Che
ore saranno?
Non sento alcun rumore. E’ notte.
Quando tempo sarò stato qui?
Giorni? Mesi?
Probabilmente anni… ormai ho perso il conto.
Venti primavere sono ormai trascorse; sembra strano, ma il mondo al di
fuori di
queste mura continua.
A pensarci bene è gia una fortuna essere qui, rinchiuso - in
catene - ma vivo.
Ah! Quale macabra gioia! Vivo... perché, è forse
vita questa?
Penso di No.
Molti altri reclusi devono averlo pensato, quanti ne ho ascoltato: urla
disumane che squarciano il silenzio, la profonda oscurità.
Molti hanno pensato di togliersi la vita piuttosto che sopravvivere in
questo
modo.
Vorrei farlo anch’io... ma non posso. Non posso!
Sono condannato a vivere sottoterra come un cadavere in una bara fatta
di ferro
e pietra.
È la mia punizione. Condannato ad ascoltare uomini che si
liberano dalla
prigionia, con l’illusione di raggiungere - un giorno -
l’agognato paradiso.
Magari lo troveranno, io non ci sono riuscito.
Ho viaggiato fra illusione e realtà, fra vita e morte e non
l’ho trovato; forse
i suoi dorati cancelli sono serrati per me.
L’idea che non possa esistere nulla al di là della
morte non mi spaventa. In
fondo, non è questo l’inferno? O forse il paradiso?
Noi lo creiamo, noi lo trasformiamo in un ammasso di fuoco e fiamme o
in
fulgore e luce.
Io posso dire di essere stato favorito dalla sorte: ho forse vissuto in
un’
amena illusione di entrambi; ho conosciuto - da un lato - le dolcezze
dell’eden,
dall’altro la bramosia ardente degl’inferi.
Eppure... il senso di angoscia mi pervade.
Non riguarda il futuro, non ne vivrò i reconditi segreti;
non guarda il passato, non ho vissuto le sue antiche memorie, non ho
ricordi
che mi straziano.
Chi sono io?
Dimenticavo, un essere umano.
In realtà non sono vivo, tuttavia neanche un morto in terra.
Non so chi - o meglio - cosa sono.
Adesso, il senso di angoscia mi colma il cuore fino a farmi soffocare.
[Sto
forse delirando]
Cuore? Io non ho un cuore, pertanto non dovrei vivere, ciò
nonostante sono qui.
Riesco a sentirmi, a toccare le pareti gelide e putrescenti della mia
cella,
riesco a sentire.
[Sentire cosa?]
Sentimenti. Devo averne provato, una volta.
[E questa cos’è?]
Nostalgia. Ricordi.
Sono ricordi? Non dovrei avere ricordi, non dovrei provare nostalgia.
Come faccio a conoscerla? Cosa significa?
[Perché sono qui?]
Ecco. La frase che temevo, è infine giunta. Mi echeggia
nella mente, mi soffoca
il sangue, mi agita, mi terrorizza… perché sono
qui?
L’ho pronunciata, è reale, adesso.
A chiare lettere è impressa nella mia mente devastata; come
se fosse stata
marchiata, brucia nitida e incancellabile.
Perché sono qui?
Prende forma. Sempre più insistentemente e fortemente,
questa domanda si
istalla nei miei pensieri. Sono giorni ormai, una, due settimane, che
arde come
un fuoco incancellabile.
Sono passati mesi da quando mi sono risvegliato nella mia bara.
Prima odo i miei sensi attenuarsi o – forse - rinvigorirsi:
non sento più le
voci, le urla, le preghiere degli altri reclusi; ma odo sempre
più
insistentemente voci remote e lontane,
che sussurrano promesse di indicibili verità, che mi
invitano a voce eminente,
che mi richiamano a folli imprese e che mi inducono a turpi orrori.
[Follia] È pura follia quella che mi ha imprigionato e mi ha
rapito.
Il delirio nel quale sono inciampato mi ha portato a rasentare
l’ossessione.
Il quesito, la preghiera che - sempre più insistentemente -
pronunciavo,
sussurravo, strepitavo, non si è sopita. No.
Continuamente mi si ripresenta alla mente tormentandomi, annullandomi.
Sono pazzo.
[Ossessione]
Una sola, semplice parola mi saltò alla mente quella gelida
e buia mattina di
febbraio quando -
come ogni giorno, ogni ora - da ben due anni da allora, mi riducevo a
fissare
insistentemente la spoglia, inerte parete plumbea che sembrava
suggerirmi
ignoti segreti: i miei occhi, ridotti a semplici orbitanti cave vuote,
morte.
Cos’ero diventato? Era quella la pazzia?
Era quella la solitudine?
[Non riuscivo a comprendere]
Da quando la mia mente si era isolata?
Da quando la mia mente aveva risolutamente abbandonato il mio corpo?
Ero confuso. Ma più di ogni altra cosa era sbalordito: la
mia mente, nonostante
sotto l’influsso
nefasto di questo rovente delirio, ha compreso.
Cecità, era questo il male che - avverso - si annidava in un
angolo remoto
della mia segreta.
[Cieco, ero cieco]
La paranoia, che imperterrita aveva scavato nei più profondi
meandri del mio
intelletto,
era riuscita a farmi recuperare parte della memoria perduta.
Solo alcuni lampi, frammenti temporanei - spesso indecifrabili - di
ricordi
illusori o forse reali
che mi lasciarono interdetto.
Mi ero reso conto che - ad un tratto - la mia vista era andata scemando.
[Come ero divenuto cieco?]
Eppure... ricordo la vista del cielo attraverso le glaciali grate, le
spesse
mura stillanti e tetre,
il misero giaciglio coperto da un putrido brandello.
Sotto il peso dell’insistente chiodo fisso che si replicava e
si accresceva
continuamente - all’infinito - non mi ero reso conto che
repentinamente non
vedevo più nulla.
Ero ricoperto da biancheggianti, spesse garze che riparavano gli occhi
alla
luce del sole che filtrava dalla misera finestra della stanza.
I giorni passavano immoti e indolenti, il freddo gelido invernale si
tramutava
gradualmente in dolce stasi primaverile.
La follia, la pazzia che mi aveva pervaso l’anima e lacerato
il corpo sembrava
ormai sopita,
l’aria limpida e rasserenante della buona stagione, pareva
avermi contaminato.
Tuttavia qualcosa, un dettaglio insignificante, un particolare
marginale, mi
sfuggiva.
[Cos’era?]
Quella calma rasserenante era tuttavia troppo fulminea ed inattesa per
non
destare in me una qualche forma di sospetto.
Cosa vi era di sbagliato?
Ed ecco apparire una nuova ossessione, una nuova mania galleggiare nel
turbinio
dei miei pensieri.
[Dolore]
Allora una sola parola si delineo nella mia contorta ragione: nessun
dolore. Le
mie iridi,
così sapientemente e prudentemente involte, non dolevano.
Erano ormai all’estremo della sofferenza, erano state
indubbiamente curate e
emendate,
eppure... non dolevano.
Allorché un dubbio, un atroce pensiero si affaccio nei miei
pensieri attoniti.
La follia!
Nessun folle è mai stato tanto lucido da poter decifrare le
ragioni dei propri
comportamenti?
Certo che no!
Quella turpe riflessione mi portò a sradicare impetuosamente
le cascanti bende,
e a portarmi le dita vibranti alle pupille. Un suono soffocato
– gelido -
mozzato dall’ orrore mi fuggì dalla trachea,
allorché mi resi conto di non
possedere affatto due occhi: recisi.
Come tralci secchi erano stati amputati.
Il terrore puro mi avvolse, quando tutto il peso dell’
orribile comprensione mi
crollò indosso come un macigno.
[Ero stato io]
Mi balzò, ormai limpido l’origine del mio
internamento, così come tutto il
grande orrore che la mia mente - incapace di sostenere - aveva
cancellato, con
la speranza della conservazione del senno.
Piansi.
Piansi come non avevo mai fatto, come non avevo mai immaginato di fare.
[Le unghie]
Troppo occupato, non mi ero reso conto di quanto fossero sproporzionate
e
acuminate come rasoi.
Troppo occupato non mi ero reso conto che, nei miei intervalli di
deliquio
durante i quali mi limitavo a fissare la ferrea parete, mi straziavo le
orbite,
le iridi.
Non piangendo, né strepitando o gemendo, bensì
continuando a fissare la gelida
parete.
Il ribrezzo più profondo allora mi colpì: urlai.
Un solo, prolungato suono che segnò la fine della mia
ragionevolezza,
addentrandomi nel delirio e nel terrore.
I miei incubi cominciarono da allora.
«Cronache di un fantasma.
N/A
Verrò linciata per questo lo so.
Questa l’ho scritta tre anni fa e, contro la mia stessa
volontà, l’ho lasciata
così com’era. Chi è
quest’uomo? Un malato, sicuramente.
Nella mia mente contorta, lui semplicemente compie un processo di
rimozione e
recupero della memoria. Secondo papà Freud, un avvenimento
particolarmente
scioccante viene rimosso dalla mente stessa per preservarsi; tuttavia
lo shock
può mostrarsi sottoforma di tic, atteggiamenti particolari,
lapsus linguae,
perdite di memoria etc.
Lui è in una prigione sotterranea, fole e oscura, e non ne
conosce il motivo.
Stare lì per messi, anni, l’ho ha reso ossessivo
al punto da tirarsi via gli
occhi. La conseguente perdita di sangue, lo shock, il dolore sono stati
rimossi. Rimozione che comincia a cedere quando i vuoi di memoria
cominciano a
sanarsi lui comincia a percepire meglio il mondo attorno a
sé.
Quando la consapevolezza ritorna, c’è
l’attacco finale.
E’ dura, lo ammetto, ma non ho voluto modificare quasi nulla.
Sicuramente ci saranno errori.
I vari errori di tempi sono voluti, visto che la sua concezione
temporale fa
cilecca, così come lo spropositato numero di aggettivi. So
che magari
appesantiscono il testo, ma lui ha delle percezioni attenuate, a volte
accentuate, ma comunque non normali. Questa storia aveva un vago
continuo, una
vera storia per Lui e un nome.
Poi ho preferito lasciarla così, perché
l’avrei rovinata, alla fine.
Lui è solo un fantasma.