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Autore: Heavenly Hell    29/10/2016    0 recensioni
Una reinterpretazione e personalizzazione della leggenda del "Filo Rosso del Destino".
Jackson Meadway è un giovane tormentato, nel 1996 un'anziana signora gli promette un riscatto e gli rivela una profezia, che parla di un Filo Rosso che niente o nessuno potrà mai spezzare.
"Colei il cui cuore ti è destinato in fasce azzurre è tenuta,
e in 20 lunghi anni la profezia verrà compiuta.
Né fuoco, né acqua, né terra, né vento,
né vita, né morte ostacoleranno il momento.
Non diversa unione o legame alcuno lo può spezzare,
Il filo rosso del destino a cui ti dovrai legare".
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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Capitolo 1 - 22 anni dopo


 
New York, 2016.
Era ormai arrivato Novembre, il ringraziamento era alle porte, tutti si preparavano a festeggiare, ma Jackson non era Americano, era Inglese, e non aveva mai amato particolarmente le feste. Rabbia, malinconia, frustrazione, questi erano gli stati d'animo che provava da ragazzino a Natale, o a Pasqua, o in qualsiasi periodo festivo, quando era quasi costretto a stare a casa, assieme ad una madre che non lo accudiva, che non gli dimostrava un po' di affetto da quando aveva compiuto 11 anni, senza un motivo ben preciso, e assieme ad un padre che non perdeva mai occasione per farlo vergognare di se stesso e di essere venuto al mondo. 
"Sei uno scarto del genere umano" gli diceva, "il concime ha più qualità e capacità intellettive di te", "se non ci fossi tu, io e tua madre avremmo abbastanza soldi per fare un solo lavoro e stare tranquilli a casa e fuori", giorno dopo giorno si sentiva ripetere frasi del genere, abusi che non vengono riconosciuti come tali solo perché non comprendevano violenze fisiche, abusi a cui inizialmente non reagiva.
Ci credeva, si era quasi convinto di valere meno di zero a causa del padre, e dopo la sua morte, quando aveva 17 anni, non poté fare altro che sentirsi sollevato. Aveva iniziato a vedere il mondo in maniera diversa, poteva finalmente respirare, essere libero, iniziare a credere in se stesso. Dopo aver compiuto 18 anni ed essersi diplomato, cercò un lavoro, iniziò a racimolare dei soldi e in poco tempo riuscì ad averne abbastanza per iscriversi all'Università di Londra. 
Studiò Business e Management, senza molta fatica si laureò ed iniziò a lavorare per un'agenzia. Partì dal grado più basso, anno dopo anno lavorava duramente e saliva di posizione, fino ad arrivare, a 26 anni, ad essere l'assistente del direttore. A 30 anni, dopo alcuni anni di lavoro, si trasferì a New York, sotto richiesta del Direttore, per gestire l'unica sede Americana dell'agenzia per cui lavorava. Arrivò a 36 anni con abbastanza soldi per fare importanti investimenti, e così fece: con lieve rammarico lasciò il suo ruolo e aprì, in società con un collega Ingegnere, la Meadway&Parks, impresa che si occupava della costruzione e della vendita di edifici a basso consumo e non. Il suo collega e amico Lawrence Parks si occupava della parte relativa alla costruzione assieme al suo team, Jackson invece ricopriva il ruolo di manager e gestiva i rapporti con le altre società e con gli acquirenti, nessuna disparità tra i due, solo collaborazione e professionalità. In soli dodici anni era passato dall'essere un semplice impiegato ad avere una sua impresa, in così poco tempo era arrivato dove tanti ancora sognavano di arrivare. Era ricco, importante, potente, l'impresa in tre anni aveva raggiunto grande prestigio. Aveva tutto, ma non la felicità.
Il suo riscatto l'aveva ottenuto, a 35 anni riuscì anche a sposarsi, ma fu un matrimonio disastroso, finito in soli tre anni. 
39 anni, tanti successi alle spalle, pochi momenti di vera gioia, non riusciva a colmare quel vuoto ormai presente da troppo tempo.
Si trovava spesso nel suo ufficio a riflettere sul suo passato, sulla sua famiglia, su suo padre, sul quel giorno autunnale al Luna Park.
Non aveva dimenticato quella giornata e i relativi avvenimenti; non aveva dimenticato le parole di quella vecchietta; non aveva dimenticato di come avesse probabilmente tolto la vita a quella bambina. Ricordava tutto, ma non ne fece mai parola con nessuno, si teneva tutto dentro, per ventidue anni soffocò ogni timore, ogni rimorso e ogni volontà di sfogarsi e parlarne con qualcuno. Il silenzio, assieme al vuoto, lo rese ancora più chiuso di quanto già non fosse, freddo e disinteressato verso la vita, tanto che al lavoro, per riuscire a portare avanti gli affari ogni giorno si trovava costretto ad indossare una maschera di fronte a tutti, che riusciva a togliere solo in presenza di Lawrence, l'unico che era riuscito a farlo aprire leggermente.
La maschera però cadeva del tutto una volta a casa, quando si trovava da solo a bere fiumi di alcool e ad imbottirsi di calmanti per poter affrontare la notte e il giorno successivo, quando la mattina appena sveglio beveva litri di caffè per essere più lucido, quando prima di uscire ascoltava sempre lo stesso brano dello stesso artista, "Ballad of Dwight Fry" di Alice Cooper, con gli occhi chiusi quasi a non voler davvero vedere la sua solitudine. 
Andava avanti così dal divorzio, da ormai due anni, e a parte le preoccupazioni di Lawrence, nessuno poteva fargli notare quanto stesse cadendo in un baratro profondo.
Quella mattina del 15 Novembre era in ritardo, arrivò in ufficio trafelato, indossando uno dei suoi migliori e più finti sorrisi, salutando con garbo ed educazione.
- Buongiorno Sig. Meadway!
- Salve, buongiorno a tutti - rispondeva - buona giornata!
- Grazie Sig. Meadway, a lei - era ormai quasi una routine.
C'era più confusione del solito, alcuni fremevano per i preparativi del ringraziamento, pronti alle ferie e ai festeggiamenti.
Lui era l'unico a rimanere in ufficio durante le feste, era solo, e preferiva essere solo al lavoro piuttosto che essere solo a casa.
Entrò di corsa in ascensore e salì al terzo piano, dove Lawrence lo aspettava con ansia, per l'incontro con dei clienti importanti.
- Dove cazzo eri, si può sapere? Ci sono un po' di problemi e faccende da risolvere, qui tutti sono in fermento per le feste e io non ho ancora trovato un tacchino abbastanza grande per sfamare tutta la mia famiglia  - sbottò Lawrence quando le porte dell'ascensore si aprirono.
- C-che hai detto?! - disse Jackson sfrenandosi gli occhi per poi massaggiarsi le tempie.
- Jackson diamine, uno di questi giorni ti metto in un ring e ti ammazzo di pugni nello stomaco fino a farti vomitare tutto l'alcool che ingerisci la sera. Per lo meno sei giudizioso e la mattina non bevi, altrimenti sai che divertimento lavorare con te che sbrodoli saliva.
- Non fare lo stronzo, sono solo leggermente in ritardo, e il caffè sta facendo effetto.
- Volevo solo sdrammatizzare, mi pare sia meglio che compatirti, razza di sfigato. Uno di questi giorni facciamo un'altra chiacchierata, sei ancora recuperabile -. Lawrence affrontava la situazione drammatica dell'amico con battute e prese di posizione, che gli sembravano più efficaci di qualsiasi gesto di compassione. Faceva lunghe chiacchierate con lui e lo portava a ragionare, e qualche volta era riuscito a non farlo bere la sera e a non prendere nessun farmaco, perché Jackson non voleva andare in terapia, e Lawrence cercava in tutti i modi di non dover arrivare a portarlo con la forza.
- Larry, non un'altra seduta privata, come psicanalista sei fin troppo realistico, e alquanto inquietante - rispose Jackson, facendo riferimento all'abitudine dell'amico di entrare fin troppo nel personaggio.
- Ne parleremo in un altro momento, adesso fammi il favore di essere più energico e datti una rinfrescata -.
Jackson corse nel suo ufficio, si sedette, rifletté come ogni giorno, pensò al suo passato, al suo presente, al suo futuro incerto, a quanto fosse profondamente depresso, e a quanto sarebbe stato meglio, forse, cessare di esistere. 
Si risvegliò subito da quei pensieri bui e si mise a sistemare e controllare carte e documenti, uno per uno, un po' per non doversi occupare degli affari importanti, un po' per impegnare il suo tempo senza dover occupare troppo la sua mente, e completamente preso da ciò che stava facendo quasi non si rese conto che quattro ore erano passate, ed era già ora di pranzo. Prese con se il necessario ed uscì dal suo ufficio, preparando la sua maschera, ma quando fu all'esterno trovò l'andito vuoto, non un anima, e così, preso da una sorta di senso di libertà, sospirò profondamente e si lasciò scivolare contro il muro, accasciandosi a terra con le mani che stringevano con fermezza la testa. Si sentiva come un ingrato nei confronti della vita: l'aveva ripagato, aveva avuto il suo riscatto; aveva tutto, poteva permettersi ogni lusso e ogni gioia materiale; aveva un caro amico, un confidente, un sostegno; aveva tante cose, eppure voleva sparire. Pensò nuovamente e dopo tanto tempo che suo padre avesse veramente ragione, perché nonostante i suoi successi e i suoi obiettivi raggiunti lui era niente.
Fece per accendersi una sigaretta, cercando l'accendino nelle tasche dei pantaloni.
- Non sapevo fosse consentito fumare all'interno di questo edificio, la signora agitata al piano terra avendomi vista fumare mi ha quasi minacciata di gettarmi un secchio d'acqua addosso -.
Si alzò di scatto e fronteggiò la sua interlocutrice. 
- Si dà il caso che l'edificio sia di mia proprietà, e in teoria sono io a decidere cosa fare e non, lei d'altro canto non ha alcuna voce in capitolo - rispose senza troppa esitazione, con freddezza, nel mentre che risistemava la sigaretta nel pacchetto.
- E allora perché la rimette a posto? Lei è il capo no? La fumi -.
Interdetto e infastidito dall'insolenza della donna la guardò con un sopracciglio alzato.
- Si chiama educazione, forse ne ha sentito parlare...o forse no, non mi pare mi abbia detto chi lei sia e cosa voglia da noi all'ora di pranzo, Signora?
- James. Purtroppo sono rimasta bloccata in metropolitana, sospettavano ci fosse una bomba, ci hanno perquisito diverse volte e qua...
- Non le ho chiesto di raccontarmi la sua mattinata. Cosa desidera? - chiese ancora più infastidito, cercando di liberarsi di lei il prima possibile per avere qualche attimo per sfogarsi tra sé e sé.
- Parlava di educazione, mi complimento. Io parlo molto, mi piace parlare, sono logorroica, è un mio difetto, una mia qualità, la chiami come vuole. Comunque, lei è il Signor Parks? 
- No, sono il suo collega e socio, Jackson Meadway, piacere - disse tendendole la mano.
Lei la strinse con fermezza - piacere mio, Kylie James. Sa quando posso trovare il Signor Parks? Avevo appuntamento con lui questa mattina.
- Può dire pure a me, mi occuperò io di comunicargli quanto mi dirà. Potrà prendere un altro appuntamento con lui telefonicamente.
- Non si preoccupi. Dovevamo discutere della costruzione di un edificio, una scuola di musica, ma prenderò direttamente l'appuntamento telefonicamente come da lei suggerito. Non la disturberò ulteriormente, arrivederci - disse lei per poi voltarsi e dirigersi verso l'ascensore.
Rendendosi conto di essere stato sgarbato prima che arrivasse l'ascensore fece per rivolgerle nuovamente la parola, ma lei lo precedette. 
- Lei è parente della signora nevrotica del piano terra? - sorpreso dalla domanda alzò nuovamente un sopracciglio e la osservò confuso.
- Bridget? Non siamo parenti. Ma poi cosa c'entra? E in ogni caso non è affar suo! - iniziò ad innervosirsi, rimangiandosi ogni scusa che stava per rivolgerle.
- Oh beh, pensavo - entrò nell'ascensore e premette il tasto del piano terra - sa com'è, anche lei è veramente uno stronzo - disse per poi sorridergli sarcasticamente.
Jackson, ancora più nervoso e leggermente spiazzato guardò le porte dell'ascensore chiudersi, maledicendo il momento in cui decise di uscire dal suo ufficio.


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Hola! :D
Ecco un altro capitolo, anch'esso semi introduttivo per dare una "spinta alla storia", non è una meraviglia ma racconta in breve gli anni di vita di Jackson e si incentra sullo sviluppo del suo carattere, messo in evidenza anche dall'introduzione di nuovi personaggi. Non penso di riuscire ad aggiornare ogni giorno, oggi avevo del tempo libero e ho deciso di rilassarmi scrivendo, ma in ogni caso conto è spero di riuscire ad aggiornare almeno una volta a settimana. Ho sostituito il genere "introspettivo" con "commedia" perché vorrei che la storia riuscisse ad avere anche diverse scene divertenti e situazioni travi-comiche, anche per non essere troppo in stile "mai una gioia" e renderla più leggera! :D Come per l'altro capitolo, per ogni critica, apprezzamento, consiglio o correzione scrivetemi o in una recensione o per messaggio privato. Grazie a tutti, un abbraccio,
Heavenly Hell. :)
  
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