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Autore: Ikki_the_crow    26/11/2016    0 recensioni
Una strada nel nulla, dritta verso il futuro. Due personaggi a prima vista senza nulla in comune. Un viaggio lungo una vita intera.
[Non è la prima volta che questa storia appare online: essendo vecchia di almeno 5 anni è già comparsa almeno su un altro supporto. Se l'avete già letta non gridate al plagio, per favore.]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so perché l’ho fatto.
Generalmente non sono uno che carica autostoppisti. E dire che nella mia vita ne ho visti così tanti: quasi tutti giovani, piegati sotto il peso di zaini più grandi di loro che sembrano contenere la loro intera vita, in fuga verso qualcosa o in viaggio verso qualcos’altro su strade che loro credono infinite, ma che alla fine sono soltanto una prigione, nemmeno troppo grande in realtà. Tutti con quell’aria speranzosa sul viso, mentre guardano la mia auto avvicinarsi sotto il sole cocente o la pioggia gelida, che velocemente si trasforma in delusione quando capiscono che non mi fermerò per loro. Alcuni, parecchi in realtà, mi hanno rivolto gesti osceni o parole volgari. Non importa. Non sono uno che se la prende per queste cose. Capiranno anche loro, prima o poi.
Eppure, questa volta mi sono fermato. Non so perché, eppure l’ho fatto. Questa volta, sono io che non capisco.
Ora guardo la ragazza seduta accanto a me – una bella ragazza di circa ventiquattro anni, ma non è quello il motivo per cui l’ho fatta salire. So cosa pensate – e mi chiedo che cosa mi abbia spinto ad accostare sul ciglio polveroso e a sbloccare la portiera. Lei mi rivolge un sorriso luminoso, carico di fiducia e gratitudine, e per un attimo mi ricorda mia moglie com’era quasi trent’anni fa quando l’ho conosciuta, piena di gioventù e voglia di vivere. Forse è per questo che mi sono fermato. O forse no. Non saprei dirlo.
“La ringrazio, signore” mi ha detto salendo in auto.
È ben educata, pulita, non sembra una vagabonda. La sua pelle è troppo chiara, i suoi jeans e gli stivaletti troppo puliti, la maglietta nera troppo integra perché sia in viaggio da molto tempo. La osservo cautamente, e per un attimo il mio sguardo si ferma tra i suoi seni, dove pende un monile simile a una croce. Non lo faccio per perversione o libido, lo so cosa pensate; è solo che quell’oggetto sembra attirare il mio sguardo come una calamita. Mi pare di conoscerlo, di averlo già visto, ma non faccio domande. Non sono un tipo curioso. Se è importante mi verrà in mente.
“Dove stai andando?” le chiedo, mentre ingrano la marcia e mi immetto cautamente in carreggiata. Cautela inutile, questa strada in mezzo al niente è frequentata solo da pochi camion, e mai a quest’ora del pomeriggio, ma è meglio non rischiare. La sicurezza innanzitutto. Mamma me lo diceva sempre.
Come leggendomi nella mente, la ragazza allaccia la cintura di sicurezza. Il leggero scatto della sicura è coperto dalle sue parole, ma so che si è ben assicurata. La spia rossa sul cruscotto è spenta, come è giusto che sia.
“Paradise Falls, Colorado” mi risponde.
Sollevo un sopracciglio. Mi aspettavo il nome di una grande città, magari in un altro stato, non certo quello di un piccolo paesino di campagna, sperduto quanto questa strada polverosa e arsa da un implacabile sole di metà giugno.
“Non è lontano da qui. Come mai ci stai andando?” Mi stupisco di me stesso per quella domanda. Solitamente non sono un tipo curioso.
“Devo incontrare una persona.”
Annuisco. Un ragazzo, probabilmente. Sarà scappata di casa per vivere la sua grande, piccola storia d’amore. Quanta ingenuità. Comunque non chiedo. Non sono un tipo curioso.
“E lei invece dove va?” mi domanda. Anche questa frase mi coglie di sorpresa. Non mi aspettavo che mi chiedesse di me. Ma forse lo fa solo per educazione.
“In realtà da nessuna parte” rispondo con il mio sorriso da prima impressione. Rapidamente, lancio un’occhiata nello specchietto retrovisore, verso il catalogo, ordinatamente ripiegato sul sedile posteriore assieme al mio campionario, e alla mia valigia, appoggiata per terra accanto alla piccola sacca da viaggio di tela della giovane.
“Sono un commesso viaggiatore, e questa è la mia zona di riferimento. Così la batto tutta, in lungo e in largo, cercando di piazzare qualche articolo.”
Non le dico che vendo articoli per la casa, e lei non me lo chiede. Come immaginavo, la sua domanda era dettata solo dalla cortesia. Ma dopo qualche secondo, lei mi spiazza di nuovo.
“Ha famiglia, signor Moulinsky?”
Per la sorpresa, distolgo lo sguardo dalla strada per fissare in viso la ragazza. Lei mi guarda a sua volta, con un paio di occhi neri come la notte contornati da una linea di henné che prosegue con uno sbaffo elegante fin quasi alla tempia, dove si confonde tra le onde dei suoi lunghi ricci, dello stesso colore dei suoi occhi. Quel trucco ricercato mi ricorda alcune immagini che ho visto un po’di tempo fa in un documentario in televisione, mentre me ne stavo sdraiato nella stanza di un motel a lato della statale. Immagini di murales e di strani simboli mi si affollano alla mente, e in un attimo rammento dove ho già visto quella strana croce. Se non sbaglio, si tratta di un simbolo in voga nell’antico Egitto, qualcosa che aveva a che fare con l’anima o l’aldilà.
Un monile che ricorda la morte, la pelle pallida, il trucco nero: ora tutto assume un senso. Probabilmente si tratta da una qualche strana moda, una di quelle tendenze assurde in voga tra i giovani. Mi ricordo quella volta che mia figlia è tornata a casa con i capelli tutti verdi. Qui sarà qualcosa di simile. Comunque non chiedo. Non sono un tipo curioso. Ma questo credo di averlo già detto.
“Come sai il mio nome?” chiedo invece. Cerco di non suonare troppo sconcertato, ma lo stupore deve trasparire comunque, perché la ragazza si mette a ridere. Poi indica il mio petto con un indice terminante in un unghia ben curata e laccata di nero.
“La sua targhetta” mi dice semplicemente.
Abbasso lo sguardo. Ma certo, che stupido! Mi ero dimenticato di avere ancora la targhetta con sopra stampigliato il mio nome e il logo dell’azienda per cui lavoro appuntata in bella vista sulla camicia. Una risatina mi sfugge dalle labbra, anche se suona molto meno convinta di quella della giovane.
“Ma certo. Che stupido” le dico, ripetendo parte dei miei pensieri.
Non posso certo dirle che, per un attimo, sono stato fermamente convinto che mi avesse letto nella mente o qualcosa di simile. Che figura ci farei? Un uomo adulto come me che crede a queste sciocchezze sulla parapsicologia, la vita oltre la morte, gli UFO e i fantasmi? Queste sono storielle che vanno bene per i giovani; io ho mostri ben più reali da affrontare, come la rata del mutuo o le spese per i libri di scuola di mia figlia. E quelli sì che fanno paura.
Riporto gli occhi sulla strada, rendendomi conto solo in quell’istante di aver distolto lo sguardo dal parabrezza. La macchina ha piegato leggermente sulla sinistra, e ora invade con l’intera ruota anteriore la corsia opposta. Rapidamente, correggo la direzione e ritorno sul lato destro della strada. Per fortuna non passavano macchine nell’altro senso, o sarebbe potuta finire molto male.
Per un po’ rimaniamo in silenzio. L’asfalto bollente scivola sotto le ruote, sollevando ondate di calore che il refolo d’aria tiepida che esce dalle bocchette del condizionatore non riesce nemmeno a mitigare un poco. Niente aria condizionata nella mia macchina, grazie. Fa male ai reni e ai polmoni.
In lontananza sembra quasi di intravedere dell’acqua in mezzo alla strada, ma quando ci avviciniamo l’illusione sparisce come se non fosse mai esistita, lasciandoti in bocca solo una vaga sensazione di sete. Inizio a riflettere tra me, come faccio sempre durante i lunghi viaggi, su come la strada assomigli alla vita in molte cose: entrambe ti allettano continuamente con promesse che non manterranno, come lo scintillio dell’acqua sul manto d’asfalto, eppure nonostante tutte le delusioni passate molti continuano a crederci, perché sono fermamente convinti che prima o poi troveranno davvero dell’acqua fresca in cui raffreddare il motore e riposarsi un pochino prima di ripartire. Solo dopo molto tempo e molte delusioni capisci che in realtà l’acqua non si trova lì, alla portata di tutti: te la devi guadagnare, scavando un pozzo e costruendo una pompa, o non avrai mai un attimo di pace.
Assorto nei miei pensieri, mi dimentico completamente della ragazza seduta accanto a me tanto che quando parla, dando quasi voce alle mie riflessioni spicciole, per poco non faccio un salto sul sedile.
“Che caldo. La vuole una bottiglietta d’acqua?”
Percepisco un movimento accanto a me così, dopo essermi assicurato che non ci siano macchine in arrivo nell’altra direzione (per le curve non c’è da preoccuparsi: conosco bene questa strada e so per certo che per i prossimi chilometri proseguirà dritta come un fuso verso il nulla) mi volto per guardare cosa stia facendo. Il primo impulso è quello di gemere per la frustrazione: la ragazza si è slacciata la cintura di sicurezza (una cosa che mai e poi mai andrebbe fatta su una macchina in movimento, vero mamma?) e si è sporta verso il sedile posteriore cercando di afferrare la sua sacca, che apparentemente è rotolata da qualche parte sotto il suo sedile. Nella sua scomposta ricerca la giovane ha sollevato una gamba per mantenere l’equilibrio, ed ora corre il serio rischio di tirarmi involontariamente un calcio in testa o contro il braccio, con gravi conseguenze per la nostra sicurezza. Cercando di dominare il panico, inserisco la freccia nonostante la strada sia deserta e accosto sulla destra, rallentando fino a fermarmi.
Non appena l’automobile cessa di muoversi la giovane riemerge trionfante, tenendo stretta la propria sacca in una mano, e sedutasi nuovamente al suo posto si guarda intorno con aria interrogativa.
“Perché ci siamo fermati?” mi chiede candidamente.
Cercando di dominare la paura e la rabbia che sento montare, le spiego con quanta più calma possibile che con il suo comportamento stava mettendo in serio pericolo la nostra incolumità, e che dovrebbe prestare più attenzione alla sicurezza in viaggio. Mi rendo conto di aver automaticamente adottato il tono lento e pacato che usavo con mia figlia quando era più piccola (e che non sentivo più uscire dalla mia bocca da anni), lo stesso che mia mamma utilizzava con me.
Per tutto il tempo, la ragazza mi osserva con un’espressione strana, a metà tra il curioso e il divertito, e alla fine della mia ramanzina non fa neppure uno sforzo per mostrarsi pentita delle sue azioni. Con fare disinvolto, estrae dalla sua sacca una bottiglia d’acqua da mezzo litro piena quasi fino all’orlo e me la offre con un sorriso.
“Prego, prima lei” mi invita.
Per un attimo sono tentato di mettermi a urlare, ma poi soprassiedo. Ringraziandola, bevo un sorso d’acqua dalla bottiglietta (è inaspettatamente fresca, nonostante la calura, e mi fa sentire subito meglio) prima di restituirgliela. Lei fa lo stesso, richiude il tappo e ricomincia a frugare nella sacca.
“Se vuole ho anche una barretta di cioccolato” mi dice. “Ormai è ora di fare merenda.”
A quelle parole, spinto dall’abitudine, getto un’occhiata distratta all’orologio sopra il cruscotto prima di ricordarmi che sono mesi ormai che le lancette sono ferme sulle quattro e dodici minuti. Continuo a ripromettermi di farlo riparare, ma ho troppe cose a cui pensare per avere il tempo di farlo davvero. Comunque, a giudicare dal sole, deve essere pomeriggio inoltrato ormai.
In ogni caso rifiuto l’offerta della giovane (non avrei dovuto nemmeno accettare l’acqua, mi rimprovero. E se fosse stata adulterata? Mamma non me l’avrebbe fatta passare liscia) e riprendiamo il viaggio.
Per alcune miglia rimaniamo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Quando sto per dimenticarmi nuovamente della sua presenza, la giovane parla nuovamente.
“Lei ha famiglia, signor Moulinsky?”
Anche questa domanda mi coglie impreparato. Pensavo che il tempo delle chiacchiere futili fosse ormai trascorso, e non mi aspettavo più domande personali. Comunque, per cortesia, rispondo.
“Una moglie e una figlia.”
Non dico altro. Non le chiederò della sua famiglia, come probabilmente lei voleva che facessi (altrimenti per quale motivo mi avrebbe posto quella domanda?) in modo da raccontarmi la sua storia infelice. Non voglio sapere perché sta viaggiando da sola su quella strada in mezzo al nulla. Non mi interessa. Non sono un tipo curioso.
Lei annuisce, e non pare accorgersi del mio silenzio. Dopo pochi secondi, mi chiede ancora:
“Il suo lavoro la porta a viaggiare molto. La sua famiglia non è triste per questo?”
Scuoto la testa lentamente. “Mia moglie capisce che lo faccio per loro. E mia figlia – che deve avere pressappoco la tua età – è una ragazza con la testa a posto. Mi aspettano a casa, sono il mio porto e il mio rifugio.”
“E lei? Non vorrebbe passare più tempo con loro?”
A questa domanda, una strana sensazione mi attraversa. Come se la ragazza avesse toccato un nervo scoperto nel mio animo, un sottile cavo che ha fatto vibrare il mio intero essere. Eppure la domanda non mi pare particolarmente indelicata. Cercando di non pensare a quel sottile senso di inquietudine, le rispondo:
“Certo, ma so di non avere scelta. Torno a casa ogni volta che posso, tra un viaggio e l’altro, ma abbiamo bisogno di soldi per vivere, e questi non crescono mica sulle piante.”
Era un’altra delle massime di mia madre, che la utilizzava spesso per farmi capire quanto la vita può richiedere sacrifici. Quando da piccolo volevo un dolce o una bibita che non potevamo permetterci mia mamma era solita domandarmi con un voce a metà tra l’irritato e il triste: “Hai raccolto tu i soldi dalla pianta, questa mattina? Perché io temo di essermelo dimenticato.” Allora io capivo che mi si stava imponendo un’altra rinuncia per il bene di entrambi, e non fiatavo più. Perché già allora, nonostante fossi poco più che un poppante, avevo capito. La vita è un viaggio lungo e difficile, e l’unico modo che hai per sopravvivere è conoscere il tuo veicolo alla perfezione e non chiedergli mai più di quanto abbia la possibilità di darti.
La ragazza mi guarda per un attimo, poi inizia a ridacchiare tra sé. Dopo aver controllato per l’ennesima volta che la strada si sgombra, le lancio un’occhiata interrogativa.
“I soldi sulle piante” ridacchia. “Bella come idea.”
Sospiro. Come immaginavo, non ha capito nulla di quello che volevo dirle. Ma non importa.
“Sa, anch’io vorrei passare più tempo con i miei” inizia lei, appena l’attacco di ridarella si è calmato. Io trattengo a fatica un sospiro e non dico nulla: sapevo che saremmo arrivati a questo. Così mi rassegno e aspetto che mi racconti della sua situazione familiare (che a me non interessa; non sono un tipo curioso) e dei motivi per cui ha intrapreso quel viaggio.
Ma questa ragazza non pare proprio intenzionata a darmi soddisfazione: dopo un’ultima breve frase – “Ogni tanto facciamo qualche riunione, ma niente di più” – ammutolisce di nuovo.
Sotto il sole cocente, il viaggio prosegue in silenzio. Non ho un mangiacassette in macchina, quello che davano di serie l’ho fatto togliere da parecchio tempo (poteva distrarmi mentre guidavo. Mai ascoltare la musica se stai facendo qualcos’altro) e in questo postaccio non si prendono neppure le notizie sul traffico. Non che ce ne sia, di traffico: non incontro una macchina da non so più quanti chilometri. Alla fine, dopo aver svoltato a destra ad un bivio, il panorama si fa meno monotono; la strada inizia a curvare, inerpicandosi su per una salita piuttosto ripida. Superata quella montagna, in realtà alta solo poche centinaia di metri, saremo quasi a Paradise Falls, la destinazione della mia passeggera.
Come intuendo che il viaggio sta per finire, lei raddrizza la schiena e passa dalla posizione sdraiata e scomposta in cui si era accomodata ad una quasi eretta, osservando con attenzione fuori dal parabrezza. Non ha la cintura allacciata, noto.
Come a confermare la mia osservazione, l’apposita spia rossa si illumina. Parecchio in ritardo, devo dire. Forse c’è un contatto. La farò controllare non appena avrò tempo. E farò anche riparare l’orologio.
“Ci siamo quasi” mormora la ragazza, con aria tesa. Sembra nervosa, ora, preoccupata. Per un attimo mi chiedo se per caso non ho frainteso tutto: magari non sta andando dal suo innamorato, magari ha bisogno d’aiuto… Sto quasi per domandarle qualcosa, ma in quel momento uno strano nervosismo coglie anche me. Sarà che non riesco a vedere bene la strada, con tutte le curve che ci sono, che non sono mai stato da quelle parti – nessuno vive su quella collina, o almeno nessuno che abbia bisogno di un set di coltelli da pesce in argento o di una spazzola per togliere i pelucchi dai vestiti – o che il sudore che da tutto il giorno mi imperla la fronte (niente aria condizionata: fa male ai reni e ai polmoni) è finalmente riuscito a superare la gobba delle mie sopracciglia e a colarmi sugli occhiali, bagnandomeli in un paio di punti: fatto sta che la curiosità mi passa all’improvviso.
“Per favore, ora stai tranquilla e allaccia la cintura. Questa strada non mi piace” le dico, cercando di suonare calmo. Con una mano, mi sfilo cautamente gli occhiali e li asciugo rapidamente contro la camicia, tutti i sensi all’erta per capire se dall’altra direzione stia arrivando qualcosa, magari una moto o un camion. Non appena riesco a rimettermi gli occhiali ora asciutti sul naso, riacquistando così i miei dieci decimi di vista, inizio ad accelerare gradualmente. Avevo quasi fermato del tutto la macchina prima, quando avevo tolto gli occhiali e ci vedevo poco o nulla, ma ora tutto ciò che voglio è levarmi da qui il più in fretta possibile. Sperando che nessuna lince mi attraversi la strada o che un camion non spunti fuori all’improvviso da dietro una curva. Chissà perché proprio una lince, poi? Perché non un cane randagio, o magari un coyote? Misteri della mente.
Siamo quasi sulla sommità della collina, quando la mia passeggera mi chiede: “Possiamo fermarci un attimo, arrivati in cima?”
La osservo con aria dubbiosa. Non mi va di fermarmi. Questo posto non mi piace. È troppo isolato, e la strada troppo stretta e tortuosa. Voglio levarmi di qui il prima possibile.
“Non penso che ci sia lo spazio per fermarsi” le dico, la voce velata dall’ansia che ora non riesco più a nascondere.
“C’è una piazzola, ne sono certa. E la vista sarà meravigliosa” ribatte lei. Sembra convincente, ma io scuoto ancora la testa.
“No, mi dispiace. Non è possibile.”
“Facciamo così: se arrivati in cima c’è lo spazio ci fermiamo per qualche minuto; altrimenti proseguiamo diritti e io non dirò più una parola fino alla fine del viaggio” propone lei. In un primo momento vorrei rifiutarmi ancora, ma se lo faccio non riuscirò più a farla stare zitta. Continuerà a parlare finché non saremo oltre la collina, e io vorrei tanto un po’di silenzio per concentrarmi sulla guida. Così accetto. Tanto sono certo che non ci sarà nessuna piazzola. In fondo, anche se non ho mai percorso questa strada in particolare, conosco questa zona come le mie tasche, no? E allora perché mi sento così nervoso?
La giovane mi sorride con gratitudine e si accomoda meglio sul sedile. Allaccia persino la cintura, come le avevo chiesto. Il suo nervosismo sembra del tutto scomparso. Beata lei, penso tra me e me.
Quando arriviamo in cima non rallento neppure. Tengo gli occhi incollati sulla strada, ed è la ragazza a dovermi indicare lo spiazzo sulla sinistra. Belvedere, dichiara pretestuosamente il cartello scrostato dalla polvere e scolorito dal sole piantato sul ciglio della strada.
“Guardi, una piazzola! L’ha promesso, ora si fermi! L’ha promesso!” inizia a piagnucolare. Sono tentato di accelerare e lasciarmi alle spalle quel posto e quella sensazione di disagio, ma non sono stato educato a infrangere le promesse. Così mi faccio forza, metto la freccia e attraverso la carreggiata fino a ritrovami nell’area di sosta, ovviamente deserta.
Certo, chi vuoi che venga in un postaccio del genere? Anch’io non ci sarei mai salito, avrei fatto la strada a valle come al solito se non avessi dovuto accompagnare quella ragazzina a Paradise Falls…
Quando sento la ghiaia sotto le ruote, raddrizzo l’auto e mi fermo, lasciando il motore acceso con la marcia in folle. Tiro il freno a mano, anche se siamo quasi perfettamente in piano, e mi volto verso la ragazza.
“D’accordo, ci siamo. Fai il tuo giretto e poi ripartiamo. Massimo cinque minuti” le dico, indicando con aria eloquente l’orologio del cruscotto. Anche se è fermo, è il gesto che conta.
“Lei non viene?” mi domanda lei, un po’ delusa, slacciando la cintura di sicurezza. Scuoto la testa.
“Io resto in macchina. Dai, fai in fretta.”
Mi rendo conto di starmi comportando da maleducato, ma non posso farci nulla. Voglio solo ingranare la marcia e andarmene da lì, tornare alla mia strada diritta, alla mia vita tranquilla… Chiudo gli occhi e appoggio la testa sul volante. Faccio una serie di respiri profondi, cercando di calmarmi. Senza successo.
Mi accorgo a malapena del rumore della portiera che si apre, dei passi affrettati sulla ghiaia che piano piano si allontanano. Ma il vento lo sento bene. Eppure non c’era vento, prima quando ci siamo fermati. Sollevo lo sguardo e guardo fuori dalla portiera sul lato passeggero, che la giovane ha lasciato aperta: effettivamente, fuori dalla macchina non si muove un filo d’aria, persino la polvere ristagna immobile. Ma allora come mai sento il rombo del vento nelle orecchie?
“Signor Moulinsky! Venga a dare un’occhiata! La vista è splendida!”
Mi volto e vedo, attraverso il parabrezza, la ragazza che mi fa cenni con il braccio. È in piedi a quattro o cinque metri dal muso della macchina, a pochi passi dal bordo del belvedere delimitato da una palizzata di legno dall’aria così fragile che sembra dover cadere solo a sfiorarla. Rispondo scuotendo per l’ennesima volta la testa. Non voglio scendere dall’auto, voglio solo andarmene di qui. Eppure la ragazza non si arrende. Lancia un’occhiata in basso, nel precipizio, e poi si volta ancora verso di me.
“Signor Moulinsky! C’è qualcosa in fondo alla scarpata! Venga a vedere!”
Non mi interessa cosa c’è là sotto, non sono un tipo curioso. Voglio solo andarmene di lì, ritornare sulla strada…
“Signor Moulinsky! La prego! Solo un’occhiatina, poi potremo andare!”
Sbuffo, esasperato. Quella ragazza mi sta facendo uscire pazzo. Ma che mi è saltato in mente? Quando mai ho caricato autostoppisti sulla mia macchina? Ecco ciò che ci si guadagna: solo scocciature e contrattempi.
Rassegnato, spengo il motore e tolgo le chiavi dal cruscotto. Facciamo questa cosa e andiamocene, mi dico, prima che a quella sciagurata venga in mente di trascinarmi fuori dall’auto. Quando slaccio la cintura di sicurezza a mia volta e apro la portiera dal lato guidatore, l’odore della polvere è talmente forte che mi viene voglia di vomitare. Non sono abituato a queste cose, io il deserto lo attraverso sempre e solo in macchina, non mi sono mai trovato veramente a doverci camminare in mezzo. E se fossi allergico? L’odore di sabbia è così fastidioso che mi vengono le lacrime agli occhi. E non c’è nemmeno vento! Non è normale, dovrei richiudere la portiera e…
“Signor Moulinsky!”
Ah già. Ecco perché non posso andarmene. Dannazione a me e a quando l’ho caricata! Ah, ma se fosse mia figlia le avrei già tirato uno scapaccione di quelli…
“E va bene, arrivo” borbotto tra me e me. Lentamente, cercando di respirare il meno possibile, esco dalla macchina, chiudo la portiera prima che quell’odore terribile mi invada l’auto e mi avvicino alla ragazza, stando sempre molto attento a dove metto i piedi. Il fondo di sabbia è sdrucciolevole e infido, senza dimenticare che potrebbe nascondere i “regalini” di qualche animale… A un certo punto sono costretto a circumnavigare un tavolino di legno, ricoperto di incisioni rupestri che mi informano che “Luke ama Terry” o che “Mambo ce l’ha lungo e duro”, ma alla fine arrivo al punto dove sta la ragazza. Mi pare che ci sia voluto un secolo; in realtà non ci sono voluti più di pochi secondi, il tempo di fare una decina di passi. La giovane è in piedi, appoggiata alla staccionata di stuzzicadenti, e guarda in basso con aria curiosa. Il mio cuore perde un colpo a quella vista.
“Vieni indietro, ragazza. È pericoloso sporgersi così…” Cerco di richiamarla, ma lei per tutta risposta mi fa un sorrisone e indica con un ampio gesto del braccio il panorama attorno.
“Non è meraviglioso?” mi chiede.
Osservo rapidamente: uno sterminato deserto di polvere giallastra dall’aria insalubre, arroventato dal sole di un pomeriggio afoso di giugno, cosparso di altipiani come quello in cima al quale ci troviamo ora e punteggiato di rocce sgraziate e deformi. Non esattamente il mio concetto di “meraviglioso” direi, ma non ho intenzione di contraddirla. Così annuisco, sperando che questo le basti e si decida finalmente a risalire in macchina. Ma a quanto pare, non è ancora abbastanza.
“Guardi qui sotto. C’è qualcosa in fondo alla scarpata!”
Con un gesto, mi invita ad affacciarmi e a guardare di sotto, esattamente a perpendicolo rispetto al parapetto. Ma questa volta è troppo.
“Non intendo appoggiarmi a quel mucchio di legno tarlato” dico, forse con un po’ troppo astio nella voce. Ma non mi importa. L’unica cosa che mi importa è andarmene subito da quel posto. Con o senza di lei. Ora ne ho abbastanza.
Mi volto infuriato, e in quel momento colgo un movimento in mezzo alla strada con la coda dell’occhio. Mi volto, pensando che possa essere una macchina o un camion che intende fermarsi a sua volta nella piazzola e a cui possa dare fastidio la mia auto. Ma non è affatto una macchina.
È una lince. Una splendida lince fulva, dalla coda allungata e dalle orecchie appuntite. Stava attraversando la strada, diretta verso la piazzola, quando improvvisamente si è fermata, come paralizzata dalla vista di qualcosa. Ma non sta guardando noi. Ha gli occhi fissi lungo la strada, nella direzione dalla quale siamo arrivati.
Un fremito mi attraversa da capo a piedi, tanto che per poco non cado in ginocchio sulla sabbia. Che sta succedendo? La mia mente ritorna a quel che avevo pensato mentre stavamo iniziando la salita: una lince potrebbe attraversare la strada…
“Inizia a ricordare, non è vero?”
Mi volto. La ragazza è ancora lì, nello stesso punto di prima, ma ora pare in qualche modo… non so, diversa. Nulla è cambiato in lei, eppure i suoi occhi sembrano più neri, i suoi capelli paiono muoversi come un groviglio di serpenti di inchiostro; sembra più alta, più presente, più concreta in un certo senso. Ma probabilmente sto solo delirando. La lince è una coincidenza, ecco tutto. Ne avvengono tante, a questo mondo. Mi giro di nuovo verso la strada e l’animale è sparito. Respiro di nuovo. Per qualche motivo mi sento sollevato, il groppo in fondo alla gola sciolto.
“No.”
Il tono della giovane è imperioso. Un tono di comando, così diverso dalla voce spensierata e cristallina che mi stavo abituando a sentire.
“Non dimentichi. Non rifiuti quanto accaduto. Ricordi.”
E in un attimo, la lince è di nuovo lì. Non è saltata fuori dai cespugli, non è arrivata dall’altro lato della carreggiata. Semplicemente prima non c’era e l’attimo dopo è di nuovo lì, nella stessa identica posizione di prima, gli occhi sempre fissi su qualcosa che non riesco a vedere. Questa volta cado davvero in ginocchio. Per lo stupore. Per la paura. Non lo so nemmeno io.
“Così. Ricordi.”
La luce pare attenuarsi. Alzo lo sguardo verso il cielo e i miei occhi incontrano il disco giallo del sole, luminoso e torrido come sempre e senza l’ombra di una nuvola intorno. Eppure, mi pare che la luce stia diminuendo. Sembra addirittura che l’unico lampione della piazzola si sia acceso con un leggero ronzio, spandendo attorno la sua luminosità malaticcia.
“C’è un motivo se siamo venuti qui. Ricordi.”
Tento di protestare. “No. Io non…” La mia voce suona debole, patetica, persino alle mie orecchie.
“Ricordi.”
E io ricordo.
Ricordo quella stessa strada, di notte. Ricordo la fretta, la premura di arrivare. Ricordo le parole aspre di mia moglie, che attraverso la cornetta di un telefono scassato fuori da un motel mi accusava di non essere mai a casa, di non essere mai presente per la mia famiglia. Ricordo di aver sentito mia figlia singhiozzare in sottofondo, mentre mia moglie mi informava che sarebbe andata da sua sorella, a Pitkin. Ricordo la mia disperazione, il mio desiderio di raggiungerle e di sistemare le cose il più in fretta possibile. Ricordo la deviazione verso Paradise Falls che, ne ero sicuro, mi avrebbe fatto risparmiare quasi mezz’ora di viaggio.
Ricordo la strada tortuosa e deserta, la strada che non avevo mai percorso prima di allora; ricordo la salita illuminata dalla luce dei fari che fendevano la notte buia, la tenebra di quel momento prima dell’alba nel quale l’oscurità è più fitta. Erano circa le quattro e dieci del mattino. Ricordo la curva, la lince ferma in mezzo alla carreggiata, paralizzata dalla luce dei miei fanali. Ricordo la sterzata brusca all’ultimo istante per evitarla. Ricordo come la staccionata di legno si sia sbriciolata come un biscotto all’impatto con il muso della mia auto. Ricordo la sensazione di cadere, il vento che sibilava attorno all’abitacolo e penetrava all’interno da una crepa nel parabrezza, portando con sé l’odore asciutto della sabbia.
In un istante ricordo tutto.
Quando riapro gli occhi che non mi ero accorto di aver chiuso, la lince è ancora lì, immobile nella stessa posizione. Mi volto verso la mia auto, ma ovviamente non c’è più. Non c’è mai stata. Mi rialzo lentamente e, camminando come in un sogno, vado verso il ciglio del precipizio e getto uno sguardo in basso, verso il punto indicato dalla ragazza.
Eccola, la mia adorata Pontiac. Un ammasso di lamiere deformate dall’impatto, incastrato tra un mucchio di rocce aguzze. Nonostante la sabbia stia iniziando a ricoprirla, la carrozzeria riesce ancora a catturare qualche raggio di sole e a rifletterlo verso di me, come ammiccando. Come se mi stesse dicendo: “Ehi, ce ne hai messo di tempo per arrivare. Guarda come mi sono ridotta, stando qui ad aspettarti.”
Deglutisco a vuoto. Non mi giro, ma so che la ragazza mi sta guardando. Sento la forza di quegli occhi neri gravare su di me, premere sulla mia stessa anima.
“Dove siamo?” chiedo. Non ero un tipo curioso, ma ora non ha più molta importanza, non è vero?
“Da nessuna parte” è la risposta. “Siamo in un sogno, in una fantasia. Uno sprazzo di vita che, nel suo ultimo istante di vita, lei ha costruito per sfuggirmi. Ma io non lascio mai un lavoro a metà, signor Moulinsky. Dovrebbe saperlo.”
Annuisco. Mia mamma me lo diceva sempre. Porta a termine i tuoi compiti nel miglior modo possibile, e nessuno avrà di che lamentarsi.
“Ci sarà anche mia mamma?” domando speranzoso.
“Può darsi.”
Mi giro. La ragazza mi sta osservando con aria pensierosa. Non sembra più la giovinetta fragile ed evanescente che avevo incautamente fatto salire sulla mia macchina (o sul ricordo della mia macchina, ormai distrutta); ora appare persino più reale della sabbia su cui poggia i piedi o delle rocce alle sue spalle. Ed effettivamente lo è.
“La conosci?”
“L’ho incontrata una volta. Come la maggior parte di quelli che incontro.”
Annuisco. Io sono un caso particolare. L’ho costretta a fare gli straordinari.
“Mi dispiace” dico semplicemente. A quelle parole, l’ombra di un sorriso le increspa le labbra.
“Quasi nessuno si è mai scusato con me. È una sensazione strana.” Mi tende la mano, la pelle pallida che sembra quasi luccicare sotto il sole, o qualunque cosa sia che ci illumina.
“Dobbiamo andare, ora” mi ricorda, e io annuisco di nuovo. Non c’è bisogno di dire nulla.
Mentre la strada, la prigione che io stesso mi ero costruito per evitare l’inevitabile, inizia a sbiadire attorno a noi, allungo la mano e sfioro le dita di Morte. In un pomeriggio così afoso, sono inaspettatamente fresche.
   
 
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