F o u r ˜ four phases of an
incurable disease
˜
[ E se scoprissi di avere un male oscuro, incurabile?
La tua vita ne andrebbe distrutta?
Riusciresti a mentire quotidianamente a chiunque, inclusi i tuoi amici?
Comprenderesti la necessità di non poter nemmeno sfiorare
un’altra persona? ]
«Se
la risposta ad una di queste domande è si, evidenzia la tua
ignoranza
riguardo la portata di ciò di cui sto parlando».
Perché qui non si sta parlando di una banale febbre, che ti
porta alla
quarantena forzata.
No. Qui si parla di una vita. E più precisamente della mia
vita.
Sono un licantropo.
Certo per chi ha letto, ormai conoscerà almeno le maggiori
implicazioni che
questo stato comporta, ma quello che la licantropia è in
realtà… no, questo
nessuno può lontanamente immaginarlo.
Sono un licantropo.
Un’affermazione, sicura, inequivocabile, indelebile.
Eppure un’affermazione che ha attraversato dolore, angoscia,
sangue e lacrime,
prima di raggiungere la sua sfera di consistenza.
Sono un licantropo.
Saperlo, ha distrutto la mia esistenza.
Quel giorno, precisamente il settimo giorno di Febbraio di
vent’anni fa, la mia
innocenza è terminata.
Avevo 10 anni.
Un decenne dovrebbe vivere sereno.
Un decenne dovrebbe giocare a calcio, leggere fumetti, andare in
piscina,
rotolarsi nel fango; tutto ciò sotto la costante protezione
e vigilanza dei
propri familiari.
Un decenne dovrebbe avere amici, avere una famiglia rassicurante, avere
come
unica preoccupazione un voto guastato a scuola o la rottura del vetro
di una
finestra dei vicini.
Io a dieci anni piangevo ogni notte.
E ogni giorno.
E il sole che sorgeva in cielo, non ha irradiato un solo dannatissimo
giorno in
cui io non pregassi la mai stessa morte.
Di portarmi via con sé. Per non essere un peso, per la mia
famiglia e per me
stesso.
I miei guerreggiavano.
Perdonatemi il termine obsoleto, ma non conosco altro vocabolo per
descrivere…
ciò che fu.
“Litigare” o “discutere” sono
espressioni ben eufemistiche per descrivere ciò
che accadeva in quei frangenti:
Mio padre la picchiava, la picchiava così forte da portarla
allo svenimento.
Mia madre, spesso, lo cacciava di casa.
Terrorizzata si accostava ad una parete della cucina, fin quando lui
non
riusciva ad introdursi.
Poi lei riceveva la sua punizione.
E dire che la mia camera era rinforzata.
Grate e porta in metallo doppio. Per quando mutavo.
Mia madre avrebbe potuto nascondersi da me.
Ma non lo faceva, non me lo ha mai chiesto. Né tanto meno io
le ho mai offerto
un aiuto.
Perché?
Perché provava disgusto per ciò che ero.
Nonostante venisse picchiata nel tentativo di difendermi,
nonostante fosse costretta a cacciarlo per soccorrermi,
nonostante mi rassicurasse ogni dannata volta che venivo preso in giro.
Vedevo l’orrore, ogni qualvolta scrutavo nel suo sguardo.
Ogni qualvolta cercavo un minimo segno di amore, di speranza o anche di
compassione,
trovavo solo e indifferentemente ripugnanza.
˜
[ E se scoprissi di avere un male oscuro, incurabile?
Riusciresti ad avere la speranza che un giorno tutto possa cambiare?
Riusciresti ad avere il desiderio di studiare e magari affermarti nella
vita,
un giorno?
Riusciresti a non desiderare di distruggere te stesso?
Magari nella forma che tanto odi? ]
«Se
anche una delle tue risposte è si, non posso far altro che
invidiarti.
Per la tua forza di volontà».
Perché, negli attimi passati rinchiuso tra pareti ignote,
agognavo la morte.
Nei momenti trascorsi in casa di estranei, desideravo scomparire.
Durante le giornate indolenti trascorse a fissare il cielo, speravo di
poter
volare alla stregua degli uccelli più liberi.
Eppure qualcosa mi spingeva ad andare avanti; a continuare a leggere, a
scrivere, a studiare,
per tenermi in allenamento.
Perché?
Per la speranza di essere riconosciuto.
Non un genio o un ragazzo particolarmente abile in qualcosa, ma un
essere umano
normale.
Un ragazzo, anzi un bambino, dotato di una propria entità,
una propria
intelligenza, una propria forza interiore.
Senza essere costretto a rannicchiarmi in un angolo ad aspettare la
morte.
Sapevo che essa avrebbe continuato a reclamarmi, a tentarmi, a sedurmi,
eppure
speravo che con una, seppur flebile, speranza di riscossa avrei potuto
tenerla
a bada.
Chissà? Magari sentendomi amato, rispettato, avrei
finalmente convinto me
stesso a cercare la forza per sopravvivere.
˜
[ E se scoprissi di avere un male ignoto e letale?
Correresti il rischio di innamorarti?
Innamorarti della vita, dell’amicizia o dell’amore?
Sapendo che un giorno potresti essere fautore della morte di un tuo
amico, di
un tuo amore, di un altro essere? ]
«Se
per un attimo, un solo istante, la tua risposta è stata si;
sei la
persona più coraggiosa che conosca.
Perché io sono un vigliacco».
Ho sofferto.
Ho sofferto, dilaniato dai sensi di colpa, ogni istante della mia vita
trascorsa con loro.
Prima ho parlato di coraggio di rischiare.
Certo, ho incontrato nel mio viaggio altre anime sparse al vento,
altrettanto
insicure e fragili… come James Potter, o
Peter Minus, o Sirius Black.
Eppure anche con loro ho sofferto.
Ho sofferto quando li ho incontrati il primo giorno e li ho visti
così sicuri
di sé; quando hanno scoperto il mio segreto e temevo di
perderli.
Quando si adoperavano, ammazzandosi di lavoro, per trasformarsi in
Animagus;
quando impararono e vollero sostenermi.
In quell’occasione addirittura temetti per la vita di uno di
loro.
Odiavo me stesso, perché avevo paura di
ferirli.
Per più e più notti mi svegliavo di soprassalto,
per paura di ucciderli mentre
dormivano.
Per questo sembravo sempre stanco,
per questo ho inventato una bugia, come lo studio intenso.
Odiavo loro, perché mi amavano e mi rendevano difficile la
separazione.
Odiavo Silente, perché aveva trovato la soluzione e non mi
aveva mandato a
marciare in una stanza vuota.
In quel modo, non avevo più scusanti, di
nessun genere.
Così
se prima
sognavo la libertà di spazi aperti,
il sole caldo sulla pelle,
le sconfinate biblioteche e gli immensi parchi;
ora
sognavo di ritornare nell’ombra,
in
un angolo in disparte.
˜
[Cosa faresti se scoprissi di aver gettato al vento
la tua vita?
Di aver trascorso la maggior parte della tua esistenza a rimpiangere
ciò che
non poteva più essere?
A dolerti per un qualcosa che oramai non poteva essere cancellato?]
Questa domanda è per me stesso. Non c’è
bisogno che rispondiate, non questa
volta.
Queste domande sono il mio fardello.
Il peso che mi trascino da più di vent’anni.
La paura e la vergogna non mi hanno permesso di godere delle gioie che,
malgrado tutto, il destino ha voluto rifilarmi.
Che mi sono state elargite dopo numerose preghiere, ma che io non
ho visto.
Troppo impegnato a vittimizzarmi.
[Uno stupido].
Un fatale errore che mi resterà dentro come marchiato a
fuoco.
Ora sapete ciò che provavo, che provo tutt’ora.
Il mio rammarico è quello di non avervelo potuto dire prima;
di non aver potuto
condividere con voi, l’amarezza della mia vita, come invece
voi avete fatto.
Avevate ragione: condividere il dolore, aiuta ad esorcizzarlo.
Ora, dopo essere sopravvissuto alle vostre morti,
alla fine degli anni ad Hogwarts,
alla fine di una guerra e all’intercedere di
un’altra, forse più devastante,
capisco.
Che il dolore che ho vissuto in quella casa sconosciuta, con persone
altrettanto ignote,
non era nulla.
La consapevolezza che per me era riservato dell’altro,magari
una vita felice in
compagnia dei mie fratelli, della mia vera casa, magari di una donna al
mio
fianco… è peggiore.
Si dice che l’ignoranza sia una
benedizione.
Comincio a crederci anch’io.
Nonostante io sappia che non vi dimenticherò mai.