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Autore: Itsamess    11/11/2016    3 recensioni
[Heronstairs]

Il Nephilim sfoderò uno di quei sorrisi sghembi a cui Jem, anche dopo anni, evidentemente non si era ancora del tutto abituato, dal momento che ne restava affascinato come davanti alla prima nevicata di Dicembre - in entrambe le situazioni, un brivido gli correva rapido lungo la spina dorsale.
Arrossendo a quel pensiero, distolse lo sguardo dal parabatai, nonostante quel sorriso non fosse stato rivolto a nessuno in particolare e comunque non a lui.


Will intanto non si era accorto di nulla, impegnato com'era a declamare i suoi tanti pregi con ostentata nonchalance: «Sono maestro in molte cose... Nel girare per le vie di Londra, nel ballare la quadriglia, nell'arte giapponese di disporre i fiori e nell'imbrogliare ai mimi... Ma nessuno si è mai sognato di chiamarmi Magister, purtroppo… Anche se mi meriterei questo appellativo, essendo praticamente perfetto sotto ogni aspetto!»


Jem scorse Jessamine alzare gli occhi al cielo: Will poteva possedere molte virtù, ma di certo la modestia non era una di quelle.

Ovvero quattro volte in cui Will Herondale donò al mondo un assaggio dei suoi talenti ed una in cui ebbe bisogno dell'aiuto di Jem Carstairs.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Carstairs, William Herondale
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chi è loto e ciliegio e chi invece non può
 
 
Può nascere su terra 
dove non arriva il sole 
Apri il pugno di una mano 
Cambia il senso alle parole
 
 

Era un sollievo colpire senza guanti. 
Il dolore dell'impatto riusciva ad attraversargli il corpo come una scarica elettrica, partendo dal suo pugno chiuso e propagandosi in fretta lungo i muscoli del braccio, contratti per lo sforzo. Quando gli arrivava alla testa, non lasciava spazio per nient'altro: nessun pensiero, nessun ricordo, nessun'emozione che non fosse l'iniezione di adrenalina che solo il dolore fisico sapeva dargli.
Ogni colpo era un istante di puro limbo, in cui non poteva esistere altro che lui e quel male lancinante.
 
Era stato per questo che aveva scelto la boxe.
Nei tre anni di addestramento all’Istituto, Will aveva preferito allenarsi con le spade angeliche, più simili alle armi brandite dagli eroi letterari che amava tanto. Il combattimento corpo a corpo non era mai stato il suo forte. Richiedeva troppa violenza, troppa brutalità… esattamente quello di cui aveva bisogno quel giorno. Dolore per espiare la propria colpa e dolore per poterla dimenticare.
 
Davanti a lui, il sacco da boxe continuava ad ondeggiare avanti e indietro in un rollio nauseante, tuttavia Will non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Senza nemmeno aspettare che tornasse verso di sé, assestò con forza un altro colpo. Poi un altro. E un altro e un altro e un altro.
 
Non si fermò neppure quando, con la coda dell’occhio, intravide la sagoma sottile di Jem ferma sulla soglia della Sala degli Addestramenti. Doveva averlo svegliato.
 
«Will…» lo sentì gemere debolmente, mentre si sfregava gli occhi con fare assonnato. «Non è ancora l'alba!»

«Il mattino ha l'oro in bocca.» replicò aspro, senza guardarlo. «E comunque non riuscivo a dormire.»

Anche senza sentirselo dire, Jem lo avrebbe comunque capito dalle ombre scure che il parabatai aveva sotto agli occhi, lucidi di un pianto che non avrebbe mai ammesso. L’espressione aggrottata con cui se la prendeva con quel sacco da boxe non riusciva a nascondere del tutto quella che doveva essere la stanchezza per una notte insonne. Che fosse esausto lo vedeva da quanto distrattamente Will si era fasciato le mani: le bende erano tutte allentate e sporche di sangue. Non avrebbero parato in nessun modo l'impatto.
Allenarsi così significava farsi semplicemente del male.
«Che cosa stai cercando di dimostrare?»

«Non sto cercando di dimostrare nulla. Mi alleno.»

«Questo lo vedo.»

La voce di Will era tagliente come una lama angelica: «E allora lasciami in pace, James.»

Jem tacque per qualche istante, aspettando che quel lampo di rabbia passasse. Non voleva litigare. Si staccò dalla cornice della porta, avvicinandosi piano all’amico: «Stavo pensando che invece potrei allenarmi con te, se vuoi…»  

«Non voglio.»

Will tirò un altro pugno, trattenendo a stento un gemito di dolore.
«Per favore, torna a dormire.»
 
C’era una sfumatura supplichevole nella sua voce, come se il semplice fatto che Jem gli desse ascolto, per una volta, fosse essenzialmente importante. Era evidente che desiderava restare solo, chiuso in quell’impenetrabile bozzolo di dolore, tuttavia il parabatai non poteva proprio accontentarlo: gli voleva troppo bene per sopportare di vederlo cosí.
«Non da solo» gli rispose con dolce fermezza Jem «Ho bisogno che tu sia riposato per la missione di oggi»

Tutto ad un tratto, Will smise di prendere a pugni il sacco e si voltò a guardare in faccia il parabatai.
Sul volto di Jem non poté che comparire un sorriso soddisfatto: era riuscito ad ottenere la sua attenzione, finalmente.
«Quale missione?» chiese Will, pur ostentando disinteresse.

«Se te ne parlo mi prometti di tornare in camera tua?»

Will si asciugò il sudore che gli imperlava le tempie e sfoderò un sorriso arrogante. «Vedremo.»

«Oh, sei davvero impossibile, sai? Comunque… È stata rilevato un picco di energia demoniaca a Kew Gardens, il Giardino Botanico a ovest della cittá. Charlotte ci ha chiesto di andare a dare un'occhiata.»

Will aggrottò le sopracciglia.
«E ci lascia andare da soli?»
 
Jem avvampò. Quell’obiezione lo aveva completamente colto di sorpresa, eppure se la sarebbe dovuto aspettare: lui e Will avevano solo quindici anni e per l'Enclave non si era dei veri e propri Cacciatori prima di compierne diciotto.
E in ogni caso Charlotte non si fidava nemmeno a lasciarli giocare con l’argenteria per paura che evocassero chissà quale antica potenza demoniaca o semplicemente ci lasciassero sopra impronte di ditate… non li avrebbe mai lasciati andare da soli in una serra infestata di demoni, poco ma sicuro.
 Jem fu costretto a sfoderare tutta la propria faccia tosta per mentirgli apertamente: «Charlotte si fida di noi, sa che abbiamo seguito anni di addestramento e che in caso di scontro sapremmo cavarcela senza problemi…»
Fece una breve pausa perché le sue parole si imprimessero bene nella mente dell'amico, poi aggiunse scrollando le spalle: «Ma posso chiedere a Thomas di accompagnarci, se hai paura...»

«Non ho paura» lo interruppe subito Will, punto nell’orgoglio. «Non ho affatto paura. Quando hai detto che partiamo?»

 
---
 
Decisero di partire verso l'ora di pranzo, così che Will potesse recuperare qualche ora di sonno e Jem avesse il tempo di saccheggiare le cucine alla ricerca di provviste per la loro spedizione improvvisata, anche se alla fine il bottino si limitò a due mele e una pagnotta dolce.

Oltre a quelle scarne scorte di cibo, Jem portò con sé solo il proprio bastone ed una cartina - una cartina vera, stavolta, non una pagina strappata da Jules Verne – anche se durante il tragitto la controllò raramente, come se non gli dispiacesse l'idea di perdersi insieme al parabatai, o come se l'intera missione non fosse poi così urgente. Aveva fatto del proprio meglio per fare conversazione, ma Will pareva ancora più scorbutico del solito e aveva per lo più risposto a monosillabi. Jem comunque non si era arreso ed aveva tentato in ogni modo di strappargli un sorriso, giocando a saltare le pozzanghere, indicandogli la colorata vetrina di un cappellaio e insistendo perché accarezzassero i cavalli dei calessi che incontravano per la strada.

Quando infine si erano ritrovati davanti all'enorme Giardino Botanico, con quelle sue pareti di vetro e acciaio smaltato di acquamarina, la malinconia di Will era scomparsa, sostituita da una trepida eccitazione.

«Ecco, dovremmo essere arrivati» gli fece strada il parabatai con la voce emozionata, tenendogli cavallerescamente aperta la porta. Per lo sforzo gli tremò un poco il braccio, ma Will non se ne accorse, grazie all'Angelo, altrimenti si sarebbe rabbuiato di nuovo.

Jem lo prese per mano e lo guidò lontano dal gruppo di visitatori.
Le runa dell'Invisibilità che si erano tracciati a vicenda prima di uscire dall'Istituto li avrebbero protetti dagli sguardi indiscreti dei Mondali, permettendo loro di girare indisturbati per le varie aree del Giardino.

Iniziarono dal famoso roseto, che secondo la guida conteneva più di 6.000 specie.
Will procedeva guardingo, muovendosi con circospezione e lanciando di tanto in tanto occhiate preoccupate al parabatai per controllare che fosse ancora al suo fianco. Da quando erano arrivati non aveva mai staccato la mano dal pugnale angelico che era infilato nella cintura. Stava prendendo la missione davvero seriamente.

Jem provò una punta di rimorso per avergli mentito, eppure sapeva di non aver avuto scelta.
Lo guardò avvicinarsi ad una rosa dalla corolla rosso intenso, screziata da venature più scure.
Will alzò lentamente una mano e con delicatezza – forse per non ferirsi con le spine, forse per paura di rovinarla – ne accarezzò i petali. Vicino al colore carminio del fiore, il sangue rappreso sulle sue nocche risaltò ancora di più e Jem dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per reprimere il desiderio di abbracciare il parabatai, anche solo per fargli sapere che andava tutto bene e che le ferite sulle mani si sarebbero rimarginate e che sarebbe bastato un semplice iratze, se solo se lo fosse lasciato tracciare.

Nonostante ciò, disse nulla, né si mosse di un millimetro. L'equilibrio che si era creato fra lui e Will era troppo fragile per essere rovinato con qualcosa di sentimentale e melenso come un abbraccio nel bel mezzo di un roseto - qualunque cosa significasse – perché Will non amava il contatto fisico e Jem non voleva metterlo a disagio.
Si domandò se esistesse un altro modo per fargli capire quanto significasse per lui, senza per questo costringerlo ad esporsi, se ci fosse qualche gesto o parola per quando i gesti e le parole non sembravano bastare.

Fu come se Will gli leggesse il pensiero, perché con la voce lontana e sognante che aveva sempre quando parlava di libri disse: «Nei romanzi a volte gli eroi utilizzano i fiori per mandare messaggi»

«Come un codice segreto?»  chiese Jem incuriosito, con gli occhi che brillavano come gocce di rugiada.

«Sí, una specie di codice segreto»  sorrise Will «Esistono dei veri e propri dizionari che abbinano fiori e significati e soltanto chi conosce queste corrispondenze può decifrare il messaggio»

«Sembra un sistema brillante…» mormorò l'amico, seguendo Will lungo le varie file di primule, peonie e papaveri di campo – dal momento che a quanto sembrava le piante erano state disposte in ordine alfabetico. Il profumo dolciastro di fiori impregnava l'aria, dandogli quasi alla testa come se si fosse trattato del ponce di Agatha. Si sentiva felice, sereno.
«Mandami un messaggio, Will»

«Sei qui con me.» obbiettò lui.
La sua voce non era aspra, quanto più divertita.

«Per favore» insistette Jem.

Will sbuffò un po' infastidito, ma poi chiuse gli occhi per scorrere mentalmente l'elenco dei fiori che conosceva. Dovevano essere molti, perché rimase immobile per un tempo che sembrò lunghissimo e poi, prima che Jem potesse rendersene conto, corse via.

 
---

 
Il parabatai lo ritrovò solo più tardi, nella sezione delle piante ornamentali, uno scalcagnato fiore viola dalla corolla apertissima in mano e un sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Passiflora» disse semplicemente Will.

«E cosa significa?»

«Che ti devi esercitare a lanciare coltelli perché hai una mira scarsissima.»

«Non è vero…»

«No…»  sorrise Will colpevole «Però è vero che hai una mira scarsissima.»

Passarono le ore successive nella sezione dedicata alle piante esotiche, tra enormi fiori dalle corolle coloratissime e piante grasse coperte di spine appuntite che i due ragazzi avevano visto solo nei libri di scienze e che non immaginavano esistessero per davvero e distese di alberi di ciliegio che fecero sentire Jem a casa.

Will lo ascoltò raccontare dell'infanzia a Shangai e dei pomeriggi passati in giardino, ad esercitarsi con il violino.
Sapeva raccontare bene, con calma, prendendosi il tempo di descrivere ogni sfumatura di colore, ogni tono, ogni dettaglio. La sua voce sembrava più calda quando parlava di casa, come se il calore dell'Oriente intridesse anche le sue parole. Jem gli parlò degli alti ciliegi che crescevano sotto alla sua finestra e di come, nelle giornate ventose, sua madre lasciasse apposta tutte le finestre aperte, perché la casa si ritrovasse piena di petali dei loro fiori. «È una pianta delicatissima»

Will annuì «Mi sembra che nel linguaggio dei fiori significhi caducità» 

Lo sguardo di Jem si incupí improvvisamente e Will immaginò che fosse perché il suo inglese non era ancora abbastanza buono per conoscere quella parola e per questo aggiunse «Caducità significa-»

«So cosa significa» lo interruppe Jem, che di solito non interrompeva mai nessuno. «Significa essere destinato a morire presto».
Come me, ma questo non lo disse.
Jem sapeva essere molto cauto nella scelta delle parole, come se ogni lettera fosse uno stelo di rosa da maneggiare con cura perché nessuno si ferisse.
Non voleva ricordare a Will quanto poco tempo gli restasse, non proprio in quel giorno. Quindi tacque per qualche istante, prese un profondo respiro e sorrise al parabatai.

Gli descrisse poi il piccolo stagno in cui si divertiva a nuotare d'estate, galleggiando sul pelo dell'acqua circondato da decine di fiori di loto, che erano simili alle ninfee ma color bianco perla, con i bordi che viravano al rosa intenso. 

«Il fiore di loto significa purezza» aveva sentenziato Will, mentre lo sfiorava la consapevolezza che l'anima di Jem dovesse essere di quel colore, di quel bianco rosa morbido dei fiori di loto e che se mai se li fosse trovati davanti non li avrebbe potuti toccare, come se si fosse trattato di una camicia troppo candida per essere indossata davvero.
Jem invece puro - tutto quell'argento nei capelli e negli occhi e nel cuore era quasi abbagliante -, ma lui no. Non dopo quello che aveva fatto, non dopo tutti gli sbagli fatti per caso e i peccati commessi consapevolmente.

Il senso di colpa dovette mostrarsi troppo chiaramente sul suo volto, perché Jem si voltò verso di lui con aria preoccupata e nessuno dei due notò la canna tesa davanti a loro. Inciamparono entrambi, cadendo l'uno sopra all'altro.

«Ti sei fatto male?!»
La voce di Will era di un ottavo sopra il normale. Non lo sfiorava nemmeno l'idea che premere con il proprio corpo su quello esile del parabatai non fosse d'aiuto: in quell'istante non riusciva a pensare lucidamente.
«Maledizione, Jem, rispondimi! Ti sei fatto male?»

«No» rispose Jem, mentre una risata soffocata gli scuoteva il petto a pochi centimetri da quello di Will.  «No… per niente…»

«Devi fare attenzione!» lo rimproverò Will, prima di abbandonarsi ad una serie di vivaci imprecazioni in gallese che avrebbero fatto impallidire Charlotte, se le avesse sentite. Tornò se stesso quando ridendo aggiunse «E con questi rametti in testa sembri la Regina della Corte Seelie»

Giustamente, invece di toglierglieli glieli sistemò artisticamente dietro all’orecchio, vaneggiando di essere un esperto nella tecnica giapponese di disposizione dei fiori e che se Jem avesse provato a toglierseli non lo avrebbe lasciato andare. E Jem non si mosse, non spostò i rametti, non spostò il proprio corpo.
«Sei il mio migliore amico, Will»

Qualcosa nell'aria si spezzó e Will sussurrò una preghiera ad occhi chiusi «Non dirlo»

«E perché mai? È la verità…» replicò Jem confuso «Sei il mio migliore amico!»

«Smettila di ripeterlo» esclamò l'altro con rabbia, tappandogli la bocca con la mano. Sussultò nel sentire le sue labbra bollenti sotto al proprio palmo, eppure non si spostò di un millimetro. Dopo un attimo quel briciolo di razionalità rimasta gli fece realizzare che forse così gli stava impedendo di respirare e quindi tolse la mano.
«Non. Dirlo» ripeté minacciosamente.

«Ma non capisco perc-cough cough...»
L'accesso di tosse gli impedì di continuare e Will finalmente si spostò per permettergli di alzarsi. Quando finalmente si calmò, mormorò con un fil di voce «È il polline»

Era una bugia e lo sapevano entrambi, perché Will era convinto che fosse una conseguenza della maledizione che puniva chiunque lo amasse, mentre per Jem un fin troppo familiare sintomo della crisi d'astinenza da yin fen, tuttavia non c'era bisogno di dirselo ad alta voce. La giornata era stata cosí bella, sarebbe stato un peccato rovinarla.

 
---



Quella sera, prima di sedersi a tavola per la cena, Jem raccomandò a Will di non fare parola della loro spedizione nella serra, perché probabilmente Charlotte se ne era già dimenticata e non c'era bisogno di farla preoccupare inutilmente. Sarebbe rimasto per sempre un loro segreto, come un fiore dal significato nascosto.
Presero posto l'uno accanto all'altro, di fronte ad una annoiata Jessamine, che giocherellava con i suoi capelli con aria assente. Henry tentò maldestramente di fare conversazione raccontando alla tavolata del marchingegno che stava perfezionando, ma Charlotte lo pregò di tacere con un gesto eloquente della mano. Stava scrivendo una lettera al Console e si mordicchiava il labbro rileggendola fra sé e sé.
Solo alla fine si dovette rendere conto di aver dimenticato la data in alto a destra e a mezza voce borbottò: «Londra… qualcuno sa che giorno è oggi?»

«10 novembre.» rispose Jem in fretta.
Forse un po' troppo in fretta, soprattutto dal momento che esistevano poche persone calme come lui.
Will gli lanciò un'occhiata confusa. Come faceva Jem ad essere tanto sicuro che fosse il 10 novembre? Era una data importante per lui, come del resto lo era per-

Will lasciò cadere la forchetta nel piatto. Era a causa sua se Jem rammentava la data. Doveva aver prestato attenzione a come ogni anno, in quel particolare giorno, Will si chiudesse a riccio, oppresso dal dolore e dal senso di colpa. Per questo aveva organizzato quella finta missione, così come l’anno prima gli aveva insegnato a fare gli origami del cigno e del coniglio. Lo aveva distratto dal suo dolore con la ferma delicatezza con cui si chiudono gli occhi ad un bambino davanti ad una scena troppo violenta.
 
Nonostante non fosse abbastanza per tutto quello che aveva fatto, Will guardò intensamente il parabatai e gli strinse la mano sotto al tavolo, nell'unico modo che conosceva di dire grazie senza parlare. O almeno l’unico in mancanza di ortensie.





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Ciao a tutti,
ecco il terzo capitolo della raccolta, quasi in tempo per l'Heronstairs day che ieri non ho potuto onorare causa connessione internet scadente.
Grazie a chiunque ha letto fin qui e a chi ha commentato le storie precedenti... risponderò a tutti il prima possibile, promesso.
La passiflora significa Le nostre anime sono unite.
Un abbraccio

Itsamess
 
  
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