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Autore: Laylath    03/11/2016    4 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7. Accelerazioni e sterzate

 


 
La mano guantata premette sulla leva del manubrio e la moto accelerò improvvisamente, preparandosi ad affrontare l’ultimo tratto di terra battuta che si presentava davanti a lei. Al nuovo rombo del motore seguì una nuvola di polvere, ma questo non disturbò minimamente il pilota ben protetto da occhiali e casco di cuoio, anzi un sorriso audace apparve sulle labbra.
Come non poteva essere così? Andare in moto gli provocava una sferzata di libertà tale da lasciarlo estasiato ogni volta: sentiva ogni fibra del suo corpo incredibilmente viva, come se una strana scarica elettrica lo attraversasse. Niente gli regalava sensazioni simili.
Fu con rammarico che premette la leva dei freni per andare a fermarsi con un’abile sterzata a pochi metri dalle due persone che avevano osservato la sua performance sul campo d’addestramento riadattato a percorso ad ostacoli per il motociclo.
“Un ottimo risultato – annuì il meccanico, osservando il tempo sul cronometro che teneva in mano – decisamente il migliore che abbia mai fatto”.
“Questo dovrebbe convincere alcuni tradizionalisti sulle possibilità offerte da queste bellezze – rispose Roy, concedendosi un sorrisino trionfante mentre si levava casco, guanti e occhiali e li posava sopra la sella – è una grande moto”.
“Una delle migliori in circolazione: allora, ti sei trovato bene con i nuovi pneumatici?”
“Tengono molto di più la presa durante le curve. Non vedo che altre modifiche si potrebbero fare”.
“Direi che dopo questa corsa direi che la patente per la moto sarà presto nelle tue mani, Mustang – si intromise l’altra persona, uno degli istruttori dei corsi – non avevo dubbi che questa nuova diavoleria ti sarebbe piaciuta”.
“Spero che non sia uno dei detrattori della moto, signore – commentò Roy, mettendosi sull’attenti – ha ottime potenzialità di utilizzo”.
“Non sono giovanissimo e non ambisco a salire sopra una di queste cose, ma non nego che avrà ottimo uso nell’esercito. Se hai finito direi che possiamo tornare in caserma”.
Con un ultimo cenno di saluto al meccanico, una persona con la quale aveva stretto grande amicizia in quelle ultime settimane, Roy si sistemò meglio la divisa e seguì il suo superiore, ben consapevole che c’era qualcosa che voleva dirgli: non era mai un caso se andava ad assistere a qualche esercitazione.
Il tenente Conrad aveva superato la mezza età e sicuramente aveva vissuto parecchie esperienze sul campo di battaglia, come testimoniava la cicatrice sulla guancia destra, ricordo di una scheggia di granata al fronte. Nonostante ciò il viso manteneva un certo fascino arcigno, come se quella deturpazione ben si adattasse al naso aquilino, alle sopraciglia folte e volitive e ai corti capelli neri.
Era uno degli istruttori più temuti dell’Accademia e non era un mistero che il suo motto fosse “che piangano ora, piuttosto che morire dopo”. Era per colpa (o merito) suo che tra primo e secondo anno c’era una scrematura abbastanza ampia di cadetti, ma nessuno osava fiatare sulle sue decisioni. Era un’autorità così importante che nessun favoritismo poteva prevaricare il suo parere in merito a qualche allievo. Ma questa spietata severità portava a dei grandi risultati ed era innegabile che molti soldati da lui formati e poi chiamati al fronte si fossero salvati la vita in più occasioni grazie alle dure esercitazioni pratiche in Accademia.
Roy sapeva di essere uno dei favoriti di quell’istruttore così intransigente, anche se questo spesso aveva significato rimproveri più aspri per il minimo errore e quegli occhi da rapace perennemente puntati su ogni cosa che faceva. Sotto un certo punto di vista questo essere torchiato gli ricordava quello che a volte subiva in paese dal capitano Falman, ma se con il poliziotto era un battibecco continuo, qui Roy non avrebbe mai permesso alla sua lingua tagliente di dire qualcosa oltre il consentito.
“Bene, ora prenderai la patente e poi tra poco più di un mese sarai un soldato vero e proprio, Mustang. Non penso sia un mistero che svariati gradi alti abbiano messo gli occhi su di te”.
Roy non seppe come rispondere, non aspettandosi che quel discorso saltasse fuori in maniera così palese con un suo insegnante, soprattutto con quello che non vedeva assolutamente di buon occhio queste forme di favoritismo. Per quanto determinate cose fossero risapute, si tendeva a farle restare non ufficiali almeno fino al termine dell’Accademia. Lui non era modesto, sapeva bene di essere un ottimo elemento che faceva gola ai superiori: era di moda avere nel proprio seguito delle giovani promesse.
“Circolano voci in merito, signore” disse infine con studiata noncuranza.
“E tu che ne pensi?”
L’occhiata che gli lanciarono quegli occhi scuri e penetranti fece sentire Roy sotto interrogatorio. Ancora non ne capiva il motivo, ma sembrava che il tenente Conrad fosse particolarmente interessato al suo futuro al di fuori dell’Accademia.
“Non so chi sono questi alti gradi interessati a me – rispose dopo averci pensato qualche secondo e decidendo di essere sincero – ma se avrò occasione valuterò le scelte che mi verranno poste ed opterò per quella che ritengo maggiormente conveniente per la mia carriera”.
“Carriera? – sbuffò l’altro – La maggior parte di quelle persone ti terrà come una bambolina del loro seguito: magari avrai una promozione facile, ma non pensare di andare troppo avanti nella gerarchia militare. Seguito sarai e seguito resterai… tu meriti altro, ragazzo”.
“Ho intenzione di prendere il titolo di alchimista di stato appena possibile: questo mi dovrebbe già mettere in una situazione completamente diversa dagli altri soldati. Avrei il grado di maggiore”.
“Già, mi era arrivata questa voce. Indubbiamente sarebbe una bel passo in avanti: gli alchimisti sono sempre tenuti in grande considerazione. In ogni caso, giovanotto, il motivo per cui ti ho cercato è che devo farti una proposta interessante: vorrei che tu, l’anno prossimo, in primavera, venissi con me per qualche settimana a Central City”.
“A Central?” si meravigliò Roy.
“Già… il governo ogni tanto vuole vedere che tipo di reclute tiriamo su nei vari distretti e tu sei l’allievo migliore degli ultimi anni. Niente di speciale, solo formalità: a dire il vero detesto essere trascinato in simili cose, ma alla burocrazia piace fare mostra di veterani di guerra e giovani promesse”.
Ma Roy quell’ultima frase nemmeno l’aveva sentita: l’idea di andare nella capitale lo inebriava tantissimo. Quello che gli era stato offerto era un vero e proprio colpo di fortuna.
“L’accompagnerò volentieri, signore” disse infine.
“Molto bene – l’uomo lo guardò con esitazione per qualche secondo – vedrai che sarà istruttivo per te, cadetto. Adesso ti consiglio una doccia e un cambio: puzzi di benzina e sei sporco di tutta quella polvere. Se hai una fanciulla che ti aspetta stasera per la libera uscita è meglio che ti presenti come si deve”.
“Una semplice cena con amici – corresse Roy, mettendosi sull’attenti – ma credo che la doccia sia necessaria. La ringrazio ancora per la sua offerta, tenente”.
“Sarà un’ottima esperienza per te. Riposo, cadetto”.
 
“Central? Ti divertirai sicuramente un mondo – commentò Arthur, come quella sera Roy annunciò la grande novità – per quelli che vengono da realtà più piccole come la vostra è sempre una grande esperienza”.
“Ehi, io ci ho vissuto alcuni anni quando ero bambino” mise il broncio Roy.
“Ne parli come se per te fosse un posto come un altro – ribatté Heymans squadrando il suo collega di studi – che c’è? Non ti piaceva stare lì?”
“Sulla città in sé non ho molto da lamentarmi. Ma non è che avessi molte possibilità di godermela dato che ero costretto a frequentare una cerchia abbastanza ristretta ed esclusiva, merito del mio caro padre. E voi non avete idea di quanto possa essere noiosa l’alta società: credo di essere scappato via diverse volte da party con centinaia di invitati”.
“Con somma gioia dei tuoi genitori”.
“Quando mi presentavo per la colazione della mattina successiva c’era sempre qualche scena molto divertente” il giovane si passò una mano tra i folti capelli scuri e face poi cenno al cameriere di portare un’altra bottiglia di vino.
Heymans non ebbe dubbi sulla verità di quelle parole: la settimana prima aveva avuto l’onore di essere invitato formalmente a cena dal giudice Doyle in persona. Sicuramente si trattava di un espediente per conoscere meglio le frequentazioni del figlio e dunque sincerarsi che non ci fossero guai in vista, ma le conclusioni che ne aveva tratto il rosso erano di profonda instabilità familiare.
Il giudice era il classico esempio di pater familiare autoritario che guarda ai propri figli allo stesso modo con cui guarda gli imputati: sempre cercando qualche indizio di colpevolezza e pretendendo da loro la massima collaborazione. Questo era più che sufficiente a scatenare il carattere ribelle di Arthur che, a quella cena, si era comportato educatamente solo per evitare di mettere l’amico in imbarazzo.
Quanto alla signora Doyle era una donna alta, esile e nervosa che non mancava mai di tormentare un lembo del vestito non appena tra padre e figlio scattava qualche scintilla: Heymans si era trovato a paragonarla a sua madre, ma non vi aveva visto un briciolo della sua determinazione. Sybilla Doyle era terribilmente succube del marito e in qualche modo anche del figlio maggiore: con tutta probabilità i momenti in cui respirava di più era quando quei due erano fuori di casa. E questo faceva sì che la sua fragile bellezza slavata ne venisse in qualche modo incrinata.
“Ah, mia sorella ti manda i tuoi saluti” fece Arthur in quel momento, versando per se stesso e Roy un nuovo bicchiere di vino, ma evitando di fare altrettanto con Heymans.
Il giovane studente sorrise lievemente e si soffermò a pensare alla giovane Sofì Doyle, forse l’unica persona che riuscisse a portare un minimo di serenità in quella famiglia spesso al limite della crisi diplomatica. Aveva solo quattordici anni, ma era una di quelle creature solari e dolci, destinate ad essere amate da tutti: se non fosse stato per l’aspetto fisico la si sarebbe detta una completa estranea in quel posto dove la tensione si tagliava a fette meglio dell’arrosto servito come portata principale. Con tutta probabilità Sofì, che curiosamente aveva il medesimo nome di una vecchia compagna di scuola di Heymans, godeva di una posizione privilegiata: da lei il giudice si aspettava solo che fosse educata e carina, oltre che seguire gli studi della scuola femminile a cui era stata iscritta, delle cose in cui la ragazzina riusciva alla perfezione. Non era quindi stata caricata di tutte le aspettative come invece era successo per Arthur, ma per fortuna questi era abbastanza accorto da non prendersela con lei.
In questa differenza di trattamento tra figli da parte del giudice, Heymans un po’ aveva rivisto suo padre: per quanto la situazione fosse diversa, gli pareva che la preferenza marcata per Sofì fosse uno strano modo di punire Arthur per le sue carenze come degno erede.
“Tornando a noi sarà interessante andare a Central – disse Roy, riportando il discorso sull’argomento principale – ne approfitterò per andare a trovare Maes, questo è poco ma sicuro. Anzi, nella prossima lettera che gli scriverò gli inizierò ad anticipare la cosa”.
“Soldato pure lui?” chiese Arthur.
“Non proprio, da quanto so suo padre l’ha inserito nel suo ufficio del settore amministrativo del governo”.
“Non credo che per la sua occupazione avrà bisogno di una moto”.
“Proprio no – sogghignò Roy – comunque ho già messo gli occhi su quella che mi voglio comprare. A gennaio farò il mio grande investimento!”
Heymans osservò i suoi due amici che continuavano a parlare con entusiasmo e si disse che in un altro frangente sarebbero stati una coppia di combinaguai di alto livello. Fortunatamente Roy era ormai troppo accorto per lasciarsi andare a simili tentazioni, almeno non quando vestiva il ruolo di cadetto, e sembrava che anche Arthur avesse capito l’andazzo e non lo coinvolgesse nelle sue eventuali bravate.
Comunque era indiscutibile che quei due erano in qualche modo affini.
“Povero me – sospirò infine Arthur – tra qualche settimana mi abbandonerete per tornare nel vostro angolo di mondo. Come hai detto che si chiama la festa?”
“Niente di complicato: la festa del primo dicembre – rispose Heymans – ma non ti preoccupare: credo che staremo via nemmeno cinque giorni. Fortunatamente coincide con la settimana di assemblee di docenti all’Università, quindi nemmeno perderò lezioni o simili”.
“Già, si prevede calma piatta: spero che mio padre non voglia coinvolgermi in qualche cosa”.
“Nel caso eclissati – gli suggerì con semplicità Roy – non è la prima volta che lo fai”.
“Forse si tratterà di qualche noiosa festa di gala: se non sbaglio ancora non è stato organizzato nulla con le autorità militari della città. In genere una cena ufficiale con il generale in carica non manca mai”.
“Il generale in carica? Ah, Grumman!”
“Sì, mi pare si chiami proprio così. Corre voce che sia un personaggio interessante, forse con lui varrebbe la pena di presentarsi all’appuntamento ufficiale”.
Heymans lanciò un’occhiata a Roy per vedere se faceva qualche riferimento alla parentela tra Grumman e Riza, ma il moro non fece una piega. A dire il vero aveva fatto pochissimi riferimenti alla sua fidanzata, limitandosi a rifiutare con eleganza un invito per uscire con alcune fanciulle di uno degli istituti femminili della città. Ma non c’era da sorprendersi: Arthur Doyle era staccato dal paese e dunque determinate cose non rientravano negli argomenti da trattare con lui.
Un po’ come il fatto che io non gli ho parlato mai di Jean.
Per non parlare di Kain, Vato e tutti gli altri: era come se non esistessero. L’unica persona relativamente vicina alla loro età di cui Arthur era consapevole dell’esistenza era Henry, ma giusto perché alla cena Sofì gli aveva domandato se aveva fratelli o sorelle.
“Se ci vai davvero fai attenzione a non indisporre troppo tuo padre”.
Arthur si limitò a scrollare le spalle con noncuranza e la conversazione si spostò di nuovo.
 
Mentre Roy ed Heymans iniziavano ad entrare nell’ottica del rientro in occasione della festa del primo dicembre, il paese era già immerso nel clima d’eccitazione che accompagnava la preparazione dell’evento.
Il comitato organizzativo era in gran fermento e la lista delle cose da fare sembrava allungarsi di giorno in giorno, con nuove proposte o problematiche che dovevano venir risolte in tempi brevi. Chi pensava al capannone e al relativo arredo, chi alle pietanze, chi agli ordini da fare in città, dato che quest’anno oltre ai fuochi d’artificio si voleva proporre anche qualcosa di nuovo, sebbene su di questo ci fosse il più grande segreto.
Nel frattempo le donne del paese erano quasi del tutto impegnate alla ricerca del vestito da indossare, come da tradizione. La merceria era invasa ogni giorno da fanciulle che cercavano la stoffa giusta per il proprio abito o ancora quell’accessorio o quel dettaglio da aggiungere per essere perfetta. Le studentesse ormai non riuscivano più a concentrarsi sulle lezioni, eccitate da quell’evento sociale che in qualche modo le inseriva nel mondo degli adulti almeno per una notte. Era fatto risaputo: un ballo alla festa del primo dicembre era quasi un’ufficializzazione delle coppie.
“Sono felice di avere il vestito già pronto – dichiarò Riza, osservando dalla finestra di casa Breda il grande traffico di persone piene di pacchi e pacchetti – per fortuna che anche quest’anno ci ha pensato la mamma con uno dei suoi meravigliosi vestiti”.
“Ci avrai dovuto fare grosse modifiche dato che sei parecchio più prosperosa di lei – commentò Laura, tagliando con abilità una grossa porzione di una bella stoffa lillà – qual è? Forse ce l’ho presente”.
“Color panna, con nastrini gialli sulle maniche e sul colletto. Ci ho dovuto lavorare un po’ ma alla fine sono davvero contenta del risultato e anche mamma la pensa così”.
“E’ il primo anno che ci hai voluto pensare da sola: in genere toccava a me fare quelle modifiche… oh, non sono offesa! Anzi, sono lieta di avere del lavoro in meno da fare. Hai visto quante richieste impossibili? Ti prego di guardare il disegno che mi ha fatto l’ultima cliente che è venuta… cielo, come pensa di indossare una cosa simile?” Laura fece una smorfia incredula nel prendere in mano il foglio su cui era stato schizzato l’elaborato abito.
“E come si fa in questi casi?”
“Semplice: la sarta ha sempre l’ultima parola perché vede realmente le cose come stanno – disse con praticità la donna, facendo cenno alla sua aiutante di arrotolare e mettere via la stoffa avanzata – se facessi come vogliono loro apparirebbero ridicole. Invece cerco il giusto compromesso e alla fine sono più che soddisfatte. Per esempio il compromesso di questo disegno è giusto il colore della stoffa e la forma delle maniche, per il resto mi dovrò ingegnare io… anche perché una scollatura simile è davvero troppo audace, persino per il nuovo secolo”.
“Nel frattempo io continuo a sistemare le camicie per dopodomani”.
“Ottima idea: se me le smezzi entro oggi sarà un grande passo avanti”.
Riza prese il cesto con il lavoro da fare e si sedette sul grande letto: preferiva non occupare spazi troppo grandi e così, sin dal primo giorno, si era ritagliata un suo angolino, senza andare a mischiare i suoi rammendi con le stoffe dei vestiti.. La signora Laura preferiva lavorare in camera sua piuttosto che in soggiorno od in cucina. Era riuscita ad organizzare alla perfezione lo spazio e così, oltre al grande letto matrimoniale e all’armadio vi erano un tavolo rotondo con due sedie e un manichino per le prove. Ed in un angolo era stato aggiunto un piccolo ripiano dove stava la nuova macchina da cucire, un regalo fattole dai figli tre anni prima,
Tutto sommato si trovava bene a lavorare per la signora Laura.
Non che il cucito fosse la sua grande passione, ma l’idea di fare qualcosa di produttivo la faceva stare bene ed era infantilmente orgogliosa di poter mettere qualche soldo da parte in maniera totalmente autonoma. Finalmente si sentiva in parte uscita dalla situazione di pesante stallo che aveva vissuto per diverse settimane, dove si era sentita quasi inutile nel vedere Rebecca ed Elisa andare avanti con il loro lavoro. Ovviamente sapeva che questa era solo una parentesi di qualche settimana, giusto per aiutare nei giorni di fuoco precedenti la festa, ma era come un piccolo inizio che, forse, avrebbe aperto altre strade.
Inoltre si trovava molto bene con la signora Laura: le era sempre stata molto affezionata, sin da quando l’aveva conosciuta e le piaceva poter parlare con lei. Forse la considerava un briciolo più indipendente rispetto a quanto facesse sua madre.
“Allora, racconta – le chiese proprio la donna – come procedono i lavori a casa dei tuoi nonni?”
“Molto bene. In questo periodo papà è libero da cantieri e quindi si può dedicare alle riparazioni che ci sono da fare. E la mamma sta andando avanti alla grande nelle pulizie: di mattina la aiuto anche io. E’una casa meravigliosa, signora: c’è mai stata?”
“Qualche volta quando Ellie era ancora una ragazzina, ma non la ricordo molto bene dato che stavamo per la maggior parte del tempo in camera sua. Ma di sicuro è una delle case più belle di tutto il paese. Del resto il padre è un uomo molto ricco: credo che non ci sia un proprietario terriero suo pari nella nostra zona”.
“Mi chiedo come mai i miei genitori non si sono trasferiti lì quando i nonni sono partiti”.
“Oh dai, Riza, sul serio li conosci così poco? Sono Andrew ed Ellie, probabilmente la coppia più romantica che sia mai esistita in questo mondo… loro non sono fatti per regge o castelli, loro vogliono solo il piccolo e felice nido dove poter tubare come colombi. Non è questa l’idea che ti dà casa tua?”
“Effettivamente…” Riza sorrise a quell’immagine così tenera e fiabesca dei suoi genitori adottivi. Però a ben pensarci era proprio così: si erano completamente distaccati da quelle che erano le loro famiglie.
“Comunque se il signor Lyod riporta anche i suoi famosi cavalli di razza devi chiedergli di insegnarti a cavalcare. E’ una cosa che ho sempre invidiato ad Ellie”.
“A cavalcare…”
“Pensa che per un certo periodo anche Andrew aveva preso qualche lezione, ma non è mai stato molto affiatato con il suo destriero. Non penso che gli piacesse… Ellie invece, da quanto mi raccontava, era davvero brava”.
“Non ce la vedo la mamma a cavallo: ha persino paura quando Kain prende la bici per venire in paese”.
“Ah, ragazza mia – sorrise con indulgenza Laura, alzandosi dal tavolo e drappeggiando la stoffa sopra il manichino – ti assicuro che la prima infanzia di Kain ha cambiato molto Ellie Lyod. Era destino che per entrambe i figli significassero grossi cambiamenti”.
“Sa che proprio non riesco ad immaginare lei e mia madre diverse da come siete?”
“E’ più che naturale, mia cara: ma aspetta di avere un figlio e vedrai che non ti riconoscerai più nemmeno tu. Ehi, che cos’è tutto quel rossore: tu e Roy prima o poi vi sposerete, no?”
“Certo… almeno, questi sono i progetti – annuì Riza con imbarazzo – però è ancora presto!”
“Presto! – ridacchiò la donna – Ti assicuro che il tempo passa prima di quanto te lo aspetti. Credo che tu sia perfettamente consapevole che prima o poi dovrai abbandonare il nido del paese se vuoi stare assieme al tuo bel soldato. Al contrario di tutti gli altri il tuo amore ti porterà a volare lontano”.
La giovane a quelle parole rimase interdetta: era surreale che tutte le sue paure venissero tirate fuori in maniera così improvvisa e spensierata. Per qualche secondo rimase profondamente offesa con quella donna, ma poi intercettò l’occhiata penetrante che gli occhi grigi le stavano lanciando.
Mamma non mi ha mai guardato con simile comprensione.
“Prima o poi – ammise con voce flebile – ma non ancora…”
“Sai, alla tua età io non vedevo l’ora di andare via da questo posto. Me lo sentivo stretto ogni giorno che passava, specie dal momento che vedevo Andrew andare all’Università e lasciarmi sola. Volevo andare ad East City, aprire una sartoria: nei miei sogni mi vedevo piena di lavoro e ricercata da persone importanti per i loro vestiti. Un atelier tutto mio, ti immagini”.
“Beh, poi è successo quel… quel fatto…”
“No, non fraintendermi, non parlo del mio incontro con Gregor e di quello che ne è conseguito. Quello che volevo dire è che i miei sogni ad occhi aperti erano bellissimi, ma ammetto che c’erano anche delle catene che mi tenevano in questo posto. Capisci? Lo sentivo stretto, eppure una parte di me sapeva che non avrei mai e poi mai avuto il coraggio di spiccare il volo, non da sola almeno… quello che è successo dopo, oh beh, la realtà ci ha pensato bene a farmi sbattere la faccia contro di sé”.
Riza come sempre rimase ammirata da quella donna che aveva saputo rialzarsi nonostante tutte le difficoltà che la vita le aveva procurato. Non aveva paura di parlarne, non ne provava vergogna: era come se fosse estremamente fiera di quello che era diventata e dunque non rinnegasse nessuna delle esperienze che avevano portato a quel risultato. Spinta da quell’ammirazione si decise a parlare.
“Ammetto che se Roy mi avesse proposto di andare via prima che io incontrassi Kain e la sua famiglia non ci avrei pensato molto a seguirlo…”
“Ne sei sicura? – strizzò l’occhio Laura – ricorda le catene di cui ti ho parlato: non sono solo le persone, ma anche il posto dove ci si trova”.
“Ohibò – arrossì la bionda, posando l’ago sul comodino – a metterla così non saprei dire. In fondo questo posto era un po’ un rifugio tranquillo, specie nei boschetti e nelle radure isolate. Però, ripensando a quanto ero sola in quella vecchia casa, non sarebbe stato così difficile come lo è adesso”.
“L’idea di lasciare Ellie ed Andrew ti spaventa molto”.
“Tanto. Loro mi hanno dato una sicurezza che mai avevo provato in vita mia, un concetto di famiglia del tutto diverso rispetto a quello che avevo persino quando era viva la mia vera madre. Mi pare così destabilizzante andare lontano da loro e da Kain… e anche egoista dopo tutto quello che hanno fatto per me in questi anni”.
“Ragazza mia, se ci basiamo su questi sensi di colpa allora nessun figlio si dovrebbe mai sposare o partire per realizzare i suoi progetti – sospirò Laura – Se un giorno Heymans si trasferisse in città per lavorare ne sarei estremamente fiera e felice per quanto mi farebbe molto male non averlo più qui accanto a me. Ma in fondo è parte dell’essere genitori, no? Un figlio prima o poi deve volare da solo”.
“E’ solo che il mondo mi pare così grande fuori dal paese – ammise infine Riza – e io qui ci sto così bene. Desidererei davvero che Roy restasse qui per sempre, con tutti i nostri amici e le nostre famiglie… eppure, dall’altra, desidero che realizzi il suo sogno di diventare soldato ed alchimista”.
“In tutto questo, signorina, c’è ancora una grande incognita: tu che cosa vuoi diventare? E non dirmi sarta: sarai brava a rammendare, ma non è la tua vera passione”.
“Ancora non lo so. E’ questo quello che mi dà maggiormente fastidio… tutti gli altri sì, mentre io ancora brancolo nel buio”.
“Oh, aspetta e vedrai – la rassicurò la donna, guardando con aria critica il modo in cui il drappeggio scendeva dal manichino – quando meno te lo aspetti arriva l’ispirazione giusta. Non tutti nascono con il talento già definito come tuo fratello che a sei anni già riparava radio”.
 
Quella chiacchierata con la signora Laura aveva fatto riflettere Riza più del previsto.
Quando prese congedo da lei qualche ora dopo si ripromise che prima o poi doveva parlare di questi suoi dubbi con sua madre e suo padre e, appena possibile, anche con Roy, sebbene in termini completamente diversi.
Notando che si trovava nelle vicinanze di casa di Rebecca decise di andare a vedere se era rientrata dalla giornata di lavoro all’emporio Havoc. Negli ultimi tempi si erano viste davvero poco e se potevano concedersi una passeggiata di qualche minuto nelle strade del paese le avrebbe fatto estremo piacere: l’esuberanza dell’amica l’avrebbe certamente tirata su di morale.
Proprio nel momento in cui alzò lo sguardo per vedere se la finestra del primo piano dove stava la sua camera era aperta, la porta della casa si aprì con violenza per far uscire una furentissima Rebecca.
“Reby?” chiamò Riza, osservandola percorrere a grandi passi il piccolo giardino. Solo alla fine notò che sulle spalle aveva un fagotto fatto da una coperta.
“Dove credi di andare, disgraziata! – una voce tremendamente acuta fece sussultare Riza e nella soglia apparve la madre di Rebecca, il viso livido e contratto per la rabbia – Non abbiamo ancora finito di parlare!”
“Per me è tutto finito! – sbottò la mora, girandosi di scatto verso la sua antagonista e battendo il piede a terra – e se per te le cose non vanno bene, allora tanti saluti. Io in questa casa non ci metterò mai più piede!”
“Lo vedi? Lo vedi che facevo bene a volerti lontano da quel buono a nulla di Jean Havoc! Da brava ragazza ti ha trasformato in una bugiarda poco di buono!”
“Poco di buono? – Rebecca lasciò cadere il suo fagotto a terra e raggiunse la madre, piazzandosi davanti a lei e gonfiando il petto in segno di sfida – Per tua informazione, se in questa casa non c’è un briciolo di possibilità di dialogo è solo colpa tua! Sei una dannata retrograda che non fa altro che reprimere la libertà di una persona… la mia in questo caso! Se io voglio lavorare all’emporio…”
“Da signorina!? – la donna annaspò con orrore – cielo, ma ti senti? Che mi vuoi diventare, una scaricatrice di porto? A quando sentirti dire che ti vuoi arruolare e diventare un soldato? Ma dove ho sbagliato con te?”
“Mamma sei folle!”
“No, tu lo sei. Adesso riprendi la tua roba e torna in camera tua!” ordinò Penelope Catalina, indicando con fermezza la porta ancora aperta.
“Se torno a casa allora torno anche a lavorare all’emporio”.
“Scordatelo! Non permetterò ad una ragazza di buona famiglia di…”
“Allora ti auguro una buona serata – salutò Rebecca, girandosi con rabbia e andando a recuperare il suo fagotto. Non si preoccupò nemmeno di salutare Riza, facendole solo cenno di seguirla – e comunque lo stufato che stavi preparando faceva davvero schifo! La signora Havoc lo fa cento volte meglio di te!”
“Ma come osi!? Rebecca! Rebecca Catalina! Torna immediatamente qui, non farmi arrabbiare davvero o quando torna tuo padre…!”
“Ma finiscila…” sibilò.
“Ehm – Riza osò intromettersi – ma… ma quindi te ne vai di casa?”
“Non si capisce?” chiese sarcastica la mora mentre gli improperi della signora Catalina continuavano a farsi sentire, senza che però la donna accennasse a muoversi dal piccolo cortile della casa.
Riza quasi si fermò sul sentiero.
Era chiaro che la famosa copertura di Rebecca era saltata e che dunque la verità era venuta a galla. Del resto c’era d’aspettarsi che la commedia non sarebbe potuta durare per molto tempo.
Cielo, vuole andare a stare con Jean? A casa sua? – arrossì a quel pensiero. C’erano cose che andavano davvero troppo oltre il seminato.
“Non mi dire che vai da quella famiglia di gente malfamata!” strillò ancora la madre.
“Tanto per informarti – strillò Rebecca in tono ancora più alto – sto andando a stare da Riza, hai capito? E da domani io torno a lavoro lì, chiaro?”
“Da me?” annaspò Riza, impazzendo all’idea di tornare a casa con quell’ospite inatteso.
“E da chi altri?” mise il broncio Rebecca.
 
“Voi non permetterete che io torni in quella casa che soffoca il progresso e l’amore, vero signori Fury?”
Rebecca si mise a mani giunte in segno di preghiera, tanto che Riza si sentì in imbarazzo per lei e lanciò un’occhiata supplichevole ai suoi genitori, quasi a dire che lei non c’entrava niente in tutta quella storia.
Il concetto era più o meno quello del mi ha seguito fino a casa, possiamo tenerla?
Andrew ed Ellie si squadrarono con perplessità per qualche secondo, prima che lui parlasse.
“Vieni, cara, andiamo a parlarne qualche secondo nel mio studio. Riza, vieni anche tu… Kain, resta a fare compagnia a Rebecca”.
“Io? – arrossì il ragazzo – Va… va bene”.
Andrew si sentì un po’ dispiaciuto nel lasciare il figlio con Rebecca in versione tra l’infuriato e il disperato, ma urgeva un consulto con le altre due donne di casa.
“Oh, papà mamma… vi chiedo umilmente scusa! – sospirò Riza come la porta si chiuse alle loro spalle – ma non potevo lasciarla sola per la notte. Sarebbe stata capacissima di accamparsi da qualche parte in campagna, me lo sento… o ancora peggio di andare da Jean”.
“Gli Havoc ancora non sanno di quanto è accaduto, vero? – chiese Andrew – Ma presumo che tu sapessi della recita che la tua amica stava recitando, no?”
“Non nei dettagli – arrossì colpevolmente la ragazza – non ci vediamo da una decina di giorni e pensavo che ormai avesse risolto la questione. Mi dispiace di non avervelo detto”.
“Oh beh, del resto non sono più bambini – commentò Ellie – e da una parte capisco Rebecca, anche se tutte quelle bugie… avrebbe dovuto parlarne con i suoi genitori”.
“E’ che la madre di Rebecca è così… così… all’antica…”
… e di certo le manda a dire…
“E’ comunque sua madre. Da genitori la cosa migliore da fare sarebbe riaccompagnarla a casa – sospirò Andrew, passandosi una mano tra i capelli – però credo di capire che se facciamo una cosa simile lei scappa dalla finestra non appena si chiude la porta, vero?”
“Non è escluso – annuì Riza – ecco… almeno per stanotte? Può dormire con me e magari domani le acque si sono calmate”.
“O diciamo che saranno più agitate non appena anche gli Havoc verranno a sapere della cosa – propose Ellie – però, è anche vero che ormai l’ora è tarda e ad uscire fa davvero freddo”.
“Va bene – sospirò Andrew – vai pure a dire alla tua amica che può dormire con te stanotte. Ma solo stanotte”.
“Grazie, papà – Riza lo abbracciò con fervore – non sai quanto sono desolata per questo disastro. Adesso vado a salvare Kain prima che Rebecca abbia un’altra crisi di pianto e lo inondi di lacrime”.
Rimasti soli i due adulti si guardarono con rassegnazione e poi Ellie si lasciò andare ad una risatina e abbracciò con dolcezza il marito.
“Ah, l’amore! – disse – Mi ricordo che quando non avevo ancora quindici anni mentì per svariato tempo ai miei sul fatto che andavo a prenderti alla stazione ogni volta che tornavi dall’Università”.
“E ricordi anche che finisti in punizione e dovetti affrontare le ire di tuo padre?” Andrew mise il broncio al ricordo del suo primo approccio con Nicholas Lyod.
“Io ricordo solo che ero felicissima perché eri venuto a salvarmi, proprio come un principe azzurro”.
“E che ne dici della nostra nuova principessa dai capelli neri?”
“Direi che non ha per niente bisogno di essere salvata – ridacchiò Ellie – anzi, mi sa che sono gli altri a dover esser salvati da lei. Vado a controllare se nella stanza di Riza c’è bisogno di un cuscino in più”.









 
  
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