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Autore: Blablia87    14/11/2016    5 recensioni
Cosa si può fare, in 180 giorni?
Alle volte, si può cambiare una vita intera.
[AU][Tematiche delicate]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incompiuta
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-103
 
 
Negazione.
 
Rabbia.
 
Negoziazione.
 
Depressione.
 
Accettazione.
 
 
Le cinque fasi del lutto.
 
 
Sono state elaborate nel 1970 da Elisabeth Kübler Ross - una  psichiatra svizzera - nel tentativo di racchiudere la vastità delle esperienze che legano gli uomini alla loro più grande paura - e, ironicamente, unica vera certezza - in uno schema comportamentale preciso.
 
Il motivo del suo studio e le relative conclusioni è piuttosto semplice, se non banale.
 
L’essere umano ha bisogno di schemi.
 
Costantemente.
 
 
Ricerca l’ordine, anche inconsciamente, quasi l’esistenza di regole precise potesse riuscire ad allontanare, esorcizzare, l’entropia verso cui tutti – per nostra stessa natura - tendiamo.
 
 
Ma la realtà è, come sempre, ben diversa.
 
I confini non esistono.
 
Non ci sono griglie ed elenchi capaci di delimitare o descrivere correttamente la varietà di reazioni possibili al cospetto di una vita al suo termine, che sia la propria o quella di qualcun altro.
 
 
In effetti è piuttosto bizzarro come la più atavica forma di confronto tra l’uomo e la sua natura ultima sia, in verità, estremamente mutevole.
 
Non siamo simili gli uni agli altri, mai, nemmeno nei due momenti che formano l’alfa e l’omega dell’esistenza e che, in qualche modo, la “avvolgono”.
 
 
Si nasce in modi diversi, il luoghi diversi, tra mani diverse.
 
Si muore in modi diversi, con sentimenti diversi, a velocità diverse.
 
 
Il che rende assurdo ritenere che chi resta debba tarare le proprie reazioni ed emozioni su cinque punti stereotipati ed asettici, agendo sotto l’egida e la guida di schemi precisi.
 
 
La morte è universale.
 
L’esperienza della morte, invece, no.
 
È personale.
 
 
Uno dei tanti motivi per i quali non ho mai amato cercare risposte nei libri, indottrinandomi tra gli scaffali polverosi di qualche biblioteca.
 
 
I dogmi non aiutano a capire.
 
Confondono. Accecano.
 
 
I visi, gli occhi, le mani… loro sono la chiave di ogni cosa.
Non serve altro.
 
Tutti i postulati e gli assiomi del mondo vivono tra le parole ed i respiri delle persone.
 
Nelle pieghe dei loro silenzi.
 
 
Mi muovo tra ripiani di uomini da così tanto tempo ormai, da riuscire a sfogliare le loro bugie come pagine, i loro sguardi sottolineature a penna di cose importanti o goffi tentativi di cancellatura.
 
 
Anche per questo posso affermare, con assoluta certezza, che i cinque punti della dottoressa Kübler Ross non esistano.
 
 
Un grande dolore può essere contenuto in una lacrima come in una risata assordante, in notti insonni come nei respiri di un riposo apparentemente sereno.
 
Un assassino può piangere al funerale della propria vittima ed una madre essere perfettamente truccata e composta a quello di un figlio che ha amato più di se stessa.
 
 
Le lacrime ingannano.
 
I sorrisi ingannano.
 
 
 
Le espressioni no, soprattutto quelle che si prova con ogni mezzo a tenere sotto controllo.
 
Le emozioni no, soprattutto quelle che ci si sforza di interpretare.
 
 
 
Per questo è stato così semplice, scoprire il colpevole.
 
 
 
 
“C’è stato un omicidio… vorresti venire a dare un’occhiata?»
 
Quando - poco prima delle nove di questa mattina - Lestrade si è affacciato sulla porta del salotto annunciato dalla signora Hudson, è stato piuttosto facile dedurre dal suo tono di voce e dall’imbarazzo sul suo viso che la mia presenza sulla scena del crimine non fosse indispensabile.
 
“Lo sai già chi è il colpevole, perché vuoi che venga?” Ho chiesto, voltandomi con aria interrogativa a guardare John che – con un sorriso morbido – ci osservava appoggiato allo stipite della porta che conduce alla cucina.
 
“Penso sia giunto il momento di tornare sul campo.” Ha risposto l’ispettore, semplicemente, alzando le spalle.
 
“Gli hai chiesto tu di farlo?” Ho continuato, rivolto a John, fingendo di non aver sentito.
 
“Penso sia giunto il momento di tornare sul campo.” Ha ribattuto lui, ripetendo con aria divertita le parole di Lestrade.
 
“Beh, no grazie.” Ho tagliato corto, spingendo la sedia in direzione del corridoio.
 
“Non ho bisogno di elemosina.” Ho soffiato, cercando di raggiungere la mia camera avanzando in modo più spedito rispetto ai passi di John dietro di me.
 
“Avanti, Sherlock!” Ha insistito, raggiungendomi ed appoggiando una mano sulla mia spalla, costringendomi a rallentare. “Mi piacerebbe davvero molto vederti all’opera.” Ha sussurrato, chinandosi in modo da portare le labbra vicino al mio orecchio.
 
“Mi ha già visto all’opera.” Ho sottolineato, tentando di divincolarmi dalla sua presa, certo di quale sarebbe stata la risposta che avrebbe dato.
 
“Non è la stessa cosa. Avanti, non ci vorrà molto.” Ha insistito, un tono di voce in bilico tra l’implorante ed il divertito. “Ci farà bene.”
 
“Non vedo come potrebbe farci bene.” Ho ribattuto, gli occhi ostinatamente rivolti alla porta della mia stanza, lontani dai suoi. Ho scoperto di non riuscire a pensare in modo del tutto lucido, quando mi specchio nelle sue iridi.
 
“È il tuo lavoro. La tua vita. Ciò che ti realizza.” Ha iniziato lui, girando attorno alla sedia per portarsi di fronte a me. “Ami stare sulle scene del crimine. So che è così.”
 
“Non vedo come questo possa far del bene a te, ad ogni modo.” Ho sussurrato, alzando con un sospiro sconfitto lo sguardo su di lui.
 
 
“Se tu stai bene, io sto bene.” Ha risposto, semplice, sul viso la tenue quiete della verità.
 
 
Empatia.
 
 
Una parola di origine greca, empatéia, composta dal prefisso en-, "dentro", e dal termine pathos, "sofferenza”, “sentimento”.
 
Veniva inizialmente usata per indicare il rapporto emozionale che legava un cantore a chi ascoltava la sua voce.
 
John porta con sé, come ho già detto, un carico di empatia che lo riempie, lo avvolge.
 
Ne è saturo, così come lo sono le sue parole, i suoi gesti.
 
Ed io resto confuso, spaesato, di fronte a questo continuo farsi carico dei sentimenti altrui – della sofferenza altrui, della mia - che lo osservo compiere ad ogni respiro.
 
Ma è lui il cantore, tra noi.
 
Io mi limito ad osservare, attento. Sorpreso.
 
La sua voce compone note che riconosco ma che mutano aspetto e forma, quando si trovano tra le sue labbra. Sul suo viso.
 
John dice di star bene nel vedermi star bene, ed io mi ritrovo uno spartito di battiti sconosciuti stretto tra le dita incerte, tremanti.
 
 
Vorrei poter toccare John, analizzarlo, fino a capire il punto centrale di questa “magia” che nasce nei suoi sguardi e muore su di me.
 
Invece, incapace, inadatto, mi ritrovo ogni volta ridotto al silenzio al cospetto del suo mistero.
 
 
John è empatico.
Lo è al punto da rendermi tale a mia volta.
 
Da desiderare di esserlo.
 
Io, che ho sempre catalogato ogni pulsione non controllata come nociva.
Un errore.
 
 
 
“Va bene…” Mi sono arreso, in attesa che un sorriso si affacciasse sul suo viso, illuminandolo.
 
Illuminandoci.
 
“Ma non più di un paio d’ore. E andiamo da soli!” Ho concluso, alzando la voce in modo sufficiente affinché Lestrade riuscisse a sentirmi.
 
“Come se fossi mai riuscito a farti venire con me da qualche parte su una volante!” Ha ribattuto lui, prima di fornire l’indirizzo dell’omicidio ed avviarsi lungo le scale con un brontolio sordo.
 
 
 
 
Per anni, le strade di Londra sono state il mio rifugio.
 
Ho respirato l’odore della pioggia sull’asfalto di questa città così tante volte da riuscire, ormai, a riconoscerne ogni sfumatura.
 
Ogni vicolo, ogni pietra, ogni fermata, ogni più piccolo aspetto è stato ricreato in un punto specifico del mio Mind Palace.
 
Fedele.
 
Riconoscibile.
 
 
Eppure, ho scoperto solo oggi l’esistenza di un’altra Londra.
 
Quella che vive alle spalle di John, mentre cammina al mio fianco lungo marciapiedi conosciuti.
 
Assoggettata, quasi dimenticata.
 
La città sfocata che fa da contorno al suo viso che entra – con morbida violenza - tra l’obiettivo dei miei sensi e tutto ciò che ci circonda, cancellando ogni altra cosa.
 
 
 Me ne sono reso conto una volta arrivati all’indirizzo fornito da Lestrade.
 
Davanti al cancello di quella piccola villetta di mattoni rossi apparentemente uguale a tutte le altre.
 
 
Le sopracciglia aggrottate, mi sono girato indietro cercando di ricordare che strada avessimo fatto per arrivare fin lì, nuovamente – dolorosamente - immerso in una realtà che avevo allontanato durante il percorso.
 
“Tutto bene?” Ha chiesto John, portandosi un passo più vicino.
 
“Sì…” Ho mentito, inclinando la testa da un lato e chiudendo gli occhi, in cerca di qualche dettaglio utile.
 
 
Oltre la barriera delle mie palpebre abbassate, però, sono riuscito a focalizzare ogni singola parola pronunciata durante il tragitto ma non un solo elemento in grado di svelarmi il percorso compiuto.
 
Il volto di John riempiva ogni attimo, ogni spazio utile del campo visivo.
 
 
“Sherlock…?” Mi ha richiamato lui, nel tono una vaga preoccupazione.
 
“Sì, ci sono.” Ho risposto, riaprendo gli occhi.
 
“Sicuro che vada tutto bene?” Ha domandato nuovamente, chinandosi verso di me.
 
 
Per un attimo, una serie frenetica di pensieri è esplosa nella mia mente.
 
 
No, John, non va tutto bene.
 
Stai prendendo il posto di ogni cosa, riempiendo ogni parte del mio essere.
 
Stai sostituendo parti di me con pezzi di te. Ricordi del passato scompaiono, di fronte al tuo viso.
 
Questo mi terrorizza.
 
Perché se te ne andassi, non mi resterebbe nulla.
 
Nulla.
 
La tua assenza mi spaventa più dell’idea stessa della morte.
 
 
“Certo.” Ho esalato - cercando di riemergere dalle onde, dai flutti agitati della paura - i suoi occhi preoccupati fissi sul mio viso. “Andiamo.”
 
 
 
 
Quando siamo arrivati il signor Elster – immobile di fianco alla porta d’ingresso all’esterno della villa, la testa china e gli occhi bassi - stava raccontando ad un poliziotto, ancora una volta, di come un ladro si fosse introdotto nell’abitazione durante la notte ed avesse ucciso sua moglie prima di fuggire.
 
Tutto, però - dal tono della sua voce alla posizione delle spalle - riportava un’altra verità.
 
 
Le espressioni non ingannano, dicevo.
Soprattutto quelle che si prova con ogni mezzo a tenere sotto controllo.
 
La paura, ad esempio. Quella di sbagliare qualche dettaglio. Di non apparire sufficientemente convincenti.
 
Le emozioni non ingannano.
Soprattutto quelle che ci si sforza di interpretare.
 
Come il dolore di una perdita.
 
 
Ecco perché è stato così semplice.
 
 
Non si può dire con le labbra di aver perso l’amore della propria vita e, nello stesso momento, cercare di capire se chi ci sta ascoltando stia credendo alle nostre parole.
 
 
“Il marito non mi convince…” Ha sussurrato John dopo qualche secondo, gli occhi attenti sul volto del padrone di casa.
 
“Perché?” Ho domandato io, curioso di capire come fosse giunto alla mia stessa conclusione, girandomi verso di lui.
 
“Ho visto molti corpi, in guerra.” Ha iniziato lui e, per un attimo, è sembrato distante, irraggiungibile.
 
“Distesi a terra, coperti da un lenzuolo, proprio come lei.” Con un movimento del capo ha indicato la signora Elster - immobile sul pavimento dell’ingresso - appena visibile oltre la soglia.
 
Con passi rapidi Lestrade è comparso alle nostre spalle, fermandosi dietro di noi sul vialetto d’ingresso.
 
“Si tende a non voler guardare. Serve anche a questo, coprirli. A cercare di renderli neutri ai nostri sensi fin quando occorre rimanere lucidi. Allo stesso tempo, però, si trova quasi insopportabile il pensiero di staccarsi da loro. Lui… lui si volta continuamente, ed ogni volta sembra quasi deluso di trovarla ancora lì. È come se…”
 
“È come se pensasse che finché sono in corso i rilevamenti, la sua storia non sia abbastanza credibile.” Ho terminato, voltandomi per alzare gli occhi sul volto confuso di Lestrade.
 
“Che state dicendo? Che è stato il marito?” Ha chiesto lui, spostando lo sguardo da me a John, per poi tornare a fissarmi. “Ma non è possibile, non abbiamo trovato l’arma da nessuna parte, in casa! Non avrebbe avuto il tempo d—”
 
“Infatti non ne ha avuto. O meglio, ne ha avuto troppo poco.” Ho sospirato, preparandomi ad esporre quello che era sotto gli occhi di tutti ma che, come sempre, non era stato notato da nessuno.
 
“Indossa i pantaloni del pigiama al contrario. Mi chiedo se non sia stato troppo precipitoso nel vestirsi… Anzi, nel rivestirsi. Sono quasi certo che se manderai qualcuno a controllare la lavanderia troverai un paio di calzini e dei pantaloni sporchi di terra. E…” Ho indicato con un dito un punto del giardino vicino alla staccionata. “Lì la terra sembra smossa di recente.”
 
In silenzio, sia John che Lestrade hanno seguito la traiettoria della mia mano.
 
“Maledizione!” Ha ringhiato l’ispettore superandoci quasi correndo, le mani strette a pugno a lambire i fianchi.
 
John si è voltato verso di me, negli occhi un’espressione di puro orgoglio.
 
 
È stato un attimo.
 
 
Il tempo di schiudere le labbra, sorpreso, ed il suo sguardo ha mutato l’intero senso dell’essere lì, donando una ragione nuova alla risoluzione di un caso così scontato.
 
Regalando un motivo reale, concreto, alla chiusura di ogni caso.
 
Perché, improvvisamente, non era più qualcosa di legato a me, ma a lui.
 
Al suo viso, all’amore mescolato alla soddisfazione che albergava tra le sue ciglia.
 
In modo inatteso e totalizzante, ogni deduzione fatta fino a quel momento senza lui ad ascoltare è apparsa del tutto sterile, sprecata per il mio solo piacere.
 
Debole.
 
Inutile.
 
 
“Beh, c’è voluto decisamente meno del previsto.” Ho tossito, girandomi ad osservare un poliziotto correre verso il punto che avevo indicato, tentando di riprendere il controllo del mio respiro.
 
“È stato fantastico.” Ha ribattuto John, accennando un sorriso.
 
“È stato banale.” Ho risposto, schiarendo la voce e scuotendo la testa. “Se solo la gente osservasse…”
 
“Ma la gente non lo fa. Tu sì. E questo è fantastico.” Mi ha interrotto, con voce sicura.
 
“È banale.” Ho ripetuto ancora una volta, mentre l’agente sollevava con una penna una pistola da una piccola buca nel terreno, mostrandola a Lestrade sotto lo sguardo vitreo del signor Elster.
 
“Non puoi perdere chi ami e avere quella freddezza negli occhi.” Ho concluso, voltandomi nuovamente verso di lui.
 
Un’ombra ha lambito gli occhi di John, oscurandone la luce.
 
“No. Non è possibile. È vero.” Ha risposto dopo qualche secondo, roco.
 
“Vogliamo andare?” Ha aggiunto, tentando di mascherare la tristezza dietro un tono dolce.
 
“Certo.” Mi sono limitato a dire, annuendo appena.
 
 
Solo quando eravamo arrivati sulla strada principale, ho davvero capito quale pensiero avesse attraversato la sua mente.
 
 
La possibilità - la sola remota eventualità - di perderlo mi spaventa, al punto da sentire il respiro incendiarsi.
 
Mi terrorizza come neanche il vuoto, la Caduta, ha saputo fare.
 
Mentre lui…
 
Lui vive ogni giorno con la certezza che questo accadrà.
 
Con la consapevolezza che dovrà lasciarmi andare.
 
Coraggioso come io non sarò mai, un cuore1) grande sufficientemente da bastare ad entrambi, forte al punto da aver ridato ritmo, vita, al mio.
 
 
Mi domando se io meriti tutto questo.
 
Mi domando se lui, meriti tutto quello che verrà.
 
 
Se meriti di rimanere in piedi in un corridoio asettico, l’anima sotto un lenzuolo, aspettando che la mia immagine diventi sufficientemente neutra da potersene staccare senza perdere una parte troppo grande di sé.
 
 
 
No.
 
La risposta è no.
 
 
Non merita alcun dolore. Ancor meno merita di soffrire a causa mia.
 
 
 
Vorrei davvero avere la forza di cacciarlo.
 
La forza di vestirmi nuovamente di boria, cattiveria e veleno. Vorrei saper riempire ancora la mia bocca di ingiurie gratuite.
 
Vorrei tornare “me stesso”.
 
Quello che ero prima che lui mi mostrasse la vera essenza del mio essere, svestendola con fragile fermezza di ogni armatura.
 
 
Ma poi alzo gli occhi ed incontro i suoi, morbidi.
 
E non riesco a sentire altro che il mio respiro albergare nel suo petto.
 
Io…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
“Mi dispiace.”
 
“Come?”
 
“Ho detto che mi dispiace, John.”
 
“Di cosa stai parlando?”
 
“Di nulla in particolare. Solo… Ti chiedo scusa.”
 
“Inizio a preoccuparmi, adesso. Seriamente.”
 
“Non devi. È stato il pensiero di un momento. Una sciocchezza. Dimenticala pure.”
 
 
 
“Sherlock.”
 
“Dimmi.”
 
“Non devi chiedermi scusa. Ho scelto io, di rimanere.”
 
“Com—”
 
“Ogni tanto, anche le persone mediocri sanno osservare.”
“Vogliamo pranzare?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
Ma poi alzo gli occhi ed incontro i suoi, morbidi.
 
E non riesco a sentire altro che il mio respiro albergare nel suo petto.
 
Io…
 
 
 
 
Non sei una persona mediocre.
Io lo sono.
 
Ridicola.
 
Inutile.
 
Inabile ad allontanarti come al saperti confessare amore.
 
Appena capace di chiedere scusa, incompetente nel maneggiare i sentimenti al punto da non riuscire quasi a farne parola.
 
Neanche adesso, mentre ti muovi verso la cucina per preparare, prepararci, l’ennesimo pasto, con il solito sorriso carico di ogni cosa abbia senso in questo mondo, sempre poi che qualcosa l’abbia davvero.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
-103
 
 
“John…?”
 
“Sì, Sherlock.”
 
“C’è una cosa che vorrei dirti. Ma non sono sicuro di esserne capace.”
 
“Prova. Se posso, cercherò di capire anche senza troppe parole.”
 
“Ok… Va bene.”
“Il fatto è che per tutta la vita… Per tutta la vita ho seguito la ragione come se fosse un faro. La ragione mi ha ricondotto al porto della verità e del raziocinio, ogni volta. Non sono mai stato capace di nuotare tra le emozioni, né ho mai voluto.”
 
“Sherlock, non importa, ho cap—“
 
“No. Quello che cerco di dire… quello che sto cercando di dire è che sei tu, adesso, il faro. Sei sempre tu. E quando scorgo la tua luce non mi importa che le onde mi ricoprano, o di non riuscire a restare a galla. Io…”
 
“Sherlock…”
 
“Non sono in grado di dire a qualcuno che l’amo. Non so farlo. E non ho mai avuto, o sentito, la necessità di farlo, prima di incontrarti. Ma tu sposti il mio orizzonte. Ogni coordinata della mia vita. E se ci fosse un’unica eccezione a questa regola del silenzio che mi serra la gola… Ecco… Saresti tu. Non potresti che essere tu.”
 
 
 
“John…?”
 
 
“Sì… sì, ci sono.”
 
“Io... Ho sbagliato qualcosa?”
 
“Cosa? No! No... Non hai sbagliato una sola parola, Sherlock.”
 
“E allora che succede…?”
 
“Niente. Sono solo felice.”
“Un felice stupido professore di mezza età che si è commosso.”
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1) Sherlock si riferisce al cuore per una ragione specifica. “Coraggio” deriva dal latino “coraticum” (cor habeo), aggettivo che nasce dalla composizione di “cor, cordis”(ovvero cuore), e dal verbo “habere” (avere).
 
Letteralmente, quindi, significa “ho cuore”. :)
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:
 
Prima pubblicazione da quel di Marsiglia, grazie ad una connessione casalinga temporanea che ci sta “traghettando” verso quella fissa. :D
 
Il capitolo racconta un solo giorno ed è relativamente breve (in realtà si assesta sulle 13 pagine Word, quindi in linea con i primi), ma avevo bisogno di “testare” la scrittura in un luogo nuovo e con mezzi nuovi.
 
Come ho raccontato ad adlerlock, sono abituata a scrivere sempre nello stesso punto della casa, con la stessa luce e la stessa musica di sottofondo. È come se questa routine mi “sbloccasse”.
 
Farlo in posti così diversi non è stato facile e, in caso, mi scuso già da ora se il risultato non dovesse apparire “fluido” e ben collegato con quanto scritto in precedenza. Cercherò di ritrovare un mio equilibrio al più presto. ^_^
 
Grazie, come sempre, a chiunque abbia letto fin qui.
 
Mi siete mancati terribilmente.
 
A presto,
B.
 
 
 
“Ho imparato che il coraggio non è l’assenza di paura, ma il trionfo su di essa. L’uomo coraggioso non è colui che non si sente impaurito, ma colui che vince la paura.”
(Nelson Mandela)

 
   
 
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