Un anno
prima.
Al di là del vetro, le stelle brillavano silenziose.
Innumerevoli, luminose, del tutto incuranti delle persone
che continuavano a muoversi, respirare, vivere all’interno
della Base 2. Un
luogo intracciabile ed invisibile ad ogni radar, un quartier generale
che da
anni operava celato nell’ombra, cuore pulsante di
un’organizzazione che mai
aveva avuto intenzione di scendere a patti con l’ordine
interstellare. Una Base
più simile ad un nascondiglio preparato e pronto per ogni
emergenza, costruito
sul terreno aspro e sterile di un pianeta una volta florido e popolato.
il
piano B dove, diciotto anni prima, la Poison Corporation era strisciata
a
leccarsi le ferite.
Lei lo odiava, con tutto il suo cuore. Odiava quella
prigione di mura, metallo e disciplina militare, odiava i rigorosi
controlli
medici ai quali il suo corpo veniva regolarmente sottoposto, odiava la
viscida
ed onnipresente consapevolezza di non essere altro che
l’ultimo gioiello del dottor
Colfen. la nuova punta di diamante della sua corona, la
“creatura” che per
diciotto lunghi anni aveva cresciuto e studiato come una bestia rara,
come
un’arma dalle infinite potenzialità.
Più di ogni altra cosa, il suo animo era affranto dal
fatto di non aver mai avuto alcuna possibilità di scoprire
cosa si nascondesse
tra quella infinita distesa di stelle.
Di stelle parlavano i libri allineati sull’unico comodino
della sua stanza, di stelle parevano fatti i suoi occhi: due pozzi
traslucidi
dal colore indefinito, perle cangianti che solamente nei momenti di
rabbia
s’incendiavano nel rosso più violento e vivo; come
se vi fosse fuoco ad ardere
al di là di essi. Quella notte, negli occhi di lei non vi
era altro che apatia.
Una mollezza dell’animo che da mesi ormai si era fatta strada
dentro di lei,
consumandola dall’interno senza che la giovane avesse voglia
alcuna di trovare
antidoto contro quel silenzioso veleno. Presto o tardi sarebbe giunto a
corroderla sino alle ossa, sino a disintegrarle l’animo
stesso, sino a renderla
un mero guscio senza più nessuna fiamma a bruciare nel
cuore. Ne era
perfettamente consapevole. Consapevole di non avere altra scelta.
Impossibile riportare alla memoria il giorno esatto in
cui diventò un’abitudine consolidata, il suo
apparire dal nulla come un
fantasma, emergendo dalle ombre come se vi si fosse appostato in
attesa, senza
palesare in alcun modo la sua presenza.
-Avrei preferito avere tra le mani il fascicolo della
missione, prima di imbarcarmi ad occhi chiusi.-
-Ne hai mai avuto bisogno, ragazza mia? Gli assassini
come te non hanno motivo di conoscere noiosi dettagli tecnici, per
portare a
termine il loro lavoro. C’è forse una ragione,
perché questa volta debba essere
diverso?-
Se non l’avesse vista crescere coi suoi stessi occhi,
sarebbe rimasto spiazzato, quanto meno inquietato dal sorriso che la
giovane
gli rivolse subito dopo: un bagliore freddo e spietato di canini
appuntiti,
scoperti appena da un paio di labbra piccole e piene che raramente si
tendevano
in sorrisi che non fossero di velata minaccia. Il ghigno di una
leonessa
davanti ad una preda ancora ignara del proprio destino.
-Domani è il mio compleanno, Dottore. Perché non
fare un
piccolo regalo al tuo mostro preferito?-
Quando vide la mano dell’uomo sollevarsi in direzione del
suo viso quasi arretrò d’istinto, non aspettandosi
affatto la carezza che le
sfiorò la pelle d’una guancia. Un gesto quasi
gentile, come paterno, che invece
d’instillare in lei un senso di protezione la
portò invece a scostarsi di
scatto; incerta su come dover reagire.
-Sarà sufficiente, uno squadrone di soli venti soldati?-
-Questa volta, non ci saranno spiacevoli imprevisti. Questa
volta, abbiamo un asso nella manica.-
Le dita del professor Colfen percorsero pigramente il
viso della ragazza sino a soffermarsi sotto il mento, sollevandolo con
delicatezza in modo che gli occhi cangianti di lei potessero portarsi
al suo
livello. Così tanta potenza, racchiusa in un corpo esile
come quello di una
bambina, spigoloso ed acerbo, temprato dagli allenamenti militari ai
quali era
stata sottoposta appena entrata nella pubertà.
Pubertà che col passare del
tempo aveva reso sempre più arduo tenerla lontano da
attenzioni indesiderate,
dall’idea strisciante e sempre più allettante agli
occhi di non pochi ufficiali
di riservarla mansioni ben più piacevoli e lascive. Questo
non lo avrebbe mai
permesso, finchè avesse avuto vita a scorrergli in corpo.
Non dopo aver visto
coi suoi stessi occhi la potenza distruttrice scatenata ogni qual volta
la
giovane arrivava a perdere del tutto il controllo, la belva feroce in
grado di
lasciare terra bruciata dietro di sé se costretta ad
oltrepassare i limiti del
proprio equilibrio fisico e mentale. Un angelo trasfigurato in un
demone dagli
occhi rossi come il sangue, come le fiamme dell’inferno. Una
vista sufficiente
a far tremare come bambini impauriti anche i mercenari più
esperti.
Ancora una carezza, mentre le dita callose dell’uomo si
mossero ad affondare nella chioma che le incorniciava il volto
innaturalmente
pallido, capelli d’un viola così intenso e vivido
da rendere il suo apsetto
ancora più etereo.
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Il profumo dei fiori purpurei era così intenso ed
inebriante da annichilire i sensi, da instillare in ogni abitante del
villaggio
umori così gioiosi e carichi di vita che ben sarebbe stato
difficile riuscire a
reprimere in favore delle solite attività di agricoltura ed
allenamento.
Di fiori, erano costellati i suoi capelli. Boccioli
schiusi da poco i cui gambi erano stati annodati attorno alle ciocche
corvine
da una decina di piccole mani, con enorme divertimento del piccolo
gruppo di
bambini che gli sedeva intorno. Solitamente raccolti in una treccia,
quel
mattino i suoi capelli erano stati lasciati liberi di ricadergli lungo
le
spalle e la schiena in tutta l loro lunghezza, sino a sfiorare le gambe
morbidamente piegate nella posizione del loto. Ogni adulto del
villaggio era
impegnato nei compiti più svariati, ognuno di essi diretto
ai festeggiamenti
per la stagione della fioritura, e per quel giorno momentaneamente
sollevati
dal dovere di sorvegliare i propri figli. In simili occasioni, era Kaim
ad
occuparsi di loro. Lui, che di figli non ne aveva mai avuti, lui che
aveva
visto tutti i suoi sforzi per espellere un uovo dalla bocca culminare
irrimediabilmente in poco aggraziati crisi di tosse. Nonostante il
conforto di
suo padre, il tatto di suo fratello maggiore e l’amore
incondizionato dei due
figli di questi nei suoi confronti, la consapevolezza della propria
sterilità
continuava a pesargli sul cuore come il più pesante dei
macigni. Soltanto in
parte il compito affidatogli anni prima dal capo del villaggio, Moori,
aveva
reso quella sofferenza dell’animo più
sopportabile: badare ai figli degli
altri, lui che di propri non ne avrebbe avuti mai. Il fato sapeva
rivelarsi
benevolmente beffardo.
Il primogenito di suo fratello, Taro,
era ancora intento a pettinare alcune ciocche
ancora prive di fiori quando, improvvisamente, un flebile ed invisibile
campanello d’allarme risuonò nelle coscienze di
ogni abitante del villaggio,
come una freccia scoccata verso i meandri più primordiali
della mente. Gli fu
sufficiente sollevare lo sguardo e guardarsi attorno, per vedere la
medesima
intuizione farsi strada sul volto dei propri compagni, nelle loro
espressioni
differenti gradi di preoccupazione ed apprensione. Le stesse che vide
tingersi
d’ansia negli occhi di suo fratello, accorso in volo soltanto
pochi istanti
prima.
-Lasciami venire con voi, per favore. Sono stanco di
rimanere di in disparte, di restare ai margini lasciando che siano
sempre gli
altri a proteggermi, ogni singola volta. Se mi permetteste …-
-Se ti permettessimo di lasciarci la pelle, Kaim?- questa
volta, un vero e proprio ringhio di frustrazione, le labbra tese a
mostrare i
canini in un’espressione ora speculare a quella disegnatasi
sul volto del più
giovane. –Perché sappi che non ho la minima
intenzione di lasciare che qualcuno
ti faccia del male, né di lasciarti correre in mezzo ai guai
e rimanerci secco.
Perché non lo capisci, maledizione? Resta con i bambini,
trovate un posto
sicuro, e non allontanatevi. Mi fido di te.-
La protesta di Kaim venne soffocata da un’esclamazione
rabbiosa nel vedere Alaet volare via senza aggiungere altro, senza
concedergli
anche solo il tempo sufficiente a rincorrerlo, tentare di fargli
cambiare idea.
La razionalità, rapidamente, esiliò in un angolo
del cuore risentimento e
frustrazione, e fu con voce ferma e gesti decisi che convinse tutti i
bambini a
seguirlo all’interno della capanna di Moori. Lui ed Alaet
avrebbero risolto in
un secondo momento le loro divergenze, e di certo non avrebbe permesso
al
proprio desiderio di rivalsa di distogliere la sua attenzione da quello
che era
il suo principale compito: proteggere i figli dei propri compagni, a
qualunque
costo.
Taro aveva stretto i piccoli pugni attorno al ruvido
cotone dei suoi pantaloni, tirandolo dolcemente verso di sé,
gli occhi
spalancati e visibilmente spaventati nonostante il suo visetto fosse
teso nel
tentativo di apparire quanto più coraggioso possibile agli
occhi dello zio. E
Kaim potè scorgere tutta la tempra di suo fratello, in
quegli occhi brucianti
di vita, nell’attenzione con cui il piccolo prese a scrutare
al di là della
finestra, alla ricerca di un qualsiasi indizio che potesse aiutarlo a
comprendere.
A sole poche centinaia di metri, pulsanti e sconosciute,
vibravano decine e decine di aure, concentrate in un singolo punto
della radura
erbosa. Una situazione che gli era stato insegnato essere
potenzialmente
pericolosa, soprattutto quando la memoria del popolo namecciano portava
ancora
fresche le ferite degli attacchi che la loro terra aveva dovuto
sopportare
negli ultimi vent’anni. Una navicella sconosciuta ed
inaspettata non si sarebbe
mai rivelata portatrice di buone notizie.
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Decise d’ignorare la morsa che ancora le attanagliava le
visceri, almeno per il momento, prima di scattare i direzione del
tavolo al
centro della stanza, ove un mitra d’assalto ed un paio di
pugnali gemelli per
il combattimento corpo a corpo erano stati preparati appositamente per
lei.
Solo questi ultimi, però, vennero assicurati alla sua
cintura, mentre l’arma a
ripetizione non venne degnata del minimo sguardo. Con simili aggeggi,
d’altronde, non era mai stata in grado di stringere buoni
rapporti, non quando
tutta la sua forza risiedeva nel combattimento corpo a corpo, con
l’adrenalina
che solamente un’arma da taglio riusciva a farle esplodere in
corpo. I lunghi
capelli violacei vennero costretti all’interno di un casco
d’assalto, nero come
la pece, il taglio felino dei suoi occhi celato dal vetro spesso della
visiera
rinforzata.
Un’ombra di kevlar e lame affilate, uno
spettro che scivolò lungo un’ala della
stessa navicella prima di piovere sopra i suoi nemici. Colpendo senza
uccidere,
non ancora, indugiando anzi nei lamenti di dolore che la violenza dei
suoi
colpi inflisse ad uno, due, tre guerrieri; lasciando che altri
ringhiassero di
rabbia nel vedersi incapaci di afferrare quel soldato dal volto coperto
che con
tanta agilità riuscì a schivare i raggi di pura
energia che le scagliarono
contro. Uno solo di essi le sfiorò il fianco senza
però penetrare la barriera
del kevlar, senza nemmeno essere in grado di attirare la sua
attenzione.
Fredda, disinteressata ai corpi dei propri compagni ammassati a terra,
oltrepassandoli con balzi felini come se non fossero altro che meri
ostacoli ad
intralciare il suo cammino. La pietà non poteva essere messa
in conto, durante
una missione. Non per lei, non per l’arma nella quale era
stata forgiata.
Il suo compito, oramai totalmente dimenticato: i
guerrieri più forti del villaggio non sarebbero stati
attaccati, non da lei,
non quel giorno, non quando ogni fibra del suo essere era in completa
tensione
verso quella singola capanna, verso un paio d’occhi che non
avevano mai smesso
di attirarla a sé come il più potente dei virus.
E potè scorgere le traditrici
vibrazioni del terrore, in quei due pozzi cangianti, abisso nel quale
si
sarebbe volentieri immersa se un namecciano non si fosse scagliato su
di lei;
gettandola a terra con un solo calcio ben mirato all’altezza
dello sterno.
Fu il tronco di un albero d’Agisa ad accogliere lo
schianto del corpo della giovane contro di esso, incrinatosi appena
sotto il
suo peso, mentre dalle labbra della donna fuoriuscirono smorzate
maledizioni
che , fortunatamente, nessuno dei presenti fu in grado di comprendere o
quanto
meno di udire.
Ancora una volta, il ragazzo non fece in tempo a
rispondere agli ordini del fratello maggiore, raggelato nel vedere coi
suoi
stessi occhi la lama di un pugnale conficcarsi con un rumore secco in
una gamba
di questi. Con un urlo, Alaet afferrò il manico
dell’arma per strapparla via,
mentre dalla ferita aperta iniziò immediatamente a colare un
generoso fiotto di
sangue. Kaim si affidò all’istinto. In un solo
battito di ciglia fu accanto al
fratello, ogni grammo della poca magia che in diciotto anni era
riuscito ad
imparare e controllare concentrato nella punta delle sue dita, nella
luce
dorata che immediatamente avvolse la coscia dell’altro,
cicatrizzando il taglio
quanto più rapidamente possibile. Fire, nel frattempo,
muoveva un passo dopo
l’altro in direzione dei due fratelli con una calma quasi
innaturale,
terrificante, il casco che ancora indossava perfetto nel nascondere
quella che
doveva essere l’espressione del suo viso. Fu quella calma
calcolata, la
freddezza con la quale una mano dell’assassina stringeva
già il manico del
secondo pugnale, a raggelare le membra di Kaim, ad instillare in lui un
terrore
che mai aveva provato prima. Pietrificato, sordo all’ennesimo
richiamo del
fratello, il ragazzo non potè far altro che rimanere a
guardare, mentre
quest’ultimo si scagliò ancora una volta in
direzione del suo avversario, di
quello straniero dal volto coperto al quale Kaim non era ancora in
grado di
dare definizione alcuna. Il taglio e le forme della tuta in kevlar,
delle
protezioni rinforzate, la segretezza del casco integrale, perfetti
dettagli di
un quadro completo che non gli permisero in alcun modo di capire se si
trattasse di un uomo o di una donna. Non che la cosa rivestisse molta
importanza ai suoi occhi, non quando tra questi ed Alaet era esplosa
una lotta
senza esclusione di colpi.
Dove mancava di forza fisica e massa muscolare, Fire
riusciva a recuperare in velocità e rapidità di
riflessi, schivando gli
attacchi del suo avversario quanto più possibile, sebbene
questi fosse
abbastanza forte da renderle il compito ben più difficile
del previsto. Lo
aveva sottovalutato? Forse, ma quell’imprevisto non fece
altro che aumentare
l’adrenalina che già le scorreva in corpo,
rendendola sempre più decisa a
sconfiggere una volta per tutte l’uomo che ancora riusciva a
tenerla lontana
dall’unico oggetto del proprio interesse. Dal ragazzo dalla
pelle d’un verde
più pallido rispetto ai suoi compagni, da quegli occhi
così simili ai suoi e
capelli tanto lunghi e folti da ricordarle le creature che popolavano
le favole
di quand’era bambina, i racconti che il Dottore usava
raccontarle prima di
andare a dormire.
Un urlo di dolore, un colpo più preciso dei precedenti.
Kaim vide suo fratello crollare a terra, una mano tremante a premere
contro il
fianco destro, troppo stremato e debole per rialzarsi e continuare a
combattere. Fire a soli pochi passi da lui, entrambi i pugnali stretti
tra le
dita, il petto ansimante a tradire la spossatezza e le ferite che
anch’essa
aveva riportato nel combattimento. Le sarebbe bastato così
poco, un solo colpo,
per mettere fine a quella triste visione. Un solo colpo, e nulla di
più.
La ragazza ebbe appena il tempo di udire l’urlo di rabbia
provenire alle sue spalle, prima che Kaim si abbattesse su di lei come
una
furia, come una belva feroce assetata di sangue, di vendetta. I tratti
delicati
del suo volto tesi e contratti in un’espressione di pura
furia, le unghie
appuntite usate come lame per graffiare, strappare, ferire quanto
più
possibile, infilandosi negli strappi della tuta scura per tentare di
penetrare
sino nella carne. I pugnali volarono via, sbalzati lontano
dall’impatto dei due
corpi contro il terreno, mentre le urla di entrambi squarciavano
l’aria. A soli
pochi metri di distanza Alaet osservava, impietrito e disarmato da
ciò che i
suoi occhi stavano osservando, dalla frenetica violenza con la quale
suo fratello
si era scagliato per difenderlo, dalla caparbietà con la
quale continuava ad
incassare e rispondere ad ogni colpo del suo assalitore; come se avesse
dimenticato sé stesso, come se non ricordasse più
il significato stesso della
compassione. La sicura del casco di Fire venne strappata via, e
l’elmo stesso
lanciato lontano dallo stesso Kaim, dalla sua volontà di
poter guardare negli
occhi colui, o colei, che aveva osato fare del male alla sua terra. Al
suo
popolo, alla sua famiglia.
Quel maledetto giorno, Kaim si specchiò nei suoi stessi
occhi. Vide i suoi stessi canini appuntiti scintillare rabbiosi in una
bocca
che ancora sputava insulti, il suo stesso naso in un viso
innaturalmente
pallido, ed una distesa selvaggia di capelli viola riversarsi
sull’erba tutt’intorno;
una creatura d’un altro mondo racchiusa nel corpo della
ragazza che ancora si
divincolava sotto di lui. Ma furono gli occhi, quei dannati occhi, ad
immobilizzarlo, a raggelargli l’animo ed offuscargli la
mente. Occhi uguali e
speculari ai suoi, occhi capaci di affondare dentro le sue paure ed i
suoi
abissi più profondi, per risvegliare qualunque mostro si
agitasse al loro
interno.
Una distrazione imperdonabile che la ragazza seppe
cogliere al volo, proiettandolo lontano da lei con un calcio,
approfittando
della sua confusione per scattare in direzione dei pugnali, nonostante
il suo
corpo iniziasse oramai a risentire dei colpi sopportati sino a quel
momento. Un
ultimo, disperato tentativo, spazzato via dal sottile raggio
d’energia che la
colpì ad una gamba, gettandola a terra con un grido
straziante di dolore.
Incapace di camminare, di fuggire, Fire non potè evitare il
colpo ben assestato
che la colpì alla nuca, ed il mondo tutt’attorno
si fece nero.
Alaet era di nuovo in piedi. Pallido, tremante, al limite
delle proprie energie, ma ancora vivo. E non avrebbe esitato a piantare
uno dei
pugnali nel cuore della giovane svenuta, se le mani di Kaim non si
fossero
strette attorno al suo braccio sollevato, fulminee e caritatevoli.
-Se la uccidessimo, diventeremmo mostri come loro,
scenderemmo al loro stesso livello. Ce lo ha insegnato papà,
ricordi? Ogni vita
ha il suo valore, anche quella del tuo nemico. Se la uccidessi ora, ora
che non
può difendersi, diventeresti come loro. Questo, io non posso
permetterlo.-
Per pochi, terribili attimi, Kaim temette le sue parole
si fossero rivelate vane. Lentamente, il braccio del fratello si
abbassò, ed il
coltello venne gettato a terra. Come se scottasse.
-Di quello che ne sarà di lei, deciderà il capo
del
villaggio. Ma sappi, fratellino, che da oggi in poi lei sarà
una tua
responsabilità.-
Un sorriso amaro, una mano a poggiarsi sulle spalle più
esili del ragazzo.
-Dimostraci di non essere più un ragazzino che ha bisogno
di essere protetto. Dimostralo a me, e soprattutto a te stesso.-
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So, hello
there you guys.
Ancora una volta ci ho
messo una piccola eternità ma, alla fine, ce l’ho
fatta. Un capitolo
lunghissimo, non c’è che dire, ma necessario per
voltare pagina ed immergerci
nel rapporto che si svilupperà tra Fire (che sia questo il
suo vero nome?) e
Kaim. Chissà, magari Sherin e Piccolo riusciranno finalmente
a ricongiungersi
con anche uno solo dei loro figli. No spoiler, no spoiler.
Grazie a tutti quelli che leggeranno
questo nuovo capitolo, a chi ancora si ricorda di questa storia
infinita. Se
anche uno solo si ricorderà di Behind, per me
sarà abbastanza.
See you soon.