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Autore: MarieCullen    13/05/2009    2 recensioni
Sentii una crepa aprirsi nel mio petto e crescere, diventare sempre più grande, uno squarcio che pulsava dolorosamente.
Gemetti, sorpresa dall’intensità di quello spasmo improvviso.
Ormai non era più solo una sensazione astratta; era dolore fisico.

I pensieri di Bella nei giorni di catatonia quando Edward la lascia.
Prima classificata al contest "With a song" indetto da SpeedNewMoon.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nick Autore: MarieCullen.
Titolo: My Moonless Night;
Personaggi: Isabella Swan
Genere e Avvertimenti: Malinconico, Sentimentale. One-shot.
Breve Riassunto: Sentii una crepa aprirsi nel mio petto e crescere, diventare sempre più grande, uno squarcio che pulsava dolorosamente. Gemetti, sorpresa dall’intensità di quello spasmo improvviso. Ormai non era più solo una sensazione astratta; era dolore fisico.
I pensieri di Bella nei giorni di catatonia quando Edward la lascia.
NdA: Ho scelto questo missing moment perché è poco trattato e ho pensato molto a come si dev'essere sentita Bella in quei momenti. Credevo fosse più facile descrivere certe sensazioni e invece non lo è stato per niente, anzi. Più andavo avanti più sentivo che qualcosa mancava alla mia storia, che dovevo dare di più. Spero di esserci riuscita. Buona Lettura.


My Moonless Night;

"Forgetting
All the hurt inside
You've learned to hide so well

Pretending
Someone else can come and save me from myself
I can't be who you are
I can't be who you are
"

Dimenticando tutto il dolore dentro
che hai imparato a nascondere così bene
facendo finta che qualcun altro
potrà venire e salvarmi da me stesso
non posso essere te
non posso essere te

Linkin Park - " Leave out all the Rest"

 

Darkness

La luce fioca di un altro mattino nuvoloso e il leggero bip della sveglia mi fecero aprire gli occhi. Non ero sicura di essermi davvero addormentata, la sera precedente, ma mi sentivo intontita il che significava che probabilmente avevo accumulato parecchio sonno arretrato.

Un angolo del mio cervello cercava di farmi ricordare qualcosa, un evento che sentivo essere molto importante. Trattenni a stento un fremito e, ancora non del tutto lucida, me ne sorpresi. Mi sforzai di capire che giorno era, ma inutilmente. La mia testa girava all’impazzata e mi sentii sul punto di rimettere, come quando si ha un attacco di nausea da movimento.

Ero certa che quel giorno ad attendermi ci fosse qualcosa. Probabilmente la scuola o il lavoro. O forse semplicemente Edward. L’eco del suo nome risuonò più volte nella mia testa e a quel punto il ricordo che premeva per uscire fuori mi sommerse, togliendomi il respiro. Mi sbagliavo. Ad attendermi non c’era proprio niente. Perché lui - avevo deciso di non chiamarlo per nome ancor prima di rendermene conto - non c’era più.

Mi rannicchiai su di un fianco, respirando a fatica. Sentii una crepa aprirsi nel mio petto e crescere, diventare sempre più grande, uno squarcio che pulsava dolorosamente. Gemetti, sorpresa dall’intensità di quello spasmo improvviso. Ormai non era più solo una sensazione astratta; era dolore fisico. Lo sentivo crescere dal petto e penetrarmi nelle ossa, tanto potentemente da farmi implorare la morte. Quella di certo sarebbe stata meno dolorosa. Posai una mano sul cuore, per poterne sentire i battiti forsennati. Niente. Ero certa che il mio cuore stesse battendo, eppure da nessuna parte sotto il mio palmo riuscivo a percepirlo pulsare. Premetti la mano talmente forte da pensare che le dita sarebbero penetrate da un momento all’altro nella carne, e ne avrebbero estratto il mio muscolo cardiaco - non potevo più chiamarlo cuore. Quello me lo avevano portato via - ma ciò non accadde.

 Senza neanche rendermene conto, il mio respiro aveva cominciato ad accelerare furioso, tanto veloce da far sentire male ai polmoni ma anche tanto flebile da non essere abbastanza per sopravvivere. Gemetti ancora, più forte. Non poteva essere vero, era assurdo. Mi presi il capo tra le mani, nascondendomi sotto le coperte e cominciando a piangere, disperata. La lacerazione che sentivo al posto del petto non mi dava tregua, mozzandomi il respiro e facendomi sentire stordita. Cercai - anzi, m’imposi - di calmarmi. A cosa serviva torturarsi così? Non c’era più niente per cui valesse la pena di provare emozioni così forti. Trattenni il respiro nel tentativo di rallentarlo, tanto a lungo da rischiare lo svenimento. Lì, rannicchiata sotto le coperte ingiallite della mia stanza di Forks, mi lasciai inghiottire dalla voragine che avevo al posto del petto.

 

Furono i passi di Charlie, nel salotto al piano sottostante, a farmi riemergere dalla nebbia. Quanto tempo ero rimasta immobile a fissare il soffitto? Mi sembravano solo pochi istanti ma, all’ennesima occhiata al display dell’orologio sul comodino, mi resi conto che erano passate due ore. Impossibile, pensai. Conclusi che forse mi ero semplicemente addormentata senza accorgermene. Sentii la porta di casa aprirsi e chiudersi. Forse mio padre aveva invitato qualcuno senza avvisarmi. Un uomo stava parlando con lui ad alta voce e mi dovetti sforzare un po’ per recuperare la lucidità adatta ad ascoltare la conversazione.

«Dottor Gerandy, forse è meglio se non la visita», disse mio padre.

«Perché mai?».

«Credo che rischierebbe di spaventarla. E’ così assente …».

«Sta un po’ meglio rispetto a ieri?». Il dottor Gerandy, sempre troppo professionale, non perdeva la calma. Mio padre non era certo come lui.

«Non credo proprio. Non ha voluto toccare cibo, non parla, sembra quasi che non respiri. Non fa che fissare il soffitto. Per quanto potrà andare avanti così?». L’ansia di mio padre era tangibile. Allora, era venuto a controllarmi ed io non l’avevo visto. Mi sentii in colpa per tutte le preoccupazioni che gli procuravo.

«Non posso saperlo senza una visita. Ho il sospetto che si tratti di catatonia, i sintomi sembrano proprio quelli. Non si preoccupi però, Charlie. Si riprenderà presto». Poi mio padre congedò il dottore, ringraziandolo.

Tornai a fissare il soffitto della mia stanza con un sospiro che mi bruciò nei polmoni. Non volevo far del male a mio padre, questo lo sapevo, eppure non riuscivo a non pensare al dolore lacerante che sentivo, uccidendo me e mio padre allo stesso modo. Era come essere sbriciolati, oppressi e da quella situazione non c’era via d’uscita. Il dottor Gerandy si sbagliava, ma non poteva saperlo. Era impossibile che ciò che sentivo passasse presto, era un’assurdità.

Mi rannicchiai sul letto, stringendo le braccia al petto. Dimenticherò, pensai. Alla fine avrei certamente trovato la forza per dimenticare. Con un brivido, capii che avevo paura dei miei stessi pensieri. Paura che si avverassero. Non volevo dimenticare, non volevo far finta che non esistesse. Sarà come se non fossi mai esistito. L’eco delle sue parole mi colpì forte, alimentando la ferita nel petto e bruciando, come acido nelle vene. Ma perché, perché? Perché mi aveva gettato via così, come una bambola di pezza che nessuno usava più? La risposta era solo una e me l’aveva spiegata molto chiaramente nel bosco. Lui non mi voleva più.

Sbattei un pugno sul letto, che tremò. Mi torturavo per ottenere cosa? Speravo in una conclusione sensata di quella storia? No, no e ancora no, mi ripetevo. Non c’era una conclusione, una fine. La mia storia - se mai davvero c’era stata - era rimasta sospesa a mezz’aria, tanto in alto da essere irraggiungibile. Ed io provavo a raggiungerla, saltavo e tendevo le braccia verso il cielo per afferrarla ma era impossibile, dovevo rinunciarci. Perché se avessi saputo che ciò che sentivo sarebbe cambiato prima o poi, che il mio amore per lui sarebbe mutato con il tempo, avrei anche accettato tutto il dolore e mi sarei arresa. Io però sapevo che nulla avrebbe subito dei cambiamenti, che ci sperassi o meno. E forse proprio i sentimenti che provavo erano l’unica cosa che mi legava a quella vita. Se avessi smesso di provarli, se avessi semplicemente lasciato alla mia mente la libertà di dimenticare, cosa sarebbe rimasto di me, che senso avrebbe avuto vivere ancora? Io sapevo che lui esisteva, in qualunque posto fosse in quel momento e con qualsiasi sua distrazione si trovasse, ma tanto mi bastava per il momento. Avrei certamente penato di più se avessi capito di aver immaginato tutto.

Poi, chissà come, la mia mente si annebbiò ancora e fui trascinata in un oblio senza pensieri.

 

Ancora una volta, quando mi risvegliai, fissavo il soffitto. Stava decisamente diventando un’abitudine. Il mio stomaco brontolò, certamente come segno di protesta al mio prolungato rifiuto per il cibo. Non avevo alcuna intenzione di mangiare e sentivo la nausea al solo pensiero di ingoiare qualsiasi cibo esistente. Poco importavano le bizze del mio stomaco; avrei vinto io.

Che situazione comica, pensai, anche se comica non era il termine esatto. Io rifiutavo di mangiare per puro istinto di contraddizione verso me stessa. O forse semplicemente provavo disgusto verso la mia persona. Se fossi stata diversa, se avessi avuto qualcosa di speciale, non mi sarei trovata in quella situazione.

Una risatina cupa risuonò nella stanza priva di ogni suono. Ma chi cercavo di prendere in giro? Non ero mai stata brava a mentire, men che meno a me stessa, e convincermi che in un qualsiasi universo parallelo io avrei potuto possedere un qualcosa di speciale era pura follia.

I passi pesanti di Charlie nel soggiorno di casa risuonavano in ogni stanza, diventando un fastidiosissimo sottofondo ai miei pensieri. Tu-tum, tu-tum, tu-tum, i piedi sul pavimento battevano ritmicamente scandendo un suono familiare, come quello di un cuore che pulsa. Era un ritmo che non riuscivo più a sentire dentro di me. Mi tappai le orecchie con le mani, come una bambina capricciosa che si ostina a non ascoltare i rimproveri dei genitori e probabilmente il mio comportamento era proprio quello. Uno stupido, insensato, infantile rifiuto per tutto ciò che potesse riportarmi a una realtà che non mi piaceva, che era sbagliata.

In momenti come quelli avrei preferito non essere così perspicace, perché mi resi conto di quanto le mie stesse parole fossero vere. Mi rifiutavo di vivere in un mondo dove le cose non andavano come desideravo. O più semplicemente rifiutavo di vivere, punto. Ma in effetti valeva a qualcosa vivere?

In quei tre giorni ero rimasta confinata nella mia stanza, troppo impegnata a piangermi addosso per fare altro. Uscivo solamente per chiudermi in bagno e poi ritornavo in camera. La luce era perennemente spenta, la finestra chiusa, le tende ben serrate. Era come rivivere i miei ultimi momenti nella foresta all’infinito. Il buio che regnava sovrano mi ricordava il cielo scuro di quella notte senza luna. Ora era la mia vita a essere senza luna. Una lacrima solitaria mi rigò una guancia, tracciando il mio profilo dall’occhio al mento, e scese a bagnare la coperta ingiallita del mio letto. Mi asciugai il viso con il dorso della mano, frettolosa. Piangere non aveva più alcun senso.

Rabbrividii e mi rannicchiai su di un fianco, tirandomi la coperta fin sopra la testa; non volevo più sentire nulla. E così fu.

 

Riaprii gli occhi, nel buio della mia camera, ed erano le quattro del mattino. Stavo lentamente cominciando a confondere il giorno con la notte, a perdere del tutto il senso del tempo.

Mio padre, al piano di sotto era intento a conversare con qualcuno, ma sentivo solo la sua voce. Probabilmente parlava al telefono.

«Immagino che non sarà d’accordo, Renée. Ma che altro possiamo fare?». Attese che mia madre rispondesse e poi proseguì.

«Non ho alcuna intenzione di star qui a guardarla peggiorare è già abbastanza difficile». Fece una breve pausa. «Pensi che mi diverta a vederla così?!», disse, quasi urlando. Era evidentemente alterato ma dal suo tono di voce si capiva che era preoccupato per me.

«Forse hai ragione, sì. No, non posso, devo parlarne con lei. Sì, sì ti avviserò Renée. Ciao», e poi riagganciò.

Quella conversazione mi era sembrata davvero strana, benché non riuscissi più a sorprendermi di nulla. Tutto era estremamente insignificante, persino quello strano battibecco tra i miei genitori.

Sentii Charlie salire le scale battendo i piedi nervosamente a terra e sbuffò. Entrò in stanza con un’espressione dispiaciuta. Cos’era successo?

«Bella, credo che dovresti andare a Jacksonville, da tua madre».

Cosa? Era forse impazzito? Non sarei mai andata a Jacksonville, neanche sotto tortura!

«No, non ci vado», dissi, con voce roca. Erano le prime parole che pronunciavo in più di quattro giorni.

«Non posso lasciarti qui e vederti morire», mi rispose disperato.

«Io non sto morendo», scandii lentamente ogni parola. Ma era una bugia.

«Mi dispiace Bella, non posso farlo». Si diresse a grandi passi verso il mio armadio e ne estrasse la mia valigia, cominciando a riporvi i vestiti. Se si aspettava che stessi zitta a vederlo decidere della mia vita non mi conosceva affatto. Strattonai le coperte che avevo addosso e balzai giù dal letto, talmente in fretta da avere le vertigini. Gli tolsi la mia valigia dalle mani e la svuotai sul pavimento, gettandola in un angolo, lontano dalla portata di mio padre. Quelli erano i miei vestiti, del mio armadio, nella mia stanza. Come si permetteva? Non avrei lasciato che qualcun altro decidesse di nuovo per me.

«Non puoi costringermi!», gli urlai contro. «Io non vado a Jacksonville, chiaro? Non ci vado!».

«Bella, ti prego, ragiona».

«Ti piace tanto la Florida? Bene va pure, ma non spedirci me!». Sentii gli occhi colmarsi di lacrime, che mi annebbiarono la vista.                                                                                                                                        

«Tu hai sempre odiato Forks. Perché non vuoi andartene ora?».

«Sono maggiorenne papà. Decido io dove stare. Ed io voglio vivere a Forks. Perché non puoi semplicemente accettarlo?». Le lacrime cominciarono lentamente a rigarmi le guance, scendendo fino al mento e cadendo poi sul pavimento, ai miei piedi. Forse il mio pianto gli fece credere che avessi rinunciato a oppormi, e cominciò a raccogliere i vestiti.

«Lasciali dove sono!».

«Piccola, per favore, parliamone», implorò.

«Non c’è niente di cui parlare. Io ho già deciso!». Non riuscivo a crederci. Perché voleva spedirmi da mia madre? Stavo diventando troppo per lui? Probabilmente non poteva occuparsi più di me. Alla fine diventavo un peso per tutti. Forse ero destinata a rimanere sola. «Tu», lo accusai, puntandogli un dito contro. «Pensi che cambi qualcosa? Credi sul serio che andando a Jacksonville risolverei questa situazione? Ti sbagli. Non mi conosci per niente se sei convinto di una cosa del genere».

Rimase impietrito di fronte a me, visibilmente scosso dalle mie parole. Stavo dicendo la verità e lo sapeva bene.

Capivo che voleva solo la mia felicità, che desiderava aiutarmi a dimenticare e andare avanti ma il problema ero io. Io e la mia stupida ossessione a voler continuare a ricordare, a non lasciare semplicemente che il tempo scorresse e cancellasse tutto ciò che in quel momento mi tormentava. I ricordi mi distruggevano ma allo stesso tempo mi davano quel briciolo di forza che mi permetteva ancora di respirare. Dimenticare era assolutamente vietato. Se avessi dimenticato, sarei morta.

Corsi ad abbracciarlo. In quel momento ne avevo un bisogno disperato.

«Mi dispiace papà, mi dispiace davvero. Ma non posso, non ci riesco».

«Non preoccuparti, Bella. Se è quello che desideri potrai rimanere qui quanto vuoi», disse, accarezzandomi i capelli.

«Grazie papà», risposi, staccandomi dall’abbraccio. «Ora potresti uscire? Ho bisogno di cambiarmi».

«Certo, piccola». E uscì chiudendosi la porta alle spalle.

Avevo capito, in quel momento, che mi rimaneva una sola cosa da fare. Era importante per me, ma soprattutto per i miei genitori che non mi avrebbero più vista soffrire in quel modo.

Indossai le prime cose che trovai nella mia stanza e scavalcai il mucchio di vestiti che avevo gettato per terra. In fretta uscii nel freddo pungente, ma non m’interessai ai brividi che mi percorrevano il corpo. Aprii la portiera del mio pick-up e mi sedetti al posto di guida. Non avevo alcuna intenzione di guidare, volevo solo togliermi una piccola soddisfazione. Estrassi dalla tasca dei miei jeans un cacciavite - che avevo rubato a mio padre poco prima - e cominciai a svitare l’autoradio. Le prime due viti vennero via facilmente, ma le altre non volevano saperne di uscire, facendomi perdere la pazienza. Diedi un pugno sul cruscotto e lanciai il cacciavite sul sedile del passeggero, cercando di estrarre quell’aggeggio con le mani.

«Maledetta autoradio», mormorai irritata.

Quasi non faci caso alle mie unghie torturate e insanguinate mentre tentavo in ogni modo di cancellare ogni traccia del mio disastroso diciottesimo compleanno, e mi sentii vittoriosa quando estrassi quell’oggetto ormai privo di forma dal cruscotto della mia auto.

Chiusi la porta del pick-up quando ne uscii per entrare in casa. Presi un sacchetto nero per la spazzatura e vi nascosi dentro il mio regalo, per poi gettarlo nell’armadio, sotto i miei vecchi vestiti. Una scatola contenente tutti i miei Cd faceva bella mostra di se sulla scrivania. Ancora presa dalla foga afferrai la scatola e la scaraventai per terra, premendovi sopra un piede fino a quando non sentii un sonoro crack, segno della mia vittoria. Poi li buttai nella spazzatura.

La vitalità che avevo sentito in quei momenti stava cominciando lentamente a sparire, defluiva via dal mio corpo lasciandomi scossa e tramante. Mi stesi sul letto, ansimando. La testa mi girava ma in quel caos emersero alcuni punti fermi.

Avrei dimenticato tutto il dolore. Lo avrei nascosto agli altri, seppellendolo in fondo al cuore in un posto che non avrei visitato mai. Avrei sperato che qualcuno, un giorno, sarebbe venuto a salvarmi, a portarmi via da quell’incubo senza fine, da me stessa. Avrei dimenticato il mio sogno proibito: io non sarei mai diventata come lui.

Seppellii i miei ricordi assieme all’autoradio nella cripta che non avrei più visitato e, chiudendo gli occhi, cominciai a vivere nella mia notte senza luna.

 





1° Classificata: " My Moonless Night ", di MarieCullen

Grammatica e sintassi: 9

La storia è veramente ben scritta.Periodi organici,strutture sintattiche coese e ordinate,ottima la grammatica. Da segnalare solo qualche piccola imperfezione per quanto riguarda l'uso della punteggiatura,qualche virgola un po' messa a casaccio e un errorino di battitura trascurabile (se lo vuoi correggere prima di pubblicare te lo indico, è "peri miei genitori".)

Lessico e stile: 9,5

Hai una proprietà di linguaggio e una tecnica di scrittura ottime, i miei complimenti davvero. Riesci ad incasellare i pensieri,le emozioni,gli stati d'animo di Bella in maniera tale da coinvolgere chi legge con profondità e delicatezza allo stesso tempo. è come se il medesimo senso di vuoto, lo stesso dolore che attanagliano la protagonista, fossero percepibili anche per chi non li sta provando e sperimentando sulla propria pelle.Il lettore diviene così parte attiva del testo,si immedesima completamente in ciò che legge. Utilizzi parole forti,incisive,frasi per lo più brevi,ma ad effetto. Uno stile che,per certi versi, è possibile paragonare a quello di S.Meyer, o almeno io l'ho percepito così. Brava.

Originalità: 8,5

L'unica "pecca"( se poi proprio la possiamo definire così), sta nella scelta del Missing Moment che hai voluto trattare. Mi spiego meglio: S.Meyer in New Moon non descrive effettivamente che cosa abbia provato Bella in quei mesi di abbandono,veniamo a conoscenza solo in seguito del dolore e del senso di perdita che hanno accompagnato la protagonista in tutto l'arco della sua separazione da Edward. L'autrice si limita a lasciare delle pagine bianche, per simboleggiare lo scorrere del tempo e l'impossibilità di trascrivere uno stato d'animo così doloroso. Ho sempre adorato la scelta fatta dalla Meyer: la sofferenza,lo stato d'apatia costante,il desiderio di lasciarsi andare dopo aver subito una perdita talmente importante e atroce...Come si possono trovare parole adatte per descrivere questi stati d'animo? è difficile,molto difficile parlare di un male,di una tristezza così radicata nel cuore,si può solo viverla e tentare di sopravvivere. Proprio per questo molte altre fanfiction che ho letto su questo particolare momento della saga sfociano spesso e volentieri nel banale e nello scontato,perchè è tutto tranne che semplice parlare del dolore senza prima averlo sperimentato. In questa storia,però,non solo sei riuscita a rendere un Bella credibile,vera,hai fatto ben altro: hai riportato i fatti così come ci vengono presentati nel libro senza cadere in sciocchi sentimentalismi o luoghi comuni. Persino il vuoto che prova Bella,seppur non al cento per cento,ha comunque una parvenza di verosimile. Inoltre, e qui concedimi di porti di nuovo i miei complimenti,hai usufruito della frase dei Linkin' Park in maniera egregia,non avrei saputo fare di meglio. Ho adorato il finale in cui Bella spera che qualcuno verrà a salvarla e la sua rinuncia definitiva alla sua vita ormai persa. Lei non sarà mai come lui,lei non diventerà mai come lui,non potrà più aspirare ad una lunga esistenza felice accanto alla persona che ama. Bellissimo!,forse, fra tutte e quattro le storie che mi sono state inviate,questa è stata quella che ha centrato maggiormente il vero significato delle parole della canzone scelta.

IC: 9

Poco ancora da aggiungere: una caratterizzazione ottima di tutti i personaggi trattati. Charlie,pur rimanendo un personaggio ai margini, conserva quel carattere che abbiamo imparato a conoscere dalle pagine della saga in tutti i suoi gesti,in tutte le sue parole. Mi ha fatto una tenerezza assurda in questa fanfiction. La Bella che hai descritto è quanto più vicino ci possa essere all'originale,personalmente poi io me l'ero immaginata un po' più apatica in questa circostanza,ancora troppo scossa dai recenti avvenimenti per rendersi conto di che cosa le gravitava intorno. Avrei marcato più quell' aspetto,ma rimane comunque un' impressione personale e non ha influenzato in alcun modo il punteggio di questa sezione che,per altro,risulta più che buono.

Gradimento personale: 5

Punteggio totale: 41/45



Note dell'autrice:


Salve a tutti! Non avrei mai immaginato di arrivare al primo posto eppure è successo XD
Sono davvero contentissima per questo e spero che questa storia piaccia perchè ci ho messo tutta me stessa scrivendola.
Un grazie speciale a SpeedNewMoon per aver indetto il contest e per i suoi complimenti nella valutazione ^^
A presto, MarieCullen
  
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