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Autore: Nivees    26/11/2016    2 recensioni
[ Lavi/Allen | painter!AU ]
Lavi è un pittore squattrinato, e ha finalmente trovato la sua musa. Ma pur di ritrarla, è disposto veramente a tutto?
«Accetto, ti ho detto».
«Eh? Ah. Ah, okay. Sei... sei sicuro, Lavi?». Il tono di Allen era incerto, con una strana inclinazione nella voce che non capiva – che non voleva capire – con gli occhi grandi e luminosi aperti ma offuscati in qualche modo da una nebbia, come quella foschia parigina che avvolgeva le tipiche notti invernali di chi viveva lungo quel freddo fiume che era la Senna.
«Ma certo, mon amour», ampliò il sorriso, «Dopotutto, avevo già predetto che non saresti riuscito a proporre nulla di tanto malvagio».
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Rabi/Lavi | Coppie: Rabi/Allen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1OO!project ~ DGM!version'
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Camellie

 

I raggi dorati del sole si spensero piano su Parigi, mentre il chiacchiericcio degli abitanti sfumò sempre di più. Il cielo si scurì e con luce tenue i lampioni iniziarono a costellare di piccole stelle la città, indicando la strada alle anime vaganti che tornavano a casa dopo estenuanti ore di lavoro, finalmente con la mente e il cuore leggero.
     Lui no, però. Lavi Bookman aveva assaporato per tutto il giorno l'ozio di una vita sedentaria, di un lavoro che gli permetteva di restare nel suo comodo letto fino a tardi e di addormentarsi con altrettanta libertà. Come un artista degno di un tal nome, vantava di poter fare ciò che più gli aggradava fino a quando l'ispirazione non lo coglieva – e fino a quando la sua musa non si presentava di fronte alla porta di quel povero appartamento che affacciava sulla Senna. Aah, la sua musa – Lavi, come artista, si era sempre definito un genio, prima di incontrarla. Non aveva mai avuto bisogno di un modello da osservare e non ne aveva mai voluti; questo perché gli bastava solo vedere qualcosa, qualsiasi cosa anche solo una volta e la sua mente la registrava, e se lo avesse ritenuto all'altezza sarebbe potuto divenir persino il soggetto di uno dei suoi dipinti – ma ora tutto era cambiato, a causa sua.
     Guardò fuori dalla finestra distrattamente, notando che ormai il sole era sparito all'orizzonte e sorrise in attesa di dolci passi che sgambettarono lungo la scalinata e di un delicato bussare che, puntuale, fece rumore contro il legno umido della porta. Corse per quanto i giornali e le tele sparsi per terra poterono permetterglielo e spalancò la porta, «Ah, mon amour! Mia dolce musa, sapevo che saresti venuta da me!».
     Sentì uno sbuffo leggero uscire da quelle rosee, sottili e dolci labbra. Si prese un attimo per ammirare la sua bellezza che dopo tanto penare finalmente aveva deciso di far mostrare nel suo umilissimo atelier; guardò quei grandi occhi color della luna lucente spostare lo sguardo lungo tutte le cianfrusaglie che lo accolsero ai suoi piedi; vide una sua mano dalle dita lunghe e sottili portare un ciuffo argenteo dietro l'orecchio, mostrando un piccolo orecchino al lobo sinistro. Non ebbe più tempo di dedicarsi ad altro – anche l'occhio vuole la sua parte, soleva ripetersi spesso – e lo fece entrare, notando come si stesse spazientendo dal suo continuo mordicchiarsi leggermente il labbro inferiore. «Piantala con questi nomignoli, Lavi, non mi piacciono» minacciò con voce angelica – o almeno, così parve a Lavi, forse con la vista e le orecchie troppo offuscate dalla sua musa così bella.
     «Oh ma sai, se proprio non ti piacciono ho ben altri modi per definirti, ad esempio: luce dei miei occhi, raggio di luna in una buia notte, mio unico amo–».
     «Lavi!» lo interruppe che non era arrivato nemmeno a metà della sua lunga lista, portandogli una piccola manina sulle labbra, con le guance rosse ma con una vena sulla sua fronte che pulsava pericolosamente. Sorrise sotto le sue dita, addolcendo lo sguardo e pensando che sarebbe valsa la pena dipingere un viso del genere, a costo di qualsiasi cosa. Lo sentì sospirare. «Ti prego di smetterla di prendermi in giro, non sono niente di tutto ciò, chiaro?».
     «Mon coeur, non parlarmi così. Ti ho scelto tra milioni e milioni di volti parigini tutti uguali e insipidi, tu che quel giorno brillavi come una stella sperduta in un universo dove ormai non è rimasto altro che cumuli di soli spenti». Lo guardò, osservò ogni suo delicato movimento mentre si sedeva sul letto attaccato al muro, sotto la finestra aperta. Entrò una leggera brezza che gli scompigliò quei bei capelli d'argento raccolti in una coda bassa, quindi decise di socchiuderla prima che potesse entrar troppo freddo – che nonostante fosse appena Settembre, il fiume rabbrividiva l'aria persino prima che scoccasse la mezzanotte. «Hai detto che non sei niente di tutto ciò che ho affermato, dico bene? Quindi non sei nemmeno la mia musa, mon trésor? Prima che tu risponda con un semplice e banale e, oltrettutto, categorico no, puoi spiegarmi allora come mai hai accettato finalmente l'invito di entrare nella mia piccola dimora che non aspettava altro che accoglierti?».
     «Innanzitutto, chiamami per nome, per favore. Basta con questi stupidi appellativi in francese che nemmeno riesco a comprendere».
     «Preferisci qualcosa nella tua lingua madre? My sweetheart, my darling...».
     «Preferisco solo Allen, fine della questione!» sbottò infine, incrociando le braccia al petto.
      Aah, il suo nome. Lavi amava il suo nome, era così melodico alle sue orecchie, gli calzava così perfettamente. Lo aveva amato dal primo istante in cui l'aveva sentito, mesi addietro, quando si erano conosciuti in quella piccola bottega al centro di Parigi. Ricordava ancora, Lavi – e come dimenticarlo quel momento, quando lui, così piccolo ma così luminoso, sperduto in una città grande che non conosceva parlando una lingua che nessuno comprendeva, gli aveva chiesto aiuto e lo aveva fatto sentire come se fosse diventato la sua àncora di salvezza. Fu il fato, un destino a cui nemmeno credeva, ad esser sinceri, ad organizzare quell'incontro.
     «Comunque... sono qui per farti una proposta», la sua voce fermò il dolce flusso dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Assunse un'espressione confusa, anche se si era aspettato, non appena lo aveva sentito salire su per le scale, che in quella testolina qualcosa stesse covando. Era preparato a ciò, comunque: purché accettasse di posare per lui era disposto a tutto e avrebbe contrattato con tutte le sue migliori doti. E in quanto a parlatina, si riteneva piuttosto bravo – l'umiltà non era il suo forte: era un genio, sapeva di essere un genio e vantava di essere un genio, dopotutto. «Ci ho pensato... beh, a dire il vero mi hai costretto a pensarci, dato che riesci ad essere davvero, davvero fastidioso quando desideri qualcosa. Quindi dopo la tua ultima, uhm... dichiarazione, ci ho riflettuto e ho deciso che lo farò. Poserò per quel tuo quadro, se è questo ciò che vuoi. Ma» aggiunse subito, prima ancora che Lavi potesse iniziare ad esultare e correre a baciarlo – la tentazione c'era, e non aveva paura ad ammetterlo, «Lo farò solo se accetti questa mia proposta».
     Rispose senza pensarci. «Accetto».
     «Ma non te l'ho nemmeno detta!».
     «Non può essere nulla di così terribile, sono di questo parere. Ti considero una persona troppo buona per propormi qualcosa di cattivo» e sorrise, con un sorriso un po' stupido ma al quale Allen non sapeva resistere, ne era sicuro.
     Ed infatti lo vide abbassare gli occhi, ma prese coraggio e, chiudendoli, un po' come se non volesse vedere il suo volto e quel sorriso che continuava ad indossare, continuò: «Se mi ritrarrai, staremo insieme tutto il tempo che ti serve per finire il quadro, ma una volta terminato, non mi vedrai più. Ma se ci rinunci, ora, ovviamente... ovviamente resterò qui, con te, per... sempre, no, fin quando vorrai, ecco».
     Ci fu il silenzio, con quelle ultime frasi che echeggiavano nella piccola stanza e nelle orecchie di Lavi. Gli unici rumori che sentì provenivano dalle strade trafficate di Parigi, voci di donne che chiamavano clienti a gran voce, uomini ubriachi che cantavano intonando canzoni verso la loro amata. Era questa Parigi, non appena il sole scompariva, era allegra ma anche cupa, ridente ma che nascondeva un piccolo lato triste come tutte le città di questo mondo rotto. Ed era un po' come si sentiva anche lui stesso, in quel momento; sorrideva ancora eppure, dentro di sé, la voglia di ridere proprio non la trovava.
     «Accetto, ti ho detto».
     «Eh? Ah. Ah, okay. Sei... sei sicuro, Lavi?». Il tono di Allen era incerto, con una strana inclinazione nella voce che non capiva – che non voleva capire – con gli occhi grandi e luminosi aperti ma offuscati in qualche modo da una nebbia, come quella foschia parigina che avvolgeva le tipiche notti invernali di chi viveva lungo quel freddo fiume che era la Senna.
     «Ma certo, mon amour», ampliò il sorriso, «Dopotutto, avevo già predetto che non saresti riuscito a proporre nulla di tanto malvagio».

La prima volta che Allen Walker era entrato nella suo piccolo appartamento – atelier, lo definiva Lavi – ci era rimasto il tempo di un quarto d'ora, e si era reso conto solo del caos di giornali e tele ma che non davano affatto senso di sporcizia. Non aveva fatto caso a nient'altro, troppo perso in altri pensieri per poter prestare attenzione ad altre cose. Ora che era di nuovo lì, si prese qualche momento per guardarsi attorno e vedere quanto in realtà ci fosse ordine nella confusione intorno a sé; vide che i libri erano sì ammucchiati da una parte, ma erano divisi in base a ciò che trattavano così come i giornali erano scrupolosamente sottolineati ed evidenziati, mentre le tele erano sparpagliate in giro, ma erano tenute con cura quasi maniacale – non avevano alcuna macchia, niente sporco o qualche graffietto dato dalla poca curanza. C'era un'ampia finestra da dove si poteva vedere la maggior parte di Parigi e il panorama che il fiume Senna creava – non si era nemmeno reso conto, salendo le scale, che erano nella soffitta di uno degli edifici più alti della città.
     «Bel paesaggio, nevvero, mon amour? L'ho ritratto tante volte, lo ammetto, ma nonostante la mia bravura non sono mai riuscito a rappresentare tutta la sua reale bellezza». Lavi uscì da una porta seminascosta in un angolo che forse portava al bagno, o forse un'altra stanza come la cucina o lo studio; Allen preferì non indagare, «Non fare quel faccino crucciato, con te sarà sicuramente diverso».
     «Ti dai molte arie» constatò ovvio, con voce monotona.
     «Soltanto sul mio campo, l'unica cosa di cui posso vantarmi di essere bravo».
     «Leggi libri complicati, studi la storia contemporanea... Non sei solo bravo a dipingere, vedo».
     Rise. «Meglio se la smetti. Così mi fai arrossire, sai» mosse con nonchalance il pennello che aveva intrappolato tra le dita come se stesse scacciando via una mosca fastidiosa. Allen lo vide prendere uno sgabello e un piedistallo che erano poggiati instabilmente al muro e li depositò di fronte al letto, perdendo qualche minuto a cercare l'angolazione giusta. Chiedendosi cosa stesse facendo, fece per parlare ma la sua voce lo fermò. «Mettiti sul letto» ordinò, prendendo una tela vuota e mettendola sul piedistallo, «Seduto, magari accanto alla finestra. Fa' finta di star guardando qualcosa fuori, ma in modo vago come... uhm, come se stessi cercando di guardare oltre».
     «Oltre cosa?».
     «Quello sta a te capirlo, ovvio. Io dipingo ciò che vedo, dopotutto».
     Allen sapeva che tipo Lavi fosse. Era intelligente e studiava le persone, un po' come se fossero libri di storia da dover ricordare altrimenti non avrebbe saputo come comportarsi, però – e Allen non era sicuro di ciò, era solo una sensazione – sembrava si fermasse lì. Leggeva le persone per come erano fuori, riusciva a conoscerle a menadito cercando persino di capire il loro passato, più o meno, ma non riusciva a vedere come fosse una persona dentro, come si sentisse in un tal momento. Non leggeva tra le righe. Forse non ci riusciva, forse non voleva, forse non ci riusciva con se stesso e allora non voleva farlo con gli altri. Aveva capito questo lato di Lavi constatandolo sulla propria pelle, dato che lui no, non aveva capito cosa Allen provasse in quel momento e come si sentisse. O per meglio dire, non aveva capito cosa lui volesse.
     Scuotendo lievemente la testa, per togliersi i brutti pensieri dalla mente probabilmente, cercò di mettersi nella posizione indicatagli dal pittore, ma con scarsi successi. Si sentiva a disagio, e poi quello sguardo così intenso su di sé... lo fece arrossire senza nemmeno rendersene conto.
     «Allen, sii più rilassato» rise ancora, «E nonostante mi piaccia quel meraviglioso color roseo sulla tua carnagione pallida, cosa farai quando ti chiederò di spogliarti?» e le risa aumentarono.
     Il suo respiro si fermò per un intero minuto interminabile. Poi si rilassò: stava scherzando, di sicuro. «Idiota».
     «Come?». Sembrò confuso.
     «Ti prego di smetterla di dire queste sciocchezze».
     «Ma quali sciocchezze, mon trésor? Ti dovrai spogliare, ma non sarai completamente nudo: guarda, prendi quel lenzuolo e avvolgilo al bacino, così i tuoi bijoux saranno al coperto». Trafficò con vari pennelli, prese la tavolozza di legno e ci spruzzò vari colori – tra cui spiccavano il bianco e e vari colori scuri. Probabilmente si insospettì dal fatto che Allen non stesse dicendo niente durante i suoi preparativi – o forse solo dal fatto che non si fosse ancora spogliato come gli aveva indirettamente ordinato – così alzò l'occhio visibile dai vari colori e lo fissò. «Cosa c'è, Allen? Qualcosa non va?».
     A quel richiamo, Allen abbassò lo sguardo sulle sue mani coperte da dei guanti. Si sentì improvvisamente a disagio, ed era persino arrabbiato perché no, non poteva chiedergli una cosa del genere; già era contrario, molto contrario, al fatto che lo volesse ritrarre nel quadro che, a detta sua, sarà il miglior capolavoro di sempre perché adesso la mia dolce musa non sarà solo la mia fonte di ispirazione, ma la degna protagonista, ma avevano fatto quel patto, e dunque non poteva più sottrarsi. Si toccò leggero la guancia sinistra, lì dove luccicava più chiara sulla pelle una lunga cicatrice; odiava il suo aspetto, odiava le sue imperfezioni e quel viso sfregiato, quel corpo deforme. Ancora non capiva perché Lavi fosse così fissato con lui e perché avesse scelto proprio lui, davanti a tutta la bella popolazione parigina, come sua musa. «Non... non voglio, Lavi» pronunciò con flebile voce, torturandosi le dita. Che lui ritraesse solo il viso era un conto, ma tutto il corpo... non poteva sopportarlo.
     «E perché mai? Sei così bello, hai una pelle del colore di una bambola di porcellana, è un peccato non mostrare al mondo tale–».
     «Non lo farò!» sbottò, alzandosi in piedi e fronteggiandolo. Le mani che tremavano, la voce ancora di più – aveva già perso in partenza se aveva così i nervi a fior di pelle, ma non poteva fare altrimenti. «Non sono bello, chiaro? Tu... tu non sai come realmente sono, come è davvero il mio corpo e i segni che porta. E sono sicuro che semmai lo vedresti, semmai vedresti come sono fatto, saresti così disgustato da voler rinunciare a quello stupido dipinto che desideri tanto fare e scappare via a gambe levate! Ero così contrario a tutto questo anche per la mia faccia così rovinata, se ti faccio vedere il resto, i motivi per non restare qui un minuto di più non faranno altro che aumentare!».
     Prima di allora, i silenzio tra loro erano stati veramente pochi. Lavi sapeva essere davvero petulante e chiacchierone, e nonostante lui non parlasse chissà quanto, la parlantina veloce dell'altro bastava per entrambi e persino avanzava – a volte tornava a casa, dopo che si incontravano ad una qualche locanda, con un mal di testa allucinante. Eppure, da quando c'era quella specie di tensione tra loro a causa di quel quadro, aveva spesso lasciato Lavi senza parole.
     Come in quel momento. Lo fissava intensamente, senza fiatare, seduto su quello sgabello, i gomiti poggiati sulle ginocchie e il mento appoggiato sulle mani a mo' di preghiera. L'occhio visibile scintillava di quel verde smeraldo lucente, quel verde che nella sua lontana e grigia Londra non aveva mai visto, ma che aveva avuto la fortuna di trovare lì a Parigi. E mentre lui restava così in silenzio, cercò di calmare quel respiro affannoso, le gambe tremanti e il suo cuore inquieto.
     «Allen». Quasi mai lo chiamava per nome – continuava ad usare quegli irritanti nomignoli francesi che tanto odiava – ma ora che lo fece, con un tono serio ma non minaccioso, gli si contorse lo stomaco, ma non era una brutta sensazione. Serio, me che gli diede una strana sensazione di calma apparente. «Allen, spogliati».
     «Hai almeno capito cosa ti ho appena urlato contro almeno?!».
     «Ma certo che ti ho sentito, e anche molto chiaramente direi. Allen, il tuo viso non è affatto rovinato. Non so che storia nasconde dietro di sé, ogni cicatrice, dopotutto, ne nasconde una, ma è proprio ciò che lo rende così unico e bello. Perché tu sei bello, Allen. Mi pare di avertelo ripetuto fino alla nausea, mia musa». Si alzò, accennò un buffo sorriso che di buffo non aveva nulla, e gli si avvicinò. Alzò una mano e, leggera, con la punta delle dita, tracciò il profilo dello sfregio sulla sua guancia. «Spogliati e fammi vedere, mostrerai soltanto a me come è il tuo corpo adesso, Allen. Lo vedrò, vedrò cosa ti turba tanto e ti dirò se ti renderà ancor più bello come questa cicatrice, o se conviene nascondere tutto. Ma sono convinto, davvero convinto, che tu saresti bello anche senza un braccio e con due teste, mon amour».
     Dopo quelle parole, non sapeva se alzare gli occhi al cielo, rassegnato; sbuffare come una locomotiva, irritato; o andare a buttarsi nel fiume, imbarazzato. Avrebbe scelto molto volentieri l'ultima opzione, se non fosse per la sua mano che ancora carezzava leggera ma ruvida come una foglia – o come un pennello, e per le gambe molli. Quindi si limitò ad abbassare di nuovo lo sguardo, nascondendo dietro i capelli il rossore che gli imporporò le guance, e annuì. Sentì il suo occhio intenso fissare le sue mani tremanti andare a sbottonare, lentamente, i bottoni della camicia.
     «Poi... poi non dirmi che non ti avevo avvertito».

Uno sbuffo. «Manca qualcosa, qui».
     «Sì, i miei vestiti».
     «No, non ho bisogno di quelli. C'è qualcosa che dovrei aggiungere, ma...».
     «Ecco, non ti torna perché sono i miei vestiti che dovresti aggiungere!».
     Un altro sbuffo, poi nessuno dei due parlò. Era soprendente la capacità di Lavi di concentrarsi, quando doveva far qualcosa di importante. Nonostante gli avesse ripetuto ben varie volte di dover guardare oltre fuori dalla finestra, lui non riusciva a staccare lo sguardo dal suo volto e dalla ruga concentrata che intravedeva sulla fronte, tra i vari ciuffi rossi di capelli ribelli. In quel momento non aveva quell'espressione tonta che soleva mostrare – nonostante non fosse affatto tonto – e lo affascinava, anche se continuare a provare quei sentimenti per qualcuno che lo considerava solo un qualcosa da dover ritrarre faceva male, tanto.
     «Manca qualcosa, e non continuerò finché non la troverò». Si guardò intorno, seguì il suo sguardo non posarsi su nulla in particolare, finché non incontrò i suoi occhi. «Allen, vieni qui un attimo» aggiunse, attirandolo a sé con una mano.
     «Sono nudo, non posso alzarmi».
     «Puoi tenertelo il lenzuolo, eh».
     «Potrei sporcarlo strusciandolo per terra, e poi mi vien freddo con i piedi nudi sul pavimento gelido!».
     Ci fu il terzo sbuffo della serata, «Siamo solo al secondo incontro per questo lavoro, e già stai dando tanti problemi». Prima che potesse ribattere con un puoi anche rinunciarci, sai?, Lavi si alzò dal suo sgabello, si avvicinò con passo quasi marziale e, senza neanche rendersene conto, sentì le sue braccia sotto di sé, sotto le sue gambe e dietro la sua schiena. «Così» tentò di spiegare, mentre Allen si limitò a boccheggiare senza saper cosa dire, reggendosi a lui con il terrore che potesse farlo cadere, «Così almeno la mia dolce musa non prenderà freddo».
     La sua mente fu completamente bianca, nessun pensiero coerente o altro. Le uniche cose che dissero le sue labbra, piano, nel suo orecchio furono: «Lasciami, oh Dio, mettimi giù ti prego». Lui sembrò non sentire le sue parole, forse perché il suo cuore batteva così forte che paradossalmente lo fece divenire sordo, o forse fece finta di non sentirlo – cosa più probabile.
     Si sedette di nuovo sul piccolo sgabello di fronte alla tela, tenendolo sulle gambe e avvolgendogli un braccio lungo la vita. «Guarda il dipinto. Non dovresti in effetti, avrei preferito che tu lo vedessi una volta terminato, ovvio, ma vorrei sapere cosa ne pensi: Allen, secondo te cosa manca?».
     Caldo in volto – perché mai poi, si chiese – portò gli occhi argentei sul quadro. In appena due giorni, tra cui uno speso solo a litigare per la sua nudità ed inutile dire che l'aveva avuto vinta lui, con la sua parlantina allegra e con le sue belle parole, che lo avevano fatto sentire così bene anche con quel braccio rosso e deforme che aveva, nonostante ciò il quadro era già a buon punto. Lavi aveva dipinto lo sfondo a chiazze, intravedeva la forma della finestra e la sua stessa sagoma, che anche se sembrasse solo semplicemente una macchia rosa pallido – aveva davvero la pelle di quel colore? – riusciva a distinguerlo ben bene, e il bianco del lenzuolo che lo avvolgeva. Forse non era neanche a metà, eppure sembrava già un capolavoro: le pennellate sembravano ali di piccole farfalle e i colori chiari si univano a quelli scuri quasi come se si stessero avvolgendo, come in un abbraccio. Allen purtroppo non ne capiva molto di queste cose, e il fatto che il dipinto non fosse terminato rese più difficile rispondergli.
     «Forse... forse manca del colore». Indicò con un dito, senza osare toccarlo, un punto del quadro, «Uhm, qui, credo. Credo che ci vada bene un colore... acceso, ma non troppo... giusto per fare vedere del distacco?». Uscì fuori dalle sue labbra come una domanda anche se non era quella l'intenzione. Si sentì un po' stupido, lui, che di quelle cose non ne sapeva assolutamente niente, a dirgli che mancava del colore. Che colore poteva mancare? Cosa significava poi che mancava del colore? Dipingeva ciò che vedeva dopotutto, non poteva aggiungerci cose che non c'erano...
     «Capisco».
     «Davvero?». C'era scetticismo nella sua voce, considerando che l'osservazione fosse proprio sua, poi. «Cioè, voglio dire, non so nemmeno io cosa intendessi, è solo perché ho visto che... Bianco, c'è troppo... E poi sembra che ci siano soltanto gli stessi colori quindi credevo...».
     «Allen, mon trésor, ti ho detto che ho capito» rise, scompigliandogli i capelli. Quella mano grande e affusolata, con quelle dita da pittore macchiate di mille colori che, nonostante sparissero con un po' d'acqua rimanevano radicati nel profondo, afferrarono senza stringere l'argento vivo dei suoi capelli alla nuca, costringendolo a girare la testa verso di lui, «Aah, i miei occhi stanno iniziando ad invecchiare. Ormai non riesco più a cogliere quei colori nascosti che ogni artista dovrebbe notare».
     Guardò dentro quell'occhio smeraldino, vedendoci mille sfumature d'oro date dalla luce opaca della lampadina attaccata al soffitto. «Non... non dovresti prendermi sul serio, non ne capisco molto di queste cose».
     «Come potrei. Sei stato utile, mon trésor».
     «Lavi... Lavi...».
     Gli occhi gli si offuscarono, ma riuscì a vedere chiaramente, nonostante fosse stordito, il suo volto avvicinarsi lentamente ed un leggero sfioramento di labbra. I loro respiri si infransero come rocce in una frana, erano respiri profondi e affannosi, così vicini che Allen ne sentiva il calore contro di sé.
     Poi l'idilliaco momento finì – anche se non era nemmeno mai iniziato; gli portò una mano sulle labbra, staccando lo sguardo e rise, imbarazzato, con il viso nascosto dai capelli. «Ah, aaah Lavi! Si è fatto tardi, devo andare!» strillò – non proprio, ma per i suoi standard trovò la sua voce terribilmente stridula ed irritante – e si alzò di scatto dalle sue gambe, fregandosene dei piedi nudi e rischiando di inciampare nel lenzuolo.
     Un altro sospiro. «Allen, dove vai?».
     «Come dove vado? Non vedi come è tardi?! Guarda, il sole è già calato e io purtroppo non ho tutte le sere a disposizione: devo andare alla locanda, oggi sono di turno e sta per iniziare e se voglio portare qualche gruzzolo a casa devo darmi da fare, purtroppo i soldi non crescono sugli alberi e purtroppo i miei debiti si stanno accumulando sempre di più...», parlò a bassa voce, mangiandosi un po' di parole tra i vari morsi che si diede alle labbra, i vari purtroppo usciti con un tono un po' – tanto – nervoso.
     «Anche questo lavoro ti darà un bel gruzzoletto» gli fece notare lui, tranquillo – forse.
     «Non voglio quei soldi».
     «Sono sempre soldi per pagare i debiti, no? Che differenza fa?».
     «Non voglio avere dei soldi... così».
     «Mi sembra un lavoro più che onesto, che diamine stai dicen–».
     «Non voglio i soldi guadagnati da quel ritratto!» lo interruppe, sbottando. Subito dopo si morse la lingua, sentendo leggermente il sapore metallico del sangue nella bocca. Si pentì subito di quell'uscita poco elegante, chissà cosa in quella testa che tanto pensava stesse frullando in quel momento; forse si era offeso, forse ci era rimasto male per quella poca fiducia. Forse non era riuscito a cogliere il vero motivo per il quale Allen avrebbe odiato quel quadro per il resto della vita. «Io... io vado, allora» mormorò. Prese coraggio e gli diede le spalle.
     Lo fermò. «Allen, io...».
     «Lavi, devo andare, è tardi, devo... devo andare a lavoro e...».
     «Non lo metto in dubbio ma, uhm, ecco, volevo farti notare che non hai rimesso i vestiti. Hai intenzione di andare alla locanda nudo?».
     Si fermò con un piede sospeso verso la porta, il volto bruciò dopo quelle parole come un tizzone ardente e riprese con mano malferma il lenzuolo che gli s'era calato un po', in modo tale che si ricoprisse completamente. Testa compresa; non voleva fargli vedere come le sue guance e le sue orecchie fossero calde d'imbarazzo, adesso la voglia di scappare era persino maggiore di prima. Rise, Lavi in quel momento scoppiò a ridere e probabilmente rideva di lui perché si era ridicolizzato in maniera tale che avrebbe reso difficile dimenticarsene in fretta. Lui che le cose spiacevoli tendeva sempre a ricordarle, tornavano sempre nella mente come un chiodo che veniva continuamente martellato. Era estenuante, lo era sempre stato – e sembrava che lo perseguitassero, i brutti avvenimenti d'altronde avrebbero sempre fatto parte della sua vita, ormai.
     «Oh, mon amour». Lavi avvolse le braccia intorno a quel fagotto bianco in cui si era tramutato e Allen sentì delle leggere pressioni sul capo Aveva appoggiato la guancia? O erano piccoli baci? «Stai tranquillo, non agitarti così per nulla».
     «Per nulla, dice» brontolò, stanco di ritrarsi, stanco di voler scappare da quelle mani da pittore così belle. Chiuse gli occhi, con la testa offuscata e le orecchie che fischiavano, lasciandosi cullare.
     «Dimmi un po', Allen: qual è il tuo fiore preferito

Camelie.
     Quando tornò nell'atelier di Lavi per il loro terzo incontro, il suo letto era ricoperto di bianche camelie dalle sfumature rosee. Rimase a guardare quei petali, gli occhi che gli brillarono di meraviglia, sull'uscio della porta con ancora la maniglia stretta tra le dita. Lavi era appoggiato al muro poco distante, in una posa casuale con un'espressione altrettanto casuale che però nascondeva un ghigno compiaciuto – doveva essere contento di quel che aveva scatenato in Allen, con quei fiori che solo quelli, semplicemente posati con leggerezza su delle lenzuola bianche, potevano essere definiti un'opera d'arte.
     «Perché?» riuscì solo a chiedere, senza staccare lo sguardo dal letto. Pensò a quel giorno e no, non era di certo il suo compleanno; forse quello di Lavi? No, nemmeno: ricordava di averlo festeggiato appena il mese prima, nella locanda dove lavorava ogni tanto, insieme ad un gruppo di suoi amici con i quali non era neanche riuscito ad interagire per bene, a parte qualche parolina e al massimo le ordinazioni. Quindi l'unica cosa che riuscì a dire – e a ripetere – fu: «Perché?».
     «Non ricordi cosa ti ho chiesto, l'altro giorno, mon amour? So già che non te lo ricordi, non importa che tu mi risponda. Sappiamo entrambi che non eri molto sveglio in quel momento, con la testa fra le nuvole». La sua occhiataccia, come molte volte prima di questa, non bastò a zittirlo, «Ti chiesi: qual è il tuo fiore preferito?».
     «Non ti ho detto di certo le camelie...» mormorò, cercando di ricordare se, effettivamente, gli avesse risposto camelie pensando ad altro.
     «No, infatti mi hai risposto dumplings. Devo dire che mi interessava sapere quale fosse il tuo piatto preferito, non mangiamo mai insieme dopotutto e adesso che so cosa ti piace qualche volta posso farti trovare al massimo un bel piatto di ravioli ripieni quando arrivi, ma comunque non era ciò che ti avevo chiesto» rise fragorosamente, staccandosi dal muro e andando a scompligliargli i capelli, «Nonostante, però, la tua mancata risposta, ho pensato a qualche fiore che ti rispecchiasse, considerando ogni sfumatura dei petali e al significato stesso del fiore. Sono arrivato alla conclusione che le camelie siano dei fiori perfetti per te. E poi guarda, non è come avevi detto tu? Questo rosa che contorna i petali è un colore forte, ma la sfumatura che crea con il bianco del resto del fiore lo rende non troppo forte» iniziò a spiegare, eccitato, prendendo un bocciolo tra le mani e mostrandoglielo. Allen non parlò, accettando soltanto il fiore tra le dita, stringendolo appena e sentendone la consistenza morbida e liscia. Chissà quale fosse il significato delle camelie, chissà cosa Lavi ci aveva visto di lui in quei petali così perfetti.
     Ovviamente. Ovviamente era per il dipinto se aveva fatto quella cosa così bizzarra, non per altro. Sentì l'amaro in bocca per tutta la sera, lo stomaco sottosopra per tutto il tempo, mentre restava fermo e in silenzio, tra quelle lenzuola, tra quei fiori e petali bianchi e rosa. Non parlò, nemmeno per lamentarsi e neanche lui spiccicò parola, concentrandosi solo nel dipingere, non pronunciando nemmeno una misera battuta per tutto il tempo. Sentiva che ogni giorno, dall'inizio di quel lavoro, qualcosa si stesse incrinando sempre di più nel loro rapporto: se prima, nonostante si incontrassero non poi così spesso, quando stavano insieme c'era sempre quella sensazione di leggerezza che aleggiava tra loro, che lo faceva sentire così bene perché con lui quasi dimenticava i brutti ricordi, tutte le perdite e gli abbandoni, tutti i debiti, tutte le cose brutte che aveva fatto in soli venti anni di vita. Li dimenticava nonostante fosse impossibile dimenticare, ed accadeva solo quando lui gli volteggiava intorno, chiacchierando ininterrottamente, decantando qualche dichiarazione alla sua bella musa, chiamandolo da lontano mon amour, facendo girare tutti i clienti della locanda e scatenando risa incontrollate quando vedevano che colui che era stato chiamato così era il ragazzino inglese e non qualche gentile e bella donzella, quello che non riusciva a parlare e non capiva nemmeno una parola di francese, quello che ad ogni suo appellativo le guance gli si accendevano di un rosso scarlatto e gli urlava contro varie imprecazioni in inglese.
     Si rese conto che persino quegli imbarazzanti appellativi in francese erano diminuiti. Ormai sembrava che lo chiamasse Allen molto più spesso, con nessuna particolare incrinazione nella voce. Lavi era cambiato, o forse era stato lo stesso Allen a cambiare – in ogni caso, sarebbe tornato tutto come prima? O le cose sarebbero peggiorate? La risposta la conosceva, era ovvia. Nulla sarebbe migliorato.
     Allen non chiese il significato di quei fiori, né quel giorno, né quelli seguenti. E così come finirono le parole tra loro, Allen iniziò ad odiare le camelie davvero.

«Sai, l'ho terminato».
     «Mh».
     «Il dipinto, dico. Anche se durante le ultime sessioni non ti sei presentato, mi mancavano comunque alcuni particolari che non necessitavano la tua presenza».
     Allen fece una leggerissima smorfia. Se non avesse un occhio così vigile e attento, nemmeno lui stesso se ne sarebbe accorto, ma subito tornò con un'espressione impassibile. «Mh».
     «È venuto davvero bene, sai? Sarò di parte, ma è davvero un capolavoro. Forse perché il soggetto sei tu, dopotutto. Che ne dici di venire a vederlo? Potrei prepararti quei ravioli che ti avevo promesso, nonostante non sia un così bravo cuoco. Purtroppo l'arte del dipinto non compensa quella culinaria, ahimé, un vero peccato, magari se fossi diventato uno chef invece che un pittore, avrei buttato più grana nelle mie tasche, ma di che mi lamento dopotutto? È una questione di talen–».
     Lo zittì con uno sbuffo – forse era suggestione, ma sembrò un singhiozzo, «Non sono così entusiasta di vedere quel quadro, Lavi. Ti pregherei di non assilarmi ulteriormente e di lasciarmi lavorare».
     La locanda dove Allen lavorava si trovava in quella periferia che però non si allontanava molto dal centro. Era un posto caldo e accogliente, dove la gente poteva ubriacarsi ma senza provocare poi così tanti danni – ma quello dipendeva dalle situazioni, ovviamente. Lavi ci andava spesso, persino prima di incontrare la sua musa, ma da quando c'era lui, sembrava essere diventata la sua seconda casa. Ed era lì che incontrava la maggior parte dei suoi clienti, uomini d'affari che volevano bere un po' di birra lontano dal proprio lavoro e dalla propria moglie, ma che si ritrovavano a comprare quadri per arredare casa, ammaliati dalle sue belle parole – o forse perché semplicemente volevano che si silenziasse quindi facevano ciò che voleva, ma perché sminuire così tanto il suo operato, d'altronde?
     Quel giorno, però, la locanda era semivuota. C'era giusto un uomo che corteggiava una donna, la quale aveva già affogato i suoi dispiaceri in qualche liquore bello forte, e un gruppo di ragazzini che speravano nella loro buona stella, nella fortuna di avere qualche birra senza dover mentire riguardo la loro età. Ma sembrava così fredda e spenta, nonostante le luci gialle e calde delle lampadine. Forse il tutto andava di pari passo con l'umore tetro di Allen, che continuava a non guardarlo negli occhi, tenendo i suoi fissi sulla pezza con la quale ripuliva i residui di varie cibarie e bevande dal bancone.
     «In realtà, non l'ho ancora terminato. Il dipinto, dico, non è completo. Manca un ultimo passaggio, una cosa che si può fare solo alla fine, e ovviamente manca la vendita. Fino a che non vendi una tua opera, non puoi mai dire di averla davvero finita. Possono esserci sempre gli ultimi ritocchi e un'ultima ricontrollatina, e questo succede sempre finché non te ne liberi. Un artista troverà sempre qualche piccolo particolare da dover ritoccare, fino alla vendita». Allungò appena le dita sul bancone, andando ad accarezzare il dorso della sua mano che si era fermata a metà del lavoro. Ancora non lo guardava negli occhi, «Quindi direi che il... nostro patto, ecco, comprenda anche quest'ultima parte. In poche parole, Allen, potrò vederti fino alla vendita del quadro. Me lo permetti?».
     Finalmente alzò lo sguardo, incontrò quelle due piccole perle lucide, un po' stanche, un po' deluse, un po' tristi. Quegli occhi di mercurio sarebbero stati la sua rovina, o forse la sua fama. Avrebbe potuto fare mille quadri con quel viso e non se ne sarebbe mai stancato, e come lui nessun altro avrebbe smesso di amare quegli occhi e quel che trasmettevano – sì, anche attraverso una tela. Eppure, nonostante sapesse quanto avrebbe potuto racimolare da quel lavoro, Lavi ancora tentennava a mettere la sua firma, e terminare definitivamente quel quadro. Gli aveva mentito per metà, perché quel dipinto non aveva bisogno di ulteriore modifica – era perfetto. Mancava solo la sua firma. E un nome. Era quasi un mese che indugiava sempre su questo. Aveva davvero così tanta paura di mettere la parola fine a tutto ciò?
     «E con questo? Cosa otterresti? Tanto non ti servo più. L'hai appena detto che per terminarlo non serve necessariamente la mia presenza, sbaglio?».
     «Non sbagli» sorrise, per poco però. Gli dava quasi fastidio continuare a stirare quelle labbra anche quando non ne aveva voglia. «Non sbagli, ma non del tutto. Mi servi, eccome se mi servi. E non incupirti così! Fammi finire, fammi finire! Non mi servi per il dipinto, mon amour. Voglio solo–».
     Entrò un uomo nella locanda, dichiarando a gran voce che quella sera aveva voglia di fare una grande festa. Ordinò la sua birra e ne offrì una ad ogni persona presente – fu fortunato che ne fossero relativamente pochi, non considerando gli amici che si era portato appresso –, continuando a gridare e a sbattere il suo boccale, ridendo fragorosamente a bocca spalancata. Normalmente Lavi non ne sarebbe stato infastidito, ma cominciò ad innervosirsi considerando il fatto che quel tizio lo avesse interrotto, che continuasse ad interromperlo ogni volta per chiedere una birra e Allen dovesse quindi riempirgli il boccale. Sbuffò contrariato e prima di vedere la sua musa sparire per andare a prendere altri boccali per gli altri rumorosi clienti, Lavi lo fermò per un braccio e mormorò: «Quanto hai a finire il tuo turno?».
     «Mezz'ora... credo. Beh, più o meno, forse poco più».
     «Allora prendo un tavolo, quando hai finito raggiungimi».
     Fece per alzarsi, ma la sua vocina, improvvisamente bassa e forse timida, lo fermò e fu impressionante il fatto che riuscì a sentirlo, nonostante il fracasso, «Vuoi... vuoi che ti porti da bere?».
     «Non» alzò al cielo il boccale che il tizio di prima gli aveva offerto, «Mi basta questo, preferisco essere lucido e non fare o pensare stupidaggini, ora come ora».
     Lui abbassò gli occhi e lo vide arrossire – ma forse sbagliava, forse non era poi così tanto lucido. Perché avrebbe dovuto arrossire, dopotutto. Scrollando le spalle, si alzò dallo sgabello al bancone e si avvicinò ad un tavolo libero, prendendo posto a sedere e rigirandosi distrattamente il boccale mezzo pieno tra le mani. Aveva almeno mezz'ora di tempo per pensare, e per lui che pensava tanto e veloce, quello era un sacco di tempo.
     In realtà non voleva pensare. Non voleva pensare a niente, voleva solo aspettare che Allen finisse il suo turno e tornasse da lui, portarlo via e... e fare cosa? Tolse lo sguardo dalla birra e lo portò verso la sua figura bianca e candida che sgattaiolava via a destra e a manca, impacciato, con i capelli un po' appiccicati al visino sudato e la coda bassa allentata.
     Continuò a chiedersi cosa ancora lo portasse da lui, cosa lo spingesse sempre a ricercare quegli occhi, quelle mani e quelle guance rosee; credeva che, nonostante fosse stato un peccato allontanarsi da lui dopo il dipinto e perderlo, come aveva messo in chiaro fin dall'inizio, non sarebbe stato un problema irrisolvibile, dacché tempo un mese e avrebbe trovato qualcos'altro da fare o da importunare e lo avrebbe lasciato da parte – ma dimenticato no, lui non dimenticava mai e non avrebbe mai potuto dimenticare una persona come Allen. Eppure, una volta resosi conto di non potersi più beare della sua bellezza – bellezza che con il passare del tempo aveva visto più luminosa, si era accentuata come quei fiori che ancora aveva nella sua stanza: se i boccioli di camelia erano belli, così belli da poter essere soggetti di mille quadri e renderli tutti dei capolavori, una volta sbocciati erano solo da venerare e basta, non diventavano più solo delle piante, degli oggetti da rappresentare – aveva l'impulso di mettersi le mani nei capelli e... piangere?
     Si grattò dietro la nuca, portando lo sguardo sul ragazzo bianco, così bianco e candido, con quelle sfumature rosee sulle gote. Camellie. Quel fiore rappresentava appieno Allen, ed era tutto l'essere che il quadro conteneva. Poteva essere un titolo perfetto, se solo...
     «Lavi?».
     Sorrise. Lo aveva guardato avvicinarsi, lasciando il posto a quello del turno dopo. Lo aveva fissato per tutto il tempo, ma non l'aveva visto realmente, quindi cercò di nascondere come poté la sorpresa di esserselo ritrovato davanti, dal suo nome pronunciato da quelle labbra che tanto bramava. «Finito?».
     «Mh» annuì, prendendo posto accanto a lui. Le sue braccia e le sue gambe tremarono leggermente, forse aveva voglia di portarsi le ginocchia al petto. Lo aveva visto farlo spesso, era una posizione che lo faceva sentire più sicuro, soprattutto quando era nervoso. «Non hai bevuto nemmeno quella alla fine... a cosa stavi pensando?».
     Non mentì. «A te». Una piccola pausa, dove lo vide trattenere il respiro. «E al nome da dare al dipinto».
     «Ah». Allen non chiese più nulla, si zittì come se avesse avuto un secchio di acqua gelida addosso. Prima che potesse sospirare, stringere i pugni e cercare di dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse risolvere quella situazione; delle parole, dei gesti, delle scuse, vide la sua musa far scivolare le sue piccole dita sul legno ruvido del tavolo, afferrando il boccale di birra e, serrando gli occhi, se lo portò alle labbra.
     A quanto sapeva, Allen non aveva mai bevuto – paradossalmente, se si considerava dove lavorasse. «Perché?!» biascicò a voce alta, dopo aver buttato già un bel po' di quel liquido giallastro, «Perché sei così fissato con quel quadro?! Sicuramente non sarà nemmeno tutta questa bellezza che tu vai a blaterare, dato che hai deciso di ritrarre proprio me, ma non è questo il problema principale, sai? Ciò che non mi è mai andato a genio è stato che fin dal primo momento che ci siamo incontrati, hai sempre ripetuto vantandoti quanto tu fossi bravo nel rappresentare persone e oggetti che vedi anche solo una volta, e che gli unici soggetti dei tuoi quadri sono donne o uomini o che ne so che non sono nulla per te, niente, che sono importarti per te solo per questo motivo, solo per questo, dall'inizio alla fine del quadro e poi basta... e io non... non volevo essere come gli altri...». Un singhiozzo? Forse ce ne fu anche un altro, ma Lavi non vi badò, piuttosto a quello che stava dicendo. Cos'era che stava dicendo? «Io odio quel dipinto, odio quei fiori di camelia, odio tutta questa situazione ma perché ancora non riesco ad odiare te?».
     «Sai una cosa, Allen?» sbatté le mani sul tavolo e lui sussultò, gli occhi lucidi si velarono di lacrime che però lui non fece uscire, troppo sorpreso dai suoi gesti che stupirono anche Lavi stesso: afferrò la sua sedia, la strusciò in terra finché non gli fu vicino, vicinissimo, tanto che gli bastò piegarsi appena per poter sfiorare con le labbra il suoi viso. «Mi sono davvero stancato di pensare».
     Infatti non pensò a niente, se non a quelle morbide labbra che finalmente baciò – quelle labbra che tanto aveva bramato e agognato, e che infine era riuscito ad impossessarsene. Fu un bacio veloce, al sapore di leggero alcohol e quello dolce di Allen, che non poté approfondire, a malincuore, considerando dove si trovassero. Ma non si allontanò, diede baci casti sulle labbra, a stampo, quella bocca che continuava a tremare e a mormorare cosa stai facendo, oddio, cosa stai facendo. Il cuore batteva, forte, ed era la prima volta che lo sentiva. Era così strano.
     «Ho smesso di pensare, ecco cosa, mon amour. Non venderò il quadro per ora, voglio che tu mi stia vicino, voglio farti capire che non sei e mai sarai come gli altri».
     «Per ora?».
     Sbuffò. «Da quando cogli ogni mia minima parola? Intendo che fino a che non capirai che sei speciale, non come quelli che considero solo per un minimo di tempo necessario, solo in quel caso metterò la parola fine a quel quadro».
     «Sembra quasi...» deglutì, Allen, le sue carezze sul viso e tra i capelli lo distraevano troppo, forse, e gli piaceva pensarla, così «Sembra quasi che tu voglia... stare con me... solo fino a quando non ti stancherai di me, e mi farai capire che non mi vuoi più tra i piedi vendendo il quadro. Sembra quasi che se un giorno sentirai il desiderio di liberarti di lui, ti libererai allo stesso tempo anche di me».
     Un altro sbuffo. «Ti ho detto che ho smesso di pensare, okay? Ma muse, ma belle muse, resta con me, adesso resta con me. Al futuro ci penseremo quando arriverà».
     Si lasciò cullare e Lavi affondò il viso tra i suoi capelli, la mente vuota e leggera, ma il cuore che continuava a battere nel petto e nelle orecchie.
     «Lavi?»
     «Oui, mon amour?».
     «...quando torniamo a casa, mi aspetto un piatto pieno di ravioli fumanti, preparameli per cortesia».





 


niv's blabla: sono quasi due anni ho questa storia nel computer e finalmente l'ho pubblicata yeee!! (mi vergogno ancora terribilissimamente ma okaaay niv) e niente, credo che parli da sola comunque, non c'è molto da spiegare. una au così senza pretese che è diventata molto più lunga di quanto inizialmente doveva essere, ma hey, vabbè, chissà ai tempi che avevo in testa boh. scritta per la challange delle 100 storie che sto facendo con la mia amorina cloud e... niente, that's it gente. alla prossima! niv.
  
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