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Autore: Karyon    14/05/2009    1 recensioni
Il ribrezzo più profondo allora mi colpì: urlai.
Un solo, prolungato suono che segnò la fine della mia ragionevolezza, addentrandomi nel delirio e nel terrore.
I miei incubi cominciarono da allora.
Genere: Drammatico, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Che ore saranno?
Non sento alcun rumore. E’ notte.
Quando tempo sarò stato qui?
Giorni? Mesi?
Probabilmente anni… ormai ho perso il conto.
Venti primavere sono ormai trascorse; sembra strano, ma il mondo al di fuori di queste mura continua.
A pensarci bene è gia una fortuna essere qui, rinchiuso - in catene - ma vivo.
Ah! Quale macabra gioia! Vivo... perché, è forse vita questa?
Penso di No.
Molti altri reclusi devono averlo pensato, quanti ne ho ascoltato: urla disumane che squarciano il silenzio, la profonda oscurità.
Molti hanno pensato di togliersi la vita piuttosto che sopravvivere in questo modo.
Vorrei farlo anch’io... ma non posso. Non posso!
Sono condannato a vivere sottoterra come un cadavere in una bara fatta di ferro e pietra.
È la mia punizione. Condannato ad ascoltare uomini che si liberano dalla prigionia, con l’illusione di raggiungere - un giorno - l’agognato paradiso.
Magari lo troveranno, io non ci sono riuscito.
Ho viaggiato fra illusione e realtà, fra vita e morte e non l’ho trovato; forse i suoi dorati cancelli sono serrati per me.
L’idea che non possa esistere nulla al di là della morte non mi spaventa. In fondo, non è questo l’inferno? O forse il paradiso?
Noi lo creiamo, noi lo trasformiamo in un ammasso di fuoco e fiamme o in fulgore e luce.
Io posso dire di essere stato favorito dalla sorte: ho forse vissuto in un’ amena illusione di entrambi; ho conosciuto - da un lato - le dolcezze dell’eden, dall’altro la bramosia ardente degl’inferi.
Eppure... il senso di angoscia mi pervade.
Non riguarda il futuro, non ne vivrò i reconditi segreti;
non guarda il passato, non ho vissuto le sue antiche memorie, non ho ricordi che mi straziano.
Chi sono io?
Dimenticavo, un essere umano.
In realtà non sono vivo, tuttavia neanche un morto in terra.
Non so chi - o meglio - cosa sono.
Adesso, il senso di angoscia mi colma il cuore fino a farmi soffocare. [Sto forse delirando]
Cuore? Io non ho un cuore, pertanto non dovrei vivere, ciò nonostante sono qui.
Riesco a sentirmi, a toccare le pareti gelide e putrescenti della mia cella, riesco a sentire.
[Sentire cosa?]
Sentimenti. Devo averne provato, una volta.
[E questa cos’è?]
Nostalgia. Ricordi.
Sono ricordi? Non dovrei avere ricordi, non dovrei provare nostalgia.
Come faccio a conoscerla? Cosa significa?
[Perché sono qui?]
Ecco. La frase che temevo, è infine giunta. Mi echeggia nella mente, mi soffoca il sangue, mi agita, mi terrorizza… perché sono qui?
L’ho pronunciata, è reale, adesso.
A chiare lettere è impressa nella mia mente devastata; come se fosse stata marchiata, brucia nitida e incancellabile.
Perché sono qui?
Prende forma. Sempre più insistentemente e fortemente, questa domanda si istalla nei miei pensieri. Sono giorni ormai, una, due settimane, che arde come un fuoco incancellabile.
Sono passati mesi da quando mi sono risvegliato nella mia bara.
Prima odo i miei sensi attenuarsi o – forse - rinvigorirsi: non sento più le voci, le urla, le preghiere degli altri reclusi; ma odo sempre più insistentemente voci remote e lontane,
che sussurrano promesse di indicibili verità, che mi invitano a voce eminente,
che mi richiamano a folli imprese e che mi inducono a turpi orrori.
[Follia] È pura follia quella che mi ha imprigionato e mi ha rapito.
Il delirio nel quale sono inciampato mi ha portato a rasentare l’ossessione.
Il quesito, la preghiera che - sempre più insistentemente - pronunciavo, sussurravo, strepitavo, non si è sopita. No.
Continuamente mi si ripresenta alla mente tormentandomi, annullandomi.
Sono pazzo.
[Ossessione]
Una sola, semplice parola mi saltò alla mente quella gelida e buia mattina di febbraio quando -
come ogni giorno, ogni ora - da ben due anni da allora, mi riducevo a fissare insistentemente la spoglia, inerte parete plumbea che sembrava suggerirmi ignoti segreti: i miei occhi, ridotti a semplici orbitanti cave vuote, morte.
Cos’ero diventato? Era quella la pazzia?
Era quella la solitudine?
[Non riuscivo a comprendere]
Da quando la mia mente si era isolata?
Da quando la mia mente aveva risolutamente abbandonato il mio corpo?
Ero confuso. Ma più di ogni altra cosa era sbalordito: la mia mente, nonostante sotto l’influsso
nefasto di questo rovente delirio, ha compreso.
Cecità, era questo il male che - avverso - si annidava in un angolo remoto della mia segreta.
[Cieco, ero cieco]
La paranoia, che imperterrita aveva scavato nei più profondi meandri del mio intelletto,
era riuscita a farmi recuperare parte della memoria perduta.
Solo alcuni lampi, frammenti temporanei - spesso indecifrabili - di ricordi illusori o forse reali
che mi lasciarono interdetto.
Mi ero reso conto che - ad un tratto - la mia vista era andata scemando.
[Come ero divenuto cieco?]
Eppure... ricordo la vista del cielo attraverso le glaciali grate, le spesse mura stillanti e tetre,
il misero giaciglio coperto da un putrido brandello.
Sotto il peso dell’insistente chiodo fisso che si replicava e si accresceva continuamente - all’infinito - non mi ero reso conto che repentinamente non vedevo più nulla.
Ero ricoperto da biancheggianti, spesse garze che riparavano gli occhi alla luce del sole che filtrava dalla misera finestra della stanza.
I giorni passavano immoti e indolenti, il freddo gelido invernale si tramutava gradualmente in dolce stasi primaverile.
La follia, la pazzia che mi aveva pervaso l’anima e lacerato il corpo sembrava ormai sopita,
l’aria limpida e rasserenante della buona stagione, pareva avermi contaminato.
Tuttavia qualcosa, un dettaglio insignificante, un particolare marginale, mi sfuggiva.
[Cos’era?]
Quella calma rasserenante era tuttavia troppo fulminea ed inattesa per non destare in me una qualche forma di sospetto.
Cosa vi era di sbagliato?
Ed ecco apparire una nuova ossessione, una nuova mania galleggiare nel turbinio dei miei pensieri.
[Dolore]
Allora una sola parola si delineo nella mia contorta ragione: nessun dolore. Le mie iridi,
così sapientemente e prudentemente involte, non dolevano.
Erano ormai all’estremo della sofferenza, erano state indubbiamente curate e emendate,
eppure... non dolevano.
Allorché un dubbio, un atroce pensiero si affaccio nei miei pensieri attoniti.
La follia!
Nessun folle è mai stato tanto lucido da poter decifrare le ragioni dei propri comportamenti?
Certo che no!
Quella turpe riflessione mi portò a sradicare impetuosamente le cascanti bende, e a portarmi le dita vibranti alle pupille. Un suono soffocato – gelido - mozzato dall’ orrore mi fuggì dalla trachea, allorché mi resi conto di non possedere affatto due occhi: recisi.
Come tralci secchi erano stati amputati.
Il terrore puro mi avvolse, quando tutto il peso dell’ orribile comprensione mi crollò indosso come un macigno.
[Ero stato io]
Mi balzò, ormai limpido l’origine del mio internamento, così come tutto il grande orrore che la mia mente - incapace di sostenere - aveva cancellato, con la speranza della conservazione del senno.
Piansi.
Piansi come non avevo mai fatto, come non avevo mai immaginato di fare.
[Le unghie]
Troppo occupato, non mi ero reso conto di quanto fossero sproporzionate e acuminate come rasoi.
Troppo occupato non mi ero reso conto che, nei miei intervalli di deliquio durante i quali mi limitavo a fissare la ferrea parete, mi straziavo le orbite, le iridi.
Non piangendo, né strepitando o gemendo, bensì continuando a fissare la gelida parete.
Il ribrezzo più profondo allora mi colpì: urlai.
Un solo, prolungato suono che segnò la fine della mia ragionevolezza, addentrandomi nel delirio e nel terrore.
I miei incubi cominciarono da allora.


«Cronache di un fantasma.


N/A
Verrò linciata per questo lo so.
Questa l’ho scritta tre anni fa e, contro la mia stessa volontà, l’ho lasciata così com’era. Chi è quest’uomo? Un malato, sicuramente.
Nella mia mente contorta, lui semplicemente compie un processo di rimozione e recupero della memoria. Secondo papà Freud, un avvenimento particolarmente scioccante viene rimosso dalla mente stessa per preservarsi; tuttavia lo shock può mostrarsi sottoforma di tic, atteggiamenti particolari, lapsus linguae, perdite di memoria etc.
Lui è in una prigione sotterranea, fole e oscura, e non ne conosce il motivo. Stare lì per messi, anni, l’ho ha reso ossessivo al punto da tirarsi via gli occhi. La conseguente perdita di sangue, lo shock, il dolore sono stati rimossi. Rimozione che comincia a cedere quando i vuoi di memoria cominciano a sanarsi lui comincia a percepire meglio il mondo attorno a sé.
Quando la consapevolezza ritorna, c’è l’attacco finale.
E’ dura, lo ammetto, ma non ho voluto modificare quasi nulla.
Sicuramente ci saranno errori.
I vari errori di tempi sono voluti, visto che la sua concezione temporale fa cilecca, così come lo spropositato numero di aggettivi. So che magari appesantiscono il testo, ma lui ha delle percezioni attenuate, a volte accentuate, ma comunque non normali. Questa storia aveva un vago continuo, una vera storia per Lui e un nome.
Poi ho preferito lasciarla così, perché l’avrei rovinata, alla fine.
Lui è solo un fantasma.

   
 
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