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Autore: Elphie94    19/11/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxxi.
sotto la pelle


 

Insistetti nell'ignorare le domande che il dottore mi poneva, tradotte tramite Selene. Avevo mal di testa (per via della botta presa con l'elsa della spada), ma nessuna concussione; una mano contusa da quando me l'avevano pestata; e, infine, qualche livido e taglio sparso. Ero sporca di sangue (non mio), ma per il resto stavo bene. Era quello che ripetevo da circa un'ora.
«Sto bene» dissi per quella che speravo fosse l'ultima volta. Sfrecciai un'occhiata di fuoco al dottore, che arretrò. I miei occhi parevano bruciare, ma sapevo che non avrebbero mai avuto sugli altri l'effetto di quelli gialli di Erik. Perché questi sapeva incendiare le persone solo con lo sguardo. Quanto a me… mi serviva un po' di pratica.
Eravamo in una stanza del palazzo, una delle tante rimaste vuote e semi–distrutte dopo la battaglia. Era un peccato vedere il capolavoro architettonico di Erik andare in briciole (letteralmente), ma sapevamo tutti, anche Ezzat, Roshak e lo stesso Erik, che la guerra non lasciava che reliquie dietro di sé.
La guerra. Che idea stupida. Mieteva vittime ovunque andasse, lasciando dietro di sé solo ossa e fumo. E io ero una sua vittima e una sua fautrice, che lo volessi o meno.
«Come sta?» chiesi immediatamente quando vidi il Persiano avanzare verso di me, dopo aver bussato alla porta mezza sfasciata. Internamente, mi chiesi il perché di un gesto così infimo, ma poi capii: l'educazione di Nadir Khan era parte di lui, soprattutto verso due signore. Ora, questa definizione si atteneva a Selene, ma a me? Conservavo ancora una pelle umana, dopo tutto quel che avevo fatto? Avevo ucciso persone innocenti, per esempio le guardie dei sotterranei di Mazenderan – non mi avevano fatto male né mai me lo avrebbero fatto. Facevano solo il loro dovere. Eravamo nemici in nome di cosa? Ponderai sull'inutilità di tutto quell'odio, che aveva finito per pervadere anche me.
«Sopravviverà» rispose Nadir con un cenno sicuro del capo. Le mie ossa, il mio midollo, tutto fu invaso dal sollievo. Mi accasciai sul letto, sospirando. Era vivo. Erik era vivo. Ringraziai la sua brutta pellaccia, che questa volta aveva quasi rimesso, e dissi: «Posso vederlo?»
«Ha ancora la febbre, e dorme, ma sì, potete vederlo, Meg. Però prima devo chiedervi come state voi.»
«Non starò bene finché non lo avrò visto, lo sapete.»
Il Persiano sospirò. «Riuscite a stare in piedi?»
«Certamente.»
«Ottimo.»
Mi fece segno di seguirlo – educatamente, com'era suo solito. Selene mi trotterellò alle calcagna. E dove sarebbe potuta andare, quella povera ragazza? Non aveva altri che me in quel turbinio di morte. Ci avventurammo nei corridoi oscuri del palazzo. Erano disseminati di cadaveri, sia nemici che nostri. Avevamo vinto, ma a quale costo? Sentii Selene tapparsi la bocca alle mie spalle per soffocare un urlo di orrore. Chissà se conosceva qualcuno di quei soldati. Non glielo avrei mai chiesto.
Il palazzo sembrava fatto di cristallo, poiché sia sopra che sotto di noi potevo vedere la morte. Ed essa mi perseguitava dal suicidio di mio padre. Quando quel ciclo di torture avrebbe avuto fine?
Vi erano feriti gementi e dottori e infermieri improvvisati ovunque. Intravidi Ezzat e Roshak tra quella mischia, pronti a dare sollievo ad alcuni dei soldati mutilati. Mi stupii: due potenti che si preoccupavano davvero del popolo. Capii quel che Darya aveva cercato di dirmi quando le avevo chiesto perché la novella Khanum ispirasse tanta fiducia. Era una regina buona. E saggia, e forte in battaglia. Un bravo sovrano, come anche suo figlio.
«Non svegliatelo. Il dottore ha fatto quel che poteva: ha estratto il proiettile, gli ha ripulito la ferita, gliel'ha ricucita e fasciata, l'emorragia si è fermata. Ma sicuramente soffre molto.» Nadir non mi risparmiò i dettagli più macabri. Sapeva che ero abbastanza forte per digerirli, e così feci. Annuii ed entrai.
Il tanfo di morte che mi diede il benvenuto non era altri che l'odore della pelle infetta di Erik. Arricciai il naso, ma non commentai. Nadir sgusciò via non sentito, non visto, così come Selene: sapevano entrambi che dovevo restare da sola con lui.
Eccolo lì, steso sul letto, nudo fino alla cintola ma coperto dalle fasciature al fianco e dalle lenzuola. Non respirava: rantolava. Deglutii un fiotto di vomito che mi raschiò le pareti della gola, ma lo ignorai. Mi accostai piano. Gli toccai una mano ossuta. Era un inferno di febbre e rimorsi, la ferita all'anca gli stava scavando un solco di dolore che andava ingrandendosi, invadendo il suo corpo infranto. Bruciava, ed era strano per la sua pelle di solito fredda e morta. Il medico di corte aveva fatto il possibile per lui. Ora non restava che attendere. Ma la pazienza non era una virtù di cui potevo vantarmi. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Di certo non potevo lasciarlo in quello stato, da solo, preda dei suoi demoni e deliri… Lui che aveva combattuto i miei al mio fianco. Bagnai una pezzuola nell'acqua fredda, con l'intenzione di dare un po' di sollievo alla sua fronte in fiamme. Ma per farlo, avrei dovuto sfilargli la maschera. Per un attimo, esitai. Quando si fosse svegliato, la cosa non gli avrebbe fatto piacere. La sua reazione era prevedibile. Ma io non ero lì per far piacere a lui: ero lì per aiutarlo, e al diavolo le sue remore. Io non ne avevo più al riguardo. Gli sfilai quindi la maschera, il più delicatamente possibile. Tra l'altro non gli faceva bene tenerla indosso, non in quelle condizioni e con quel caldo torrido. Mi accigliai di fronte al suo viso devastato, ma non emettei alcun suono. Era un orrore, certo – nella mia mente ne era rimasta ben impressa l'immagine, difficile da dimenticare. La prima volta che lo avevo visto in volto, avevo pensato che fosse la cosa più repellente su cui avessi mai posato gli occhi. E a quel tempo, non mi sbagliavo. Ma adesso che avevo conosciuto altri orrori, ben più orribili perché tangibili dentro, e non solo nel corpo… No, non mi faceva più ribrezzo. Ora sapevo bene chi era lui, l'essenza che lo componeva. Era Erik, solo Erik. Il suo aspetto non era che una facciata distorta del suo sé…
E quella era l'unica cosa su cui valesse la pena concentrarsi al momento. Inspirai profondamente e gli tamponai la pezzuola bagnata sulle tempie. Respirava con rantoli affannati, come un cane dopo una corsa spericolata. Sembrava che qualcosa, dall'interno, gli stringesse i polmoni e il cuore e le costole in una morsa letale. Assomigliava più che mai a un cadavere in agonia, e questo lo rendeva una visione inquietante e pietosa insieme. Un morto non può soffrire, non soffre più… Ma Erik non era morto. Era umano, era vivo e il suo dolore era lancinante. Un involucro di ossa e tragedia, eppure sanguinava come chiunque altro. Sollevai un lembo del lenzuolo di seta leggera e osservai il suo petto scarno sollevarsi e abbassarsi a un ritmo dissonante, le abbondanti fasciature sulla ferita al fianco… Era così magro. Come poteva avere dentro di sé tanta forza? Più volte mi ero posta questa domanda, ma ormai avevo rinunciato a trovarvi una risposta. Molte cose in Erik erano inspiegabili. Gli tamponai la pezza sul collo e sulle spalle. Lui se ne avvide ed emise un rantolio indefinito. Non capii se fosse di sollievo o di dolore. Sapevo quanto fosse stoico – per quanto riguardava le ferite del corpo, sopportava tutto quasi con indifferenza, come se lo riguardasse da lontano. Ma soffriva comunque: solo, era difficile che lo rivelasse agli altri.
Dischiuse le labbra – se sempre si potevano definire tali, tanto erano sottili e disseccate, la chiostra di denti ben visibile nella maschera da teschio. Mormorò qualcosa di incomprensibile, e accostai l'orecchio per distinguere le parole. Forse voleva qualcosa.
«Erik?» mormorai, sperando di trarre un qualche senso da quello che probabilmente si sarebbe rivelato solo un delirio da febbre. Lui biascicò qualche altro suono senza senso, accompagnato da profondi sospiri. E poi lo udii: quel nome che non gli avevo sentito pronunciare da tanto tempo, un nome che risuonava alle mie orecchie ugualmente dolce e amaro.
«Christine…» 
Dentro di me, qualcosa si incrinò. Mi pareva che fosse udibile – lo scricchiolio delle ossa nella cassa toracica, il cuore stretto in un anello di piombo. Mi allontanai senza neanche capirne la ragione.  A cosa era dovuta quella mia reazione? Smarrita, rabbrividii e mi appoggiai alla testiera del letto, rialzandomi subito. Non era strano che, nel suo delirio, Erik chiamasse il nome di lei. Era immerso in una miscela di incubi e sogni: era normale che vi subentrasse il pensiero di lei, suo incubo e sogno più grande. Era qualcosa di cui io non facevo parte. Forse fu questo a farmi male, a un livello inconscio, troppo remoto perché riuscissi a decifrarne i segni: la consapevolezza che, in qualche modo, ero tagliata fuori da una parte della sua vita – la più importante. Arretrai di qualche passo, del tutto dimentica della pezzuola umida. Era assurdo, non avrebbe dovuto importamene fino a quel punto. Eppure quel nome mi aveva contorto le viscere, in modo non molto dissimile dal laccio del Punjab. Perché? Mi sembrava di sanguinare, ma lui non lo vedeva. Non poteva. Perché? Sapevo che, se Christine fosse stata lì, si sarebbe presa cura di lui con altrettanta dedizione. Il suo animo generoso non le avrebbe concesso il contrario. Forse Erik, la mente accecata dalla febbre e dai medicamenti, aveva pensato che ci fosse proprio lei lì, accanto a lui. Che fosse stata proprio lei a dare un po' di sollievo a quel volto già morto… Che avesse ingoiato ogni bile e fissato a lungo e senza disgusto quel suo corpo martoriato, quelle fattezze di indicibile bruttezza. Christine l'avrebbe fatto, al posto mio? Sì, di questo ero certa.
Ma adesso Christine non era lì. Probabilmente Erik non l'avrebbe mai più rivista al proprio fianco. Adesso c'ero io – ero io quella che sedeva al suo capezzale, che attendeva la sua guarigione. Io avevo affrontato con lui le desolazioni della Persia, le impervie onde del Mediterraneo, le solitarie campagne francesi. Mi ero immersa nel sangue, rimanendone quasi annegata. Ero sporca, malsana, un fantasma non meno di lui. Ma in lui c'erano ferite impossibili da risanare. Io avevo qualcosa a cui tornare… A lui non era rimasto più nulla se non quel nome.
Ci sono anch'io, avrei voluto dirgli. Non sei solo. Sono accadute troppe cose perché possa anche solo immaginare una separazione. Non ti lascerò a marcire, te lo prometto. Ma era inutile. Sapevo che sarebbe morto con quel nome sulle labbra. Non il mio…
Rimuginarci sopra non mi faceva stare meglio. Anzi, sentivo afferrarmi i piedi da grinfie invisibili che mi trascinavano giù, sempre più a fondo, in un abisso dove nulla mi sarebbe più stato comprensibile. Dove mi aspettavano l'ignoto e la follia.
Mi voltai, intenta a lasciarlo lì con i suoi rimpianti e ad affrontare i miei da sola, altrove.
«Meg…»  Raggelai. Forse avevo udito male. La mente poteva giocare strani scherzi.
«Meg…» No, era proprio lui. Avrei potuto riconoscere quella voce ovunque. E non veniva dalla mia testa.
Ritornai al suo capezzale, vagamente esitante. Lui mi chiamò ancora – lo vidi muovere le labbra disseccate, scandire ogni lettera… Gli sfiorai una mano.
«Sono qui» dissi. Lui aprì i suoi strani occhi dorati. Alla luce del lumicino, brillavano come due stelle, le uniche in un notturno cielo in tempesta. Mi guardò in modo indecifrabile: non riuscivo a capire se provasse un qualche sollievo nel vedermi davvero lì accanto a lui, oppure se i suoi sensi fossero semplicemente ottenebrati dalla morfina.
«Come ti senti?» chiesi, anche se non ero certa che potesse rispondermi.
«Io…» Fece una smorfia che sul suo volto apparve ancora più atroce. Tornò a fissarmi, studiandomi come a saggiare se fossi un'allucinazione o meno. Io gli strinsi la mano, per fargli capire che era tutto reale, che non ero uno spettro della sua mente… Non come Christine.
D'un tratto sgranò gli occhi, portandosi una mano al volto. Notai che sfiorò appena la carne devastata. Mi lanciò un'occhiata di puro orrore.
«Ho dovuto toglierti la maschera. Stavi bruciando e dovevo raffreddarti un po'.» Gli posai una mano sul braccio col fare più rassicurante di cui fossi capace. «Sta tranquillo.»
Lui fece per sollevarsi, ma si fermò subito, la faccia contratta dal dolore.
«Ma sei pazzo? Sta giù, non puoi muoverti. Ti si aprirà di nuovo la ferita.» Scostai le lenzuola perché vedesse le fasciature sul suo torace storpiato. Questo non sembrò iniettargli dentro un po' di buon senso. Mi dardeggiò contro un'occhiata di rimprovero tale che, se non l'avessi conosciuto, sarei fuggita a gambe levate. Ma io riconobbi nelle sue iridi giallo pallido un fondo di paura e stupore misto a infinita irritazione. «Come…?» farfugliò. Crollò con la testa sul cuscino, troppo spossato per aggiungere altro. Alla buon ora, pensai.
«Bravo» dissi con una punta di sarcasmo. «Hai capito. Adesso riposa, altrimenti non ti rimetterai mai in sesto. E io dovrò farti da infermiera per parecchio tempo.» Una prospettiva che non gradivo molto: non tanto per la fatica, anche se io stessa avevo bisogno di tranquillità, di "rimettermi in sesto". La verità era che non potevo sopportare di vederlo in quello stato. Mi si spezzava qualcosa dentro.
Per mostrargli che non avevo timore del suo aspetto, seguii le vene del suo braccio fino ai polsi, segnate da vistose cicatrici. Ne tracciai i contorni senza paura. Risalivano a molto tempo prima.
Lui mi gettò un'ultima occhiata di stupefazione, come se non credesse a ciò che vedeva. Prima che chiudesse gli occhi, vi vidi gratitudine e internamente ne gioii.
Quella notte dormì sogni più tranquilli del solito, e non lo udii più pronunciare il nome di Christine.
 

Trascorsero due settimane prima che la febbre calasse. In quel periodo rimasi al capezzale di Erik quasi senza requie, come sapevo che lui avrebbe fatto al posto mio se mi fossi trovata nella sua stessa situazione. Migliorava a vista d'occhio, e ogni tanto riuscivamo anche a parlare. Lo informavo sui progressi che stavano adoperando nella ricostruzione del suo palazzo – notai che utilizzava questo aggettivo quasi con possessività – e nella messa a morte dei traditori, a cui io non assistevo. Ero stanca della morte. Di notte, ne sognavo già troppa, e mi tormentava. Quella di Assiye non meno delle altre, stranamente.
Non ne parlavo ancora con Erik. Sapevo che era troppo malato per un discorso simile. Avrei aspettato che guarisse del tutto, per poi apprendere il suo consiglio. Tuttavia, la decisione finale spettava a me.
Un giorno Selene sedeva accanto a me al capezzale di Erik, cucendo delle filacce per il moribondo, che dormiva sogni inquieti per via della febbre. Il dottore veniva a cambiargli le fasciature ogni quattro ore e gli dava chissà quale miscela per farlo dormire, cosa che Erik detestava alquanto ma che era costretto a ingurgitare per sopportare il dolore, che solo dopo giorni e giorni andava alleviandosi. Io mi coricavo ben di rado nei miei appartamenti, preferendo rimanere a leggere insieme a Selene e a Monsieur Nadir – sì, spesso visitava anche lui il moribondo – di fianco al baldacchino di Erik. Ora era una di queste ultime occasioni, e la giovane interprete aveva appena finito di tradurre per me un libro di splendide poesie persiane.
«Non credevo fossi un'amante della letteratura, Meg.»
Ora mi dava del tu tranquillamente, cosa che mi faceva piacere.
«La noia cambia molto i caratteri delle persone» le risposi con un sorriso pungente. Lei ricambiò con uno molto più dolce. Inutile: mi ero affezionata a quella ragazza anche perché, in qualche modo, la sua gentilezza mi ricordava quella di Christine. La mia vecchia amica… Mi mancava davvero molto. Un suo consiglio mi sarebbe stato utile, adesso. Ma sapevo già cosa mi avrebbe detto di non fare.
Selene tornò ad occuparsi delle sue filacce, quando entrambe udimmo qualcosa che ci fece sobbalzare. Nel suo sonno febbrile, Erik aveva mormorato qualcosa.
Il nome di Christine, forse? Il mio? Quello di qualche conoscenza che apparteneva alla sua buia giovinezza?
«Che cosa sta dicendo?» chiesi a Selene, aggrottando la fronte. Erano parole in un'altra lingua, ne ero sicura. Quale, esattamente? Persiano? Ormai avrei dovuto riconoscerne la cadenza.
Dapprima, Selene divenne molto pallida in viso. Infine le sue guance assunsero una sfumatura rosea che mi stupì.
«Allora?» incalzai.
«Non credo di poterlo ripetere.»
Mi corrucciai. «É un'imprecazione?»
Lei si affrettò a scuotere il capo. «Oh, no, è… dolce. Ma anche privato.»
«Privato.» Strabuzzai gli occhi. «Ha amato una donna, in passato. Credo la ami ancora. Può riferirsi a lei?»
Selene arrossì di nuovo. «Beh, ha detto… qualcosa che in persiano significa mio sangue. Nel senso di “mio simile, mio amore”. Ti prego, non menzionarglielo.» Probabilmente temeva la furia vendicatrice dell'Angelo della Morte, ma dubitavo che, a questo punto, Erik avrebbe mai nuociuto a un innocente.
«Mio sangue» ripetei tra me e me. «Non ha senso. Dice solo scemate, anche quando dorme e ha la febbre. Quest'uomo mi farà impazzire.»
Selene soffocò una risata, e la conversazione terminò lì.
Mio sangue, pensai con uno sbuffo. Doveva essere una qualche sua bizzarra romanticheria. Di certo si riferiva a Christine, allora. Senza saper spiegare a me stessa il motivo, mi rabbuiai di nuovo all'idea. Avrei dovuto abituarmi.


Con gioia mia e del Persiano, il dottore lo dichiarò guarito quasi del tutto dopo tre settimane. Il palazzo era ridivenuto splendente, avevano spazzato via i cadaveri dei soldati e le pozze di sangue da terra, ma ai miei occhi mai avrebbero potuto cancellare il macello brutale che si era tenuto tra quelle mura. Il mio cuore era votato alla violenza, così come quello di Erik: per questo eravamo anime affini, ed era terribile il solo pensiero. Lo sapevo io, lo sapeva lui e lo sapeva anche il Persiano, che eppure non si intrometteva. Ma adesso ero stanca: volevo solo tornare a casa e riposare. Il mio era stato un lungo, lungo viaggio, niente affatto piacevole. Sapevo che ora Erik, in cuor suo, provava lo stesso. Eravamo come due corde dello stesso strumento, accordate sulla stessa nota.
«Hanno ripulito tutto. Ha quasi la bellezza di un tempo» gli dicevo un mattino mentre provava a sedersi, e respirai con maggior agio nel vedere che vi riusciva senza troppa difficoltà.
«Quasi?» puntualizzò lui.
«Alcune aree sono ancora… inagibili. È passato un mese, Erik, non puoi pretendere che…»
«Quasi» lo udii borbottare tra i denti. Indossava la maschera, naturalmente. Dopo la mia trovata di tanto tempo prima, e malgrado avesse apprezzato il gesto in sé, non aveva più voluto togliersela. Non che potessi biasimarlo, soprattutto se Selene era con me e Nadir a visitare il suo capezzale. Avrebbe regalato incubi alla ragazza inutilmente.
«Darya mi ha avvisato che domani ci sarà una festa. Ci sarà la musica, da bere, da mangiare…»
«Basta che ci sia il vino, e io sarò un uomo felice.» Sospirò e appoggiò i piedi a terra. Indossava solo le fasciature e un paio di brache, ma era pronto a sfilarsele. Dapprima mi ero ribellata a questa sua azione, che consideravo avventata (pensate: io che gli rimproveravo di essere avventato!), ma lui mi aveva assicurato che aveva già provato a fare la stessa cosa in presenza del dottore e che le ferite non si erano affatto scucite. Anzi, erano pulitissime. Di quella brutta avventura sarebbero rimaste solo le  cicatrici, e c'era da aspettarselo.
Lo guardai sfilarsi le bende dal torso magro e cadaverico con le braccia conserte. Tamburellai il piede sul pavimento.
«Sto bene» disse lui, impaziente quasi quanto me. «Te l'ho detto, non sverrò ai tuoi piedi in una marea di sangue.»
«Voglio comunque assicurarmene.»
«Come sei cocciuta.»
«Quale novità.»
Era un fascio di muscoli e nervi, bianco come osso. No, più bianco, se possibile. Esisteva una tonalità più chiara del bianco stesso?
«Le mie cicatrici ti attraggono tanto, fammi capire?» Parlava di quelle – tante – che esibiva sulla schiena, ora nuda. Arrossii come una bambinetta ingenua e resistetti alla tentazione di cacciare la lingua in una smorfia oscena.
«Illuditi. Perché non mi permetti di aiutarti?»
Questa volta fu il suo turno di arrossire. «Mi devo vestire. Io sono un uomo e tu sei una donna. E a meno che tu non abbia altri gusti…»
«Senti, senti! A chi davi della ragazzina fino a poche settimane fa? Mi consideri una donna solo quando ti fa comodo!» ringhiai. Poi aggiunsi, con fare più comprensivo: «Se ti vergogni, lascia che ti aiuti il Persiano. O il dottore. Qualcuno.»
«Non mi faccio fare da badante, io.»
Fu allora che persi la pazienza e mi gettai sul letto, accucciandomi al suo fianco. Lui sussultò, mentre mi dava di spalle. Poggiai una mano sulla sua spalla nuda e cicatrizzata – era assurdo il contrasto tra la mia pelle di bistro e la sua, mortalmente pallida e fredda – e lui saltò in piedi di colpo, reggendosi il fianco dove era stato colpito recentemente. La sua cicatrice più fresca e nuova.
«Non farlo mai più!»
«Sei un idiota!»
«Meg, per favore. Per favore. Tu non sai cosa sono.»
Quel sussurro straziato avrebbe fatto piangere un angelo; peccato che io non lo fossi. Lo osservai dal basso, incredula. Mi alzai anch'io, calpestando il pavimento di marmo lucido con forza. Sembravamo due pazzi a litigare in quel modo, ma non era la prima volta per noi e non sarebbe stata l'ultima.
Strinsi gli occhi a fessura e gli sfiorai un braccio, per poi stringerlo con determinazione. Lui si mosse, a disagio. Il tocco era dolore, per lui, e questo lo capivo; ma non il mio. Non ora. Doveva capire che non volevo detenere alcun controllo su di lui, in quel modo; che volevo solo dargli una mano.
«Lasciati aiutare. Almeno da me.» Ebbi l'immediato istinto di strappargli via la maschera, ma non osai. E meno male. «Io so perfettamente cosa sei.» Gli puntai un dito contro. «Sei un assassino? Niente di nuovo, lo sono anch'io. Sei un pazzo? Me lo hai già dimostrato ampiamente. Il tuo aspetto? Ebbene, lo conosco. Sei tutto questo e molto di più.» Sei anche il mio migliore amico.
Lui sembrò pensarci sopra. Poi pose una mano sulla mia – quella che gli stringeva il braccio – e allentò la presa molto dolcemente. Annuì, calmo come acqua stagnante. Gli sorrisi.
«Siamo compagni. Condividiamo tutto, ora, anche il dolore.»
Lui annuì ancora, una scheggia di stupore negli occhi gialli, felini, inquieti e inquietanti insieme.
«Solo la camicia» acconsentì. «I pantaloni so infilarmeli da me, eh.»
Arrossii e ridacchiai. Scommettevo che solo sua madre lo aveva visto nudo, neonato, per cambiargli il pannolino. Scossi la testa per togliermi quell'immagine ridicola dalla mente. Eppure, mentre lo aiutavo a infilarsi una comoda camicia bianca, non riuscivo a smettere di ridere.
«Mi fai il solletico» disse, giocherellando con i bottoni della camicia mentre io cercavo di infilarne uno in un'asola, scossa da risatine irritanti.
«Scusa. Lascia perdere. Ora mi calmo.»
Lo aiutai a vestirsi – almeno in parte – e fui lieta che avesse avuto l'umiltà di accettare il mio aiuto. Mi occupai degli ultimi tre bottoni, mentre lui mi studiava il polso come fosse un insetto interessante e lui un entomologo appassionato. Gli sfiorai il petto con un dito, seguendo i bordi di una cicatrice frastagliata. Notai che la sua pelle si era fatta lievemente più calda, anche se non tanto da sembrare viva.
«Ti fa male?»
«No.»
Sbagliavo, o il suo cuore sotto il mio palmo umido di sudore palpitava più rapidamente del dovuto?
«Meg…» soffiò lui, e io risposi, stranita: «Sì?»
Ci guardammo imbarazzati per un momento, in silenzio, senza sapere cosa dire. Era a dir poco bizzarro. Nessun silenzio tra noi ci aveva mai messo a disagio. Era per questo che la sua compagnia mi andava tanto a genio: era raro trovare delle persone con cui non ti sentivi in dovere di parlare.
Sussultammo entrambi quando Nadir entrò, bussando alla porta e permettendoci così di allontanarci l'uno dall'altra con un balzo.
«Erik, sei pronto? La Khanum ti aspetta per la colazione.»
Erik fece una smorfia. «Non mangerò. Sapete entrambi che non mangerò.»
Il Persiano fu a un passo dallo sbuffare d'esasperazione. «Come desideri. Vuole sapere come stai. Di persona, da te. In queste settimane si è tenuta costantemente aggiornata sulla tua salute.»
«É vero» confermai. Ero alquanto stupita che un sovrano avesse un tale riguardo in proposito, ma a quanto pareva questo tipo di persone esisteva veramente. Ora capivo perché era stato così facile sollevare il popolo contro Assiye, la tiranna, e perché quest'ultimo riponesse tanta fiducia in Ezzat, ora Khanum – sul trono che le spettava.
«D'accordo. Fammi portare la colazione in camera da qualche servo. E vino. Ho bisogno di vino.» Si massaggiò la radice del naso – beh, se avesse avuto un naso – quasi un pensiero fastidioso lo travagliasse.
Mi scostai ulteriormente da lui e lo salutai con un cenno della mano, che ricambiò. Mi chiusi la porta alle spalle quando rispose, alquanto seccato, ad una richiesta del Persiano: «Per l'amor di Dio, daroga! So infilarmi i pantaloni da solo, non sono diventato un neonato!»
Risi mentre me la filavo nei miei appartamenti, mai troppo lontani dai suoi, per fare colazione. Mi meritavo qualche altra ora di buon sonno, questo era certo. Evitai di pensare così alla scenetta patetica in cui Erik ed io eravamo rimasti a guardarci trasognati l'un l'altra, certa che non sarebbe accaduto più nulla del genere e attribuendolo alla solita follia, sicuramente passeggera, che mi attanagliava da qualche mese a quella parte.
Nessun problema, mi rassicurai. Ero una brava bugiarda.


Mi avevano depilata, imbellettata, vestita di tutto punto: Selene mi aveva prestato un suo abito, rosso e scollato sulla schiena, e io mi guardavo allo specchio sistemandomi il velo – sempre rosso – sul capo, e la frangetta ora ordinata. I miei capelli erano ricresciuti in quei due mesi fino ad arrivarmi alle orecchie, quasi in una parodia di un caschetto: ora potevo acconciarmeli in maniera decente.
«Sembri una vera persiana» si complimentò Selene con un lieve sorriso.
«Sembro solo ridicola. Per fortuna non porto tacchi, altrimenti su quei trampoli sarei caduta come una cretina.»
Selene ridacchiò. «Ma tu sei una ballerina. Come puoi essere tanto sgraziata in queste situazioni?»
«É la mia natura, incomprensibile anche alla sottoscritta.» Mia madre mi rimproverava allo stesso modo, ricordai. Una fitta di dolore mi attraversò il petto, e quel terremoto interiore dovette essere visibile sul mio viso. Selene mi strinse una spalla con la sua usuale delicatezza.
«Stai bene?»
«Sì.» Era abituata al mio stoicismo, alla mia ostinazione nel non voler rivelare i miei veri sentimenti, e capiva.
Mi accompagnò nella sala delle cerimonie, maestosa e dorata. Tutto brillava di gemme e preziosi: uno sfarzo che contrastava in modo nauseante con il sangue che aveva imbrattato le mura e le delicate piastrelle in ceramica dipinta soltanto poche settimane prima. La gente fuori dal palazzo – soldati e mercenari – gozzovigliava allegramente, cantando e ubriacandosi alla salute della regina e del nuovo Shah. Dentro, i nobili non si comportavano in modo assai diverso. Non conoscevo quasi nessuno in quella marmaglia: individuai Darya ed Amir, che mi salutarono e mi chiamarono a gran voce, ma io rifiutai il liquore e il loro invito e girai per la sala in cerca del Persiano. Non lo vedevo da nessuna parte. Corrucciata, lasciai Selene in balia di alcuni baldi giovanotti che le avevano chiesto un ballo e fuggii via, sul balcone, portandomi una mano alla fronte per detergermi il sudore. Dapprima l'idea di vestirmi in quel modo elegante mi aveva rallegrata, per qualche motivo, ma ora il lezzo ammorbante del sudore e della calca mi dava allo stomaco. Non ero mai stata tipo da feste. Non che mi trovassi a disagio, semplicemente mi annoiavano. Ricordai che per mia madre era valsa la medesima cosa: un'altra daga nello stomaco. Mi accasciai per terra e guardai in alto, dove la luna si rifletté nei miei occhi e mi inondò di un bagliore bianchissimo come il marmo, come la pelle di Erik. A proposito, dov'era? Probabilmente confinato nelle sue stanze. Doveva ancora riposare. Sicuramente ad Ezzat avrebbe fatto piacere la sua presenza lì – l'avevo intravista sul trono, che intratteneva alcuni dignitari con l'usuale grazia. Roshak era più intento a ridere dei maghi di corte e dei loro giochi d'illusione. Sapevo che Erik, se fosse stato presente, avrebbe offerto uno spettacolo assai migliore – magico – di quei buffoni.
«Madamoiselle, stai bene?»
Parli del diavolo…
Sollevai il capo e lo vidi stagliato dritto dinanzi a me, contro il parapetto del balcone. Mi offrì una mano quando diedi in un assenso, ed io l'afferrai senza pensarvi molto su. Nessuno dei due faceva il primo passo per allentare la presa, e le nostre dita continuavano ad essere intrecciate come un nodo scorsoio. La musica – melodie molto differenti da quelle a cui ero abituata all'Opera, di certo accattivanti per un orecchio come il mio – giungeva dalla sala insieme al rumorio dei convitati. Potevo quasi udire la voce smorzata e calma di Ezzat e la risata roboante di Roshak, ma mi concentrai sugli straordinari occhi dorati del mio amico, curiosa di leggervi dentro.
«Danzeresti con me, Monsieur?» chiesi stringendomi a lui.
«Sei molto sfacciata.»
«Ovviamente.» Tracciai una scia invisibile sul suo petto, seguendo la cicatrice che – lo sapevo – giaceva sotto la stoffa. «Non hai una strana sensazione di deja-vù
Lui sorrise. «Certo. Dovevi essere proprio un'insolente, per chiedere un ballo alla Morte Rossa.»
«Non l'ho chiesto alla Morte Rossa» osservai, ferma. «L'ho chiesto a te
Lui mi guardò stranito, rabbuiato. Mi sfiorò la mano che gli stringevo al petto e le mie viscere divennero acqua.
«Meg…»
Oh, no, non di nuovo. Non di nuovo quella patetica scena imbarazzante di silenzio tra noi due. Deglutii. Lui sembrava una statua. Mi stringeva ancora la mano.
Non dissi nulla. Sentivo che qualcosa si sarebbe rotto, se avessi proferito parola.
«Eccovi qua!»
Una voce ridondante ci fece sobbalzare. Lui si allontanò da me di colpo, con un balzo di almeno mezzo metro. Io feci lo stesso, rossa in viso, ma mai quanto lui lo era sul collo e le orecchie.
Amir, palesemente ubriaco, doveva essere sfuggito al controllo della moglie. Ci passò le braccia sulle spalle. «Interrompo qualcosa?»
«Assolutamente no» rispondemmo Erik ed io all'unisono, forse un po' troppo velocemente.
«Miei cari, perché non venite a danzare con noi? Non sei forse una ballerina, Meg? E guarda come sei carina stasera!»
«Attento, Darya potrebbe diventare gelosa» lo ammonii con un sorrisetto.
«Di uno scricciolo come te? Ma no. Oppure potrebbe diventarlo lui. E allora sarebbero guai» fece Amir con un cenno della testa ad Erik, che arrossì di nuovo e si aprì in una smorfia.
«Sono certa che non abbia nulla del genere in programma» intervenne Darya, che finalmente ci aveva raggiunti. Prese per un braccio il marito e mormorò un “scusate” mentre lo trascinava via, lui che urlava ancora se volevamo dell'arrack.
Erik ed io ci guardammo un attimo. Poi scoppiammo a ridere come due imbecilli.
«Io vado a prendere qualcosa da mangiare. Ho un certo languorino. Ti raggiungo dopo.»
Lui annuì ed io mi voltai, rientrando nella sala, non prima di avergli rivolto la domanda: «Sei sicuro di non volerti unire alla festa? Potrebbe essere divertente. Potremmo spettegolare sui nobili invitati e i loro aristocratici deretani.»
Lui sorrise. «Faresti meglio a non farti sentire dallo Shah.» Sapevo che era un no. Beh, ci avevo provato. Almeno con la sua compagnia la festa sarebbe stata sopportabile. Mi avviai per la mia strada, decisa a raggiungerlo in seguito. Mi riempii un piatto di svariate leccornie – scelsi in base a quelle che dall'aspetto e l'odore mi parevano più invitanti – curiosa di provarle tutte. Sorrisi a Selene, ancora impegnata nei balli. Avevo l'impressione che non fosse abituata a dire di no molto spesso, e quindi non poteva rifiutare. Risi tra me e me nel vedere finalmente il Persiano circondato da belle donne eleganti che pendevano dalle sue labbra. Lui, un po' in imbarazzo, raccontava – come mi rivelò in seguito – dell'esotica Francia e dei suoi costumi.
Quando raggiunsi il balcone dove Erik mi attendeva, notai che non era solo. Mi fermai sulla soglia, nascosta dietro una tenda di velo e perle rosate. Osservai le due schiene dinanzi a me. Una era di Ezzat, sicuro come il mio nome era Marguerite. Per mia fortuna, parlavano francese.
Non so quale diavolo in me mi suggerì di rimanere ad origliare. La mia povera madre mi avrebbe tirato le orecchie per quella insolenza, ma io non mi curai degli scrupoli. Ascoltai.
«Devi essere molto stanco.»
«Lo sono.»
Una breve pausa. La brezza estiva scostava il lungo velo intarsiato di brillanti dalle spalle regali di Ezzat.
«Sei molto affezionato a lei. Lo vedo.»
Capii che si stava riferendo alla sottoscritta quando aggiunse: «Vi ho visti insieme, prima.»
«Non si sbircia in modo così sfacciato» disse Erik con un sorriso sarcastico, come a voler liquidare la faccenda. Ma Ezzat era più saggia. Gli posò una mano sul braccio in un gesto protettivo.
«Stai attento. Khan mi ha già detto che sei stato deluso una volta…»
«In quel caso il biasimo era tutto mio. Inoltre, ora è differente.»
«Cosa provi per lei, Erik?»
Se qualcun altro – qualsiasi altro – gli avesse posto la medesima domanda, lui si sarebbe limitato a rispondere con uno sbuffo beffardo e una minaccia a metà. Con la regina, questo non era possibile.
«É… un'amica. Una compagna molto preziosa.»
Ezzat – potevo scorgere il suo profilo – aggrottò la fronte e annuì a quella risposta. Io non sapevo cosa provare. La logica a cui sempre mi affidavo mi diceva che dovevo essere lieta di una risposta simile. Era la medesima che avrei dato anch'io, se qualcuno mi avesse chiesto i miei sentimenti nei suoi riguardi. Eppure… C'era qualcosa di innominabile che mi rodeva dall'interno. Qualcosa come un cuore che si ostinava a pulsare malgrado stesse per finire i suoi battiti.
«Ehm.» Li interruppi prima di lasciarmi andare ad altre riflessioni dolorose. Sapevo che mi avrebbero fatto visita nei sogni, quella notte.
M'inchinai frettolosamente. «Salve» dissi, sfrontata e impacciata insieme. Ezzat mi rivolse un sorriso. Le offrii qualcosa dal mio piatto, ma lei declinò con gentilezza.
«Sei molto cara, ma mi sono già servita di tante portate da rivaleggiare con mio figlio.»
«Non credo che nessuno potrebbe rivaleggiare con lui in tal senso.»
Lei rise della mia insolenza. Ci salutò e ritornò al suo trono, dove i convitati l'aspettavano.
«Il rosso ti dona» mi disse prima di andarsene.
«Grazie» risposi, stupita.
Con Erik non accennai alla conversazione che avevo origliato e alle sensazioni che aveva prodotto in me. Feci finta di nulla, e mangiai e parlai tranquillamente con lui. Rimanemmo insieme per tutto il tempo, appoggiati al davanzale del balcone. Nessuno venne a disturbarci.
Ma io avevo un'ultima cosa da fare prima della fine, ed Erik lo sapeva.
«Ci stai ripensando» disse quando ebbi finito di ingozzarmi. Ingollai un sorso di liquore fruttato.
«Mmm» mi limitai a dire, e lui sospirò dietro la maschera.
«Meg, è finita. Assiye avrà la giustizia che merita.»
«Sì, lo so.»
«Questo non ti fa dormire sogni più tranquilli?»
«Più o meno.» Fissai l'orizzonte, la bella vista di Mazenderan dove tanto tempo prima Erik aveva tinto di rosso la sua corte. Un'altra tragedia vi si era abbattuta, eppure noi festeggiavamo come se si fosse trattato di un'occasione gioiosa. In parte lo era, perché avevamo vinto, ma… cosa avevamo vinto, di preciso? Tutte quelle vicende mi avevano fatto riflettere. Non importa chi siano le vittime, pensai. Sempre di morti si parla. Non c'era proprio nulla da festeggiare.
«Ho preso una decisione.»
«Bene. Non che prima fossi meno ferma al riguardo.» Mi osservò di sottecchi, attento. Mi sentii scandagliata fin nel profondo.
«All'alba… Mi accompagneresti a fare una visitina alle prigioni? Non che non ricordi la strada. Ci so arrivare anche da sola. Però…» Mi strinsi nelle spalle, colta da un brivido improvviso.
Lui si sfilò il mantello e me lo pose indosso, con delicatezza.
«Grazie…» sussurrai, stupita, immergendomi nel suo odore familiare.
«Non preoccuparti. Ci sarò, fin quando mi vorrai.»
Osservai la luna che ci bagnava di bianco sopra le nostre teste. Sarebbe stato così ancora per molto tempo, lo sapevo. Anche se non conoscevo il perché.


Il freddo dei sotterranei mi correva lungo la schiena in brividi simili a serpi striscianti. Deglutii, avvolta in un paio di calzoni e una giacca scura che emanavano un rilassante effluvio di lavanda – pulito, così in contrasto con il luogo nel quale stavo per addentrarmi. Dietro di me, percepivo la presenza rassicurante di Erik. Lo avevo voluto con me per essere testimone della mia rinnovata sanità mentale – se l'avrei mai più ritrovata, poi. Quello era un interrogativo che ancora mi torturava. E in gran parte lo dovevo alla donna a cui stavo andando a far visita quell'oggi. Mi conficcai le unghie nel palmo sudato della mano fino alla mandorla. No, non dovevo cedere. Per una volta, solo una volta, avrei lasciato da parte i miei istinti più oscuri per dare retta alla voce della ragione.
Inizialmente le guardie non volevano permetterci entrare, ma un'occhiataccia di Erik le ridusse al silenzio. Sapevo che Ezzat sarebbe venuta a conoscenza di quella mia avventura nelle segrete del castello di Mazenderan, ma non mi sarei opposta. Avrei dato una conclusione anche alla nostra conversazione, più o meno muta che fosse.
Erik rimase indietro, come di mia richiesta, e io raggiunsi la cella più angusta di tutte. Quando la vidi rannicchiata in un angolo, gli abiti lussuosi che le cadevano addosso come un velo, lo sporco sul viso mischiato al sangue, quasi non la riconobbi. Ma quando mi lanciò un'occhiata scintillante da sotto la frangia nera come bitume, non tardai a rammentare lo sguardo da tigre di Assiye.
«Tu. La puttana di Azrael. Quasi non ti aspettavo più.» Mi squadrò da capo a piedi. «Sei pulita.»
«A differenza di qualcun altro.»
Lei non si lasciò scalfire. «Quasi non ti riconoscevo. Senza – sai – il sangue.»
Mi morsi un labbro, ma non cedetti. Mi avvicinai con passi lenti, misurati. Senza preavviso, le afferrai la testa per i lunghi capelli sporchi e le tirai un pugno in faccia talmente forte che finì a terra a sputare un dente e una boccata di sangue.
Rise sguaiatamente. «Sei venuta per finirmi, piccola sgualdrina straniera?»
«Non dovresti usare quel linguaggio contro una che ha la daga dalla parte del manico.»
Lei rise ancora. Il sangue le gocciolava dalle gengive molli. «Allora? Dalla prima volta che ti ho visto, ho saputo che desideravi farmi fuori con tutta te stessa. In modo lento, doloroso. Come la tua mammina, presumo? Sì, immagino di sì.»
Non risposi.
«Sei pazza.»
«Mai quanto te.»
«Condividiamo più cose di quanto sembri, non è vero?» Lei distese quel sorriso rosso. «Ma rifletti. Se mia sorella sapesse che l'hai privata di un'esecuzione plateale…»
«Non ci sarà nessuna esecuzione. Non per te, almeno.» Questa volta fu il mio turno di sorridere malignamente. Assiye aggrottò la fronte.
«Erik le ha parlato. Lei è d'accordo. Anzi… questa era la sua idea fin dall'inizio.»
«Erik, certo. Il tuo adorato.»
«Non è…»
«Non lo desideri, forse? Io sì, lo desideravo. Ma poi mi stancai anche di lui. Era un'arma. Presto ci si stufa del proprio giocattolo.»
Sbattei le palpebre. Quindi Assiye aveva provato, nella fanciullezza, una sorta di macabra e contorta attrazione per… per Erik.
«Sadica come sei, probabilmente ti eccitavi vedendolo uccidere la gente.»
«Sono tanto prevedibile?»
«No. Sei solo un mostro. Tutti i mostri lo sono, per una mente allenata.»
«E ricordati che anche il tuo amico lo è. Un'arma, ho detto prima. E non si smette mai di esserlo. Si è allenato per uccidere i propri nemici e chiunque gli sbarrasse la strada.»
«Anche io. Mi sa che è per questo che andiamo tanto d'accordo.»
Tra noi cadde il silenzio. Si udiva solo il gocciolio di umidità sulle pareti di salnitro.
«Non avrò la gioia di guardarti morire. Erik aveva ragione fin dall'inizio: non mi riporterà indietro mia madre e tutto ciò che mi hai rubato. Non farà cessare i miei incubi, né il sangue che imbratta le mie mani finirà di pulsare. Ci sarà sempre e solo quello.»
«E allora cosa vuoi, ragazza?» Adesso sembrava arrabbiata. Certo, non sapeva dove volessi andare a parare.
«Vedi, ho un'amica che sarebbe stata in grado di pronunciare le parole “ti perdono”. Sarebbe stata molto più forte di me – di una forza incancellabile. Ti avrebbe annientato con nove lettere, e si sarebbe sentita in pace con se stessa. Ma io non sono lei.» Non volevo rivelarle il nome di Christine. Sorrisi amaramente. «Mi accontenterò di saperti agonizzante in questa cella buia, umida, fetida e fredda per il resto dei tuoi giorni. Questa, per me, si chiama giustizia.»
«Agonizzante?» ripeté lei. Non capiva. «Mia sorella – la Khanum – ha voglia di farmi pestare ogni giorno fino a farmi rivoltare le budella?»
«Non esattamente. Tu ami tuo figlio?»
Lei si irrigidì. «Cosa?»
Non attesi una sua risposta. «Probabilmente sì. Vedi, lui è ufficialmente colpevole dei crimini del suo regno. Perché era il suo regno, o mi sbaglio? Tu eri solo la regina madre. E la folla richiede la sua testa. Anche la tua, ma quella è un'altra storia.» Inclinai il capo mentre vedevo la sua bocca riempirsi di nuovo di rosso e i suoi occhi di lacrime. Stava cominciando a capire. «Vedrai tuo figlio morire senza la possibilità di fare nulla. Impotente come lo sono stata io. Come lo sono state tutte le tue innumerevoli vittime. E rimarrai in questo lurido posto, nelle segrete del tuo palazzo, a scontare la pena più grande di tutte.»
«Quale?»
«La sopravvivenza.»
Lei scoppiò a ridere, i polsi avvinti dalle catene che la imprigionavano. Era una risata folle – come il mio canto di vendetta dopo che avevo ucciso per la prima volta (il sangue di Senza Nome sulle mie mani, insieme a quello dei miei genitori), come può essere soltanto quella di una madre che sa di star per assistere alla fine dell'unico essere che ama a questo mondo. Come poteva essere soltanto quella di Assiye.
«Fa male» disse lei, quasi sorpresa nello scoprirsi a provare dolore per una circostanza simile. Si sfiorò il petto. «Ho sempre sognato di sedere su un trono più in alto di chiunque altro, ma alla fine mi hai davvero strappato il cuore, come volevi.» Mi guardò con quei suoi occhi luccicanti di lacrime, rabbia, sudore e angoscia. «Sei soddisfatta?»
«No» dissi con gelido distacco, apatia, narcosi. «Non sarò mai soddisfatta.» E, senza guardarla un'ultima volta, girai sui tacchi e me ne andai.


Seppi che si era lacerata i polsi con la catena che li avvinceva la sera prima dell'esecuzione di suo figlio. Che non fu rimandata, e alla quale non assistetti – avevo la nausea di tutto quello.
E, di nuovo, non ero soddisfatta. Non lo sarei stata mai, mai più.



Note dell'Autrice: Rieccomi con un nuovo capitolo. Che ne pensate? Sì, lo so, state diventando impazienti di vedere questi due – intendo, Erik e Meg – combinare qualcosa di concreto. Ma è un processo lento. E, come si vede da questo capitolo, lui è ancora preso da Christine (sarebbe OOC, non trovate? Anche se…). E Meg – si renderà mai conto dei suoi sentimenti per quel vecchio bastardo? Beh, vedrete come e quando. Abbiate ancora un po' di pazienza, vi prego.
Per quanto riguarda i miei affari personali, queste due settimane sono state… strane. Ho avuto la febbre, ho lasciato l'università per lavorare (momentaneamente, visto che l'anno prossimo cambierò facoltà), e Trump ha vinto le elezioni (non so voi, ma… bleah). Insomma, non sono al mio meglio, e non ho scritto granché in questo periodo. Mi mancano un capitolo e mezzo, più l'epilogo, alla fine di questa storia. Non posso ancora credere di essere arrivata a questo punto. Spero che vi abbia divertito, finora.
E ora, le recensioni:

ondallegra: La tua critica è più che costruttiva e, in effetti, si fonda su basi concrete a cui neanch'io avevo pensato: ora ti spiego perché. Allora, io sono un'egocentrica incredibile – dillo a tutti quelli che mi conoscono bene – e sì, naturalmente il racconto è visto dal punto di vista di Meg, che non poteva sapere cosa fosse successo in battaglia poiché impegnata in un'altra – e il fatto che si salvasse da sola era molto importante, visto che fino a questo momento lei stessa si era lamentata di come questo la differenziasse da Christine e la rendesse “dipendente” da Erik. Ora, ripeto, da egocentrica, scrivo quello che a me piacerebbe leggere, ed è un difetto: pensavo semplicemente che ai miei lettori non interessassero i dettagli della battaglia. Tutto qui. Il pathos che avevo creato, a tuo dire, per suddetta battaglia era riferito più a quel che vi avrebbe combinato Meg che agli altri. Scusami se ti sono parsa negligente sotto questo punto di vista. Mi sa che hai ragione. (Non sono affatto offesa, anzi.)
Per il resto, sono così felice che tu ti sia emozionata nel leggere il capitolo precedente! E grazie per avermi riconfermato che Erik è IC. È così difficile da trattare, il maledetto! E hai analizzato benissimo l'evoluzione di Meg. La morte la segue dappertutto… eppure ciò che le ricorda la sua umanità, l'essere viva, è il legame con Erik, fatto di morte dalla testa ai piedi. (Ho dei lettori così intelligenti. Sono fortunata.) Spero di non averti deluso con questo nuovo capitolo. Un bacio. <3

debbythebest: Grazie per i complimenti. Macché bravissima! Sono solo una scribacchina che ama tanto scrivere delle sue fantasie contorte. Lieta del fatto che i due testoni – Meg ed Erik – non ti sembrino OOC. Sono ossessionata dal renderli più IC possibile, malgrado le circostanze. (E scusa per l'ansia. Dai, che finirà presto.)
Un bacione anche te, cara! <3

bibliofila_mascherata: Ma grazie a te! Addirittura peggio di Assiye? Ehehe, sappi che sto ridacchiando sotto i baffi. Sono contenta che ti piacciano così tanto quei due sfigati di Erik e Meg, e aspetta e vedrai (intendo, per il bacio che tutti stiamo attendendo con ansia).  E sì, anch'io voglio un Erik tutto per me (magari con il naso XD) :3 Ormai non mi stupisco più dei miei gusti in materia di uomini: sono MOLTO strani e ne sono consapevole. XD Per quanto riguarda i miei genitori, prima di fidanzarsi erano infatti molto amici (si sono conosciuti alla festa di compleanno dei 21 anni di mia madre, figurati), poi hanno capito di provare qualcosa di più, e così via… il resto è storia, come si suol dire. Sette anni di fidanzamento e venticinque di matrimonio, più tre figli (la maggiore sono io). Malgrado i non pochi problemi, si vogliono sempre bene, e questo è un sollievo per me e i miei fratelli.
Sono davvero una delle tue scrittrici preferite? Ma se sono solo una scribacchina sfigata! Sono comunque onorata. Ti adoro. *__*
Per quanto riguarda l'università, molto è in gioco in questi ultimi tempi. Sto anche valutando se frequentare solo un paio di corsi (quelli che più mi interessano) prima di cambiare facoltà in un'università più vicina alla mia città. Beh, vedremo… Vorrei lavorare, più che altro. Ma se non trovo un lavoro, che faccio, quest'anno? Non posso rimanere con le mani in mano tutto il tempo. Poi, non è che abbia molti amici con cui uscire e spassarmela – mai avuti, quelli. Vorrei uscire con tutti voi – che bel gruppetto che faremmo – ma abitiamo lontano! Mannaggia. :(
Grazie per il “sei intelligente e in gamba”. Non credo di esserlo granché, ma grazie comunque, cara. Tvb, un bel bacio. <3

   
 
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