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Autore: mikimac    06/11/2016    1 recensioni
Sherlock è morto, si è ucciso, lasciando solo John, in un mondo freddo e senza sole. Fino al giorno in cui Sherlock torna a bussare alla porta di John. Nulla, però, può cancellare il tempo trascorso né le conseguenze di un atto compiuto per amore.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Due anni dopo
Due anni, cinque mesi, diciannove giorni. 889 giorni. 21336 ore. 1280160 minuti. Era il tempo che aveva trascorso lontano da Londra.
Lontano da John.
Londra. Il suo profumo. Quel misto di smog, aria salmastra e pioggia, piante e fiori profumati.
John. Il suo profumo. Quel misto di tea, disinfettante, sapone e dopobarba.
Londra. I suoi rumori. Il traffico, con il rombo dei motori, i clacson, i freni. I canti e i richiami degli uccelli. Le urla, le risate e le chiacchiere, pronunciate nelle svariate lingue del mondo.
John. La sua voce rassicurante e calma. Il respiro lieve e regolare. Le urla represse degli incubi.
Londra. Le strade, i vicoli e i parchi affollati da un’umanità di stelle cadenti. Ricchi di storie ed aneddoti, famosi e sconosciuti, registrati dai mattoni di case, palazzi, chiese, muti testimoni dello scorrere del tempo.
John. I suoi maglioni orribili, eppure così caldi e morbidi. Il suo blog, appassionato e sincero.
Londra. La nebbia e la pioggia, ma anche le giornate terse e soleggiate.
John. La sua rabbia esplosiva e devastante, ma anche la sua empatia e la sua compassione.
Londra. Fredda e calda. Accogliente e snob. Aperta al mondo e chiusa in se stessa.
John. Riservato e amichevole. Introverso e socievole. Fragile e forte. Protettivo e letale.
Londra. La sua Londra. La città più bella del mondo. Lui ne aveva viste tante, ma nessuna era così vitale come la sua Londra. La stava osservando dall’alto. La stava respirando. La stava assorbendo con tutti i sensi, per riappropriarsene.
John. Il suo John. L’uomo che aveva trovato il suo cuore e lo aveva portato in superficie. L’uomo dentro i cui occhi voleva affogare, per ritrovare quell’anima, che gli aveva lasciato in custodia, senza nemmeno che lui lo sapesse. Perché John era l’unico di cui si fidasse, per maneggiare il suo cuore fragile ed insicuro.
Nessun posto era come Londra. Nessun luogo del mondo lo avvolgeva nel suo caldo abbraccio, facendolo sentire a casa ed al sicuro, come Londra. Gli era mancata. Terribilmente. Non aveva considerato di stare lontano tanto a lungo. Non credeva che si potesse soffrire di nostalgia per una città.
Ancora meno per una persona.
Londra aveva assunto un significato ancora diverso, da quando John era entrato nella sua vita. Londra era diventata la protagonista delle loro avventure. Era tra suoi edifici e nei suoi spazi, che svolgevano le loro indagini, condividendo eccitazione e noia. Londra era stata testimone delle loro folli corse e nella sua aria galleggiavano le loro risate.
La risata di John. Spontanea, sentita, contagiosa. Aveva un posto speciale, nel suo mind palace, fin dalla prima volta che la aveva sentita.
“Ok. È stato ridicolo. La cosa più ridicola che abbia mai fatto.”
“E dire che ha invaso l’Afghanistan.”
John ride. Ride di gusto. Chiunque altro si sarebbe infuriato. Si sarebbe sentito preso in giro, offeso. Non John, che, invece, ride, trascinandomi con lui, come nessuno è mai riuscito a fare: “Non c’ero solo io.”*
Presto la avrebbe sentita di nuovo ed avrebbe aggiunto altri ammennicoli, nella stanza in cui custodiva gelosamente ogni risata rubata a  John.
Sherlock Holmes era tornato a Londra, pronto a riprendere possesso della sua città e a fare irruzione nella vita noiosa del suo prezioso amico John Watson. Pronto a ricominciare a vivere l’avventura insieme a lui.


Due anni dopo


Due anni, cinque mesi, diciannove giorni. 889 giorni. 21336 ore. 1280160 minuti. Era il tempo che aveva impiegato per distruggere
annientare
l’organizzazione di James Moriarty. Per tutto quel periodo, aveva girato il mondo, smantellando ogni più piccolo pezzo della creatura plasmata dal folle consulente criminale. James Moriarty aveva dimostrato di essere un rivale eccezionale, che aveva cancellato la noia dalla sua vita. All’inizio era stata una sfida eccitante, ma quando il gioco aveva messo in pericolo le persone a cui teneva, non era più stato divertente. James Moriarty aveva portato la loro sfida a livelli estremi, che aveva come posta, oltre alla loro stessa vita, quella di persone che non meritavano di essere usate come pedine per alleviare il loro tedio. Non avrebbe mai permesso che John, Lestrade e la signora Hudson pagassero per la sua vanità.
Non potevo permettere che John morisse.
Era stato costretto ad inscenare il proprio suicidio davanti a John. Era stato l’unico modo per convincerlo che lui fosse veramente morto. Era stato crudele, perverso, spietato. Lo sapeva. Però, lo aveva fatto per salvarlo. John era il peggior bugiardo che lui avesse mai conosciuto. Se tutti lo avessero visto in lutto, gli uomini di Moriarty lo avrebbero lasciato in pace e John sarebbe rimasto in vita, fino al suo ritorno.
John mi capirà, mi perdonerà e torneremo insieme. Potrò dirgli cosa io abbia capito in questi due anni, cinque mesi e  diciannove giorni, che sono stato lontano da lui. Moriarty aveva ragione su una cosa. Io ho un cuore. E batte insieme a quello di John. Batte con gli occhi ed il sorriso di John. Batte per John.


Il bunker stava diventando claustrofobico. Mycroft gli aveva concesso di osservare Londra dall’alto del palazzo in cui aveva sede il suo ufficio, ma nulla di più. L’inattività lo stava sfiancando.
“Sono tornato a Londra da ben venti ore e mi tenete intrappolato in questo posto squallido ed anonimo, mentre dovrei salvare la città da un attentato,” ringhiava contro ogni persona, che avesse la sventura di avvicinarlo. Sherlock quasi rimpiangeva i mesi trascorsi in giro per il mondo, a dare la caccia agli uomini di Moriarty. Quasi. Gli era mancato un compagno di avventure, qualcuno con cui condividere le sue deduzioni e che gli dicesse quanto fosse brillante. Gli era mancato John. La solitudine non gli era mai pesata tanto, da quando quell’uomo, piccolo e comprensivo, era entrato nella sua vita. Sapere di essere nella stessa città del suo blogger ed essere costretto a restare nascosto, lo stava facendo impazzire.
La porta si aprì ed Anthea gli rivolse un sorriso pieno di simpatia: “Suo fratello la aspetta in ufficio.”
“Finalmente,” sbuffò Sherlock, alzandosi dal divano e sorpassando la donna come una folata di vento.
Mycroft aveva lasciato spalancata la porta del proprio studio, per evitare che il fratellino la facesse sbattere contro il muro, con una di quelle entrate melodrammatiche che gli piacevano tanto. Sherlock entrò, con passo rapido e deciso, lasciandosi cadere su una delle poltrone, posizionate davanti alla scrivania del fratello. Ad un cenno di Mycroft, l’assistente chiuse l’uscio, silenziosamente, lasciando soli i due Holmes.
“Pensi di tenermi prigioniero ancora a lungo? Non dovevo impedire un attentato terroristico, che i tuoi uomini incompetenti non sanno nemmeno dove e quando avverrà?”
“Stiamo predisponendo tutto per il tuo ritorno legale nel mondo dei vivi,” rispose Mycroft, pazientemente.
“Hai già informato qualcuno che sono vivo?”
“No, come da te richiesto. Puoi fare il tuo ingresso teatrale con tutti quelli a cui vuoi far sapere, personalmente, di non essere morto. Per ora, ho fatto in modo che il tuo nome venisse riabilitato, così potrai tornare a lavorare ai casi, che ti affascinano tanto, senza problemi di credibilità. Fra un paio di giorni, renderemo ufficiale il tuo ritorno nel mondo dei vivi.”
“Bene! Ora vado a Baker Street da John…”
“Baker Street? Il dottor Watson non vive più a Baker Street da un paio d’anni,” ribatté Mycroft, allungando un fascicolo al fratello.
Sherlock lo aprì e si trovò davanti una fotografia di John, che lo ritraeva in primo piano. Quasi si fossero mosse di propria volontà, alcune dita di Sherlock accarezzarono il viso ritratto nell’immagine, deluse nel sentire qualcosa di freddo e liscio, sotto i polpastrelli. L’espressione del viso di John era tirata. Gli occhi velati di tristezza. I capelli erano quasi più tendenti al grigio che al biondo. Sembrava stanco. Invecchiato. Non c’era nulla del suo vivace e paziente compagno di avventure, nella fotografia dell’uomo che era diventato John Watson, in quei due anni in cui erano stati separati.
È per colpa mia che sei così diverso? Ti ho fatto così tanto male da renderti opaco? Dove è la meravigliosa luce che ti illuminava e che guidava me lungo rotte sicure, nelle giornate scure?
Sherlock avvicinò la fotografia, per osservare meglio quello che John indossava: “Questa sarebbe una divisa militare?” domandò, in tono incredulo.
“Sì. Il dottor Watson è tornato nell’esercito all’inizio di gennaio, subito dopo il tuo finto suicidio.”
“Perché glielo hai permesso?”
“Permesso?! Il dottore non mi ha certo chiesto il permesso! Cosa avrei dovuto fare, secondo te? Costringerlo a rimanere recluso a Baker Street fino al tuo ritorno? Imprigionarlo per impedirgli di continuare a vivere la sua vita?”
“Quale vita? Io non c’ero.° E lui è decisamente infelice. Avrebbero potuto mandarlo in zona di guerra. Avrebbe potuto morire. Avresti dovuto parlargli e…”
“Sai anche tu che non mi avrebbe mai ascoltato,” lo interruppe Mycroft, con stizza.
Sherlock ignorò il commento del fratello. Osservava i baffi, che coprivano il labbro superiore di John, donandogli un aspetto severo e serio, facendolo apparire più vecchio di almeno dieci anni: “Ci dovremo liberare di questi,°” mormorò, in tono deciso.
“Ci?”
“Sembra decrepito, non posso certo andare in giro con un vecchio!°”
Il viso di Mycroft si rabbuiò. Strinse le labbra, come se volesse impedirsi di dire qualcosa.
“Non credere di potere usare questa frase contro di me. John sarà così felice di vedermi, che non gli importerà di tagliarsi questi stupidi baffi. Anzi. Sono sicuro che capirà che lo invecchiano e mi darà subito retta. Insieme daremo la caccia ai tuoi terroristi e salveremo Londra. Va bene così?”
“Se ci credi tu…”
“Dove lo trovo?”
“Perché dovrei sapere dove sia?”
“Mycroft, non farmi perdere altro tempo. Sai benissimo dove sia John. Eravamo d’accordo che lo avresti tenuto d’occhio, per evitare che facesse qualcosa di stupido. Non che tu abbia fatto un buon lavoro…”
“Seconda pagina. C’è l’indirizzo del suo posto di lavoro. Sarà lì fino alle diciotto.”
Sherlock controllò. Un ospedale militare. Sì. Questo era da John. Dato che lui non c’era più, aveva trovato qualcun altro di cui prendersi cura. Chiuse il fascicolo e si alzò di scatto, con un sorriso soddisfatto. Presto si sarebbe ricongiunto a John.
“A più tardi,” salutò, uscendo dalla stanza.
“Non credo che sarai così allegro, quando ci rivedremo, fratello caro,” sospirò Mycroft. Si chiese se avesse preso la decisione giusta, ma, ormai, era tardi per qualsiasi ripensamento. Sherlock sarebbe stato messo davanti alla dura realtà, esattamente come John. Era giusto che, almeno in questo, fossero alla pari. Lo doveva a John, dopo tutto quello che aveva passato per colpa del loro piano. Il fatto che non avessero alternative, aveva perso significato, dopo quello che era accaduto.


La struttura ospedaliera era imponente. La facciata era formata da grandi vetrate intervallate da mattoni bianchi. Vedendola, nessuno avrebbe pensato che fosse una base militare. Solo se ci si soffermava ad osservare alcuni piccoli dettagli, si poteva capire che non fosse un normale ospedale. La Union Jack svettava sopra l’ingresso principale, un enorme portone di legno chiaro, ora spalancato. Non c’erano gradini. L’ingresso era chiuso da una sbarra che veniva sollevata, per lasciare transitare i veicoli, mentre i pedoni entravano attraverso un piccolo corridoio, che passava davanti al posto di guardia, dove il soldato di turno chiedeva il motivo della visita. Tutto era molto rilassato e tranquillo. In quel posto erano ricoverati i militari, appartenenti a qualsiasi corpo, che avessero subito gravi ferite ed avessero bisogno di cure specialistiche, che richiedevano una lunga degenza. Quello era il posto in cui lavorava John.
Sherlock fissava l’ingresso dell’ospedale, dietro cui si trovava John. Era così vicino. Doveva solo attraversare la strada ed entrare in quell’edificio, per potere finalmente immergersi nell’azzurro rassicurante degli occhi di John. Rivedere il suo sorriso sincero ed aperto. Risentire la sua voce. La sua risata. Dissetarsi con la sua meraviglia ed i suoi complimenti, per i ragionamenti che lui riusciva a compiere.
Però, il suo cuore batteva come se fosse impazzito. Non si sarebbe meravigliato, se i passanti lo avessero sentito. E questa cosa lo infastidiva. Cosa c’era di così eccezionale in quello che sarebbe accaduto di lì a poco, da provocare questo assurdo comportamento da parte del suo stupido organo? Avrebbe rivisto John, dopo due anni, cinque mesi, diciannove giorni. Erano trascorsi solo 29 mesi, da quando lo aveva visto, di nascosto, al cimitero davanti alla sua tomba vuota. John era apparso disperato,
distrutto
però era vivo. E si sarebbero ricongiunti presto.
889 giorni. 21336 ore. 1280160 minuti. Senza John.
Aveva vissuto una vita intera, senza John Watson. Cosa era cambiato? Come aveva fatto quell’uomo piccolo ed ordinario, che avrebbe dovuto annoiarlo dopo due minuti, dal loro primo incontro, a diventare così importante? La presenza di John nel suo mind palace era stata… utile,
fondamentale
in certi momenti difficili, che aveva vissuto durante la missione. Come era riuscito, John, ad abbattere le altissime mura che aveva costruito intorno a se stesso, per impedire a chiunque di arrivare al suo cuore?
È John. Un puzzle costruito in un mistero.
Alzò il bavero del cappotto, con un sorriso irriverente, che gli allungava le labbra, al pensiero dell’espressione stupita, che avrebbe stravolto il viso di John, per trasformarsi in quel sorriso luminoso e meravigliato, che gli riservava sempre. Stava per iniziare ad attraversare la strada, quando sentì qualcosa di umido, che gli sfiorava una mano. Sherlock abbassò lo sguardo e si trovò a fissare gli occhi azzurri di uno scodinzolante Labrador Retrivier. “E tu chi sei?” Domandò, sfiorando la testa del cane, esitante. L’animale alzò la testa, per andare incontro alla mano, che lo stava accarezzando. Un lieve sorriso dolce si fece strada sulle labbra di Sherlock. Dopo la morte di Redbeard non aveva più voluto cani. Forse era stato un errore, ma aveva sofferto moltissimo, per la perdita del suo unico amico d’infanzia. Avere un cuore era una debolezza, che lui non si poteva permettere.
Avere il cuore di John è diventato indispensabile.
Soddisfatto per la carezza, il cane si avviò verso l’ospedale. Sherlock lo seguì. Per un attimo, per un solo fugace attimo, gli balenò nella mente il pensiero che John potesse respingerlo, ma una spavalda sicurezza, che tutto sarebbe andato bene, lo cancellò istantaneamente.


Il militare alla sbarra sorrise all’animale, che si stava avvicinando: “Honey! Sei di ritorno dalla tua solita passeggiata pomeridiana? Non sei andata ad elemosinare cibo da Barney, vero?” Il labrador si fermò per farsi accarezzare anche dal soldato di guardia. L’uomo alzò la testa e rivolse uno sguardo curioso a Sherlock: “Posso aiutarla, signore?”
“Sto cercando il dottor John Watson. Sono un suo vecchio amico e vorrei fargli una sorpresa.”
“Segua pure Honey. È il cane del maggiore Watson e sta tornando da lui.”
“Grazie.”
Sherlock seguì il cane, incredulo del fatto che John avesse preso un animale da compagnia. Aveva sempre pensato che non gli piacessero. Non sapeva nemmeno lui perché fosse arrivato a questa conclusione. Forse perché John era completamente solo, quando si erano conosciuti.
Come me. È stata questa solitudine comune ad unirci? Oppure è stato il fatto che tu sapessi ascoltare, quando io osservavo e parlavo?
L’animale si fermava a farsi fare una carezza da tutti quelli che incontrava, ma il consulente lo fissava più divertito che impaziente. Sembrava che il cane fosse la mascotte dell’ospedale.
Nessuno gli chiese cosa volesse, come se il fatto che stesse seguendo Honey fosse sufficiente a giustificare la sua presenza in quei corridoi, pieni di vita. Sherlock incrociava medici, infermieri, pazienti e familiari. E li deduceva. Amori, tradimenti, dolore, gioia. Dipinti sui loro volti, nascosti in quelle piccole tracce invisibili, che solo lui notava. Le avrebbe esposte tutte a John, che ne sarebbe stato meravigliato e compiaciuto.
Finalmente, il cane si infilò in una porta semiaperta, per entrare in quello che sembrava essere un ambulatorio, la cui targhetta annunciava, in caratteri eleganti, che era occupato dal Maggiore John Watson. Sherlock fece un sorriso ed aprì la porta, lentamente. Seduto ad una scrivania, con il camice bianco infilato sopra la camicia della divisa, John sorrideva ed accarezzava il cane, che scodinzolava allegro e leccava il padrone, dove gli capitava. Sherlock li osservò in silenzio, provando un’irrazionale ondata di gelosia verso il cane. Il sorriso di John doveva essere rivolto a lui, non a quell’animale!
“Bentornata, vagabonda. Sei stata a trovare tutti i tuoi amici? Prima o poi mi porterai a casa qualche trovatello,” sussurrava John, tenendo il muso del cane fra le mani.
“La guardia le ha chiesto se fosse stata da un certo Barnie. Se prepara le salsicce alla brace, puoi essere sicuro che ne abbia mangiata almeno una. Ne ha dei piccoli residui tra i denti.”
John alzò la testa di scatto, verso la fonte di quella voce, bassa e profonda, che negli ultimi anni aveva sentito solo in sogno. Sherlock si tuffò in occhi azzurri, spalancati per la sorpresa, che sembravano più brillanti e striati di quello che ricordava: “Non sono morto°,” continuò, mentre il sorriso si affievolì sulle sue labbra. John era più sconvolto di quello che si sarebbe aspettato. Non gli stava dicendo nulla. Lo fissava, come se fosse stato un’allucinazione.
Un fantasma… io sono un fantasma per lui… forse l’incarnazione di un incubo…
“Sono vero. Sono qui, davanti a te, in carne ed ossa. Sono reale,” ripeteva, come se questo fosse stato sufficiente a spiegare la sua presenza in quel luogo, rimanendo in attesa di una reazione, che tardava ad arrivare. Sembrava che John facesse fatica a respirare. Appoggiò i pugni sulla scrivania e si sollevò, facendo forza sulle braccia, con un’immensa fatica, quasi avesse il peso del mondo sulle spalle. Il viso era diventato rosso e gli occhi erano così furiosi, che ricordavano un oceano in tempesta.
“John, stai bene? Vuoi che chiami qualcuno? – la preoccupazione iniziava a farsi strada nella coscienza e nella voce di Sherlock – Forse non è stata una idea brillante, venire qui, senza che Mycroft ti preavvisasse.” “Cosa… come… quando… perché… come hai potuto? Uhm?”
“Oh, sì. Mycroft ed io avevamo previsto diversi scenari, che si potevano presentare, ed altrettante soluzioni. Sai, Moriarty era imprevedibile, ma…”
“COME HAI POTUTO LASCIARMI CREDERE DI ESSERE MORTO PER DUE STRAMALEDETTI ANNI!”


L’urlo di John squarciò la tranquillità della stanza, come se fosse stato il boato di un’esplosione. Il cane guaì, nascondendosi sotto la scrivania. Sherlock si bloccò, interdetto dalla reazione furente di John e non si rese conto dell’arrivo di un altro uomo, fino a quando questi parlò: “Maggiore va tutto bene? Devo chiamare la sicurezza?”
Sherlock si voltò verso il nuovo venuto, che si era piazzato fra lui e John, come se dovesse difenderlo da un suo attacco. L’uomo era giovane, poco meno di trent’anni. Sposato, ma non da molto. Alto quanto Sherlock, ma più in carne. Biondo, con gli occhi verdi. I gradi sul camice lo definivano come tenente, mentre la targhetta lo identificava come dottor Robert Eames. I muscoli tesi, i pugni chiusi e la mascella serrata facevano capire che fosse pronto alla lotta e che non si sarebbe arreso facilmente.
Sherlock lo fissò stranito: “Io non sono un pericolo per John!”
L’urlo aveva avuto un effetto catartico per John, che si lasciò cadere sulla sedia, di peso. Quel gesto disturbò Sherlock, perché capì che c’era qualcosa che non andava, ma non riusciva a comprendere cosa fosse. Odiava non afferrare le cose al volo. Soprattutto se riguardavano John.
“Maggiore…”
“Va tutto bene, tenente Eames. Vada pure. Mi spiace avere urlato. È tutto a posto,” sospirò John.
“Maggiore, non la lascio solo con questo uomo. Se dovesse tentare di aggredirla, lei…”
“Io non ho alcuna intenzione di aggredire John,” sibilò Sherlock, in tono tagliente.
“Tenente, non si preoccupi. Al mio… a quest’uomo non serve attaccarmi fisicamente, per farmi del male. Lui ha altri modi per colpire a morte le persone. E sono ferite che nessuno può impedire che siano inferte né curare. Attenda pure fuori. Questo signore non si fermerà ancora per molto.”
Il giovane ufficiale esitò. Era restio a fare quello che gli era stato chiesto. John non gli aveva dato un ordine diretto. Non ancora, almeno. Non sapeva chi fosse l’uomo alto e magro che aveva davanti, ma non voleva lasciarlo solo con il maggiore. Doveva proteggerlo: “Aspetterò qui fuori, signore,” decise, infine, lanciando a Sherlock un’occhiata d’avvertimento, facendogli capire che sarebbe stato abbastanza vicino da intervenire, per non permettergli di fare del male al suo superiore.
Sherlock sbuffò, infastidito, disdegnando il giovane ufficiale, che lasciò la stanza, accostando la porta.
John stava ignorando il consulente, impegnato a rassicurare e coccolare il cane: “Scusa, Honey, non volevo urlare. Non sono arrabbiato con te. Tu sei una cagnolona brava e buona.”
Sherlock provò, nuovamente, quella strana sensazione di gelosia verso il cane. Non poteva credere che John si interessasse più a quell’animale che a lui, che era tornato dal mondo dei morti e si era sacrificato per proteggerlo!
“Vattene,” mormorò John, in tono stanco.
Sherlock si guardò intorno. Forse il tenente era tornato e John gli stava ordinando di uscire, ma erano soli nella stanza. Allora pensò che lo stesse dicendo al cane, affinché tornasse da dove fosse venuto, in modo che John finisse, una volta per tutte, di ignorarlo, preferendogli quel sacco di pelo e ossa.
“Vattene via Sherlock,” ripeté.
Il consulente fissò John, stupito. La testa era abbassata, per fissare il cane, impedendo a Sherlock di vedere gli occhi del dottore. Il viso era in ombra, ma l’espressione sembrava disperata, rassegnata
triste.
“Sono tornato e non andrò più via. Il mio nome è stato riabilitato e potrò riprendere la mia collaborazione con Scotland Yard”
“Buon per te. Non hai bisogno di me. Lo hai dimostrato, inscenando il tuo suicidio, lasciandomi credere di essere morto per due anni. Bentornato a Londra. Torna alle tue indagini, ma stai fuori dalla mia vita.”
“Un gruppo terroristico sta preparando un attentato. Mycroft vuole che lo troviamo e lo fermiamo.”
Finalmente, John alzò lo sguardo su Sherlock. Un misto di rabbia e stupore gli arrossava il viso: “Cosa stai dicendo?”
Un sorriso irriverente si fece strada sulle labbra di Sherlock. Aveva attirato l’attenzione di John. Se fosse riuscito a coinvolgerlo nella sua indagine, tutto sarebbe tornato come prima del suo finto suicidio: “Non puoi negare che ti sia mancata l’adrenalina scatenata dalla caccia. Ammetti che vorresti uscire di qui e correre con me, per le strade di Londra, per fermare assassini, ladri e cospiratori. Vieni con me, John. L’esercito non è il tuo posto. La tua casa si trova al 221B di Baker Street. Con me. Tu ed io contro il mondo. Lo ricordi John, vero? Andiamo,” lo sollecitò, con voce suadente e profonda.
“Fuori di qui. – sibilò John, per tutta risposta – Vattene via subito o ti faccio buttare fuori.”
Sherlock aggrottò la fronte, perplesso: “John…”
“FUORI!”
John non fu costretto a ripetere l’urlo. Il tenente Eames spalancò la porta ed entrò, insieme ad altri due uomini: “Credo che sia giunto il momento che lei se ne vada, signore,” l’ufficiale esortò Sherlock, in tono tagliente. Non erano necessarie le straordinarie capacità deduttive del consulente investigativo, per capire che quell’uomo fosse deciso a buttarlo fuori, letteralmente e senza troppi complimenti. Sherlock riportò l’attenzione su John, che era tornato ad occuparsi del cane: “Smetti di pensare solo a quella bestia! Io sono qui! Se sei arrabbiato o deluso, picchiami, urlami contro, insultami, ma non ignorarmi. John…”
“Non ho nulla da dirti. Tu sei morto, Sherlock. Vattene. Non tornare a cercarmi. Sono trascorsi due anni, Sherlock. Due anni. Due lunghi anni. Non esiste più un noi, se mai c’è stato. Tu non hai bisogno di me. Io ho trovato il mio posto. È stato bello, fino a quando è durato. Ora è finita. Vattene. Vai a vivere la tua vita. Senza di me,” la voce si era affievolita, la rabbia era svanita, per trasformarsi in una preghiera disperata.
Sherlock sapeva che John gli stava nascondendo qualcosa, ma non poté insistere. Il tenente appoggiò una mano sulla spalla del consulente, con una presa salda e decisa: “È stato invitato gentilmente ad andarsene. Non mi costringa a passare alle maniere forti.”
Sherlock lo fulminò con lo sguardo, ma non ribatté. Non voleva causare problemi a John: “Non finisce qui,” mormorò, in tono dolce e si lasciò condurre fuori, senza opporre resistenza.
Arrivati all’ingresso, il tenente lasciò la presa: “Non torni. Chiunque lei sia, non è persona gradita. La prossima volta non arriverà fino all’ambulatorio. Glielo posso garantire.”
Sherlock non lo degnò nemmeno di uno sguardo. Alzò il bavero del cappotto e si allontanò, a passo lento, nella lieve brezza del crepuscolo. Avrebbe trovato un modo per incontrare John fuori dall’ospedale. Doveva solo avere pazienza, ma tutto sarebbe tornato come prima.


Il tenente Eames tornò nell’ambulatorio, da John. Lo trovò sprofondato nella sedia, con i gomiti appoggiati alla scrivania e le mani che avvolgevano il volto. L’espressione era sconvolta. Honey aveva appoggiato il muso su una delle cosce di John ed uggiolava flebilmente.
“Signore, posso accompagnarla a casa?” domandò, in tono dolce.
“Credo che sia il caso,” sospirò John.
Accarezzò la testa di Honey e le sorrise, in modo triste. Appoggiò le mani alla scrivania e si sollevò dalla sedia, facendo forza sulle braccia. Trovata una posizione stabile, si sfilò il camice e lo appese all’attaccapanni che aveva alle spalle, sorreggendosi alla scrivania, con una mano. Si infilò un giaccone e prese le stampelle, appoggiate alla parete. Con un grande sforzo, camminò intorno alla scrivania, seguito passo a passo dal cane. Eames tratteneva il fiato. Ogni volta che lo vedeva camminare, il tenente doveva resistere alla tentazione di andare da John ed aiutarlo. Sapeva che il maggiore non lo avrebbe apprezzato. Lo spirito combattivo e il desiderio di indipendenza, che John dimostrava in ogni occasione, erano stati la fiamma che lo avevano sostenuto, dopo l’esplosione dell’elicottero. Il maggiore John Watson era un esempio per tutti i soldati che lottavano per riprendere in mano la propria vita, dopo avere subito ferite devastanti. I tutori alle gambe e le stampelle non gli impedivano di continuare a visitare e sostenere i militari feriti, che gli venivano portati, soprattutto per avere un aiuto psicologico. Vedere che lui poteva continuare a fare il proprio lavoro, nonostante fosse praticamente paralizzato dalla vita in giù, era un incentivo per tutti gli altri feriti. Con lentezza e fatica, John raggiunse il parcheggio interno e salì sull’auto di Eames.
Quando uscirono nelle strade di Londra, non si accorsero degli occhi chiari come l’acqua trasparente, che li stavano osservando, mentre si allontanavano.
Sherlock strinse gli occhi, in modo deciso. Avrebbe scoperto dove vivesse John e lo avrebbe affrontato. Aveva tante cose da dirgli e non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Ora che si era ricongiunto al suo cuore, non avrebbe permesso a niente ed a nessuno di tenerlo separato da lui.




Angolo dell’autrice


*Dialogo da “A Study in Pink”.
° Sono tutte frasi prese da “The Empty Hearse”.           

Niente pugni o testate per Sherlock, ma solo per validi motivi fisici, non certo perché non li meriti o John non vorrebbe darglieli. E non è detto che lo faccia, in futuro.

Grazie a chi stia leggendo la storia e a chi la abbia segnata in qualche categoria.
Grazie ad emerenziano e Betely per il commento allo scorso capitolo.

Appuntamento a domenica, per il prossimo.

Ciao!





   
 
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