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Autore: Lost In Donbass    21/11/2016    2 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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CAPITOLO SEDICI: IN DIE NACHT
Du bist alles was ich bin
Und alles was durch meine Adern fliest
Immer werden wir uns tragen
Egal wohin wir fahren egal wie tief
 
Tom aveva fatto un sogno, mentre il treno macinava velocemente i chilometri che separavano Magdeburgo alla capitale e lui se ne stava accoccolato nel suo angolo, cullato dai Hollywood Undead nelle cuffie e dai ferri da lana della vecchietta sferruzzante raggomitolata nel sedile accanto al suo. Si era addormentato, e aveva sognato il suo trionfale ingresso a Berlino, con l’unica sostanziale, differenza, che nel sogno era in compagnia di Bill. Il Bill del sogno aveva un colorito decisamente più florido di quello reale, e rideva rovesciando quel meraviglioso collo all’indietro, eppure la sua risata era più vibrante e piena rispetto alle risate dolcemente soffuse a cui il rasta era abituato. Indossava un vestito da sposa, nel sogno, un enorme, principesco, vestito bianco decorato con grosse perle e brillanti e aveva un gigantesco paio d’ali sulla schiena, ali bianche come quelle di una colomba. Non sembrava più malato, sprigionava vita e salute da tutti i pori. Lui invece era sempre uguale, anche se quello smoking stonava alquanto col berretto da skater; camminavano sopra ai resti del Muro, e si sentivano le canzoni degli Scorpions che risuonavano attorno a loro, alle loro mani intrecciate, ai loro sorrisi complici e agli sguardi che si legavano indissolubilmente in una bella armonia, mentre la passeggiata continuava imperterrita lungo le macerie, le nuvole che risplendevano di un assurdo azzurrino cenere. Non capiva cosa volesse dire, quando si era svegliato mezzo rintronato dal sonno, la vecchietta che l’aveva timidamente punzecchiato con uno dei suoi aghi da lana non appena il treno aveva fermato alla stazione Hauptbahnhof. Sembrava quasi, pensava, mentre scendeva con un certo timore reverenziale nell’enorme stazione della magica città, un meraviglioso presagio sul futuro della loro storia d’amore. Qualcosa che forse poteva presagire la guarigione di Bill, perché Tom se ne fotteva che i medici gli davano cinque anni come limite massimo, lui sapeva che Bill era più forte, che sarebbe vissuto, che non si sarebbe lasciato vincere da nessuna malattia, che avrebbe resistito indefesso a qualunque guerra, prova, apocalisse. Oppure poteva essere la previsione della loro storia destinata a perdurare nel tempo, a rimanere incisa nei secoli, un evento che avrebbe abbattuto le barriere che li ostacolavano: un amore che sarebbe andato oltre all’estrazione sociale, al bigottismo della loro città natale, alle barriere sessuali e etiche. Un evento trascinante e potente come lo era stata la Caduta del Muro, che avrebbe sconvolto Magdeburgo e il suo sole malaticcio, che avrebbe sbalzato tutti i loro problemi in secondo piano per stringerli in una storia così potente e bruciante da poter incendiare gli oceani. Ma anche, Tom se ne rendeva sempre più conto mentre avanzava contro una ressa di pendolari a lui estranea e si trascinava verso l’uscita della stazione, poteva anche significare la morte. Le ali da colomba che sbattevano dolcemente sulla schiena di Bill, così come il vestito di perle potevano anche semplicemente dire che era il suo destino morire giovanissimo, parte di qualcosa che né Tom, né i medici e nemmeno lo stesso Bill potevano cambiare; poteva essere un angelo che lo guidava nel suo cammino di rivolta e ribellione verso il sistema, la creatura celeste che lo proteggeva dalle brutture del mondo perché il rasta se lo sentiva dentro che, qualunque cosa fosse loro successa, Bill non l’avrebbe mai abbandonato e quell’interpretazione poteva dargli solo che ragione, il fatto che il suo meraviglioso ragazzo non se ne sarebbe mai andato davvero.
Tom tirò inconsapevolmente su col naso. Non voleva che la terza interpretazione fosse corretta. Non voleva che Bill lo abbandonasse, ora che erano finalmente collisi insieme come la cosa più bella del mondo. Non pensava semplicemente di poter resistere a una vita intera senza il moro al suo fianco, coi suoi trucchi e il suo sorriso.
Si guardò attorno, trattenendo un urlo di battaglia. Era arrivato a Berlino, alla fine. Certo, anche se nei suoi sogni doveva sbarcarci con la persona che più amava, ora non aveva più importanza, perché era lì per salvare la persona che più amava. Che forse era ancora più bello e nobile. Aveva sognato di arrivarci insieme ai suoi genitori nuovamente felici insieme e di prendere un gelato tutti insieme prima di andare a vedere il Museo di Storia Naturale quando era un bambino. Di sbarcarci con lo skateboard, una bomboletta spray in una mano, il pugno chiuso e di precipitarsi dal Muro a lasciare il suo segno prima di imboscarsi nelle discoteche più cupe a sentire vecchia musica ribelle e a parlare di comunismo utopico e vita di strada fino al momento in cui era ancora l’orgoglioso, bastardo Tom. Di presentarsi a bordo di una Harley Davidson ruggente insieme a Bill e calcare il suolo berlinese a braccetto, mentre le folle si aprivano come le acque con Mosè e li ammiravano gelosamente, andando sotto la porta di Brandeburgo a fingere un loro matrimonio senza invitati e senza preti, a ballare abbracciati in locali alternativi fino alle prime luci dell’alba, quando si sarebbero seduti lungo le rive della Sprea ad ammirare il sorgere del sole sull’acqua che lenta scorreva sotto di loro quando ormai aveva capito che si era innamorato follemente del ragazzo. E invece nessuno di quelle sue visioni berlinesi aveva avuto un fine, perché ora era lì, completamente solo, arrivato col treno, la chitarra appesa a una spalla e una faccia stordita e esaltata allo stesso tempo, un fine più alto che quello di visitare una città, il fine di salvare una persona da un destino orribile. Sì, decisamente, Tom sapeva che il suo Sogno Berlinese aveva assunto una tonalità che virava più sul blu malinconico che sul rosso rivoltoso, ma non gli importava più nulla: avrebbe avuto tempo per diventare un tenue verde speranza, se fosse stato abbastanza coraggioso da affrontare di petto quell’orribile situazione in cui erano finiti e se la città stessa lo avesse aiutato nella propria impresa disperata. Perché Berlino era una città viva, ribelle, orgogliosa, frizzante ed esplosiva come era la loro storia d’amore, non morta, scialba e bigotta come Magdeburgo che non aveva fatto altro che ostacolarli sin da quando si erano conosciuti. Era convinto che se fossero stati figli della capitale, non si sarebbero andati a complicare così tanto le esistenze, che sarebbero stati aiutati dallo spirito cittadino, mentre lo spirito di casa loro aveva lottato fino all’ultimo per separarli. Ma lo sapevano entrambi, quando dicevano che loro due non erano fatti per starsene buoni e zitti, chinando il capo e sottomettendosi alla vita, ma per lottare, reagire, farsi portatori della loro voglia di vivere e di rivoluzionare il sistema. Erano quelle supernove esplosive destinate ad ascese e decadute fastose e opulente, incapaci di sopportare la pianura e la sua scialba esistenza in declino ma fatte per essere figli di Hollywood e della musica sparata nelle casse, della strada e delle lotte, dell’onore proletario e dei trucchi pesanti.
Tom si passò una mano tra i dread, avviandosi verso la piccola pensioncina dove da come aveva sentito si spendeva davvero una miseria e sperava davvero fosse così. Mentre camminava, guardandosi attorno con aria persa, lo zaino e la chitarra che gli ballonzolavano sulla spalla, pensò che poi, in fondo, era assurdo che potessero avere una relazione così potente eppure così fragile, che sconvolgevano qualsiasi regola della chimica e della fisica, erano tutto quello che non poteva conciliarsi. Erano l’alta borghesia e il proletariato più basso, erano il glamour e lo stile underground, erano la cultura e l’ignoranza, erano la depressione e l’allegria, erano il poeta e il musicista, erano la morte e la vita. Tutto quello che era inconciliabile loro lo avevano accoppiato in un’esplosiva e disastrosa storia legata dal sentimento più potente e totalizzante che possa esistere, mostrando al mondo come potesse esistere anche l’apparentemente impossibile fatto dell’unione degli opposti, trasferendosi nel loro piccolo microcosmo dove esistevano solo loro due e non c’erano regole, leggi, barriere e frontiere ma c’erano solo loro due e la loro follia precoce. Voleva Bill, in quel momento. Voleva che stessero camminando insieme mano nella mano lungo le strade trafficate e immense, che lo tirasse a vedere esclusive boutique di vestiti orribilmente volgari, che litigassero su quale fosse il disco più bello degli Scorpions, che dovessero mangiare quel dannato gelato alla pesca anche a Dicembre. Gli mancava ancora di più, in quel momento, incredibilmente vicino eppure lontano anni luce, il suo fantasma che gli vagava vicino senza che lui potesse afferrarlo.
Vagava per le strade, osservando curiosamente ogni cosa, immaginando se Bill fosse stato con lui cosa avrebbe detto, o come avrebbe reagito. Ma Bill non era lì. Quando poi arrivò nella piccola pensioncina cadente che avrebbe potuto essere lì dalla prima guerra mondiale, come d’altronde anche la vecchissima e piccolissima proprietaria, immaginò come sarebbe sembrata da film la scena di loro due che chiedevano una camera per un numero imprecisato di notti: una fuga d’amore, certo. Una bella, romantica, sensuale fuga d’amore. Se lui non fosse stato solo insieme alla sua chitarra e a un’aria triste e malinconica che fece assottigliare le sopracciglia già inesistenti dell’anziana in un
-Sei da solo, ragazzo?
Tom si grattò il retro del collo, cercando di non concentrarsi troppo sui pesanti quadri che circondavano l’ingresso basso e buio e di non sembrare un perfetto idiota mentre diceva, cercando di non sembrare lamentoso
-Beh, sì, adesso sì però … credo che forse poi arriverà qualcun altro.
-Uh.- la vecchissima signora dissimulò dolcemente una risata gracchiante – Aspetti la tua fidanzatina, ragazzo?
-Non proprio. Cioè, da un certo punto di vista, sì.- si impappinò con le parole, deglutendo rumorosamente – Scusi, ma … mi potrebbe fornire una cartina della città? O perlomeno dirmi dove posso trovare questo posto.
Arrossì alquanto mentre le allungava un foglietto dove aveva scribacchiato l’indirizzo della casa di Bill. La vecchia lo prese tra le dita nodose e scure, acuendo gli occhi piccoli e vacui alla debole luce dell’atrio.
-Cosa ci devi andare a fare qui, caro? Non è un posto per ragazzi del tuo stampo. Devi andare a trovare un tuo parente o devi rapire la fidanzatina? È un quartiere troppo ricco per te.
-Ehm, no. Non è un parente ma … la fidanzatina che diceva prima … in realtà, beh, è un fidanzatino piuttosto. Però … - Tom si morse il labbro, indugiando su ciò che avrebbe dovuto dire, le mani che tormentavano la maglietta larghissima – Credo di dover andare da lui.
La decrepita signora lo scrutò attentamente, gli occhi assottigliati e nascosti dalle pesanti borse, la crocchia stretta sulla nuca.
-Non esistono più gli eroi, ragazzo.
-Come, scusi?- Tom fece una buffa smorfia, sfarfallando gli occhi incredulo.
-I veri eroi sono morti tanto tempo fa, sempre che siano esistiti. Perché vuoi diventare un fantasma?
-Io non voglio diventare un fantasma!- Tom non era sicuro di aver capito quello che gli aveva detto la vecchia – Io voglio solo salvare il mio ragazzo dalla sua fine. Non le ho detto che sono un eroe.
-E quando lo avrai salvato, sarai in grado di proteggerlo?
Il rasta guardò di sottecchi la vecchia, avvolta dall’oscurità dell’atrio puzzolente di legno vecchio, stringendo il pugno
-Non è nemmeno da chiederlo. Io … sono fatto per proteggere Bill. Da se stesso, dalla sua famiglia, dal mondo. Sono la sua gabbia che lo salva dal resto.
-E quando vorrà scappare dalla tua gabbia, cosa farai ragazzino coi capelli tubolari? Non ti sembra egoista da parte tua rinchiuderlo? Non ti sembra un delitto?
Tom, a quel punto, avrebbe voluto scappare dagli occhi diabolici della vecchietta, correre di nuovo in strada e lasciarsi alle spalle quell’incubo. Forse aveva ragione, perché. Certo, lui voleva salvare Bill dalla clinica, voleva portarlo via con sé, farlo vivere a casa sua, strappargli il suo mondo dorato ma era davvero quello che Bill voleva? Sarebbe stato pronto a lasciarsi alle spalle la sua vita agiata e tutti i vizi che poteva permettersi per abbassarsi al livello proletario? Avrebbe davvero consacrato quei pochi anni che gli rimanevano per un ragazzo cafone, ignorante e sognatore? Sarebbe stato in grado di resistere a un mondo sconosciuto e pericoloso, abbandonando tutto quello con cui era cresciuto per donarsi anima e corpo a una persona come lui? Non lo sapeva, ma era intenzionato a provarci, prima di dirgli addio. Non gli importava che lo avesse cacciato di casa, non gli importava che lo avesse abbandonato, aveva deciso di lottare per lui e lo avrebbe fatto a qualunque costo, per fargli vedere che non mentiva quando gli diceva che lo amava, per fargli capire che anche se fosse diventato cieco, se fosse stato costretto a letto, se fosse stato divorato completamente dalla sua malattia, non se ne sarebbe andato, gli avrebbe consacrato tutto il tempo necessario, che potevano essere mesi come anni, non se ne sarebbe andato finché non gli avesse chiesto di farlo, o finché non avesse chiuso gli occhi una volta per tutte. Bill poteva fare quello che voleva con lui, a quel punto, ma adesso l’importante era ficcargli in quella testa che non doveva avere paura e che Tom ci sarebbe stato. Se anche a quel punto non lo avesse voluto, allora se ne sarebbe andato per sempre, ma prima, prima di darsi per vinto doveva giocare tutte le sue carte, suonare tutte le sue canzoni, scrivere tutte le sue parole, piangere tutte le sue lacrime.
-Allora, ragazzo, hai capito dove devi andare? Queste sono le indicazioni.
La voce della vecchietta lo riscosse di colpo, facendolo sobbalzare. L’atrio era illuminato, e la signora non sembrava più la megera di prima, come nemmeno la voce era più la stessa. Deglutì rumorosamente.
-Sì, sì, grazie mille io … grazie.- balbettò, afferrando il foglietto e trascinando lo zaino e la chitarra nella microscopica stanzetta buia e bassa che gli avevano assegnato. Posò tutto per terra, guardando la brocca sbeccata posata su un vecchio tavolino rosicchiato dalle tarme contenente una rosa che un tempo lontano doveva essere stato rossa, ma che ora era solo un bocciolo appassito e marcio. Come Bill. Osservò il letto, un piccolo letto incassato sotto la finestra, con un piumone che forse era stato rosa quando Hitler era al potere e una vecchia lampada ciondolante dal soffitto, l’armadio roso dai tarli dall’aria poco stabile. È buffo, pensò il ragazzo, come quella stanza avrebbe dovuto suggellare la loro notte di libertà. Sospirò, afferrando la chitarra e rifacendosi la coda di dread, guardando il foglietto con le istruzioni per arrivare a casa di Bill, la famosa villa di cui aveva sentito tanto parlare, quella dove avrebbero dovuto passare l’ultimo dell’anno secondo i loro piani precedenti alla loro privata apocalisse. Ripensò per un attimo a quella sera, abbandonati mollemente sul suo letto, Bill che gli accarezzava dolcemente il petto e giocherellava con la collanina che teneva appesa al collo, mentre lui gli accarezzava i capelli e la schiena, le gocce di pioggia sul vetro della finestra, i libri di tedesco abbandonati insieme ai loro vestiti sul pavimento disordinato, perché, davvero, Bill non poteva pretendere che Tom prestasse attenzione alle sue ripetizioni se gliele dava sedendogli sulle ginocchia e strusciando ogni tanto il fondoschiena contro le sue parti basse, come non poteva poi fingere di lamentarsi se gli saltava addosso. Parlavano di come avrebbero passato il Natale e il Capodanno insieme, di come avrebbero potuto festeggiare l’ultimo dell’anno a Berlino, da soli, in uno degli strepitosi appartamenti di Bill sparsi in mezza Germania. Parlavano di come sarebbero passati velocemente gli ultimi mesi di scuola e di cosa li avrebbe attesi dopo, dell’università che avrebbe frequentato Bill, del lavoro che si sarebbe trovato Tom, della loro vita futura, del fatto che il moro era irremovibile sul fatto che voleva una bambina e che se non potevano farsela loro due ne avrebbero adottato una e tutte le obiezioni mosse dal rasta vennero spente sul nascere da un bacio lamentoso. Beh, ora sembrava che quel pomeriggio piovoso di una settimana prima fosse lontano anni luce e che non avrebbero mai più potuto festeggiare il loro Capodanno come tutti i loro compagni di scuola. Ma loro d’altronde erano i due Kaulitz. Non erano paragonabili al basso e popolare livello della popolazione della Schiller.
Tom sbuffò, uscendo dalla stanza a grandi passi, la chitarra che gli sbatteva sulla schiena, infagottato nei suoi vestiti enormi, il berretto calcato in testa, un’aria che sapeva tanto di eroe, che sapeva tanto di bambino, stampata sul bel viso, un certo piglio deciso mentre si avviava per le strade gelide berlinesi.
 
Bill piangeva. Sembrava fosse l’unica attività capace di compiere, da quando era stato relegato nella sua spaziale camera da letto, nella bella villa che aveva deciso sarebbe stata la location perfetta per passare il Capodanno con Tom e qualche loro amico. Ma ovviamente, nessuno dei piani perfetti che aveva ideato era riuscito ad andare in porto. Se ne stava raggomitolato in vestaglia sul suo letto a due piazze, soffocato dai peluche, pacchetti di sigarette che finivano a una velocità inquietante, pacchetti di caramelle gommose che gli portava di nascosto la cameriera, lattine e bottiglie d’acqua gettate alla rinfusa attorno al letto. Non si truccava più, non si pettinava, non si lavava nemmeno, ancorato con tutte le sue forze alle coperte del letto tanto da aver vietato categoricamente alla giovane cameriera di lavargliele o di rassettargli il letto, le caramelle gommose, le sigarette e le Coca Cola di “contrabbando” come unica fonte vitale della sua depressione, in compagnia dei suoi peluche spesso gettati istericamente per terra nelle crisi di pianto più convulse. Viveva tra sonni agitati, lacrime amare e singulti disperati, nell’orribile attesa che venisse il tragico momento in cui avrebbe dovuto fare il suo ingresso all’Inferno, Inferno da cui non poteva fuggire, vuoi perché era troppo debole, troppo viziato, forse anche solamente troppo spaventato dalla vita stessa per fare qualcosa che non fosse aspettare Tom, il suo meraviglioso, bellissimo, coraggioso, intraprendente Tom che, lo sapeva dentro al suo cuore, lo avrebbe salvato una volta per tutte dalla sua vita da incubo d’oro. Lo aspettava, come una principessa aspetta il suo cavaliere, aspettava che lo venisse a prendere e che lo portasse via con sé perché era solo questione di poco tempo prima che Tom tornasse da lui, glielo diceva il cuore. Non avrebbe voluto cacciarlo da casa, quel giorno, non avrebbe voluto ma lo shock era stato troppo forte e lui era troppo debole dentro per poter avere il coraggio proletario e rivoluzionario del rasta che tanto amava. Certo, aveva avuto paura quando Tom gli aveva sputato in faccia tutto quello che non avrebbe voluto sentirsi dire da un altro, come il perfetto snob che era, ma in quel momento stava rivalutando tutto. Era pronto per Tom, pronto a qualunque cosa, lì ad attenderlo tra i singhiozzi e il pianto, gli occhioni spenti pulsanti e la testa distrutta dal dolore, il viso lasciato al naturale a marcire col fumo e le lacrime.
Bill sospirò, guardando fuori dalla finestra enorme della sua stanza, osservando il tetro tramonto berlinese illuminare tristemente, cercando di fendere le nubi, il pavimento di marmo. Conosceva Berlino come le sue tasche, dopo tanti anni che ci andava, ognuno dei negozi più “in” e anche le piccole boutique nascoste, ogni locale esclusivo e ogni libreria indipendente. Però, proprio quell’anno, aveva cominciato a sognare di vederla con il suo Tom, di ristudiarsela completamente da capo, di vedere quella splendida città con gli occhi di un ragazzo della plebe. Voleva trascinarlo nei negozi più chic del momento e vedere la sua faccia sconvolta a vederlo provare diecimila abiti, voleva portarlo nelle librerie indipendenti e scegliere insieme qualche libro, spiegandogli una volta per tutte cosa voleva dire Mann nei suoi romanzi, voleva che riscoprissero la storia di quella città insieme, andando sullo skate nei posti di cui tanto Tom parlava, avventurandosi in luoghi da rileggere con un’ottica tutta nuova. Lui, Tom e Berlino, la triade perfetta anche solo per una notte.
Si passò una mano tra i lunghi capelli sparati, soffocandosi con l’ennesima sigaretta, la vestaglia rosa pompelmo mollemente abbandonata sul corpo anoressico, mentre chiudeva gli occhi ed esalava un debole “Pasticcino alla vaniglia” con la prima voluta di fumo che si sollevava delicata, quando sentì una voce e una musica. Certo, una musica soffocata dai rumori del traffico e una voce che cantava. No, anzi, non era una voce. Era la voce. La voce di una persona che Bill amava, adorava, idolatrava sopra ogni altra cosa che stava cantando
-I’m lost in your eyes, reaching out to cross the great divide, you are drifting away, mind and soul and body day by day.
Bill strabuzzò gli occhi, lasciando cadere la sigaretta e bruciacchiando le coltri nere, ma non ci fece caso. Fece anche cadere per terra la vestaglietta, e rimase completamente nudo, ma anche lì non ci fece caso. Si alzò per la prima volta dopo giorni dal letto, barcollando incerto verso la finestra aperta per arieggiare la stanza, perdendo l’equilibrio e dovendosi aggrappare alle tende di raso per non capitombolare giù, gli occhi spenti bagnati da qualcosa che sì, erano lacrime, ma forse la depressione questa volta non c’entrava.
-Nothing’s stopping you and I, it’s do or die tonight …
Si affacciò con fatica dalla finestra, socchiudendo gli occhi al raggio di sole potente del tramonto che era filtrate prepotente dalle nuvole per colpirlo nelle pupille, la bocca improvvisamente secca, un dolore al petto straziante
-So tell me why I’m alone, when we’re lying here together on a night that’s so cold, and you’re just a touch away, baby try to hold on, till we make it forever, we’re alive, and the future never dies …
E lo vide, sotto la sua finestra, la chitarra imbracciata, la coda di dread che gli sbatteva sulla schiena, i vestiti sformati, l’espressione da bamboccio così dolce e compresa nella parte contemporaneamente. Vide Tom, il suo assurdo rasta che lo aveva fatto tanto patire in quei tempi, che si odiassero o si amassero, la sua redenzione e il suo peccato, il suo paradiso e il suo inferno, il suo salvatore e il suo assassino, eccolo lì, come un perfetto ragazzo da strada che suonava per qualcuno lungo le vie. Ma quella volta, Tom non suonava per se stesso e per la gente, ma suonava solo per Bill, il suo splendido Bill che lo guardava affacciato alla finestra.
-I’ve been dying inside, holding back the tears I never cried, now I’m down on my knees cause everything you are is what I need, you’re the meaning of it all, don’t let me fall …
Bill sfarfallò gli occhi, le mani volate al cuore senza che se ne accorgesse, nuove lacrime a tingergli le guance smunte e pallide, lacrime di gioia, lacrime di chi sapeva che non era solo al mondo, che c’era qualcuno pronto a salvarlo anche in una situazione disperata come quella, anche solo cantandogli “The future never dies”, che poi Tom proprio non era capace a cantare bene come il leader degli Scorpions ma quello a Bill non importava. Piangeva ancora, forte, ma non si copriva più gli occhi, lasciava che chiunque lo vedesse, appoggiato alla finestra che singhiozzava e rideva allo stesso tempo perché Tom era lì, aveva ragione, non lo aveva mai davvero abbandonato.
-We’ve got to come together cause everybody needs a heart to hold, can’t you see it’s now or never, cause we got nowhere else to go … tell me why I’m alone when we’re lying here together, baby try to hold on till we make it to forever, we’re alive and the future never dies …
Tom alzò lo sguardo su di lui, finalmente, gli occhi felici e soddisfatti, l’espressione decisa di un ragazzo che sa che vincerà e che nessuno potrà battere.
-In your eyes, Bill, the future never dies …
Lo disse, quello, senza cantarlo, lasciando la chitarra, guardandolo fisso negli occhi.
-Sono venuto a salvarti, piccolo mio.
Bill strinse gli occhi, ingoiando il pianto che nuovamente lo voleva scuotere e riuscì a dire, forse lo urlò, ma non gli importava
-E allora il Muro è caduto, pasticcino! Gente, il mio Tom ha buttato giù il Muro di Berlino!
Se ne fregò se delle persone lo guardarono storto, scuotendo la testa, affrettando il passo a vedere quella figura straordinariamente androgina che strillava da una finestra verso uno skater con la chitarra. Se ne fregò se lo presero per pazzo. Se ne fregò, perché per lui, veramente, Tom aveva rotto il muro che segregava la sua Berlino Est.
  
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