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Autore: mikimac    20/11/2016    1 recensioni
Sherlock è morto, si è ucciso, lasciando solo John, in un mondo freddo e senza sole. Fino al giorno in cui Sherlock torna a bussare alla porta di John. Nulla, però, può cancellare il tempo trascorso né le conseguenze di un atto compiuto per amore.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Confronto
Londra si era svegliata sotto un sole splendente, ma la giornata era fredda. John era seduto a fare colazione davanti alla finestra della cucina, che dava su un piccolo giardino, in cui spesso andava a passeggiare con Honey. Stava sorseggiando il tea bollente con calma, dato che non sarebbe andato a lavorare. Il ritorno di Sherlock lo aveva sconvolto più di quanto lui stesso volesse ammettere ed aveva chiesto alcuni giorni di permesso. Era stato costretto a farlo, perché non riusciva a concentrarsi sul lavoro ed aveva bisogno di riflettere su cosa fare, ora che il fantasma di Sherlock si era trasformato in una persona in carne ed ossa. Per mesi
anni
aveva atteso il ritorno del suo migliore amico, sperando, assurdamente, che si levasse dalla fredda tomba in cui era stato rinchiuso, dopo il suo suicidio. Poi, c’era stato l’incidente. John aveva sperato
pregato
di morire, per potersi finalmente ricongiungere con Sherlock, ma era sopravissuto.
Tutto ciò che volevo, era stare con te. Mi hanno ascoltato. Dato che sei vivo, solo rimanendo in vita potevo riunirmi a te. Allora ho rimpianto di non essere morto. Ora… ora…
Anche se l’incidente lo aveva reso invalido, John aveva trovato la forza di andare avanti nella possibilità di aiutare altri, nelle sue stesse condizioni. Si era adattato alle circostanze ed aveva trovato un proprio posto nella vita. Poteva quasi dire di essere felice. Quasi. La mancanza di Sherlock era sempre stato un dolore costante, che gli stringeva il cuore, ma che riusciva a mettere da parte, quando si occupava dei propri pazienti. Stava per arrendersi all’evidenza dei fatti, accettando che i morti non potessero tornare, quando se lo era trovato davanti.
Magro, pallido, eppure così bello.
Era tutto cambiato.
Di nuovo.
L’uragano Sherlock Holmes aveva fatto irruzione nella sua vita tranquilla ed ordinaria.
Di nuovo.
Stavolta, però, lui non poteva seguirlo. Non era in grado di farlo. Sherlock avrebbe dovuto trovare un altro assistente. Qualcuno che gli coprisse le spalle e lo ascoltasse nei suoi ragionamenti. Il cuore di John si strinse in una morsa dolorosa, che quasi gli tolse il respiro.
Non è giusto. Il posto accanto a Sherlock dovrebbe essere mio. Solo mio.
John aveva capito che Sherlock non fosse al corrente delle sue condizioni. Per quanto potesse essere insensibile ai sentimenti umani, sapeva che non gli avrebbe mai proposto di correre dietro a dei terroristi, se avesse saputo che le sue gambe erano praticamente paralizzate. Evidentemente, nessuno, nemmeno Mycroft, aveva avuto il coraggio di dirgli che John Watson fosse un uomo rotto, spezzato
finito
molto più di quanto lo fosse la prima volta in cui si erano incontrati. Allora, Sherlock lo aveva salvato, travolgendolo con il suo entusiasmo e la sua vitalità, coinvolgendolo nella sua folle vita avventurosa. Ora, nemmeno l’unico consulente investigativo del mondo avrebbe potuto farlo alzare da quella sedia e correre per i vicoli di Londra, dietro ad assassini, pazzi, ladri e terroristi. Non sarebbe mai più stato il blogger di Sherlock, il suo unico amico. Non potevano più essere loro due contro il resto del mondo. John doveva farsi da parte e permettere a Sherlock di riprendere la propria vita, trovandosi un assistente che fosse integro e capace di proteggerlo, anche dalla sua stupida intelligenza e dalla sua incosciente audacia.
Tutto giusto. Tutto logico. Tutto nobile. Allora perché fa così male?
Honey appoggiò il muso su una coscia di John. Lo faceva sempre, quando capiva che John fosse triste. Con un sorriso malinconico, John accarezzò la testa del cane. Doveva affrontare Sherlock, dirgli tutto e sopportare di perderlo.
Per sempre.


Confronto


La strada era praticamente deserta. I vicini erano al lavoro, così la casa era silenziosa. Le auto che passavano erano poche, ma tanto John non le avrebbe notate né considerate. L’unico suo pensiero era come affrontare Sherlock. Da una parte, era molto contento perché Sherlock era vivo. Avrebbe voluto andare da lui ed abbracciarlo
baciarlo
e dirgli quanto fosse felice per il suo ritorno. D’altra parte, però, provava moltissima rabbia, perché Sherlock lo aveva ingannato, gli aveva fatto credere di essere morto.
Sono un medico. Possibile che io non riesca a distinguere un vivo da un morto? Oppure è così facile prendersi gioco di me?
John non riusciva a darsi pace, per il modo in cui era caduto nell’inganno di Sherlock. Pensava di conoscere tutti i suoi trucchi e di poterli smascherare. Aveva creduto che il loro rapporto fosse speciale e che Sherlock sarebbe sempre stato sincero con lui.
Crudelmente e spietatamente sincero, ma pur sempre sincero.
Non trovava giustificazioni a quello che Sherlock aveva fatto. Si sentiva tradito, umiliato
abbandonato.
Anche se non avrebbe dovuto essere troppo sorpreso, da quello che era accaduto. Nessuno sapeva meglio di lui, che per Sherlock il lavoro venisse prima di ogni cosa, di ogni persona, di ogni sentimento
prima di me. Perché la cosa mi ferisce tanto? Ho sempre saputo come fosse Sherlock Holmes.
I pensieri di John continuavano a vorticare intorno a Sherlock ed al suo ritorno, senza trovare una via d’uscita. In certi momenti, gli era persino difficile respirare. Era impossibile accettare e perdonare il tradimento, che bruciava nel profondo del suo cuore.
Lo squillo del cellulare interruppe il filo dei pensieri. Guardando lo schermo, John vide un numero sconosciuto. Stava per non rispondere, pensando a qualche seccatura, ma lo fece ugualmente, perché poteva essere qualche paziente a cui qualcuno dell’ospedale avesse dato il suo numero.
“Pronto?”
“John…”
John si irrigidì.
Sherlock? Lui non telefona mai, preferisce i messaggi.
L’incredulità impedì a John di rispondere.
“John…” c’era una nota disperata, in quella voce bassa e profonda.
Un altro inganno.
“John…” quasi una supplica.
“Cosa vuoi?” La voce di John era glaciale.
“Non riesco a muovermi,” singhiozzò Sherlock.
John si accigliò. Non era quello che si era aspettato di sentirsi dire.
Se Sherlock Holmes si scusasse il mondo finirebbe.
“Le mie gambe non rispondono ai miei comandi,” continuò Sherlock.
“Cosa stai dicendo? Sherlock, cosa hai fatto? Cosa ti è successo?” John non riuscì a celare l’ansia nella voce.
“Non ce la faccio…”
La linea telefonica cadde. John sentiva il suono della linea libera. Niente altro. Con un’agitazione crescente, rifece il numero, ma suonava a vuoto. Lo ripeté alcune altre volte, prima di darsi per vinto.
Razza di idiota, che cosa hai fatto? Dove sei? Dove potresti essere?Mycroft…
John cercò velocemente nei contatti, trovò un vecchio numero del maggiore degli Holmes e lo compose. Suonò a lungo. A vuoto.
A cosa servono i cellulari se nessuno risponde?
Esasperato, chiamò Lestrade.
“John, qual buon vento?”
“Sherlock. Mi ha fatto una telefonata strana, ma ora non risponde. Ho bisogno che lo rintracci.”
“Aspetta.”
John sentì che Greg copriva il cellulare e parlava con qualcuno. Seguì una serie di fruscii, come se Lestrade si stesse vestendo. Non ci volle molto per avere una risposta.
“È a Baker Street. Ti sto venendo a prendere,” riferì l’ispettore.
“Grazie.”
John si infilò i tutori e la giacca, prese le stampelle ed andò sul marciapiede ad attendere l’arrivo dell’amico. Sherlock era riuscito a forzare le cose, in modo che il tempo del loro confronto arrivasse prima di quanto John avesse voluto.
Non avere fatto nulla di stupido. Per una volta, Sherlock, fai in modo di non aver fatto nulla che metta in pericolo la tua vita.


Durante il tragitto, John e Greg non parlarono, troppo preoccupati da quello che avrebbero potuto trovare, per dare voce ai propri pensieri. A John faceva un certo effetto l’idea di tornare al 221B di Baker Street. Non vi aveva più messo piede dal giorno in cui era rientrato nell’esercito. Aveva mantenuto i contatti con la signora Hudson, soprattutto dopo l’incidente. L’anziana donna si era comportata come se fosse stata sua madre, andando a trovarlo frequentemente, durante la convalescenza in ospedale. Lo aveva anche aiutato a sistemare la casa in cui era andato ad abitare, ma John non aveva più messo piede a Baker Street. Quella casa era troppo piena dell’essenza e dei ricordi di Sherlock, perché John potesse entrarvi senza sentirsi soverchiato dalla sua assenza.
Greg fermò l’auto davanti alla casa e scese velocemente per aprire la portiera dalla parte di John. Honey saltò giù per attendere il suo padrone. John tentò di fare in fretta, ma le gambe non volevano saperne di collaborare, quando ogni istante poteva essere prezioso, per salvare Sherlock: “Prendi le chiavi, sali nell’appartamento e vedi cosa sia accaduto a Sherlock. Io vi raggiungo subito.”
Greg non chiese perché John avesse ancora le chiavi di una casa in cui non abitava da due anni. Probabilmente, il dottore aveva sperato di tornarci, un giorno. Forse era stata la menomazione subita dopo l’incidente a tenerlo lontano da Baker Street. Forse era stato l’ingombrante ricordo di Sherlock. Greg sapeva quanto John avesse sofferto a causa del suicidio… no, del finto suicidio di Sherlock, quindi non avrebbe mai giudicato le azioni dell’amico. Il motivo per cui  esitò a fare quello che John gli aveva chiesto, era che non voleva lasciarlo solo mentre saliva le scale.
Sembrò che John gli avesse letto nella mente: “Corri! Vai! Non ti preoccupare per me. Starò attento. Sherlock potrebbe essere ferito ed avere bisogno di un soccorso immediato.”
“Vai piano per le scale. Qualsiasi cosa si sia fatto Sherlock, non si aggiusterà prima, se ti fai male anche tu.”
“Greg…” ringhiò John.
Per nulla impressionato, l’ispettore annuì e si precipitò dentro al 221B.
John rimase solo con Honey. Ad ogni passo, gli sembrava di non fare un centimetro in più, ma la vera agonia fu arrampicarsi per le scale. John doveva coordinarsi attentamente, mettendo prima le stampelle sul gradino superiore, poi sollevarsi praticamente di peso. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse, ne era cosciente, ma se Sherlock aveva fatto uno dei suoi stupidi esperimenti, poteva essersi procurato ferite anche serie. Oppure aveva trovato i terroristi per Mycroft e loro lo avevano aggredito. Non sentiva provenire voci dal piano di sopra e la cosa lo preoccupò ancora di più. Cercò di accelerare la salita, ma mise male una stampella e si sbilanciò. Completamente in balia di un corpo che non poteva fare muovere come avrebbe voluto, John cadde in avanti, scivolando indietro per alcuni gradini, prima di fermarsi. Un dolore lancinante gli attraversò tutto il corpo, facendolo quasi svenire. Con i denti stretti e gli occhi chiusi, John non sapeva come fare per rialzarsi.
Cosa volevo fare? Sono solo una marionetta con i fili rotti, non più utile a nessuno e bisognosa di essere accudita in ogni momento.
John si rese conto di un paio di mani che percorrevano delicatamente il suo corpo e di una voce allarmata che lo chiamava insistentemente: “John, rispondi. Dove ti fa male? Dobbiamo chiamare un’ambulanza?”
“Certo che dobbiamo chiamare i soccorsi! Se si è rotto qualcosa ti giuro che…” questa era la voce furiosa di Greg, quindi l’altra era di… John spalancò gli occhi e si trovò a fissare quelli azzurri chiarissimo di Sherlock. Interdetto, John lo scrutò in cerca di ferite, ma notò solo lo sguardo preoccupato, con cui Sherlock lo stava quasi radiografando per assicurarsi delle sue condizioni: “Stai bene? Sei ferito?” Chiese John.
“Sto bene. Non sono ferito. Volevo solo che tu venissi…”
Il pugno colpì Sherlock in piena faccia, interrompendo la sua spiegazione. Non gli fece molto male, perché la posizione di John non gli permetteva di mettere nel colpo abbastanza forza da ferire. Comunque, Sherlock si mise fuori tiro, per evitare altri pugni. Greg li fissava, il cellulare stretto in mano, senza chiamare i soccorsi, in attesa di capire cosa fosse meglio fare.
“SEI UN IDIOTA! LO SAI QUANTO MI HAI FATTO PREOCCUPARE? E PER COSA? PER NULLA! QUANDO SMETTERAI DI PRENDERTI GIOCO DI ME!” John si interruppe, il fiato corto, il respiro affannato, rosso in viso e gli occhi furiosi. Se Sherlock non si fosse allontanato da lui, lo avrebbe sicuramente colpito ancora.
“Io non so chiedere scusa, lo sai John. Volevo solo che tu venissi qui, per poterti parlare in un luogo che fosse importante per noi e che facesse sentire entrambi a proprio agio. Io non riesco a pensare ad un luogo migliore del nostro salotto, per parlare. Tu, cosa ne pensi?” La voce di Sherlock era bassa, parlava in modo lento, esitante.
John sospirò, esasperato e furente: “Di solito si chiede alla gente di venire ad un incontro, senza fargli credere che sia successo chissà che cosa! Quando smetterai di mentirmi per ottenere quello che vuoi?”
“Se ti avessi semplicemente domandato di incontrarci, avresti accettato?”
John lo fissò, provando una forte fitta al cuore.
Non ti avrei neanche ascoltato. Non volevo farmi vedere da te, in queste condizioni.
Sherlock si avvicinò a John, cautamente: “Non credi che sia giusto che parliamo?”
“Greg, potresti portare Honey a fare un giro? Oggi non la ho ancora portata fuori.,” sospirò John.
“Certo. Torniamo più tardi.” Greg prese Honey per il collare e la portò via, mentre Sherlock aiutava John ad alzarsi, lo circondava con un braccio e lo conduceva in salotto.


Sherlock aiutò John a sedere sul divano e lo fissò, come se non sapesse bene cosa fare: “Ti sei fatto male? Posso darti qualche cosa… una crema, ghiaccio…”
“Perché? Perché mi hai lasciato credere di essere morto? Mi sarebbe bastata una tua parola ed avrei evitato tutto questo inferno,” John non riuscì ad evitare che la sua voce esprimesse tutto il rancore che provava.
“Moriarty aveva incaricato dei cecchini di uccidere te, Lestrade e la signora Hudson, se non mi fossi suicidato. Con l’aiuto di Mycroft, avevo elaborato diversi scenari, che mettessero tutti al sicuro, ma Moriarty, con il suo suicidio, mi ha costretto ad inscenare il mio, per salvare voi.”
“Questo non spiega perché tu mi abbia mentito, tenendomi all’oscuro di tutto.”
“Davvero non lo capisci?”
“Capisco che non ti fidi di me,” sussurrò John.
“Non essere stupido! Certo che mi fido di te! Io ti ho affidato la mia vita in molte occasioni e lo farò semp…”
“Chi sapeva del tuo piano?”
“Cosa importa chi sapesse…”
“Chi sapeva del tuo piano!” John lo interruppe nuovamente, impaziente.
“Mycroft.”
“Sì, lo hai già detto ed è logico, che tuo fratello lo sapesse. Lui è il tuo complice naturale, quando si tratta di manipolare la gente e le situazioni. Altri?”
“Molly,” tossicchiò Sherlock.
“Cosa?”
“Molly Hooper.”
John si sentiva come se stesse per essere colpito da un fortissimo mal di testa: “Fantastico. Hai preferito fidarti di Molly, piuttosto che di me. Bene.”
“Non dire così! Non ho più fiducia in Molly che in te. È solo che Moriarty la ha sottovalutata. Non ha capito che lei sarebbe stata la mia complice perfetta. È lì che ha perso…”
“Dando più importanza a me che a Molly,” sbottò John, amaro.
“Non è una gara, John! Non essere infantile…”
“Infantile? Io sarei infantile? Ah!”
“Sì, ti stai comportando come se fosse una competizione a chi io tenga di più. Il fatto è che gli uomini di Moriarty non avrebbero sorvegliato il comportamento di Molly, ma il tuo sì. Se avessero avuto il sentore che tu stessi fingendo, ti avrebbero ucciso!”
“Quindi mi stai dicendo che non mi hai rivelato il tuo piano, perché eri sicuro che non avrei saputo fingere, mentre Molly lo ha fatto meglio di me!”
“Molly non aveva bisogno di fingere! Nessuno la stava sorvegliando! Tu, invece, sei un pessimo bugiardo, John! Anche un bambino capirebbe che stai mentendo! Ti saresti fatto uccidere, prima che io potessi distruggere l’organizzazione di Moriarty!”
“Quindi è colpa mia! Se mi hai preso in giro e lasciato indietro a macerarmi nel senso di colpa per non  essere riuscito a fermarti, la colpa è mia!”
“Non è una colpa essere onesto e mostrare apertamente i propri sentimenti, come fai tu. Solo che in questa circostanza la tua incapacità a mentire e la tua propensione a palesare quello che provi, avrebbe fatto uccidere te, Lestrade e la signora Hudson!”
“Avrei potuto venire in missione con te! Avrei potuto coprirti le spalle, come ho sempre fatto. Oppure, visto che sono così facile da leggere, non ero adatto nemmeno per questo?”
“Non essere stupido! Sai benissimo che tu sei il migliore e solo partner che io abbia mai avuto e che mai avrei potuto avere o sperato di incontrare. Però, se tu fossi sparito nel nulla, gli uomini di Moriarty avrebbero capito che li stavamo ingannando. Io dovevo tenerti al sicuro, proteggerti, fare qualsiasi cosa purché tu continuassi a vivere!”
“Tu non hai proprio idea di quello che mi hai fatto passare, vero? Il tuo suicidio mi ha distrutto. Ero convinto di avere fallito come amico e come collega. Ero sicuro che tu fossi morto pensando che io ti credessi un imbroglione e questa convinzione mi faceva a pezzi.”
“È per questo che sei tornato nell’esercito?”
“Volevo trovare un motivo per andare avanti. Prendermi cura di qualcuno, mi ha aiutato a non impazzire.”
“Ti ha permesso di dimenticarmi,” mormorò Sherlock, in tono quasi accusatorio.
“Non è vero! Io non ti ho mai dimenticato. Ho faticosamente imparato a convivere con la mia colpa e la tua mancanza, ma non avrei mai potuto dimenticarmi di te.”
“Cosa è successo?” Sherlock si sedette sul tavolino, di fronte a John.
“Stavo viaggiando su un elicottero che ha avuto un’avaria. Dopo che eravamo atterrati, il velivolo è esploso. Ho un pezzo di metallo conficcato nella schiena che non mi permette camminare.”
“Immagino che non ci sia modo di toglierlo o lo avresti già fatto.”
John distolse lo sguardo, fissandolo sulla finestra del salotto: “In realtà ci sarebbe una possibilità,” bisbigliò, quasi a se stesso.
“Allora potresti sottoporti all’intervento e tornare ad essere il mio partner.”
“Perché dovrei? Tu non ti fidi di me,” sibilò John, tornando a volgere lo sguardo negli occhi di Sherlock.
“Io… John ti ho spiegato… io… non mi credi? O l’operazione comporta dei rischi?”
“Ogni intervento è pericoloso.”
“Allora non lo fare, ma lascia l’esercito e torna a vivere con me. Mi aiuterai nei casi…”
“E cosa farei? Come potrei aiutarti? Non potrei venire sulla scena del crimine, perché non riuscirei a chinarmi per esaminare un corpo. Di correre dietro a criminali e pazzi, non se ne parla. Non sono in grado di coprirti le spalle o di seguirti nelle indagini né di andare in giro a raccogliere informazioni. Guardami, Sherlock! Io non ho più nulla da offrirti. Non posso più essere il tuo complice, il tuo alleato, la tua spalla. In quell’ospedale mi permettono di lavorare perché i soldati con ferite gravi non parlerebbero con medici non  menomati, come fanno con me. Loro sanno che io li capisco veramente e si aprono più facilmente con me. Un qualsiasi altro ospedale non mi permetterebbe mai di esercitare la mia professione. Io sono un uomo finito.”
“Non dire mai più che sei un uomo finito! – sibilò Sherlock, furioso – Tu sei e sarai sempre meglio di tanti che camminano su due gambe, ma che non hanno il tuo cuore e la tua capacità di prendersi cura delle persone. Sono tante le cose che puoi fare per aiutarmi. Anche solo ascoltarmi o farmi da contraddittorio nei ragionamenti. Sai quante volte ho risolto un caso perché qualcosa che hai detto mi ha portato sulla strada giusta? Tu sei la mia luce, il faro che mi guida fuori dal turbinio di pensieri che infesta il mio cervello, che mi permette di mettervi ordine. Devi tornare a Baker Street. Ti aiuterò in ogni modo…”
John mise un dito sulle labbra di Sherlock:  “Nelle mie condizioni, ti sarei solo d’ostacolo. Sarei un peso morto, che ti stancheresti presto di portare sulle spalle. Finiresti con l’odiarmi o per provare pietà per me. Io non voglio che accada. Se vorrai parlare con me, potrai venire a trovarmi ogni volta che ne avrai bisogno, ma dovrai trovare qualcun altro che ti aiuti nelle indagini e ti copra le spalle.”
“Io non voglio nessun altro!”
“Sherlock…” John scosse la testa.
“Io non sono bravo in queste cose. Né a chiedere scusa né ad esprimere i miei sentimenti. Non volevo causarti tanto dolore. Però rifarei tutto senza esitare, inscenerei ancora il mio suicidio, anche sapendo che non mi perdoneresti mai, perché farei qualsiasi cosa per proteggerti. Allo stesso tempo, ho avuto molto tempo per pensare e ho capito una cosa veramente importante.”
Stavolta fu Sherlock a distogliere lo sguardo da John. Si passò le mani nei capelli, come se stesse cercando il coraggio di procedere. John provò molta tenerezza verso questo Sherlock insicuro, vulnerabile e fragile: “Cosa avresti capito?” Lo sollecitò con dolcezza.
“Che io ti amo e che non posso vivere senza di te,” sussurrò Sherlock, in tono quasi inudibile.
Il cuore di John accelerò i battiti.
Non può essere. Non è possibile che tu sia innamorato di me, come io lo sono di te. Quanto tempo abbiamo sprecato, rifiutandoci di vedere cosa fossimo diventati l’uno per l’altro. E ora, non si può più tornare indietro. È troppo tardi per un noi. Non con me in queste condizioni.
Sherlock teneva la testa fra le mani, in attesa di un reazione da parte di John. La porta venne spalancata e Honey fece irruzione, scodinzolando allegramente verso il suo padrone. John la accarezzò, sorridendo tristemente.
Lestrade si accorse della strana atmosfera presente nella stanza: “ Tutto bene?”
John spostò lo sguardo sull’ispettore: “Sì, certo. È ora di andare a casa,” sussurrò, con un sospiro stanco. Si alzò e si diresse faticosamente verso la porta, mentre Sherlock rimaneva seduto, con uno sguardo smarrito negli  occhi.
“John…” la voce di Sherlock era un mormorio disperato.
“Ho bisogno di riflettere. Sono tante le decisioni che devo prendere.”
“Tu non sei solo. Permettimi di dimostrartelo.”
“Ci penserò, Sherlock. Te lo prometto. Ora non posso fare altro che assicurarti che ci penserò.  Non lo sto facendo per vendicarmi. Solo… non è così semplice.”
“Quando potremo vederci? Domani?”
“Presto, Sherlock, ma ora non ho risposte. Dammi tempo, ho bisogno di tempo. Lo capisci, vero? Non voglio ferirti, ma devo riflettere bene. Ogni decisione che prenderò, si ripercuoterà sulla vita di entrambi. Devo essere sicuro di fare la cosa giusta, per me, ma soprattutto per te. Non posso darti una risposta ora, ma lo farò presto,” rispose John, uscendo dell’appartamento.
Lestrade non capiva cosa fosse accaduto, ma non volle essere invadente: “Io vado. Riaccompagno John a casa. Se avessi bisogno di parlare, conosci il mio numero.”
“Anche tu conosci il mio, ma non mi hai ancora sottoposto nemmeno un caso da due.”
“Mi farò sentire presto,” promise Greg e se ne andò.
Sull’appartamento al 221B di Baker Street cadde un assordante silenzio.
Sherlock aveva fatto la propria mossa. Coraggiosa e sconsiderata. Ora toccava a John fare di lui un uomo felice o distruggerlo.

Angolo dell’autrice

Immagino che si fosse già capito che questa storia fosse una pre-slash. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Grazie a chi stia leggendo e segnando la storia in una qualsiasi categoria.
Grazie ad emerenziano e Betely per le recensioni allo scorso capitolo.

Approfitto di questo angolo per ringraziare tutti quelli che abbiano letto, segnato e recensito “Infinito” e che passino anche di qui. Mi dispiace veramente non avere ancora risposto a tutte le vostre bellissime recensioni, ma lo farò presto.

A domenica per l’ultimo capitolo della storia.

Ciao!
   
 
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