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Autore: wrjms    18/11/2016    3 recensioni
Sherlock mostra a John il proprio palazzo mentale.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I don't have friends. I've just got one.'
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Ci vogliono almeno dieci minuti prima che la leggera cortina di fumo si dissolva e l'odore d'incenso, intenso a tal punto da fargli lacrimare gli occhi, se ne scivoli via per le finestre del salotto. Per riuscire ad aprire alla bell'è meglio i pesanti drappi che impedivano alla luce – e all'aria – di filtrare dai tre finestroni della stanza, John Watson ce ne impiega almeno dodici. Una nuvola di polvere si solleva ogni volta che tenta di smuovere una di quelle tende scure dal proprio posto; il medico militare, puntualmente, tossisce e lancia un'occhiataccia al coinquilino.
Sherlock non lo degna di uno sguardo. Con tutta sincerità, John Watson non è nemmeno sicuro che il giovane Holmes si sia reso conto del suo ingresso; se la distruzione ex abrupto del suo piccolo harem lo ha turbato in qualche maniera, questi non lo ha dato per niente a vedere, anzi, John giurerebbe di non averlo visto muoversi di un millimetro nell'ultimo quarto d'ora. Sempre lì, disteso immobile sul divano, vestito di tutto punto; le mani congiunte sotto il mento, le labbra leggermente dischiuse.
E a malapena il movimento dei suoi occhi, sotto le palpebre abbassate.
John sospira. È quasi totalmente certo che non stia dormendo, perché dalla cucina, dove è andato a poggiare la teiera e le tazze trovate abbandonate sul tavolino del salotto – si china ad annusarle: non riconosce l'odore; troppo speziato, per i suoi gusti, che diamine è? – intravede la porta socchiusa della camera di Sherlock e le lenzuola appallottolate ai piedi del letto: ha già dormito durante la notte. Troppo bizzarro che si sia assopito ancora. Ma allora che sta facendo?
John poggia le tazze nel lavabo e torna nel salotto per guardarlo. Qualche domanda, ora, inzia a ronzargli in testa. Sta respirando? Non ne è più molto sicuro. Sherlock Holmes ha la strabiliante capacità di distaccarsi totalmente dal mondo esterno e di non tornare alla realtà sino a quando le sue esigenze corporali più pressanti non richiedono altrimenti. Eppure il suo petto sembra quasi essere immobile; John giurerebbe di vedere il suo viso più pallido del solito, e forse il movimento delle sue palpebre se l'era solo immaginato.
In quel momento, la sua testa viene improvvisamente inondata dal ricordo pressante di un recente avvertimento di Mycroft.
Fa' attenzione. Temo che possa avere una ricaduta”.
«Maledizione».
Lo dice ad alta voce, scattendo verso il divano.
John Watson non è mai stato un tipo particolarmente ansioso; non su faccende di questo genere. Ma tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro e trovare il proprio coinquilino sommerso dal buio e dal fumo, a vegetare in stato catatonico sul proprio divano, non era esattamente fra i suoi piani principali per la serata. John si guarda attorno, improvvisamente agitato; cerca qualcosa, qualsiasi cosa che potrebbe rappresentare una spia d'allarme; siringhe, bustine vuote, qualche pillola. Niente. Non c'è niente. Poi gli viene in mente: il tè.
John si china di scatto di fronte a Sherlock. Il suo lato da medico prende il sopravvento. Gli prende il polso: l'ha fatto più di una volta, eppure in quel momento non riesce quasi a trovare il punto giusto dove premere il suo indice. «Sherl?», lo chiama. Non risponde. «Sherlock?», ripete, di nuovo, alzando un po' la voce.
«Mi duole screditare le tue teorie, John, ma non sto andando in coma tossico».
«Oh, per la miseria». Un momento in cui tutto è fermo. Poi John lascia andare il polso di Sherlock e si rialza, sollevato, mentre l'ultimo apre lentamente gli occhi. «Il tè...».
«Hampstead. Ginger green tea».
«Nient'altro dentro?».
«Solo una goccia di miele. E un po' di latte, ovviamente». Sherlock tende le braccia nell'aria, sopra la sua testa, stiracchiandosi; poi, con lentezza, si alza a sedere. «Non credere a ciò che dice mio fratello, John. Dovessi ascoltare ciò che pensa, sarei sull'orlo della disperazione ogni due giorni».
C'è qualche momento di silenzio. John si è seduto sulla propria poltrona e tamburella le dita sul bracciolo. Sherlock osserva silenziosamente qualcosa, al di là della finestra.
«E dunque stavi...», John chiede in un mormorio, incoraggiandolo a continuare la frase con un movimento della mano destra.
Sherlock aggrotta le sopracciglia, senza guardarlo. «Mmh?».
«Qui... al buio... a bruciare incenso e a... vegetare sul divano. Pregavi, meditavi, o...».
Sherlock sbuffa. «Per l'amor di Dio, John».
«E allora cosa?».
Il consulente investigativo tace per qualche secondo. Il suo sguardo si fa improvvisamente vacuo; nella sua mente, pondera velocemente se dire la verità. Mentire sarebbe troppo complesso. Stare zitto lo farebbe cianciare per ore. D'altra parte, non voglio essere disturbato, la prossima volta. Essere onesti sembra essere l'opzione più funzionale.
«Il mio palazzo mentale», dice, dopo un po'. E prima ancora che John abbia finito di dire “cosa?”, Sherlock ha già ricominciato a sbrodolare parole nella sua parlantina rapidissima e coinvolgente, talmente frettolosa da far chiedere a John, che a malapena riesce a tenere il filo, come faccia a scegliere così accuratamente le sue parole in un tempo tanto breve. Quasi si chiede se si sia preparato il discorso da tempo. «È una tecnica mnemonica antica, risalente ai tempi della Grecia classica. Consiste nella visualizzazione iconica dei propri ricordi in uno spazio conosciuto, ben studiato, finalizzata ad una memorizzazione a lungo termine quanto più efficace. Le immagini da rimembrare sono disposte così da apparire tautologiche a chi tenta di riportarle alla mente».
John ha la bocca leggermente dischiusa e lo sguardo confuso. «Puoi... ripetere dal pezzo sulla Grecia?».
Sherlock sospira. Odia doversi ripetere. Ma al tempo stesso sta parlando con John e il suo interesse in tutto ciò è cristallino, genuino, qualcosa di cui Sherlock non ha mai fatto esperienza. Aveva mai tentato di spiegare i meccanismi della sua mente a qualcuno, prima di allora? A malapena riesce a ripescare il ricordo; si tratta decisamente di una memoria sconveniente, di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Non lo sorprenderebbe realizzare di averla rimossa. Ma no, ecco: era un ragazzino, forse quindici o sedici anni. Lo aveva spiegato con le stesse identiche parole ad uno di quei bulletti della sua scuola – e si era ritrovato per terra, con l'uniforme piena di fango e i soldi del pranzo strappati di mano.
Batte le ciglia e ritorna alla realtà. John, sorprendentemente, non gli ha ancora sbraitato contro. Lo sguardo di Sherlock si addolcisce.
«Sarà più facile mostrartelo. John, chiudi gli occhi».
«Cosa– perché?».
«Fidati di me e basta. Così, bene. Ritto con la schiena...».

 

«John, concentrati. Questo passaggio è d'importanza colossale».
«Sono concentrato».
«Non abbastanza. Una dedizione totale alla nostra operazione si accompagnerebbe inevitabilmente ad una perdita di connessione con la realtà esterna. Ne hai avuto un esempio prima, vedendo me. Ovviamente, per raggiungere un tale focus è necessaria una padronanza mentale non indifferente, di livello certamente superiore a quello che tu...».
«Sherlock, chiudi quella dannata bocca».
«Va bene, va bene». Sherlock alza le mani in gesto di difesa. Perché lo sta facendo? John non lo può vedere: la benda che copre i suoi occhi gli impedisce di farlo. Riflesso incondizionato. Sherlock guarda John, in piedi in mezzo al salotto, bendato e con le braccia tese davanti a sé, e quasi medita di scattare una fotografia. Ha spostato le sedie e il tavolino dal centro della stanza per far sì che John non le urtasse; un peccato, pensa, sarebbe stato divertente vederlo inciampare.
«Sherlock? Non intendevo letteralmente. Cosa devo fare?».
«Hai visualizzato la tua prima stanza?».
«Sì».
«Gli oggetti al suo interno?».
«Non devo sforzarmi più di tanto. È la cucina. Ci sono stato dieci minuti fa».
Sherlock alza gli occhi al cielo e si siede sulla propria poltrona, guardando John mentre si dondola sui talloni e muove leggermente le braccia in aria, tentando di afferrare qualcosa che non c'è. «Stiamo per mettere il tuo primo ricordo dentro la stanza. Concentrati, e visualizzalo: ci sono dodici piccoli apostoli che si agitano dentro il lavabo, marciando come dei soldatini».
«Fantastico. Cosa dovrebbe rappresentare?».
«Il tuo compleanno, John. Dodici Marzo. Non è spettacolare?».
John si toglie la benda e gliela lancia addosso. «Il mio compleanno è il sette di Luglio».
«Spettacolare!», ripete Sherlock, come se non lo avesse sentito.

Cinquantasette minuti, ventitré imprecazioni e due tazze di tè più tardi, John ha completato la propria prima lezione sulla gestione di un palazzo mentale. Sherlock è raggiante; suona il suo violino quella che John ha capito essere la sua melodia preferita – Mozart: Concerto per violino No. 3 - ed emana orgoglio da tutti i pori. John, al contrario, non è totalmente sicuro di ciò che è accaduto; la tecnica mnemonica è in qualche modo efficace, sì, ma la sua indole più pigra e quieta lo dissuade dall'utilizzare il proprio palazzo mentale a tempo pieno. E poi i ricordi di John sono più mondani, meno astratti di quelli di Sherlock, più facili da ricordare con il metodo che ha sempre utilizzato. Il medico militare si accontenta di dare il contentino a Sherlock mentre questi sfodera le sue abilità da insegnante.
È così raro e stuzzicante vederlo parlare di qualcosa che ama...!
«Quindi», mormora, quando Sherlock ha terminato il brano; anche a John, la familiare melodia, inizia a piacere. «Prima, quando ti ho trovato. Memorizzavi qualcosa?».
Sherlock poggia il violino sul tavolo e, sovrappensiero, ne carezza la superficie lignea. «Facevo ciò che, in gergo scolastico, può essere definito un “ripasso”. Ho questo palazzo da quando sono ragazzino; per ricordare tutto ciò che c'è al suo interno è necessario che, di tanto in tanto, faccia una passeggiata e dia un'occhiata a tutte le stanze». Ora il suo viso si è fatto più malinconico, come se il pensiero di qualcosa, in quel caos di cassetti e di porte che è la sua mente, lo avesse fatto intristire. «L'incenso mi aiuta a ricordare. Il buio, a dissociarmi dalla realtà esterna». Con delicatezza, il suo pollice spazza qualche residuo di pulviscolo dal manico del violino.
«Quanto tempo impieghi? Per un... tour completo?».
«Ah, almeno tre o quattro ore, se sono concentrato a dovere».
John è sbalordito. «Tre ore?», ripete; Sherlock non risponde, ma l'angolo della sua bocca si curva leggermente verso l'alto. «Tre ore». E il medico s'inerpica ad immaginarsi corridoi infiniti, porte, basse, alte, tutte diverse l'une dalle altre; e poi scale, soffitti, sotterranei, terrazzi, finestre, cassetti e armadi, tende e caminetti, e ricordi sconvenienti nascosti sotto i tappeti, come fanno i bambini con le briciole dei dolci. John pensa alla difficoltà appena avuta per memorizzare un paio di date in una piccola stanza ed immagina quello sforzo moltiplicato per mille dati, per mille stanze, per mille corridoi.
«Vorrei davvero che le giornate durassero quarantottore e non ventiquattro, per poter fare questo», e con la mano indica le tazze di tè nel lavabo, l'incenso bruciato sul tavolino «quotidianamente. Ma, d'altra parte, se davvero una giornata durasse quarantottore, ne spenderei ventiquattro a lavorare». Con un'alzata di sopracciglia ripone il violino nella sua custodia.
«Com'è fatto?», chiede John, dopo una breve pausa. «Il tuo palazzo mentale. A cosa assomiglia?».
Sherlock tace per qualche secondo. Ripensa al ragazzino di vent'anni prima, quello a cui aveva parlato dei palazzi mentali. Ricorda i suoi pantaloni macchiati di fango e di erba sulle ginocchia, i suoi gomiti sbucciati.
Ma qui non c'è lui. Qui c'è John Watson.
«Chiudi gli occhi», dice, sedendosi lentamente sulla poltrona, davanti a lui. Questa volta, John obbedisce senza dir nulla. «Immagina una doppia porta di legno enorme, massiccia, con grosse colonne di marmo a proteggerne i lati, e sopra di esse un gran archivolto. Apri la porta». Le mani di John, poggiate ai braccioli, fibrillano quasi impercettibilmente, trascinate dall'immagine. E Sherlock, a bassa voce, mentre guarda la pioggia serale bagnare i tetti di Londra, lo conduce dentro la sua mente.


Angolo Autrice
Salve, Sherlockians!
Ripubblico questa shottina dopo che era scomparsa misteriosamente durante il casino di fine agosto, quando il server aveva cancellato varie storie e recensioni.
Come sempre, spero che la fic vi sia piaciuta e vi auguro una buona giornata (e lettura!).
Vostra,
WJ
 

   
 
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