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Autore: KyraPottered22years    22/11/2016    5 recensioni
Dopo un drammatico evento che le ha scombussolato completamente la vita, Mayve abbandona il villaggio dove è cresciuta per andare a vivere con il padre e la sua gente. Ancora non sa di essere destinata a grandi cose, quando il suo cammino si incrocia con quello di Thorin Scudodiquercia e la sua compagnia. Ciò che ha sempre saputo è che a volte delle piccole cose cambiano il corso del futuro drasticamente. Ma ogni sua certezza si infrange nel Reame Boscoso, di fronte al sentimento che ha reso la sua esistenza difficile ancor prima della sua nascita. Di fronte a un bagliore freddo, a uno sguardo di ghiaccio, a un cuore di pietra che da centinaia di anni si rifiuta di ritornare ad amare.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haldir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Thranduil, Un po' tutti
Note: Lemon, Lime, Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Flare of a Frozen Heart
                                     



PARTE I 

Casa è alle spalle, il mondo avanti
le strade da seguire
tante



    

Capitolo Primo





Fra le spighe di grano si distingueva una cascata di lunghi capelli castani saltellante.
Una bambina di appena cinque anni correva nei campi del villaggio con un bastoncino di legno in mano. Giocava immaginando un branco di orchi famelici dietro di lei, sguinzagliando il ramoscello nell’aria, fingendo di infilzarli: l’obiettivo era quello di salvare il raccolto. A volte faceva piccole pause, fantasticando di danzare spericolata in una sala elegante e all’aperto, sotto un cielo stellato, con musiche allegre e rilassanti.
Le sue piccole e dolci risatine avrebbero suscitato tenerezza, se solo gli agricoltori non fossero stati stolti e ignoranti. Ogni volta che la bambina passava davanti loro, si auguravano che quell’ibrido non avesse scagliato alcuna maledizione al raccolto.
Ma la piccola continuava a correre e a ridere ignara di tutta quella paura nei suoi confronti: improvvisava battute che avrebbero messo in fuga un orco o frasi cordiali che avrebbe detto a un bel principe durante una galante festa.
 «In guardia!» E agitava il bastoncino così furiosamente che poteva udire lo schiocco che il legno provocava nell’aria. «Sarei una sciocca a rifiutare la vostra mano!»
Saltellava verso casa, in mezzo alle abitazioni, passando per la via del piccolo mercato.
Improvvisamente, si fermò vicino a una bancarella di spezie, osservò come dei bambini si divertivano a giocare fra di loro con ramoscelli più spessi e più belli del suo. I suoi occhietti a nocciola si spostarono verso un gruppo di bambine lì vicino, studiò come le piccole si divertivano danzando prendendosi per mano e cantando.
Guardava i due gruppetti avvicinandosi pian piano, sapeva che non l’avrebbero mai accettata nei loro giochi, ci aveva fatto l’abitudine ad essere emarginata. Eppure, qualche volta si domandava come sarebbe stato bello poter giocare con loro almeno una volta.
Si mise a correre velocemente verso casa quando una bambina si voltò verso di lei, indicandola a una sua amichetta.
 «E’ la mezzelfa!» Le sussurrò all’orecchio, e, interrompendo la danza di gruppo, il resto delle bambine parteciparono alla conversazione.
 «Non indicarla! Potrebbe lanciarti una maledizione!»
 «La mia mamma mi ha detto che è pericolosa.»
 «Continuiamo a fare finta di niente, finché siamo in tempo!»
Fortunatamente lei era scappata via prima di sentire quelle brutte frasi.
Sapeva di essere diversa dagli altri e sapeva anche il perché.
Arrivò in casa riponendo il bastoncino sulla cassapanca dello zio che non aveva mai conosciuto e congedò l’oggetto come un amico: «Giocheremo dopo, Laedus.» Andò verso l’orticello, alla ricerca dell’unica persona che, quella notte di tempesta di cinque anni fa, aveva avuto la bontà e la compassione di adottarla.
 «Zia Alun?» La chiamò quando la vide intenta a innaffiare una piantina.
 «Mayve?» La donna si voltò verso la bambina con sorpresa. Abbandonò ciò che stava facendo per dedicare le sue attenzioni a lei. «Sei andata di nuovo ai campi?» Le domandò retoricamente, inginocchiandosi davanti a lei in modo da poter togliere i residui di terra e le erbacce dalla sua gonna. «E’ pericoloso giocare lì.»
«Lo so, zia.» Si limitò a dire.
Quella risposta così breve la stranì, Mayve era solita a raccontare ogni cosa che aveva fatto per rassicurare la zia di non aver combinato nulla di cui potersi preoccupare.
La donna smise di pulire la piccola gonna e guardò la nipote negli occhi scuri. Erano lucidi e tristi.
«Tesoro, cosa succede?» L’abbracciò ancor prima che potesse iniziare a piangere silenziosamente.
 «Mi sento sola.» Confessò la bimba.
 «Ci sono io qui con te.» La allontanò da sé solo per guardarla in viso e asciugarle le lacrime. «Tu non sei sola, capito?»
Ogni volta che si sentiva triste, le bastava quello sguardo dolce e quella voce soave per riscaldarle il cuore di gioia, per sentirsi amata davvero e capire che nemmeno la compagnia di cento bambini avrebbe ripagato l’amore che quella donna le regalava con un solo sorriso.

La baciò sulla fronte e le rimboccò le coperte.
Alun sostò più del solito, perché mentre la guardava dormire, ricordava la notte in cui l’aveva presa dalle braccia di Groewia per adagiarla nelle proprie, cullandola. Suo fratello era appena andato via, in viaggio, come un folle, verso il regno di Lórien. Le sue sorelle e i suoi genitori se ne stavano in cucina a decidere sul da farsi, ignorando il fatto che in quella stanza c’era una bambina affamata e una donna morta per debolezza.
Coprì la bambina con una coperta di lana e raggiunse la famiglia.
 «Cosa stai facendo?» Domandò la madre con tono di scherno, il naso arricciato e gli occhi ridotti a due fessure.
 «Se nessuno ha intenzione di tenere la bambina, allora me ne occuperò io.»
 «Hai già abbastanza a cui pensare: tuo marito è malato, sta morendo!» Urlò il vecchio con un bicchiere di rum in mano, evidentemente poco sobrio.
 «Nessun altro morirà oggi.»
Qualche anno dopo, le due sorelle si sposarono, una restò al villaggio, un’altra partì insieme al marito violento; il padre morì e l’anziana madre si trasferì con il figlio, erano troppo pieni di vergogna per poter continuare a vivere lì.
Così Alun poté prendersi cura della piccola mezzelfa liberamente.
Donare amore a quella piccola la distraeva dal dolore per la perdita del marito.



Gli anni passarono velocemente e la piccola Mayve crebbe.
Quando Alun la guardava, vedeva Groewia: i capelli castani dalle punte morbide, il volto squadrato ma dai lineamenti dolci e delicati, gli occhi scuri a nocciola, le labbra piene e rosee. Solo l’altezza e il portamento erano diversi dalla madre; Mayve aveva dei modi di fare aggraziati e il passo leggero, quasi non udibile, proprio come quello di un elfo.
La solitudine l’aveva resa paziente, ma tremendamente insicura, e l’affetto di sua zia fruttò altruismo, bontà e amore verso la natura.
Mayve passava intere giornate fuori dai confini del villaggio, in mezzo a distese di prati fioriti. Ogni volta che trovava un fiore raro, lo coglieva per portarlo ad Alun, così che lei potesse aggiungerlo alla sua collezione nell’orticello.
Ritornava in casa con scorte di erbe per infusi medicinali e fiori per profumare e colorare la casa. Però, ciò che Alun non sapeva era che Mayve non si guadagnava del denaro vendendo fiori fuori dal villaggio nei fine settimana. In verità, il sabato e la domenica notte, la giovane andava a caccia di cervi e conigli, usando delle trappole che lei stessa aveva costruito con l’aiuto del libro illustrato di caccia.
Aveva provato a costruire un arco, ma non ci era riuscita, così si arrangiava con poco.
Portava la selvaggina nei mercati di un villaggio a due ore dal suo e ritornava a casa il lunedì mattina, stanca e soddisfatta.
La sua era una vita semplice e le andava bene così, o almeno a volte.
Desiderava andare via, disperatamente. Andare alla ricerca delle proprie origini, di suo padre, vivere insieme agli Elfi ed essere accettata per quello che era.
Ma poi ci ripensava, scuotendo la testa e dandosi della sciocca: il suo posto era lì con sua zia, non l’avrebbe potuta mai abbandonare, non dopo quello che aveva fatto per lei.
Alun le aveva raccontato anni prima della storia di Groewia e della sua morte subito dopo il parto, ma non aveva mai fatto parola sul padre. Quelle rare volte che Mayve chiedeva informazioni su di lui, la zia le rispondeva che un giorno, quando sarebbe arrivato il momento giusto, gliene avrebbe parlato.

E quel momento arrivò.

Un lunedì mattina in cui Mayve entrava in casa dopo due lunghi giorni di lavoro, aveva chiamato varie volte sua zia, ma alcuna risposta le era arrivata.
Andò nelle due camere da letto, continuando a chiamarla con preoccupazione.
La trovò distesa supina fra le erbacce, nell’orticello.
A Mayve mancò il fiato nei polmoni per la paura. Si gettò vicino a lei e controllò velocemente il battito e la temperatura.
Aveva la febbre alta.
 «No, no, no.» Diceva, rifiutandosi di ammetterlo, ma purtroppo era così: Alun si era ammalata della malattia che stava correndo da un bel po’ nel villaggio. La prese in braccio e la portò sul suo letto, la distese e la spogliò, lasciandole solo la sottana. Rivestì il suo corpo di pezze bagnate d’acqua fredda, cambiandogliele ogni dieci minuti, nella speranza che la febbre si abbassasse almeno un po’.
Aveva sentito quali erano i sintomi, se la pelle non si riempiva di chiazze violacee, c’era la possibilità di salvarla.
Dopo due ore interminabili passate a cambiare continuamente le pezze, la febbre si abbassò e Mayve poté allontanarsi in cucina per preparare un infuso. Mentre aspettava l’ebollizione dell’acqua, andò a cambiarsi. Fece una pausa dopo aver indossato la gonna: si sedette sul proprio letto e iniziò a piangere. Un pianto liberatorio, isterico. Aveva bisogno di far scivolare via tutta quella tensione che aveva accumulato.
I singhiozzi rumorosi svegliarono lentamente Alun.
 «Mayve?» La chiamò, facendosi sentire solo al terzo tentativo.
La giovane scattò in piedi e fece due respiri profondi per calmarsi.
E’ tutto finito, adesso stai bene. Adesso puoi continuare a essere forte, disse a se stessa, raggiungendo Alun.
 «Come ti senti?» Le chiese, toccandole la fronte ormai fresca.
 «Quando sei arrivata?»
 «Zia, davvero questo è più importante della tua salute?» Solo in quel momento ricordò dell’acqua che stava bollendo. «Ti sto preparando un infuso, sto tornando.»
Andò in cucina, versò l’acqua scottante su una tazza di legno e in un mortaio schiacciò due bacche e un petalo di fiore, quando il composto divenne una pasta omogenea, lo unì all’acqua, mescolò il tutto con un bastoncino e tornò da sua zia. Si rallegrò di trovarla seduta e lucida.
 «Tieni. Bevila tutta.» Le porse la tazza e Alun bevve fino all’ultimo sorso.
 «Grazie, piccola.» Le sorrise e Mayve si sentì subito meglio. «Adesso me lo fai un sorriso?» Non esitò a farlo, avvicinandosi subito dopo ad abbracciarla.
Rimasero vari minuti abbracciate, felici di quell’attimo di pace e serenità.
 «So che invece di vendere fiori vai a caccia il sabato e la domenica.» Disse seriamente, quasi con tono di rimprovero.
La giovane sgranò gli occhi e si sentì come beccata con le mani nel sacco. Si allontanarono e prima di rispondere, Mayve fece un respiro profondo. «Si guadagna di più con la selvaggina. Mi dispiace di averti mentito, ma se non me lo avessi permesso avremmo passato due inverni morte di fame.»
 «Va bene, non voglio discutere su questo.» Allungò una mano su una sua guancia per accarezzarla. «C’è una cosa più importante.» Mayve si preparò comunque a una ramanzina, mai si sarebbe aspettata che Alun avrebbe detto: «E’ arrivato il momento di parlare di tuo padre.»
La mezzelfa perse un battito a quelle parole. Per alcuni secondi rimase a guardare sua zia con un’espressione perplessa e scioccata.
 «Per-» si leccò le labbra, sbatté le ciglia, «perché?»
 Alun le sorrise. «Perché è arrivato il momento giusto.» Disse in una mezza bugia.
Mayve non aveva aspettato altro da anni, aveva sempre desiderato poter conoscere qualcosa su di lui e non ci credeva nemmeno. Sorrise ampiamente per una frazione di secondo, emettendo uno sbuffo allegro. Scosse la testa e guardò la zia negli occhi.
 «Raccontami, allora. Per favore.» Le prese le mani e gliele strinse.
Alun rise teneramente a quella reazione, poi cominciò: «Il suo nome è Haldir, è il Capitano dei Galadhrim, gli elfi che combattono per la loro dama Galadriel.»
Mayve sorrise, si portò le mani alla bocca ridendo di gioia.
 «Allora è vivo, è di Lórien!» Esclamò con gli occhi lucidi.
 «Sì, piccola.»
Ma il volto della giovane si rabbuiò lentamente per un pensiero: «Se è un Capitano ed è vivo, perché non ha mai voluto conoscermi?»
Alun le raccontò la versione completa dei fatti, di come il marito di Groewia urlò quella notte e del ripudio di tutti nei confronti della donna, accusata di tradimento. «Mio fratello andò a chiedere udienza a tuo padre solo per digli che sia tu che tua madre eravate morte durante il parto.»
 «E non sai altro? Sai cosa disse lui in risposta?»
 «No, non ne ho idea. Ma suppongo che Haldir gli abbia creduto, la disperazione di mio fratello lo avrà convinto.»
Mayve si accasciò sulla sedia, si portò una mano ai capelli e scosse la testa. «Perché gli ha detto che anche io ero morta?» Domandò, ingenua com’era.
 «Mio fratello, come il resto della mia famiglia, era egoista e avido di cuore.»
Rimasero in silenzio per un po’, poi Alun disse: «Mayve, io voglio che tu vada a conoscere tuo padre.»
Guardò la zia con gli occhi sgranati, pieni di stupore. «Cosa?» Mormorò col fiato mozzo.
Ciò che stava dicendo le costava tanto, eppure era giusto così: lei doveva andare via. Non poteva più rimanere lì.
 «Questo villaggio non è il tuo posto.»
 «Io non posso lasciarti.» Affermò con apprensione. «Specialmente adesso.»
 «Ascoltami, Mayve: tu devi andare a Lórien, conoscere tuo padre e stare con la tua gen-»
 «Non andrò da nessuna parte senza di te.»
Gli occhi di Alun si riempirono di lacrime, si morse l’interno del labbro e le fece segno di avvicinarsi per stringerla in un abbraccio.
Le accarezzava i capelli mentre la nipote le cingeva la vita. «Io so che conoscerlo è quello che tu desideri fin da quando eri una bambina. E’ il tuo sogno e devi inseguire i tuoi sogni, bambina mia. Non c’è tempo per guardare in faccia la realtà, specialmente alla tua età. Sai quante volte questa avrà modo di buttarti giù? Di prenderti a pugni, a schiaffi, fino a quando non aprirai gli occhi? Sei cresciuta in mezzo a una gente ignorante, che ti ha allontanata per paura di qualcosa che non capivano. Hai accettato una realtà orribile fin da piccola, adesso basta, tesoro. Adesso devi promettermi di inseguire i tuoi sogni, di iniziare a vivere davvero.» Mayve stava già bagnando di lacrime la sottana di Alun. «Promettimi che quando starò meglio prenderai il nostro cavallo alle stalle e andrai a Lórien a conoscere tuo padre.»
In un sussurro, ella rispose: «Te lo prometto.»


Una settimana dopo, quando i primi raggi del sole illuminavano il cielo e gli uccellini iniziavano a cinguettare, Mayve andò alle stalle a prendere il cavallo, che giudò verso la porta di casa sua, dove Alun la aspettava con una bisaccia piena di provviste.
 «Lo hai sellato per bene?»
 «Sì, sembra anche in salute, quindi si prospetta un viaggio tranquillo.» Commentò con una non leggera intonazione di ansia nella voce.
 «Stai tranquilla, andrà tutto bene. Devi solo seguire il percorso nella mappa e fare riposare il cavallo ogni cinque ore.» Le accarezzò una guancia e le pettinò amorevolmente i capelli con le dita, sistemandoglieli per bene. «Mi mancherai.»
In risposta, Mayve le gettò le braccia al collo. Affondò la testa nell’incavo fra il collo e la scapola e le sue narici si riempirono del suo odore: vaniglia e fiori. «Ho paura. Non so di cosa di preciso, forse di fallire.»
 «Non devi. Non c’è niente di cui aver paura.»
 «Mi mancherai.»
Si allontanarono, ma prima che Mayve saltasse sul dorso del cavallo, Alun la fermò per darle una cosa che tirò fuori dalla tasca. Era un fazzolettino piegato in quattro, conteneva qualcosa. Mayve lo prese fra le mani e lo aprì: era una collana d’argento, un medaglione che conteneva all’interno una piccola, ma luminosissima pietra.
 «Quella è una pietra di pura luce stellare. Haldir la regalò a tua madre il giorno in cui le promise che l’avrebbe portata via con lui qualche giorno prima del parto.»
Mayve ringraziò Alun e indossò il medaglione al collo, accarezzandolo con i polpastrelli con delicatezza.
 «Zia, posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Come fai a sapere tutte queste cose su mia madre e mio padre?»
Alun sorrise, si avvicinò per baciare la nipote alla fronte e la spinse verso il cavallo. «Quando tornerai te lo dirò, adesso va’.»
Mayve salì sul cavallo e si sistemò più comodamente che poteva, risultando anche un po’ goffa. Guardò Alun un’ultima volta e prima di partire, le disse: «Ti voglio bene.»



Sostò ogni notte sotto la chioma di qualche albero e faceva riposare una mezzora il cavallo ogni cinque ore di viaggio.
Mentre l’aria le sferzava in viso, Mayve non si era mai sentita così viva.
Più si avvicinava, più il suo cuore si riempiva nel vuoto che era rimasto cupo e silenzioso per anni. Le notti, stringeva il medaglione in una mano e guardava le stelle, immaginando l’incontro con suo padre.
Dopo cinque giorni, quando il cielo iniziava a imbrunire, Mayve si addentrò nel bosco. A mezzora di strada, si accorse di essere arrivata nella radura che veniva indicata come meta nella mappa.
Scese dal cavallo, preferì procedere a piedi e trasportare il puledro dalle redini.
Una sensazione di pace le rilassò i sensi, e nel fruscio delle foglie le sembrava di udire un canto distante, ma al contempo molto vicino. Avanzava lentamente, perché desiderava non farsi sfuggire nulla: quel posto era meraviglioso. Alla sua sinistra una grossa montagnola era ricoperta di un manto d’erba verde; in cima, crescevano due cerchi di alberi: quelli all’esterno avevano una corteccia candida come la neve, erano spogli, ma pieni di armonia nella loro nudità; quelli interni, invece, si levavano in tutta la loro altezza, ancora vestiti di foglie dalle tonalità dell’oro.
Al centro vi era un albero e fra gli alti rami splendeva un bianco flet.
L’erba ai piedi dei tronchi e sulla collina era cosparsa di piccoli fiori d’oro a forma di stella e Mayve non poté fare a meno di coglierne un paio: la zia sarebbe stata felice di aggiungerli alla sua collezione. Il colore dell’oro, si miscelava armoniosamente nell’erbetta con altri fiori di colore verde pallido e bianco.
Prima che potesse andare avanti e incontrare più flet fra gli imponenti rami degli alberi, improvvisamente un gruppo di pochi elfi accerchiarono con archi e frecce Mayve e il suo cavallo. Questo nitrì terribilmente spaventato, ma con le carezze e le gentili parole della padrona, riuscì a calmarsi velocemente.
Coloro che la circondavano erano tutti di sesso maschile, alti e ognuno di loro portava i capelli lunghi, così lisci che le orecchie a punta erano possibili da individuare. Il cuore di Mayve tremò di felicità e timore.
 «Ya naa lle?» Parlò l’elfo dai capelli scuri che le era davanti, colui che le puntava la freccia dritto fra le sopracciglia. Mayve non capì cosa le aveva detto e si ritrovò con le guance rosse dall’imbarazzo.
 «Chiedo scusa, ma non so parlare la vostra lingua.» Riuscì a dire. Due elfi alla sua sinistra si lanciarono un’occhiata interdetta, quasi sbigottita, mentre gli altri non lasciavano trapelare alcuna emozione dai loro volti marmorei.
 «Chi siete voi?» Domandò nuovamente l’elfo, nella lingua comune, così che lei potesse capire.
Ma prima che potesse rispondere, un altro gruppo di elfi raggiunse quello presente. Colui che li guidava richiamò l’attenzione di tutti. Mayve capì che si trattava di qualcuno che loro riconoscevano come un superiore, perché quando parve ordinare qualcosa in elfico, tutti abbassarono gli archi, riponendo le frecce nelle faretre. Quando finalmente Mayve lo poté vedere, identificò il suo aspetto: capelli biondi e lunghi, un volto lungo e squadrato tracciato da lineamenti severi ma morbidi, le labbra sottili e uno sguardo gentile e autoritario.
Quegli occhi su cui Mayve si era soffermata, trovandovi qualcosa di estremamente familiare, si posarono su di lei per la prima volta, guardandola con un’evidente espressione di disorientamento.
 «Groewia?» Mormorò l’elfo, perché quella donna di fronte a lui era terribilmente somigliante a colei che aveva amato un tempo. E che aveva perso.
Allora Mayve capì che chi stava cercando, era colui che le stava davanti.
Il suo cuore prese a battere più forte per l’emozione e gli occhi le si riempirono di lacrime.
 «Era il nome di mia madre.» Disse piano, ma abbastanza forte da farsi udire da Haldir.















Nda

Salve, cari lettori

vi ringrazio per essere arrivati fin qui. Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere in una recensione.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto alle seguite questa storia.

Ps. Nella descrizione del Regno di Lorien mi sono aiutata con il libro di Tolkien "La Compagnia dell'Anello", perché, ad essere sincera, mentre scrivevo ho riscontrato alcune difficoltà.

Grazie ancora,

alla prossima!

 
  
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