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Autore: FRAMAR    06/11/2016    25 recensioni
Un ragazzo rapito, un ragazzo trovato da un uomo che si innamora di lui soprattutto perché il ragazzo non ha niente, né storia, né nome: ha perso la memoria, lui lo chiama Angelo, è felice di tenerlo con sè, nella sua casa a Napoli. Una storia dolce e tenera, nello scenario intenso di Napoli e della costa e dei paesi intorno. Una storia drammatica, perché il ragazzo non ricorda nulla e nessuno. Un romanzo vero, pieno di amore, di colore, di suspense, di dramma.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 2

 
Arrivammo all’altezza dell’acacia, fermai l’auto: “Qui ti ho trovato otto giorni fa”.

“Ebbene? Perché ci fermiamo?”.

“Ti ricordi? Era buio e a stento ti ho visto. C’era minaccia di pioggia e un vento maledetto”.

“Ricordo,  ma perché ti sei fermato?”, chiese di nuovo lui.

“Perché ho da confessarti una cosa”.

“Allontaniamoci da qui, ti prego, mi mette paura”.
“No. Ho bisogno di dirti tutto e tu hai il dovere di ascoltarmi”.

“Bene. Allora mi metto comodo”, disse lui stendendo le gambe e appoggiando il capo al sedile. “Confessa i tuoi peccati, t’ascolto”.

“Tu ti chiami Sandro Fucile”.

Lui si raddrizzò: “Chi te lo ha detto?”.

Su un giornale. Due giorni fa. Sei il figlio unico del famoso Fucile, il re delle calzature. I tuoi genitori ti cercano. Pare che tu sia stato rapito, che sia stato pagato il riscatto, ma tu  non sei mai arrivato a casa. Ti ho trovato io, capisci?  Quando ti hanno lasciato e ti ho portato con me. E’ enorme quello che è successo, quello che ho fatto. E’ vero che tu l’hai voluto, ma io l’ho accettato, perché mi piaceva vederti per casa, mi esaltavo nel fare all’amore con te, mi sentivo diverso quando ti guardavo, mi terrorizzava il solo pensiero di non poterti vedere più, di non trovarti al mio ritorno e mi innamoravo ogni giorno, ogni ora di più. Ora debbo o lasciarti qui e cancellare  questa settimana dalla mia vita, o accompagnarti in questura e confessare tutto, o non so”.

“Sei sicuro che io sono proprio quel Sandro lì?”.

“Si, la foto sul giornale era la tua”.

“Quello che non capisco è perché ti preoccupi tanto. Se tu sai, io non ricordo e perciò posso continuare a stare con te”.

“No”, dissi. “Ora so, ora è diverso”.

“Perché?”.

“Sono onesto e mai come in questo momento me ne faccio una colpa. Allora che cosa decidi?”.

“Allora cosa?”, urlò lui. “Io qui in questo buio non ci resto, in questura non ci vengo, perché io voglio stare con te. Anche se tu non l’hai capito io mi sono innamorato di te”, disse e scoppiò a piangere.

L’abbracciai gli baciai il viso tenendolo fra le mani, poi lo scostai da me e misi in moto. Percorremmo in silenzio l’autostrada frastornati nel rumore della città.

In piazza Garibaldi lui disse: “Lasciami qui. In questura ci vado da solo”, e mi fermai.

Lui aprì piano lo sportello, scese, richiuse e poi si chinò e batté le nocche sul finestrino. Abbassai il cristallo e sporsi il viso a sentire: “ti amerò sempre Ciro”.

Si girò, salì sul marciapiede e si perse fra la gente.

Da quel giorno comprai quotidiani, rotocalchi e ascoltai i radiogiornali, quando ero al negozio e i telegiornali, quando ero a casa. Il mio amore era condizionato dalle varie notizie.

 
Il martedì mattina i titoli in grassetto: “Sandro Fucile torna a casa, ma soffre di amnesia. Abbraccia i genitori angosciati e perplessi”. La televisione: “Il giovanissimo Sandro non riconosce la madre.” Un rotocalco  mette in prima pagina una fotografia di Sandro e sotto: “La tortura, la fame e lo spavento gli hanno fatto dimenticare chi era. Il padre lo porta in clinica”.

Il mercoledì alla radio: “… ha vagato per otto giorni, finché s’è diretto in questura. Non ricorda dove i suoi rapitori lo hanno lasciato…”. Il quotidiano: “i medici l’hanno trovato in ottime condizioni fisiche, ma lo stato mentale è confuso”.

Giovedì: “Sandro riconosce una sua amica e l’abbraccia piangendo…”.

Il sabato una rivista: “Il padre dichiara che Sandro comincia a ricordare e che deve essere soltanto lasciato in pace…”.

Poi più nulla, per una settimana.

Soffrivo di questo silenzio, ma capivo che non faceva più notizia un giovane ormai ritrovato. Il settimanale più lacrimevole e che viveva di queste storie, il venerdì, riportò la storia completa di Sandro: piccolo in braccio alla madre, ragazzino mentre cavalcava un pony, adolescente in una gita scolastica, diciottenne ad un ballo, Sandro a fianco a un bell’uomo, l’ingegnere Arturo Sallustro, ricco costruttore edile, alto, bruno e un naso importante. E’ finita, pensai e avrei pianto. Stupido, che mi ero illuso e innamorato come uno scolaretto, ora bisognava trovare il gusto di vivere la vita di tutti i giorni, cercare un’altra compagnia, magari femminile, chiudere il negozio e tornare al paese, sposare Lidia, o un’altra qualsiasi e semplicemente, ubriacarsi e ridere stupidamente come stavo facendo.

Mi svegliai con un tremendo mal di testa, mi bagnai la fronte e le tempie, bevvi un caffè forte, bruciai il giornale con le foto e lo buttai con rabbia, nella spazzatura.

Al negozio andai a piedi.

“Ehi, Ciro, mi chiamò il fioraio. “Hai visto qui?” e mi tenne aperto davanti al viso il foglio del giornale con la foto di Sandro.

“Perché?”

“Ma non è il giovane che è stato con te?”

“Somiglia, eccome!” dissi con un tremito. “Immagina un po’ se questo stava con uno come me”.

“Già”, convenne, ma perdinci!, mi pareva lo stesso”.

Durante il giorno, ogni volta che mi affacciavo sulla soglia del negozio, vedevo il fioraio che mi faceva l’occhietto e sospirava.

A casa tornai di notte, quando già le strade erano deserte e mi ficcai a letto, sperando di prendere subito sonno per le due pasticche di sonnifero ingoiate poco prima. E il sonno venne, pesante e pieno di incubi. Mi svegliai stanco, debilitato e con un tremito alle mani che mi spaventò. Mentre mi lavavo decisi di chiudere il negozio per alcuni giorni e andarmene. Ma dove? Al paese non avrei sopportato gli interrogativi negli occhi di mia madre. E le solite facce degli amici e lo stesso mare e le stesse vie. A Taormina: ecco dove volevo andare da tempo. Una settimana, un mese a Taormina, fino a consumare quei pochi soldi che avevo e poi avrei ricominciato da capo.

Riempii una valigia con la mia biancheria e mi ficcai in auto.

Mandorli in fiore, zagare di limoni e di arancio, alti ciuffi di ginestre, poderose tronchi di fichidindia fiancheggiavano il chilometrico viale che immette a Taormina. Lasciate giù le case, le vie asfaltate, andai incontro a giardini, alberghi, ville candide e odorose e mi fermai alla prima pensione che incontrai. Una giovane donna bruna dagli occhi neri e le lunghe ciglia mi accolse con gentilezza.

“Si, c’è una camera con la vista sul mare: E’ la numero dodici. Quanto tempo si trattiene?”

“Di certo una settimana”, risposi.

“Va bene, comunque nei prossimi giorni dovrà essere più preciso, giacché c’è tanta affluenza in questa stagione”.

“Lo farò non si preoccupi”, risposi:

Sistemato nell’ampia camera, dato uno sguardo al mare quasi falso per quel colore turchino intenso, su cui si adagiava un’isoletta verde, uscii in  strada, dopo aver preso dal banco una guida turistica. Seduto al tavolino di un bar, feci il programma per sei giorni e ripromisi di rispettarlo: L’elegante lido di Mazzarò, il teatro greco da cui si gode il panorama incomparabile del golfo di Nasso e della cima nevosa dell’Etna, la severa facciata del duomo, la Badia Vecchia dall’elegante alternarsi di pietra bianca e quella nera, le ville, i fiori…

   
 
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