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Autore: voiceOFsoul    28/10/2016    1 recensioni
Ram aveva ormai raggiunto un equilibrio ma adesso si ritrova senza lavoro, convive con Diego in una situazione imbarazzante e non vede Alex e Vale da troppo tempo. Da qui deve ricominciare da capo. Il suo percorso la porterà a incrociare nuove vite, tra cui quella di Tommaso che ha appena imparato a sue spese che la perfezione a cui tanto Ram aspirava non esiste.
Si può essere felici anche se si è imperfetti?
[Seguito di "Volevo fossi tu" e "Ancora Tu", viene integrata e proseguita l'opera incompleta "Open your wings and fly"].
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Nel mio immaginario, complici anche i racconti di Mattia, De Blasi è sempre stato un tipo rock. Un ragazzaccio che fin da giovanissimo si era saputo imporre nel mondo, avviando imprese su imprese arrivate sempre al top di categoria e diventando infine talmente ricco da avere un aereo privato che da Roma, dove ormai ha sede stabile, lo portasse alle partite di calcetto con Mattia una volta ogni quindici giorni. Aveva naso per gli affari, poteva riconoscere una buona mucca da latte quando per gli altri non era neanche una capretta storpia, sapeva spremerla fino in fondo per guadagnarne il massimo, ma capiva anche quando era il momento di smettere di spremere e mantenere il livello raggiunto. Da quando aveva creato la sua etichetta discografica indipendente aveva dimostrato di aver naso anche per i talenti. Selezionava in modo accurato i musicisti da produrre e in appena due anni era diventato un buon trampolino. In pratica racchiudeva lo spirito imprenditoriale che mio padre aveva sempre sognato per me ma di cui io non ero mai stato dotato.
Immaginavo un cinquantenne carismatico dentro un giubbotto di pelle e dietro un paio di Ray-Ban a goccia dalle lenti scure, che ci dava il benvenuto nel suo studio minimalista ed ultramoderno. Quello che ci si presenta, però, è ben altro spettacolo. Un ometto basso e stempiato, con un paio di pantaloni cachi a costine che farebbero ribrezzo alla buon’anima di mia nonna, ci fa accomodare in quella che sembra la casa di un accumulatore compulsivo.
«Sapevamo che non erano gli studi della Sony, ma fare il colloquio nello sgabuzzino mi sembra un po’ eccessivo.» mi sussurra all’orecchio Giacomo, mentre a stento trattiene le risate.
«Spero che non sia troppo deludente questo benvenuto.» dice De Blasi, come se avesse sentito la battuta di mio fratello. «Questa sede è nostra da appena tre giorni perciò siamo ancora in pieno trasloco. Prego, accomodatevi sul divano.»

Non riuscirei a dire cosa abbia di speciale quest’uomo, forse solo il tono di voce che è molto più profondo di quanto ci si potrebbe aspettare vedendolo nel suo metro e trenta o forse l’accento misto che tradisce le sue origini del sud oppure le mani tozze che si muovono seguendo l’andatura delle sue parole. Fatto sta che quando apre bocca non puoi far a meno di ascoltarlo, come se fossi sotto ipnosi. Lo abbiamo ascoltato per quasi un’ora parlare di quelli che sono i suoi obbiettivi, di cosa cerca nei musicisti che produce, di quale è il motivo per cui vuole farlo. Quando alla fine ha concluso dicendo che passava la palla a noi, che desiderava conoscere la nostra storia da principio, ci siamo ritrovati tutti e cinque a fissarci con gli occhi sbandati di un cagnolino randagio, senza sapere da dove iniziare. Ci è voluto un po’ per sbloccarmi ed iniziare a raccontare. A raccontare di come ci eravamo conosciuti, di come il gruppo era nato, di una passione sempre esistita per la musica, di tre ragazzi al primo anno di liceo che avevano deciso di provare a suonare insieme e avevano messo un annuncio sulla bacheca del negozio di strumenti per cercare un cantante, di mio fratello che a dodici anni suonava la chitarra quasi come un professionista e aveva portato quell’annuncio a casa, del feeling incredibile che si era creato, di compiti in classe falliti perché il pomeriggio si studiavano i repertori invece dei libri di algebra, della maturità passata per un pelo perché c’era una gara a cui volevamo partecipare ma a cui non siamo mai arrivati perché nessuno di noi aveva ancora la patente, delle notti passate a scrivere pezzi nuovi cercando di staccarsi dalle canzoni degli altri, di una ragazza dalla corazza aggressiva che è riuscita a farci rimettere in piedi un equilibrio che credevamo distrutto per sempre, della voglia ancor più forte di portare a tutti la nostra storia.
«Bene.» commenta De Blasi dopo una lunga pausa. «Ora che voi avete capito un po’ di più me e io ho capito un po’ di più voi passiamo al vero motivo per cui siete qui.»
Attraversiamo il lungo il corridoio nascosto dietro una porta scorrevole. Qui l’ambiente è tutta un’altra cosa: luminoso, ordinato, elegante. Se è vero che sono nel pieno di un trasloco, questa è la parte già completata. In fondo al corridoio, una scala ci conduce al piano inferiore dove si aprono le due aree della sala di registrazione. La fisso per un po’ senza riuscire ad entrarci dentro. Questa è due spanne sopra qualsiasi sala in cui sia mai stato. Improvvisamente tutto diventa concreto, la responsabilità che pesava sulle mie spalle si è appena triplicata.
Dietro il vetro della sala di regia, tre tecnici sono al lavoro per completare i collegamenti necessari. De Blasi ci fa accomodare nella sala di ripresa dove sono già montati tutti gli strumenti e il microfono.
«Questo è solo per avere un’idea di cosa riuscireste a dare qui dentro. Come vi ho detto prima, sono dell’idea che emozionare attraverso una registrazione sia difficile più che durante un live. Quando canti dal vivo, specie se sei a stretto contatto con il pubblico come fate voi, lo scambio è più diretto e l’adrenalina è tale da renderlo più semplice. Se davanti a te ci sono solo un vetro e tre tecnici annoiati, beh… è tutta un’altra storia! Quindi adesso io vado a prendere un caffè mentre voi prendete confidenza con gli strumenti. I ragazzi di là sono a vostra completa disposizione se avete bisogno di qualche modifica. Noi ci rivediamo tra mezz’ora. Vorrò sentire tre pezzi. Ce li avete?»
Annuiamo, pare che tutti abbiano perso le parole quanto me.

Dicono che si chiami sindrome dell’impostore, quando senti di non essere capace a fare qualcosa in cui in realtà hai più volte avuto successo. Io credo di soffrirne, perché da quando Rebecca mi ha comunicato dell’evento che dovremo organizzare sono nel panico.
Continuo a pensare alle scadenze che non potrò rispettare mancando per l’intera settimana senza ragionevole preavviso, per non parlare di quanto mi mandi in paranoia l’idea di non essere più capace ad organizzare un evento. Prima, ai tempi d’oro, quando ero considerata una delle punte di diamante della SoftWaiting, un evento come questo avrei potuto organizzarlo in meno di un’ora con una mano legata dietro la schiena e gli occhi bendati. Ero sicura di me, pienamente conscia delle potenzialità che avevo a disposizione, orgogliosa della mia rubrica di contatti. Adesso solo il pensiero di dover riprendere quell’agenda in mano mi fa salire l’ansia. Buona parte del merito dei miei successi era proprio di quell’agenda dalla fodera blu, piena di numeri di telefono preziosi che riuscivano ad aprire anche le porte chiuse a chiave e che adesso non potrei più chiamare senza sentire dall’altra parte la tipica risatina di chi mi immagina a fare sesso con il capo sulla sua scrivania. Sì, un bel po’ di timore è causato da quello stupido passato pieno di dicerie su me e Marco e su come fossi arrivata ai vertici del mio reparto. Le stesse storie per cui sono stata licenziata dal vecchio lavoro, potrebbero minare la mia nuova occupazione: sapete, quando si dice che la ruota gira e che tutto torna, non è sempre un bene.
Un orribile brivido mi fa tremare non appena mi torna in mente lui. Dario Simoni. In mezzo a tutto il casino che è successo in questi giorni, potrebbe sembrare impossibile pensare ancora a lui come alla persona peggiore da poter incontrare, eppure è ancora così. Credo che non riuscirei a respirare trovandomi nella stessa stanza con lui.

Avevamo iniziato a lavorare insieme da qualche mese. L’incontro con Ragonesi, il suo capo, era stato ampiamente fruttuoso e la SoftWaiting aveva iniziato un rapporto continuativo con la sua azienda, perciò io e Dario eravamo tornati a frequentarci sempre più spesso. Prima erano solo incontri lavorativi, dato che lui era ormai diventato il braccio destro del capo, ma man mano che passava il tempo i vecchi sentimenti erano tornati a galla. Mi sembrava di essere tornata la stupida ragazzina delle superiori che, incontratolo dopo anni, non riusciva a smettere di pensare che era stato il destino a scegliere che ci incontrassimo ancora. E che importava se da ragazzina mi aveva spezzato il cuore? Era roba da immaturi, no? Cosa poteva mai essere trovare una polaroid di lui a letto con la sua ex, la sera prima che avevo deciso di dargli la mia verginità? Lui e Sonia erano stati insieme diversi anni dopo quella brutta storia. Questo in uno strano modo mi confortava e distruggeva allo stesso tempo. Come tutto, di Dario.
Quella storia mi aveva segnato dentro così tanto che non ero più riuscita a fidarmi di un ragazzo che non fosse Diego. Avevo iniziato molte storie, ma nessuna era diventata davvero importante. Così, mi ero ritrovata a venticinque anni ad appartenere al 3% delle ragazze che a quell’età è ancora vergine. E la cosa non mi era mai pesata fino alla sera che lo venne a sapere Dario.
Ricordo ancora il suo sguardo pieno di autocompiacimento.
«Mi hai aspettato per tutti questi anni?» aveva chiesto sussurrando.
Avevo sentito il sangue gelarmi nelle vene e la testa prendere fuoco. Al centro del petto, dove le due correnti a temperature diverse si incontravano, un uragano aveva iniziato a formarsi. Il suo infuriare aumentava sempre più ad ogni movimento che portava Daria più vicino al mio viso. Avrei voluto dirgli che si stava sbagliando, che non stavo affatto aspettando lui. La mia mente stava riportando d’improvviso a galla tutti i motivi per cui Dario non era la persona giusta per me, tutto il dolore che mi aveva causato, come mi aveva segnato e la paura che aveva comportato nel mio aprirmi al mondo. Se ogni volta che baciavo un ragazzo pensavo a quante ragazze stesse illudendo simultaneamente, era merito suo. Se ogni volta che un uomo provava a spingersi oltre avevo la sensazione di star per cadere in una trappola e sentivo la necessità di scappare, era merito suo. Avrei voluto gridarglielo, ma mentre mi ero estraniata dal mio corpo per dar retta a quei ragionamenti, lui si era già infilato sotto il mio vestito cercando di togliermi le mutandine.
«Dario, fermati.» lo avevo pregato, ma le mie preghiere erano rimaste senza ascolto. Avevo cercato di fermargli le mani che continuavano a correre per tutto il mio corpo, ma il suo peso mi bloccava sdraiata sul sedile della sua auto posteggiata nella via isolata dove abitavo.
Cercavo di divincolarmi ma continuava a tenermi giù. Posso ancora sentire i suoi denti mordicchiarmi la pelle sussurrando di stare ferma, che dopo aver aspettato così tanto non avrei più voluto smettere, che finalmente stavo per avere quello che volevo. Ma io non lo volevo. Glielo urlavo, ma lui non voleva ascoltare. Sentii la zip dei suoi jeans che si apriva e il panico in quell’attimo svanì per far posto a una breve lucidità che mi diede forza. Smisi di respingerlo e lui sorrise.
«Finalmente...» disse con una voce che non sembrava neanche più la sua. Si fiondò su di me tentando di penetrarmi ma, chiamate tutte le mie forze a comando e grazie a una sferzata di adrenalina, riuscii a spingergli la testa in alto, facendolo sbattere sul tettuccio dell’auto. Quando urlò di dolore, dandomi della pazza, lo feci ancora e poi un’altra volta. Staccò le mani da me per tamponare il bozzo che già cresceva e ne approfittai per rispolverare le poche lezioni di kick boxing che avevo preso da adolescente, dandogli un dritto in pieno naso. Lo sentii afflosciarsi lateralmente, afferrai la maniglia della portiera e la aprii. Afferrai al volo la borsa che si trovava sul cruscotto e scivolai fuori dall’auto. Il vestito era incastrato nella leva del cambio perciò dovetti strapparlo. Le scarpe erano rimaste nell’abitacolo ma non mi interessava. Corsi per i pochi metri che mi separavano da casa, con le mani tremanti riuscii ad infilare le chiavi e ad aprire. Quando richiusi il cancello alle mie spalle, sentii il motore dell’auto di Dario ripartire. Respirai a fondo mentre già iniziavo a piangere e le forze mi abbandonavano.
«Puttana! Ti rovinerò, stanne sicura.» mi aveva urlato dal finestrino. Quando passò correndo davanti al mio cancello, lanciò le mie scarpe fuori.
Mio padre era ancora sveglio e, turbato dal rumore che arrivava fin in camera da letto, era uscito fuori. Aveva visto la scena e non c’era stata necessità di spiegargli cosa era successo. Rientrò in casa e prese le chiavi dell’auto. Ero in lacrime, accasciata in cortile, con il vestito strappato, incapace di alzarmi in piedi né di smettere di piangere. Mi baciò la fronte e mi disse di aspettarlo.
«Troverò quel bastardo e gli farò rimpiangere di essere nato. Te lo giuro, piccola.» Entrò in auto e si lanciò all’inseguimento.
Quella è stata l’ultima volta in cui l’ho visto vivo.
Mentre rincorreva Dario, sorpassò uno stop senza fermarsi. Un furgoncino prese la sua auto in pieno, facendola ribaltare e rimbalzare giù. Il proprietario del furgone, un giovane uomo che stava tornando a casa da un turno di dodici ore, chiamò i soccorsi che lo trovarono fortemente in stato di shock. Mio padre respirava appena, è morto prima di arrivare in ospedale.
Io e mia madre eravamo in forte apprensione, sul divano di casa, con una tazza di camomilla bollente tra le mani. Lei sbraitava contro l’imprudenza e l’impulsività di suo marito.
«Un giorno di questi si farà ammazzare!» gridava, non sapendo che lui già era agonizzante in un ambulanza.
Fummo avvisate solo un’ora dopo la sua morte. Dopo quel momento non ricordo più nulla, ho rimosso tutti i ricordi legati a quell’esperienza così dolorosa. Non ricordo come siamo arrivate lì, non ricordo il riconoscimento del corpo, non ricordo il suo funerale. I miei ricordi ricominciano circa due giorni dopo il funerale, quando rientrata a casa - non ricordo perché ero uscita, solo che ero stata fuori un’oretta - ricevetti di nuovo una chiamata dall’ospedale. Ero convinta che fosse relativa a qualche altra cosa da sbrigare per mio padre, anche se davvero non capivo come potessero esserci tante carte da firmare in merito, come se il ricordo del corpo senza vita e ricucito alla meno peggio di mio padre steso su una barella e coperto da un lenzuolo bianco non fosse un tormento sufficiente.
«Signorina Centini.» La voce all’altro capo non era una di quelle del reparto amministrativo che mi avevano contattato negli ultimi tempi. Era forzatamente fredda, come se dovesse costringersi ad essere distaccata. «Sua madre ha avuto un incidente.»
Aveva preso l’auto per andare al cimitero a trovare mio padre, ma in preda all’apatia si era fermata lungo la provinciale deserta. Era rimasta ferma in auto per non si sa quanto tempo, finché un’auto che viaggiava sopra i limiti di velocità, l’aveva tamponata. Le macchine avevano fatto un paio di testa coda, ma fortunatamente nessuna dei due era esplosa o ribaltata. Mia madre, sotto l’effetto della forza centrifuga, aveva sbattuto la testa sul finestrino laterale, poi sullo sterzo ed infine era caduta sul sedile di fianco sbattendo la tempia e poi la parte alta del capo sullo sportello del lato passeggero. Il trauma cranico era stato importante, per questo inizialmente i medici non si erano preoccupati delle amnesie, ma presto iniziarono a presentarsi i primi ictus e da allora il suo calvario non si è più fermato.
La vita di mio padre era stata interrotta, quella di mia madre era stata distrutta, la mia era in pezzi. Da lì a poco avrei anche perso il lavoro per colpa di una voce messa in giro da un tarlo bastardo secondo cui ero arrivata dov’ero solo per merito dei fellatio regolari praticati sotto la scrivania del capo.
Tutto per colpa sua.
Dario Simoni aveva promesso di rovinarmi ed era riuscito a farlo oltre ogni immaginazione.

Non avrei voluto deludere Rebecca, ma oggi non sono riuscita a cavare un ragno dal buco. Mi sono bloccata e non sono riuscita ad andare avanti. Il suo sguardo verso di me è per la prima volta di disapprovazione, ma appena si accorge dei miei occhi lucidi diventa preoccupato.
«Qualcosa non va?» mi chiede, sedendosi vicino a me.
Tiro su col naso, mettendo un freno alle lacrime che spingono ancora per uscire.
«No.» tossisco per riprendere il controllo sulla voce tremante. «Mi dispiace essere così tanto arrugginita.»
Cerco di sorridere. Rebecca mi guarda fisso negli occhi, non si è bevuta una sola parola.
«Ram, io non voglio essere insensibile, ma questo è un passo importante per me. Se c’è qualsiasi cosa che possa bloccarti, che possa non farti dare il massimo, ti prego dimmelo.»
Tossisco ancora. In questi anni sono diventata forte. Non gli ho permesso di distruggermi fino in fondo e non inizierò adesso.
«Rebecca, scusami per oggi. Ti assicuro che da domani sarò al 200%.»
Mi sorride, rassicurata. «Lo spero.»
   
 
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