, sto andando a fare qualcosa che ti renderà fiera di me. Vado a salvare Bill, ok?
-A salvare Bill?- sua madre lo fissò per bene, prima di mollargli un sonoro schiaffone sulla guancia, subito seguito da un bacio sulla fronte – Io non so cosa ti salti in quella testa a tubi che ti ritrovi, Thomas, ma se proprio devi farlo … vai! Piuttosto, dov’è che stai andando?
Tom, semplicemente, stampò un allegro bacio sulla guancia della mamma, stringendola in un abbraccio spezza ossa. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Lui avrebbe salvato Bill da se stesso e dalla sua famiglia.
-Grazie me’, lo sapevo che potevo contare su di te! Ci vediamo prestissimo e tutto si sarà risolto per il meglio!
E il rasta scivolò sullo skate, attraversando di volata la strada, il biglietto del treno stretto in una mano, lo zaino penzolante su una spalla, la coda di dread che frustava l’aria e un sorriso vittorioso e vincente sul viso, l’ultimo “Ma dove stai andando?” di sua mamma che rimbombava nella strada vuota al mattino.
Fermò un attimo lo skate e si girò verso la signora esasperata che lo fissava dalla porta di una delle casette a schiera tutte uguali, prese un profondo respiro della insalubre aria mattutina di Magdeburgo e urlò, quasi che lo volesse far sentire a tutta la città, prima di fuggire di nuovo verso la stazione dei treni
-Vado a Berlino, mamma! Vado a Berlino a riprendermi la mia vita!


***
Salve ragazze, mi faccio viva per ringraziarvi infinitamente delle 45 recensioni! 45!!! Voi volete farmi venire un infarto dalla gioia, davvero, grazie mille a tutte voi (e a chi ha messo nelle cartelle e ha letto, ovvio)! :D Sarò breve: oramai questa storia sta giungendo al termine, mancheranno più due o tre capitoli alla sua conclusione e ci tenevo a dirvelo per non farvi trovare da un momento all'altro Completa ahahaha. Quindi, ancora un po' di resistenza a questa sofferenza unica e poi adios caballeros ;) volevo anche dirvi se avevate voglia, quando proprio non sapete che fare, di passare da una mia storia originale (21st Century Breakdown) che avevo postato e poi riaggustato (ah, è slash ovvio ahahaha). Basta, credo che vi ringrazierò ancora e chiuderò qui.
Un bacione :* Charlie xx

 
  
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