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Autore: were_all_dead_now    20/11/2016    4 recensioni
Quando vai a scuola, nessuno ti insegna a vivere.
Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
[...]
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo capitolo è stato lento. E' stato improvviso. E' stato strano. Ed è stato difficile scriverlo. 
Son passati dei mesi, lo so. Però me ne sono resa conto soltanto adesso. 
Ho pensato parecchie volte a questa storia. Mi ritrovavo a scrivere frasi su frasi, discorsi scollegati da tutto il resto. Ma dopo tutto questo tempo ho messo insieme il capitolo che state per leggere. Non credo di avere ancora il pubblico di una volta, ma va bene così. Non ho la pretesa di avere la vostra totale attenzione dopo un'attesa del genere. E per questo vi chiedo scusa, e chiedo scusa alla storia, che meritava forse un'autrice migliore. 
Ma siamo ciò che siamo. 
Questa volta non ci sarà nessuna canzone da ascoltare. Nessun testo da leggere.
La citazione che introduce il capitolo è presa dal De Brevitate Vitae di Seneca. L'autore latino che sento forse più vicino. 
La traduzione non è probabilmente accurata, ma purtroppo è il meglio che sono riuscita a trovare. 
Ringrazio molto molto sinceramente tutti coloro che hanno recensito il precedente capitolo e che hanno scambiato qualche parola con me in privato.
Mi scuso anche con loro per le mie risposte altalentanti, ma ho avuto davvero parecchio da fare in queste ultime settimane.

Questo capitolo non l'ho riletto, ma so che ha un po' il sapore di una fine. Sento che sta per arrivare. Preparate le cinture.
Si viaggia.

 



CAPITOLO DICIOTTESIMO - PARTE TERZA 

Ci vuole tutta una vita per imparare a vivere, e, ciò che forse ti stupirà di più, ci vuole tutta una vita per imparare a morire.

( Seneca - De brevitate vitae )


 
 
 


Il suo tocco di quella notte lo sento ancora su di me. A volte penso di essere impazzito.
Ci muovemmo come se fossimo fuori dal tempo.
 
E non c’è tempo. Non ce n’è mai.
Gerard una volta mi disse che siamo noi a crearlo.
Io invece mi sentivo solo in grado di distruggerlo. Di distruggere.
 
Ma la base di ogni creazione sta lì. E’ il crollo di tutto ciò che è esistito in precedenza.
Come un punto a fine frase, azzerare un cronometro, fermare una corsa.
Non possiamo iniziare senza una fine. Non siamo nessuno, se non abbiamo fine.
 
Ma non è facile avere la morte negli occhi. Non si è mai pronti a raggiungere un punto limite.
 
E le dita di Gerard erano così delicate, così piene d’amore. Faceva quasi male.
Io non avevo davvero il coraggio di guardarlo.
Era troppo vicino, era troppo presente, troppo vivo e reale per poter capire.
 
La sua mano scorreva leggera sulla mia schiena e arrivava decisamente più in basso, per poi spingermi contro il suo bacino. Aprii la bocca sulla sua, e vi gettai dentro un gemito strozzato.
Troppo concreto, troppo vicino.
 
Col viso gettato all’indietro e il collo esposto ai miei baci, Gerard sussurrava contro il soffitto quanto fossi bello. Come se non mi avesse davanti, addosso.
Io sentivo la sua pelle sulle labbra; liscia, bianca.
E i miei capelli neri tra le sue dita, che si aggrappavano fitte come a non voler mai più lasciare andare.
 
E io non avrei mai voluto lasciar andare. Esistono momenti che non siamo pronti a smettere di vivere. Esistono persone che non sappiamo lasciarci alle spalle.
 
Quella notte mi urlava all’orecchio che non può esistere futuro più importante del presente.
E non importa chi saremo, chi ameremo, chi diventeremo. Non importa nemmeno di chi sentiremo la mancanza. Ci sono attimi presenti che vale la pena di vivere, a costo di dover morire subito dopo.
 
E saremmo morti in ogni caso, io e Gerard. Metaforicamente e non.
Sarebbe morto il suo tocco su di me, e l’avrebbe fatto con l’arrivo del sole.
Sarebbe morta quella notte, a breve, e io non avrei dovuto avere paura.
Perché la morte è inevitabile, e l’inevitabile non c’appartiene. Perché cade al di fuori di noi stessi e di ciò che siamo.
E le energie che abbiamo moriranno con noi, e dovremmo usarle per plasmare il possibile.
Per arrabbiarci, sporcarci le mani, far curvare una schiena, alimentare la voglia di conoscere e sentire addosso il fascino di ciò che non sappiamo.
E quando arriverà una fine stringeremo niente e tutto. Perché è questo l’equilibrio su cui muove i passi la vita.
 
A me bastò semplicemente inclinare appena il viso per sentire il sapore di ciò che è destinato a durare solo un istante. Per avere le narici piene di un odore che ti ricorda qualcosa, anche se non sai bene cosa.
 
Joyce parlava di epifania in riferimento a quegli attimi, visi, gesti che ti spingono alla realizzazione del vero significato di tutto. Dell’essenza della vita.
Quella notte la mia epifania arrivò quando mi staccai dalle labbra di Gerard e lo guardai negli occhi.
E io seppi che nello stesso secondo, uno dentro lo sguardo dell’altro, pensammo entrambi alla stessa cosa.
Ma solo uno di noi ebbe il coraggio di darle voce.
 
Me lo sussurrò all’orecchio.
Fu caldo, lento, doloroso, troppo importante.
Era il suo ultimo desiderio. Lui, che aveva fretta di vivere perché non poteva più farlo, e io che avrei voluto diluire il tempo per renderlo più lungo. E nessuno di noi era più lo stesso.
 
Restammo immobili e schiacciati l’uno contro l’altro. Quel ‘ti amo, Frank.’ ancora sospeso per aria. Riempiva tutta la stanza, faceva da eco a tutti i respiri. E io lo sentivo crescere dentro di me, sempre più, fino a essere forse troppo. Un concetto incontenibile, ecco cos’era.
Non sapevo dove riporlo, non sapevo cosa farmene.
E non lo sussurrai, a mia volta.
 
Forse eravamo troppo deboli per una consapevolezza così pesante.
 
Arrivati sul suo letto, Gerard fece scivolare le mani sotto il mio maglione, e io riuscivo quasi a percepire la sua pelle attraverso il cotone della maglietta.
Alzai le braccia quando sentii due mani stringere il lembo di entrambi gli strati e lasciai che lui mi spogliasse. Però lo fece lentamente. E nel farlo mi accarezzò i fianchi, la schiena, poi le spalle.
Ricordo le sue mani fredde contro la mia pelle riscaldata dai vestiti, l’atroce gentilezza del suo sguardo che quasi tremava. Quasi non sorreggeva la vista del mio petto nudo.
 
« Voglio che questo significhi qualcosa, » - disse - « voglio che tu sappia che per me significhi qualcosa »
 
Io dissi solo ‘lo so’. Lo feci una, poi dieci volte. Una catena di suoni sempre più fievole, che si rompeva come onde sulle labbra di Gerard.
E io avrei voluto che lui sapesse, avrei voluto renderlo partecipe di tutte le frasi che non riuscivo a gettar fuori, di tutte le cose che provavo ma erano troppo più grandi dei millimetri tra le mie corde vocali.
 
Anch’io avrei voluto dirgli che lo amavo, e che la sua vita aveva un significato per me.
Che la nostra storia sarebbe sempre importata qualcosa, anche oltre la sua fine.
 
Ma non riuscii a farlo.
E potevo già sentire il sapore del pentimento sulle mie labbra. Si nascondeva bene tra l’umidità delle nostre salive, rimaneva celato dietro ogni sussurro, dentro i miei gemiti.
Solo noi stessi possiamo darci altro tempo. E non arriverà nessuno a salvarci.
 
Sbottonai lentamente la camicia di Gerard. Dopo il primo paio di bottoni gli dissi che quell’aria elegante gli donava molto. Lui abbassò lo sguardo, timido, ma poi mi chiese se mi piacesse.
Io annuii sorridendo e lasciai un bacio veloce sulla sua guancia.
E per un momento mi sembrò tutto così tranquillo. Così fuori dal tempo. Come se quelli fossero gesti abituali, una routine che andava avanti da sempre, senza mai diventare banale.
C’era calma nei nostri sguardi, nei nostri movimenti, dentro di noi.
 
Non mi sembrò affatto una tra le ultime volte; piuttosto una delle prime. Forse la prima.
La prima volta in cui sapemmo apprezzare veramente ogni sfaccettatura e angolo nascosto di quegli istanti. La prima volta in cui eravamo davvero consapevoli di noi non come due persone distinte, ma come unica entità.
 
Quando anche l’ultimo bottone scivolò via dall’asola mi presi un secondo per osservare davvero Gerard.
Era decisamente più magro rispetto all’ultima volta in cui l’avevo visto a petto nudo. Le clavicole erano evidenti e la pelle che copriva ogni osso era tesa, quasi troppo sottile.
Pensavo che mi si sarebbe frantumata addosso; quasi la sentivo sfaldarsi sotto le mie dita.
 
«Se non mi avessi più rivisto, dopo quel giorno al parco - dopo il nostro primo incontro - cosa avresti fatto?»
 
Mi mancava il fiato. Gerard mi consumava il fiato.
Ma non gli diedi il tempo di rispondere.
 
«Mi avresti cercato?» La mia fronte era poggiata sulla sua spalla. «E per quanto tempo avresti continuato a pensarmi?»
 
«Perché ti importa, Frank?»
 
«Perché mi aiuta a capire. Aiutami a capire.»
 
«Temo di non poterlo fare.»
 
«Ci sono tutte queste possibilità che ci aleggiano attorno. E come facciamo a sceglierne una? Soltanto una, e viverla? Accontentarci solo di una parte su mille, trascurando tutte le altre. Lasciando fuori ciò che avremmo potuto essere.»
 
«Perché non è ciò che siamo. Perché per ogni possibilità c’è una scelta, e non sono le scelte che non abbiamo mai fatto a definirci. Siamo qui per l’unica decisione che abbiamo preso. L’unica, tra mille. Ed è quell’unica che conta qualcosa. Perché il resto non è, e  non si può vivere di ciò che non è.»
 
«Dimmi solo se saresti venuto a cercarmi»
 
«No. Non l’avrei fatto. Con che coraggio avrei potuto? Entrare nella tua vita sul finire della mia, per cosa? Forzare la mia presenza su di te - forzare la mia morte su di te. Ci pensi, Frank, a quanto egoismo ci vuole per ritenere il proprio piacere più importante del dolore di qualcun altro?»
 
«E allora perché sei- perché siamo qui?»
 
«Perché tu sei tornato da me. Sei tornato per me, offrendomi l’opportunità di renderti felice e chiedendomi di accoglierla. E nella misura in cui sarò in grado di farlo, lo farò. Giuro che lo farò al meglio delle mie capacità e possibilità. E’ l’unico modo per controbilanciare il dolore. E’ l’unico modo in cui posso e voglio starti accanto. E’ tutto ciò che ho, Frank. La tua felicità è l’unico lusso che concedo a me stesso.»
 
«Voglio fare l’amore»
 
«Non posso… Io-- lo sai che non posso. Non possiamo»
 
«Farò tutto io-»
 
« Frank…»
 
Lo guardai in modo sincero, e sussurrai un per favore.
Lui inclinò il viso a destra, per evitare di incrociare il mio sguardo.
 
«Gerard, potrebbe essere l’ultima volta. Questa potrebbe essere la nostra ultima volta »
 
Lo osservai chiudere gli occhi.
Prese un respiro profondo.
 
«Va bene. Ma devi essere tu a- devi farlo tu, okay? E’ più sicuro in questo modo. E ci serve un preservativo. Dovrebbe-- dovrebbe essercene uno da qualche parte nel primo cassetto della scrivania.»
 
Esitai per un secondo; le sue parole poggiate delicatamente sul cuscino. I suoi occhi che si rifiutavano di rispecchiarsi nei miei.
 
Presi il viso di Gerard tra le mani e riportai il suo sguardo sul mio.
 
«Andrà tutto bene, davvero»
 
«Non è soltanto quello» - Sentii una mano scorrere dolcemente sul mio petto - «… mi mancherà vederti così. Sentire il peso del tuo corpo sul mio, e il tuo cuore battere così forte da immaginarlo dentro di me.» - quella stessa mano che salì fino al mio collo, annodando le sue dita tra i miei capelli - « e guardarti negli occhi. Guardarti mentre vieni. Saperti sincero. Sei così trasparente quando facciamo l’amore Frank. Non ho mai visto niente di così vero.»
 
E non è la quantità di parole. Non è il numero di lettere di cui esse sono composte. Non è la loro difficoltà, non è il loro suono.
E’ un peso. Un filo. Uno specchio. E’ quella frazione di secondo in cui le parole rimangono sospese, e non sono più tue, ma nemmeno di qualcun altro. Non ancora.
 
Un istante dopo averle dette. Un istante prima di sentirle.
Non c’è niente di più pesante, sottile, fragile.
 
Non c’è niente di più devastante delle parole mai dette. Di quell’istante mai vissuto.
 
Baciai Gerard brevemente, per poi alzarmi dal letto e prendere tutto ciò che ci serviva.
 
C’era disordine sulla scrivania, disordine nei cassetti. E mi chiesi cosa ne sarebbe stato di quel disordine, nel giro di un paio di mesi.
Di chi sarebbero state le mani che avrebbero sistemato tutto, e rimosso quegli oggetti, uno per volta.
Mi immaginai la madre di Gerard mentre sorreggeva tutti gli album da disegno, e i pennelli, e le tazze da caffè piene di acqua sporca di colore. Potevo vederla, davanti ai miei occhi, riporli in anonimi scatoloni di cartone.
Come se si potesse mettere via una vita intera.
Mi chiesi anche se si sarebbe presa il tempo per osservare i ricordi di Gerard, prima di metterli da parte.
 
«Sto iniziando a sentire freddo, Frank»
Rise, Gerard, dietro di me.
Fu una risata insicura, leggera.
 
Pochi secondi dopo, il letto si curvava sotto il peso delle mie ginocchia.
Poggiai le labbra su una gamba di Gerard, lasciandovi sopra un bacio.
Le sue mani strinsero impercettibilmente le lenzuola non appena il primo dito fu dentro di lui.
Era lento. Agonizzante.
 
Era stupendo, Gerard. Ed era stupendo viverlo senza barriere. Senza alcun millimetro a separarci.
C’è qualcosa di tremendamente intimo nell’annullare del tutto le distanze.
Dopo qualche minuto la sua schiena si sollevò improvvisamente dal letto, inarcandosi verso il vuoto.
Un gemito scivolò via dalle sue labbra e riempì l’aria. A quel punto smisi di prepararlo, pulii le dita con le lenzuola, e lo osservai per un secondo, immaginando ciò che sarebbe venuto dopo.
 
I primi istanti sono sempre i più difficili. Potevo vedere il dolore che si diffondeva sul viso di Gerard, evidente nelle piccole rughe tra le sue sopracciglia e nel modo in cui chiuse istintivamente gli occhi tutto d’un tratto.
 
Dopo le prime spinte mi accasciai sul suo petto e iniziai ad accarezzargli delicatamente il viso, premendo le labbra su una tempia. Gli sussurrai all’orecchio quanto fosse bello, come mi facesse sentire bene. Lui non rispose, però mi strinse i capelli, avvicinandomi ancora di più al suo corpo.
 
Il ritmo non era perfetto, ma c’era qualcosa di estremamente puro in quei momenti che stavamo vivendo. Un piacere più che fisico, una completezza che forse non avevo mai sperimentato prima.
 
C’era anche tanta malinconia, tanta consapevolezza, tanto dolore.
 
Gerard venne per primo, con un urlo strozzato e dei respiri profondi. Aveva gli occhi serrati ma la bocca rossa e spalancata. Io venni poco dopo, e la prima cosa che feci fu premere le mie labbra contro le sue.
 
Per parecchi minuti restammo l’uno sull’altro. Ansimanti, sudati, sporchi.
E guardammo l’uno negli occhi dell’altro, alla ricerca di un motivo per mettere fine a quel momento. Alla ricerca del nostro riflesso.
 
Poi improvvisamente due occhi si chiusero davanti ai miei.
Come una porta che è destinata a non essere mai più aperta.
 
Fu lì che, per la prima volta, dopo una tra le cariche emozionali più intense della mia vita, sentii di aver perso Gerard.
Me lo sentii scivolare via di dosso, lo sentii cadere piano, dissolversi nel nulla.
 
Fu lì - realizzai - che demmo inizio al nostro finale.
 
Insieme.   

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Vorrei ringraziarvi per essere arrivati fin qui. Come sempre, mi farebbe tanto piacere sentire le vostre opinioni sul capitolo. 
Vi auguro una buona serata. 
-me.

 


 
  
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